LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 09:00:12 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2 3 4
  Stampa  
Autore Discussione: UMBERTO VERONESI.  (Letto 44112 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Giugno 13, 2007, 12:02:25 pm »

TUTTO SCIENZE
 
 
«LA PRIMA COSA DA FARE E’ AIUTARE LA RICERCA»

"Italia a rischio sottosviluppo"

UMBERTO VERONESI
 
Per comprendere con lucidità la situazione della ricerca italiana, bisogna prima liberare il campo dai luoghi comuni, che sono almeno due e sono molto ingombranti.

Il primo è che l’Italia è la Cenerentola della ricerca. Lo è, se consideriamo gli investimenti, ma non lo è, se consideriamo la produttività scientifica dei nostri ricercatori. L’eccellenza del lavoro dei ricercatori italiani è indiscutibile e qui veniamo al secondo luogo comune: la fuga dei cervelli.

Lo spettro delle intelligenze che abbandonano il nostro Paese ha instillato il dubbio e ha rafforzato il senso di sfiducia nella ricerca italiana.

Anche qui bisogna fare un distinguo. 

da lastampa.it
 
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Agosto 10, 2007, 05:25:12 pm »

Qualche giorno fa la festa in onore del figlio Maddox a Santa Barbara

Angelina: «Niente più donne e sadomaso»

La Jolie a Public: «Non ho mai nascosto di essere bisex ma da quando sto con Brad, non c'è spazio per le altre»
 
 
LONDRA - Angelina Jolie ha chiuso in un cassetto il suo guardaroba sadomaso (comprese borchie, manette e coltelli) e soffocato la sua passione per il sesso femminile per amore del compagno Brad Pitt. È stata la stessa attrice a confidarlo al magazine francese Public e la notizia è poi rimbalzata sul londinese tabloid Sun. «Non ho mai nascosto la mia bisessualità – ha raccontato la Jolie – ma da quando sto con Brad, nella mia vita non c'è più spazio per le altre donne o per le pratiche sadomaso». Una rinuncia non da poco per una che ha avuto una relazione durata oltre dieci anni con la modella Jenny Shimizu e che ha sempre detto di prediligere il sesso estremo, come raccontava ai tempi del matrimonio con l’attore Billy Bob Thornton.

«FELICI INSIEME» - «Io e Brad siamo felici insieme – ha proseguito la Jolie – e lui non teme che io possa tradirlo con qualcuno o qualcuna. Mi lascia parlare con chi voglio e ha una fiducia cieca in me». La confessione alla rivista d’oltralpe è arrivata a poco più di una settimana dalle indiscrezioni, riportate anche da Corriere.it, che volevano la coppia d’oro di Hollywood a un passo dalla rottura definitiva a causa dei continui litigi fra Brad e Angelina. Stando alla rivista americana Life & Style, infatti, durante la recente vacanza in Francia, la splendida protagonista di «Tomb Raider» aveva addirittura tirato un bicchiere di vino rosso contro il fidanzato, dopo che questi le aveva dato «dell’immatura».

FESTA DI COMPLEANNO - Rientrati negli Stati Uniti, i due avrebbero ripreso la vita di sempre, con lei in giro a fare film (ora è a Chicago) e lui a Los Angeles, ma lo scorso fine settimana la famiglia si è riunita nella villa di Santa Barbara per festeggiare il sesto compleanno del piccolo Maddox. Insieme a Brad e Angelina c’erano anche i tre fratelli di Maddox, ovvero Zahara, Pax e Shiloh e, stando all’esclusiva di Life & Style, i due attori sono apparsi molto più sereni rispetto a poche settimane fa, tanto che la stessa rivista ha insinuato il dubbio che Angelina sia incinta del secondo figlio di Pitt, come confermerebbero le curve leggermente più arrotondate dell’attrice e, soprattutto, il suo accarezzarsi insistentemente la pancia per tutta la durata della festa.

Simona Marchetti
10 agosto 2007
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Agosto 19, 2007, 03:16:08 pm »

Personaggi e sessualità

Love story senza confini di genere Da Angelina Jolie a Gianna Nannini: gli outing dei bisessuali vip.

Che negli Usa fanno più «tendenza» rispetto al nostro Paese

 
MILANO — «No guardi, preferisco non parlarne», dice un po' seccato ma cortese il deputato radicale Daniele Capezzone. «Purtroppo mi sto imbarcando, sarà un volo lungo, molto lungo. Facciamo un'altra volta?», quasi si scusa il ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio. Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti? «Mi spiace, impossibile rintracciarla in tempi brevi», risponde una sua collaboratrice. Niente da fare anche con la cantante Gianna Nannini. Saranno le vacanze, senza dubbio, ma anche l'argomento. In Italia, dichiararsi pubblicamente bisessuale non è semplice. Ancora più difficile, per chi ha avuto il coraggio di farlo una volta, tornare sul tema. Faccende private, com'è giusto che sia, ma approfondire la questione è sempre difficile.

L'outing di Daniele Capezzone è cosa abbastanza recente. Risale all'inverno di un anno fa quando, ad un settimanale, buttò lì la seguente frase: «Ho avuto rapporti di amicizia e oltre con ragazze e ragazzi». In seguito, il tema non è più stato toccato per volere dello stesso protagonista. Che forse stava scherzando. D'altra parte, come dice Alessandro Cecchi Paone, «la bisessualità è una fase di passaggio». Il ministro Pecoraro Scanio è entrato di diritto tra i bisessuali dichiarati dicendo e non dicendo. Fino a 27 anni era un «eterosessuale rigido ». Poi «un po' alla volta è arrivata la nuova acquisizione culturale». Che significa «rivendicare la libertà di amare uomini e donne» anche se, per la precisione, «io non mi sento gay». Più decisa Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti, che in vena di confidenze a mezzo stampa, una volta dichiarò : «Mi piace baciare, toccare e giocare con le donne ma non sono lesbica. Uomini e donne mi eccitano».

Gianna Nannini qualche anno fa regalò uno scoop al sito Internet gay.it: «Sono bisessuale. L'amore per una donna o un uomo è l'incontro tra libertà», disse la rockstar, per poi non parlarne più. Anche perché, dirlo in giro, può essere rischioso. Rocco Casalino, protagonista del primo Grande Fratello, denunciò di essere stato insultato e aggredito all'università Cattolica di Milano «in quanto bisessuale dichiarato». Molto meglio, e di tendenza, dichiararsi bi negli Stati Uniti. Non c'è che l'imbarazzo della scelta, soprattutto tra le donne. Agelina Jolie, nonostante le frequentazioni maschili, non ha mai nascosto una lunga relazione con la modella Jenny Shimizu, anche se ora dice di aver chiuso: «Nella mia vita non c'è più posto per altre donne». E se la popstar Christina Aguilera ha confessato che «mi piace guardare una donna nuda, ho una sessualità aperta », un'altra diva della canzone, la canadese Nelly Furtado ha ammesso di considerare il genere femminile «bello e sexy». Che sia tutto vero, è un altro discorso. Sharon Stone, per esempio, non ha escluso, in futuro, una relazione con una donna perché «la mezza età è un periodo di apertura mentale». Dichiarazione, fatta al momento di lanciare Basic Instinct 2 dove ha interpretato il ruolo del killer, guarda un po', bisessuale.

Roberto Rizzo
19 agosto 2007
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Agosto 19, 2007, 03:25:01 pm »

La sessuologa: «Una rivoluzione, tra due o tre generazioni»

Veronesi: «L'umanità sarà bisessuale»

L'oncologo: «Si farà l'amore per affetto e non per riprodursi. È il prezzo positivo pagato dall'evoluzione naturale della specie»

 
MILANO — Il futuro? È bisessuale. Parola di Umberto Veronesi. Intervistato ieri dal Riformista, l'oncologo ex ministro della Salute immerso nella quiete estiva di Capalbio ha scosso l'atmosfera con una tesi che fa già discutere. La specie umana — dice Veronesi — si va evolvendo verso un «modello unico», le differenze tra uomo e donna si attenuano (l'uomo, non dovendo più lottare come una volta per la sopravvivenza, produce meno ormoni androgeni, la donna, anche lei messa di fronte a nuovi ruoli, meno estrogeni) e gli organi della riproduzione si atrofizzano. Questo, unito al fatto che, tra fecondazione artificiale e clonazione, il sesso non è più l'unica via per procreare, finirà col privare del tutto l'atto sessuale del suo fine riproduttivo. Il sesso resterà — avverte l'oncologo — ma solo come gesto d'affetto, dunque non sarà più così importante se sceglieremo di praticarlo con un partner del nostro stesso sesso.

Insomma, saremo tutti bisessuali? Raggiunto dal Corriere, il professore conferma la previsione: «È il prezzo che si paga — spiega — all'evoluzione naturale della specie. Ed è un prezzo positivo ». Davvero? «Sì, perché nasce dalla ricerca della parità dei sessi: negli ultimi vent'anni le donne hanno assunto ruoli sempre più attivi nella società e questo porta con sé un'attenuazione delle differenze sessuali». Avremo uomini meno virili (il processo è già in atto: dal dopoguerra in poi la «vitalità» degli spermatozoi è mediamente calata del 50%) e donne più mascoline. Parità uguale appiattimento? «Al contrario — spiega Chiara Simonelli, sessuologa, docente all'Università La Sapienza di Roma — ciò che prospetta Veronesi è una maggiore libertà, dagli stereotipi e dai pregiudizi. Il fenomeno è appena agli inizi: perché prenda consistenza dovremo aspettare almeno due o tre generazioni».

Una rivoluzione, dunque. Ma biologica o culturale? «Entrambe: i cambiamenti della mentalità e le evoluzioni genetiche sono fenomeni correlati, e si influenzano reciprocamente. Ma si tratta di processi molto lenti». Veronesi ha la vista lunga: la società bisex è ancora lontana. Ma per trovare una civiltà capace di mettere a regime l'amore per entrambi i sessi non serve guardare avanti: nella Grecia classica, radice dell'Occidente di oggi, gli uomini non facevano mistero della passione per i ragazzi. Corsi e ricorsi della storia? «La bisessualità antica — avverte Eva Cantarella, che all'argomento ha dedicato un libro edito da Rizzoli — era molto diversa da quella che intendiamo oggi. Non era la possibilità di scegliere con chi e come avere rapporti sessuali, ma un fenomeno soggetto a regole precise. Era concessa solo agli uomini: un uomo adulto poteva avere rapporti con uno più giovane ma solo mantenendo un ruolo attivo. Raggiunta la maggiore età, gli adolescenti abbandonavano il ruolo passivo». E le donne? «Mogli e madri. L'amore coniugale, che conviveva con quello per altri uomini, era cosa diversa: in greco aveva anche un altro nome, filia, di contro all'eros passionale».

Un amore finalizzato alla procreazione: «A quella dei corpi: quello per i fanciulli, scrive Platone, era più nobile perché volto alla procreazione delle anime». E qui torniamo a Veronesi e al sesso come gesto d'affetto e non mezzo per far progredire la specie. Un valore positivo che non mette tutti d'accordo: «La scissione della riproduzione dalla sessualità e dal nucleo familiare — dice Fiorenzo Facchini, antropologo dell'ateneo di Bologna — non può essere vista come un vantaggio per la specie umana. La riproduzione per l'uomo non è solo incontro tra gameti, implica rapporti tra due persone. È la naturale condizione umana a richiederlo. In un momento in cui la natura viene giustamente rimessa al centro dell'attenzione appare strana e del tutto stonata una prospettiva biotecnologica che ne usurpa le funzioni». Dunque nessun «prezzo da pagare» all'evoluzione naturale della specie? «Riguardo alla previsione di livellamento degli interessi dei due sessi e di attenuazione della sessualità nel suo significato antropologico — conclude Facchini — ritengo che l'orientamento sessuale sia definito sul piano biologico della specie e non possa essere messo da parte».

Giulia Ziino
19 agosto 2007
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Febbraio 04, 2008, 05:17:50 pm »

4/2/2008 (7:34) - INTERVISTA A UMBERTO VERONESI

"Così la Chiesa perde credibilità"
 
«La legge 194 è stata una conquista importante per la salute delle donne»

CHIARA BERIA DI ARGENTINE
MILANO


«Mi sembra si voglia fare un gran polverone. Che cosa c’entrano le nascite premature con l’aborto?».

Nella domenica in cui Papa Benedetto XVI celebra «La giornata per la Vita» invitando a tutelare anche quella più fragile, il professor Umberto Veronesi, convinto difensore della legge 194 sull’interruzione di gravidanza («è stata una delle conquiste più importanti per la salute e la libertà della donna negli ultimi 30 anni», ha sempre sostenuto) si dichiara alquanto sconcertato dal clamore suscitato dal documento dei direttori delle cliniche di ostetricia e ginecologia delle facoltà di Medicina delle università romane. «Per quello che ho letto sui giornali è una sciocchezza», è la prima reazione di Veronesi, l’ex ministro della Sanità che come medico tra le tante battaglie vinte può vantare anche quella di aver fatto nascere centinaia di figli e reso felici le sue pazienti malate di tumore.

In che senso, professor Veronesi, sarebbe una sciocchezza?
«Non c’è il tema. Con mia moglie Susy che è pediatra ne abbiamo appena parlato: non c’è niente di nuovo, non capisco di cosa si voglia discutere. Si sostiene che quando un bambino nasce prematuro bisogna rianimarlo: ma lo sappiamo benissimo! E’ ovvio che un medico debba soccorrere un neonato prematuro. Se sta morendo lo aiuterà a morire, se ce la fa a sopravvivere lo deve aiutare a vivere. Mi sembra implicito. Piuttosto quello che mi sconcerta è l’accostamento che si fa con l’aborto. L’aborto è altra cosa. Aborto significa un’interruzione di gravidanza in cui la madre decide che non vuole far crescere il feto. Nell’aborto il bambino nasce morto. Vogliono rianimare un aborto?»

La sua posizione sulla 194 è comunque diversa da chi pensa che la vita inizi dal concepimento. Per fare ancora più chiarezza, tra tante strumentalizzazioni, le leggo una frase del documento: «Un neonato vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio e assistito adeguatamente». Condivide?
«Ma, certo: un neonato va trattato per farlo vivere; perché dovrebbe essere candidato a essere ucciso? E’ come scoprire l’acqua calda, nella legge è già così; quindi, come ha dichiarato la senatrice Paola Binetti basta applicare la legge. Io sono a favore del neonato e, del resto, chi si sognerebbe di non esserlo? Ripeto: se da una nascita normale, pur se prematura, il neonato nasce vivo vuol dire che merita di essere rianimato. Se poi il neonato è a rischio è chiaro che bisogna stare attenti. E’ il medico che deve decidere cosa fare se il neonato è malformato, se gli manca mezzo cervello...E’ una decisione da prendere secondo coscienza».

Questa decisione spetta ai medici a prescindere dai genitori?
«Sì. I genitori non contano o almeno non devono contare. Li si deve ascoltare ma non hanno rilevanza. Quando un bambino è nato, non è più tuo. E’ il discorso che vediamo con i Testimoni di Geova: hanno le loro convinzioni rispettabilissime. Ma un neonato è un altro essere vivente, un altro cittadino che ha diritto di essere tutelato e difeso».

Cosa pensa di questa nuova stagione di polemiche degli anti abortisti?
«E’ un’offensiva senza speranza».

E della campagna per una moratoria dell’aborto?
«Non so proprio cosa voglia dire», risponde Veronesi. Pausa. Poi: «Sono tutti tentativi in extremis di una Chiesa che sta valutando e verificando la sua perdita di credibilità. E si attacca, purtroppo, sempre di più a posizioni indifendibili».

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Agosto 21, 2008, 06:27:53 pm »

Ecco le pillole anticancro

di Umberto Veronesi


Farmaci capaci di impedire che la malattia si formi o si sviluppi. È il nuovo fronte caldo della guerra ai tumori. Il celebre oncologo spiega come prevenire il grande male con una medicina  Arrivare prima della malattia. Trattando il corpo come un microambiente che si può condizionare a non accogliere il tumore. Ci si può riuscire con gli stili di vita, con il cibo sano. Ma anche con la farmacoprevenzione, usando cioè dei principi attivi che sono capaci d'interferire con la cancerogenesi. Fu il chirurgo inglese Stephen Paget, alla fine dell'Ottocento, a formulare la teoria del 'seme e suolo', in cui il cancro viene visto come una pianta infestante che germoglia se trova il terreno favorevole. Ma se invece il terreno viene trattato, il cancro non attecchisce. Una teoria affascinante, che però ha dovuto aspettare l'evoluzione della ricerca scientifica per cominciare a diventare plausibile.
Ci siamo ormai abituati all'idea che si possono prevenire infarto, ictus e aterosclerosi con i farmaci che abbassano il colesterolo e controllano l'ipertensione: milioni di persone in tutto il mondo riescono a vivere più a lungo e in buona salute proprio grazie a questi farmaci squisitamente preventivi: chi è a rischio di essere colpito da accidenti cardiovascolari può essere trattato con successo per lunghi anni.

Si punta adesso a ottenere gli stessi risultati per quanto riguarda i tumori. Come? Grazie agli sviluppi della medicina predittiva, siamo ormai in grado di identificare le persone a rischio di sviluppare un tumore, e tra le ricadute della mappatura del genoma ci sono alcuni test genetici utilissimi nella definizione del rischio. È il caso dei tumori della mammella per la mutazione dei geni Brca 1 e 2, è il caso dei tumori del colon per poliposi familiare. Ma gli indicatori di rischio oncologico allo studio sono molti. E la ricerca potrà presto indicare altri test capaci di dirci quanto un paziente è a rischio. Ai test coniughiamo la storia famigliare, la storia clinica (le cattive abitudini come il fumo e l'alimentazione) e tracciamo profili di rischio, che diventano sempre più accurati.

Così, per le donne a rischio, ad esempio, si apre la vera prevenzione: la risonanza magnetica una volta all'anno, e tra poco la prospettiva di un farmaco anti-cancro derivato dalla vitamina A, da prendere tutti i giorni come un semplice integratore. Ci sono poi gli importanti esempi di principi attivi preventivi come il tamoxifene e altri anti-estrogeni per la prevenzione del tumore del seno. All'Istituto Europeo di Oncologia di Milano, con Andrea Decensi abbiamo sperimentato con successo l'uso di un derivato dell'acido retinoico (la fenretinide) per la prevenzione del tumore mammario delle donne giovani.

Umberto VeronesiUn grande vantaggio è il fatto che i farmaci preventivi sono caratterizzati da una tossicità molto bassa, e da scarsi effetti collaterali. Ne è un esempio la notizia, convalidata l'anno scorso da uno studio apparso sull' autorevole rivista scientifica 'Lancet', che una semplice aspirina al giorno per periodi prolungati può diminuire l'incidenza di tumori al colon. Inoltre sono farmaci che costano poco (l'acido retinoico costa un euro) e potrebbero salvare la vita di milioni di persone.

Un caso curioso è quello del Finasteride, un principio attivo che inibisce l'enzima testosterone, e che è stato proposto per la prima volta una quindicina di anni fa per curare l'ipertrofia prostatica, cioè l'ingrossamento benigno della prostata, disturbo che colpisce un uomo su quattro dopo i cinquant'anni d'età, e che rende difficoltoso orinare. Il caso di questo farmaco è singolare, perché trattando gli uomini con ipertrofia prostatica, si è visto che il farmaco fermava anche la perdita dei capelli. In seguito si è scoperto che il Finasteride ha un importante effetto preventivo contro il tumore della prostata. Cinque anni fa, un ponderoso studio statunitense, finanziato in gran parte dal National Cancer Institute, ha provato il farmaco su 18 mila uomini dai 55 anni in su, in buona salute. Per sette anni metà di essi è stato trattato con il farmaco, l'altra metà con un placebo, cioè con una sostanza inerte sotto il profilo farmacologico. Tra coloro i quali avevano preso il farmaco, hanno constatato i ricercatori, la frequenza del tumore della prostata si è ridotta del 24 per cento. Un ottimo risultato, su cui però grava un'ombra che impone nuovi studi: chi, comunque, è stato colpito dal tumore, l'ha sviluppato in forma più aggressiva. Ora per il tumore prostatico si profila un nuovo agente protettore: la bicatulamide.

Altre ricerche di farmacoprevenzione appaiono promettenti. Una delle più interessanti è quella sull'attività antitumorale delle statine, già in uso per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Se sarà provata la loro efficacia contro i tumori, avremo una classe di farmaci utili su due fronti.

Da ricordare anche il progetto sull'uso inalatorio della budesonide, nei forti fumatori, quelli che presentano noduletti periferici che potrebbero essere precursori dell'adenocarcinoma, il più frequente istotipo di tumore del polmone. Se con l'inalazione i noduletti si ridurranno, l'azione preventiva della sostanza sarà provata.

Bisogna credere nella farmacoprevenzione, e impegnarvi cervelli e mezzi finanziari. Nella battaglia contro il cancro mi sembra talmente strategica da richiedere una grande attenzione da parte della comunità scientifica internazionale, accompagnata dalla decisione dei governi di investire in questa grande scommessa. Il cancro è un problema di salute pubblica, e le enormi potenzialità della farmacoprevenzione devono trovare risposta nelle decisioni politiche. Bisogna anche che gli enti pubblici e privati di ricerca creino dipartimenti dedicati alla farmacoprevenzione, come è stato fatto negli Stati Uniti negli ultimi anni.

Un'idea importante sarebbe creare un network europeo per la prevenzione dei tumori. Il movimento Europa contro il Cancro, di cui mi onoro di essere stato il promotore, ha creato negli anni '80-90 le basi perché oggi si possa cogliere questa nuova speranza di vita e di salute.

(21 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Ottobre 15, 2008, 04:09:44 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Settembre 04, 2008, 06:58:50 pm »

CRONACA Il commento

I padroni della vita


di UMBERTO VERONESI


L'ULTIMO NO a Eluana Englaro dalla Regione Lombardia contraddice la sentenza della magistratura, e l'editoriale dell'Osservatore Romano che avanza dubbi sulla morte cerebrale, riaprono il drammatico confronto su chi decide del nostro ultimo respiro.

La gente ha paura della propria morte, ma allo stesso tempo la vuole, o meglio vuole sapere che quando il momento verrà, se ne andrà in pace. Io sono d'accordo con il filosofo Hans Jonas, che, riflettendo sul problema della morte cerebrale, scrive: "Non è necessaria una ridefinizione della morte, ma forse soltanto una revisione del presunto dovere del medico di prolungare la vita ad ogni costo". Di fronte a un paziente che ha lesioni così gravi da non avere alcuna prospettiva di recupero, la domanda non è "il paziente è morto?" ma: "Che fare di lui?".

A questa domanda non si può certo rispondere con una definizione di morte ma con una definizione dell'uomo e di cos'è una vita "umana". In altre parole, il problema della nostra morte si è spostato dalla scienza (che ha il ruolo di definire i criteri per determinare la morte in base alle sue conoscenze) alla bioetica (che ha il compito di stabilire un equilibrio fra applicazione delle conoscenze della scienza e vita dell'uomo). La scienza continua a spostare i limiti della morte, ma al di là di questi confini non c'è la nostra esistenza naturale, in cui noi amiamo, ci emozioniamo, pensiamo, soffriamo; quella che noi medici difendiamo con tutte le nostre energie, la nostra intelligenza e il nostro amore.

C'è un limbo opaco e inquietante a metà fra la non-morte e la non-vita. Va ricordato che la bioetica è nata nel 1970 con Von Potter che, nel suo "Bioethics: a bridge to the future", sostiene che l'etica deve ispirarsi alla biologia dell'uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell'esistenza umana. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l'introduzione della vita artificiale, cioè quando a metà del secolo scorso sono state introdotte nei reparti di rianimazione delle macchine in grado di mantenere l'ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche se le funzioni cerebrali sono cessate.

Nasce così l'incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia. Per millenni l'uomo ha avuto paura di morire per le guerre, le malattie, le carestie, invece negli ultimi decenni ha iniziato a sviluppare una nuova paura che è ancora agli esordi del suo manifestarsi: la paura di vivere oltre il limite naturale della biologia. Molti si stanno rendendo conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all'infinito. Ha ragione l'Osservatore Romano: i principi del rapporto di Harvard che ha introdotto i criteri neurologici nella definizione di morte (da allora basata non solo sull'arresto cardiocircolatorio, ma anche sull'encefalogramma piatto), se non superati, sono in evoluzione. Troveremo altri criteri più sofisticati forse, e tecnologie ancora più potenti, ma dovremo allora rinunciare alla morte? È una prospettiva agghiacciante, che si associa all'immagine di un esercito crescente di corpi vegetanti chiusi nelle loro prigioni.

Come fare allora a ritrovare la nostra morte? Ritorniamo a Hans Jonas e riflettiamo sul concetto di vita. La svolta alla definizione di vita è venuta a fine '900, quando è stata identificata la vita biologica con il pensiero: se l'elettroencefalogramma è piatto, non c'è attività cerebrale e dunque non c'è vita. In Italia l'introduzione dei criteri neurologici per accertare la morte (sulla base dei parametri di Harvard) avvenne nel 1969 e nel 1970, con due decreti che poi vennero incorporati in una legge relativa al prelievo e al trapianto d'organo nel 1975.

Se i parametri di Harvard fossero superati e se effettivamente, dal punto di vista fisiopatologico, la morte cerebrale non provocasse la disintegrazione del corpo, ciò che non viene né superato né messo in discussione è l'irreversibilità dello stato che la morte cerebrale provoca. Per fare un esempio concreto pensiamo a Terry Schiavo, il caso americano che ha infiammato le cronache internazionali perché, dopo grandi polemiche, la sua vita artificiale fu interrotta. Ebbene, all'autopsia il cervello di Terry è risultato completamente devastato per cui è dimostrato che la ragazza non vedeva, non sentiva, non provava né fame né sete, né null'altro. La ricerca scientifica ci offre dei parametri certi, come appunto la morte cerebrale, oltre i quali la vita irreversibilmente non sarà mai più quella che noi conosciamo e chiamiamo vita. Dovrebbe spettare ad ognuno di noi decidere che fare.

(4 settembre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Settembre 05, 2008, 03:42:09 pm »

Veronesi: testamento biologico per dare dignità alla morte

Luca Landò


Il Pd che si divide sul testamento biologico, il Vaticano che prende le distanze dall’Osservatore Romano sulla morte cerebrale, la Regione Lombardia che contesta la decisione dei giudici sul caso Englaro: benvenuti nel caos. O forse benvenuti in Italia. Perché negli stessi giorni in cui la Spagna, in Andalusia, si prepara a varare una legge per "il diritto a una morte dignitosa" (come fanno da tempo Francia, Inghilterra, Danimarca, Germania, Stati Uniti, Canada) da noi si litiga senza decidere nulla. Davvero in Italia è così difficile affrontare i temi che riguardano la vita e la morte? Davvero è così complesso discutere di leggi che, più di altre, toccano la coscienza di ogni singolo cittadino?

Umberto Veronesi, ex ministro della Sanità, oncologo e oggi senatore del Pd, non ha dubbi: "E’ quello che accade quando si mischiano i ruoli, quando si confonde il campo della bioetica con quello della scienza. Quando chi parla non sa e chi sa non può parlare. E questo avviene perché non esiste una legge che dica, chiaramente, quali sono le regole".

Il caso dell’Osservatore Romano è esemplare: con un articolo pubblicato martedì scorso la storica Lucetta Scaraffia, vicepresidente dell’associazione Scienza e Vita e componente del Comitato Nazionale di Bioetica, sostiene che la dichiarazione di morte cerebrale non è più sufficiente per affermare che la vita è finita. Un’affermazione impegnativa, in aperto contrasto con i criteri alla base della medicina dei trapianti.

«Il punto è che la bioetica dovrebbe disinteressarsi delle minuziose definizioni degli eventi che la scienza porta con sé. Definire quale sia il vero momento della morte è molto difficile. Un tempo si diceva che un cuore che batte era segno di vita. Da quarant’anni sappiamo che non è così. Se prendo un cuore umano e lo metto in coltura, cioè in condizioni adeguate, continua a battere anche al di fuori del paziente. Lo stesso per un rene: se lo collego a una macchina continua a filtrare sostanze tossiche e a produrre urina. Agli organi non interessa da dove arriva il sangue, se dalle vene del paziente o da una pompa artificiale: basta che continuino a ricevere ossigeno, acqua, sali minerali. Da un punto di vista biologico questi organi sono vivi, ma questo significa che la persona che li ha donati è ancora viva? Direi proprio di no. La morte della persona coincide con la morte di un organo preciso, il cervello. Quando non c’è più attività cerebrale, non c’è più nulla di quello che caratterizza la nostra vita umana: non c’è più pensiero, né memoria, né emozioni. Questo non l’ho stabilito io, ma il famoso Protocollo di Harvard».

Una delle obiezioni a questa impostazione è che esistono casi di risveglio da situazioni di coma.

«Anche qui regna la confusione. Il punto chiave è il concetto di irreversibilità. E questo spetta alla neurologia non alla bioetica. Sono i neurologi che devono dire se una persona in coma si trova in una situazione transitoria, dalla quale potrà riprendersi, oppure se ha imboccato una strada senza uscita. Esistono definizioni standard condivise da tutti i medici: un paziente può riprenderdsi bene da un coma se si risveglia nel giro di 15 giorni, il risveglio diventa invece raro quando passano da un mese ad un anno e quasi impossibile oltre un anno. Nel secondo caso si parla di stato vegetativo persistente, nel terzo di vegetativo permanente. Sono i neurologi, che in base alle loro conoscenze devono riconoscere le differenze tra il secondo e il terzo caso, capire cioè se siamo in una situazione permanente e irreversibile».

Come il caso Englaro?

«Certamente. Perché se è quasi impossibile il risveglio dopo uno o due anni, figuriamoci dopo 16 come la povera Eluana. Una vicenda drammatica che ha mostrato l’importanza di una legge che non c’è: un vuoto che tutti vedono e tutti denunciano ma che va colmato nel modo giusto. A fine luglio, prima che chiudessero le Camere, ho presentato un progetto di legge sul testamento biologico molto semplice ma molto chiaro in cui si permette a una persona, come diceva Luca Goldoni, di "decidere, quando c’è ancora la luce, di andare via quando la luce non ci sarà più". La mia proposta, che si aggiunge a quella già presentata da Ignazio Marino, va proprio in quel senso. E funziona così: una persona consegna un testamento a una persona di fiducia, un familiare o un amico intimo. Il quale è il tutore della volontà di quella persona: se a questa accade qualcosa, è il fiduciario che va dal medico a difendere, con la forza del documento firmato, le volontà del paziente che si trova in uno stato vegetativo permanente. Questa volontà riguarda anche l’interruzione dell’alimentazione e l’idratazione artificiale e prevede anche l’obiezione di coscienza da parte dei medici. I quali, tuttavia, sono tenuti a trasferire il caso a un collega».

Con questo testamento il caso Englaro non sarebbe nato.

«Sì, perché la mia proposta precisa che, se il paziente non vuole essere tenuto in stato di vegetazione permanente bisogna interrompere ogni intervento esterno, non solo le terapie, ma anche l’alimentazione e l’idratazione».

Proprio quello che la Regione Lombardia ha detto di non voler fare.

«E quello che avviene quando non c’è una legge: ciascuno fa come vuole. Con il paradosso che se i genitori di Eluana andassero in Germania o in Svizzera il problema non si porrebbe».

Emigrare per morire...

«È assurdo. Eppure dico che piuttosto che avere una cattiva legge, che impedisce di affrontare e risolvere i problemi, è meglio continuare come adesso. Piuttosto che avere una legge che ingabbia e imbriglia, come la legge 40 per la fecondazione assistita, è meglio lasciare le cose come stanno».

Una delle critiche mosse dal mondo cattolico è che il testamento biologico potrebbe aprire le porte all’eutanasia.

«Sono due argomenti totalmente differenti. Il testamento biologico riguarda una persona che non è in più grado di esprimere le sue volontà. L’eutanasia è l’opposto: riguarda il malato terminale che, in condizioni irreversibili di guarigione e destinato a morire in breve tempo, chiede di essere sollevato dalla sofferenza. È quello che avviene in Olanda dove è stata definita una legge che autorizza, in casi precisi di malattia terminale, di ricorrere all’eutanasia. Ogni anno in Olanda ci sono 10.000 malati terminali che chiedono di poter interrompere la propria vita. Di queste richieste ne vengono accolte 2-3000 l’anno: le altre vengono rifiutate perché non esistono le condizioni (il paziente non era terminale o la sua volontà era influenzata da uno stato depressivo) o perché nel frattempo il paziente è deceduto. Questo è quello che avviene in Olanda, dove il tema dell’eutanasia è stato accettato dall’opinione pubblica».

Una volta lei disse che negli ospedali italiani l’eutanasia si fa ma non si dice.

«Non lo dico io, lo dicono gli esperti di terapie palliative, sostenendo che c’è un tacito accordo per affrontare i casi più disperati di sofferenza. E di solito la soluzione è quella del "Paziente inglese", come in quel film dove un malato gravissimo, non potendo nemmeno più parlare, fa un cenno all’infermiera di aumentare la dose di morfina. E’ quello che si chiama il "doppio effetto", cioè l’uso di farmaci analgesici a dosi sempre maggiori: il primo effetto è togliere il dolore, il secondo quello di accelerare la fine».

In questo modo però il peso della scelta è tutto sulle spalle del medico. Non sarebbe meglio una legge come in Olanda?

«Non lo so e a dirla tutta non mi interessa. Un po’ perché l’Italia non è preparata a un passo del genere. E un po’ perché mi trovo d’accordo con Montanelli che si diceva a favore dell’eutanasia ma non ne voleva parlare perché "questa burocrazia della morte mi dà un po’ fastidio". Diciamo che non sono favorevole all’eutanasia, ma sono favorevole a discuterne. La morte è un evento altrettanto importante e necessario della nascita. Anzi, è un dovere. L’organismo nasce e deve morire per far spazio alle nuove generazioni. Dobbiamo affrontarla con serenità, la morte. Io dico sempre che vorrei godermi la mia morte perché è un atto di cui sono consapevole e che accetto: ho tanti figli, ho tanti nipoti e capisco che devo mettermi da parte e lasciare spazio agli altri. Questa è la consapevolezza che permette di discuterne liberamente. Se invece la morte viene vista come la massima punizione, come "il peggiore di tutti i mali", allora si finisce per rimuovere il problema senza mai affrontarlo. Ma si commette un errore: perché in questo modo si perde un aspetto importante della propria esistenza. E si rischia, come diceva Evtuschenco, di "morire prima di morire"».

Pubblicato il: 05.09.08
Modificato il: 05.09.08 alle ore 8.28   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Settembre 20, 2008, 10:53:00 am »

20/9/2008
 
“La mia legge sul testamento biologico”
 
UMBERTO VERONESI

 
La nostra visione della salute e della malattia è stata trasformata da cinque profonde rivoluzioni che hanno cambiato il peso che la biologia e la medicina hanno sui comportamenti individuali e collettivi, e che né il pensiero filosofico, né giuridico, né politico hanno ancora saputo affrontare con l’incisività necessaria. La prima rivoluzione è la decodifica del Dna, che ha condotto la nostra conoscenza fino alla struttura più intima della vita, offrendoci la possibilità di intervenire nei suoi meccanismi; la seconda è la diagnostica per immagini, che ci permette di esplorare virtualmente il nostro corpo, identificando cambiamenti microscopici in ogni sua più remota area; la terza è la trapiantologia, che ha spinto sempre più in là i limiti della nostra capacità di riparare tessuti e aree danneggiate o malate; la quarta è la scoperta delle cellule staminali che, grazie alla loro proprietà di trasformarsi in tessuti e organi diversi, rappresentano la più grande promessa per combattere le malattie cronico-degenerative.

Da queste quattro è nata una quinta rivoluzione, quella etica, che ha visto l’affermarsi progressivo di nuovi diritti del paziente. E ha visto il passaggio da un modello paternalistico a un modello condiviso nel rapporto con il suo medico. In realtà più che di etica si dovrebbe parlare di bioetica, ricordando che il termine è nato nel 1970 con Von Potter che, nel suo Bioethics: a bridge to the future, sostiene che l’etica deve ispirarsi alla biologia dell’uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell'esistenza umana. I nuovi problemi etici nascono proprio dalle possibilità d’intervento di una medicina moderna che ha esteso «tecnicamente» il suo spettro d’azione non solo durante la vita (quella che noi definiamo «naturale», in cui siamo coscienti, pensiamo e proviamo emozioni) ma sia prima, vale a dire nel processo d’impianto e sviluppo dell’uovo fecondato, che dopo, nella nuova condizione di «vita artificiale». I dilemmi - tanti, complessi e di natura diversa - si possono ricondurre a una grande domanda: di fronte alle nuove possibilità di espandere i confini della medicina chi decide dove porre il limite e a quali condizioni? La tecnologia stessa? Le istituzioni? I medici? Io penso che nessuno debba decidere per noi e che ognuno abbia il diritto di autodeterminarsi e di esprimere, in base alle proprie convinzioni (e la propria fede, se c’è) cosa vuole fare della propria esistenza, quando essa è minacciata dalla perdita del bene più prezioso: la salute. Non è un posizione facile, perché per decidere bisogna conoscere i termini della scelta, essere informati, consapevoli e maturi. Ma è un passo inevitabile di fronte alle rivoluzioni scientifiche e intellettuali di cui abbiamo parlato, che il nostro Paese ha fatto (come il resto del mondo civilizzato) con l’introduzione del Consenso Informato alle cure, che ha consacrato anche a livello normativo il diritto del paziente ad accettare o rifiutare i trattamenti che gli vengono proposti. Ora io penso che dobbiamo andare più in là e spostare i confini del consenso informato, così come la medicina ha spostato quelli del suo intervento, fino a tenerci in vita oltre la nostra coscienza, cioè in caso di morte cerebrale. Per questo ho appena presentato in Senato un mio disegno di legge sul Testamento Biologico, per dare la possibilità di esprimere, in condizioni di lucidità mentale, le direttive anticipate che i medici devono rispettare nel caso un danno cerebrale grave impedisca la consapevole espressione dell’assenso o il dissenso alle cure. La mia legge riguarda il diritto di ogni cittadino di rifiutare di terminare in modo innaturale la propria vita ed è chiaramente indicata l’espressione di volontà di essere o non essere sottoposto a trattamenti di sostegno, compresa l’alimentazione e idratazione artificiale.

Quest’ultimo è un elemento essenziale perché è proprio su questo punto che la volontà del cittadino potrebbe essere equivocata. Basta ricordare il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti, per cui la gente è scesa in piazza per «non farla morire di fame», ignorando il fatto certo che Terry, il cui cervello era devastato come ha dimostrato l’autopsia, non provava né fame né sete, né alcuna emozione o sentimento. La mia legge rispetta anche la volontà del medico. Un punto specifico riguarda infatti la possibilità riservata al medico che ha in carico il paziente di non seguire le indicazioni di volontà anticipate, se questo contrasta con le sue convinzioni etiche, affidando il suo paziente ad altri colleghi. Inoltre il «superamento» delle volontà è contemplato anche qualora in uno specifico caso si rendessero disponibili, grazie a nuovi progressi scientifici, inaspettate possibilità di terapie e recupero. Io penso sia un dovere morale del nostro Paese promulgare una legge sul Testamento Biologico come logica estensione del Consenso informato per evitare futuri casi laceranti come quello di Eluana Englaro ancora irrisolto dopo quasi vent’anni, e per dimostrare che può esistere un pensiero politico al passo con i tempi. Se l’autodeterminazione è un diritto riconosciuto, la legge deve tutelarlo in tutti i suoi aspetti. *pubblichiamo in anteprima l’intervento che il senatore e illustre scienziato pronuncerà oggi a Santena, dove gli sarà consegnato il Premio Camillo Cavour

da lastampa.it
« Ultima modifica: Settembre 22, 2008, 11:02:56 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Settembre 24, 2008, 10:58:38 pm »

24/9/2008 - A VENEZIA LA QUARTA CONFERENZA MONDIALE SUL FUTURO DELLA SCIENZA
 
Se sbagli il cibo, finirai divorato
 
Veronesi: “Dopo il latte cinese, globalizziamo la sicurezza alimentare”
 
 
UMBERTO VERONESI
 
IEO - MILANO


Food and water for life» potrebbe sembrare una tautologia. A che servono cibo e acqua, se non ad alimentare la vita? È provocatorio il titolo della Quarta Conferenza Mondiale sul Futuro della Scienza: la distribuzione ingiusta e l'utilizzo irrazionale delle risorse alimentari e idriche fa sì che da una parte del mondo le fonti della vita scarseggino, provocando fame e malnutrizione, mentre dall'altra siano troppo abbondanti, dando origine ad epidemie legate al troppo cibo.

La crisi alimentare mondiale si avverte così ovunque: dai Paesi più poveri, che soffrono la fame e la sete e si lacerano nelle «guerre del cibo», ai nuovi ricchi, come la Cina, periodicamente scossi da scandali alimentari (quello del latte è solo l’ultimo), fino all’Occidente affluente, dove le persone non sanno difendersi dall'obesità, si preoccupano dell’aumento dei prezzi degli alimenti e sono terrorizzati: il problema della sicurezza li angoscia, soprattutto in rapporto ai pesticidi e ai metodi di allevamento.

Il cibo è è un’ossessione, come l'energia, a cui vengono correlate paure reali e immaginarie. In Occidente il cibo non è mai stato sicuro come ora, eppure la gente si abbandona ad un panico irrazionale se sente parlare, senza però una vera conoscenza in merito, di additivi o di modificazioni genetiche: tutti sistemi studiati per migliorare la qualità del cibo.

Allora, come la crisi energetica, anche la crisi alimentare necessita di una gestione che metta insieme le forze intellettuali e le conoscenze di cui disponiamo e di una forte azione informativa. Sono falliti gli ultimi vertici mondiali sulla crisi alimentare. Tanto rumore per nulla è il risultato degli ultimi summit: della Fao a Roma, dei G8 a Tokyo, del WTO a Ginevra. La Conferenza di Venezia, invece, vuole parlare alla gente e vuole proporre soluzioni concrete per ripristinare l'equilibrio originario del Pianeta, in cui acqua e cibo sono in realtà disponibili in quantità sufficienti per garantire la vita ai suoi abitanti. Il nostro messaggio è chiaro: riportare cibo ed acqua ad essere fonti di vita e benessere è possibile con un'azione di riequilibrio che coinvolge tutta la società.

Tre le proposte in questa direzione. La prima è aumentare la produttività dei terreni senza sacrificare i boschi. Ogni anno si perdono 13 milioni di ettari di foreste per agricoltura e pascoli e solo il 13% del polmone verde è protetto. Bisogna fermare il disboscamento, perché le foreste sono la nostra riserva di ossigeno. La soluzione è far produrre di più i terreni agricoli esistenti, sfruttando le nuove conoscenze sulla possibilità di ricambi multipli di coltivazioni annuali, nonché le scoperte genetiche che permettono di ottenere piante che resistono alla siccità o capaci di crescere in terreni salini.

La seconda proposta è utilizzare in modo più razionale l'acqua per ottenere quantità sufficienti di acqua potabile e veder crescere coltivazioni anche nelle zone che ne sono povere. La scienza, con l'aiuto della tecnologia, ha messo a punto sistemi per la desalinizzazione dell'acqua degli oceani con l'utilizzo dell'energia solare, per la depurazione delle acque reflue impiegate dalle industrie e dalla popolazione, per l'irrigazione senza spreco.

La terza proposta è bloccare l'aumento del consumo di carne, perché buona parte dei prodotti agricoli è utilizzata per alimentare i 3 miliardi di animali da allevamento. Mangiare meno carne nel mondo occidentale è un obiettivo etico sostenuto da molti studiosi, intellettuali, economisti. Rajendra Pachauri, Nobel per la pace 2007 con Al Gore, ha lanciato un appello per una dieta vegetariana. In effetti la progressiva riduzione della carne nella dieta non è più una scelta, ma una necessità per il pianeta. Che succede se Cina e India assumono le abitudini occidentali di tipo carnivoro? Ci aspetta un domani in cui ci saranno più animali da macellare che uomini per mangiarli?

I dati sono altrettanto inquietanti per l'acqua. Un miliardo di persone non ha accesso a fonti pulite e quella per l'agricoltura è un bene scarso. Occorrono mille litri per produrre un chilo di pane e 15 mila litri per la stessa quantità di manzo. La dieta prevalentemente carnivora di una minoranza della popolazione crea danni enormi alla maggioranza degli abitanti della Terra. Oltre che a lei stessa. Le malattie causate dal sovrappeso e dall'obesità interessano un miliardo di persone, un numero superiore agli 850 milioni che soffrono di denutrizione. Per il cancro, ad esempio, sappiamo che il 30% dei tumori è dovuto all'alimentazione troppo ricca di grassi insaturi; inoltre alcune forme, come il cancro intestinale, sono correlate al consumo di carne, mentre altre, come il tumore dell'endometrio, sono legate all'obesità. Occorre allora fissare una soglia di consumo di carne in modo che i Paesi convergano verso lo stesso livello.

Ciò che auspichiamo non è una rivoluzione improvvisa nelle abitudini alimentari, ma l’evoluzione verso una dieta più verde. Penso che mangiare carne al massimo tre volte alla settimana sia una proposta ragionevole, perché vuole dire dimezzare il consumo di carne nei Paesi industrializzati. Potrebbe anche essere un'evoluzione gradevole. Nel nostro Paese si tratterebbe di riscoprire la dieta mediterranea, decretata dall'Unesco patrimonio dell'umanità.

Chi è Veronesi Oncologo

RUOLO: E’ DIRETTORE SCIENTIFICO DELL’ISTITUTO EUROPEO DI ONCOLOGIA DI MILANO E IDEATORE DELLA FONDAZIONE CHE PORTA IL SUO NOME, DEDICATA AL PROGRESSO DELLE SCIENZE.

 
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Settembre 27, 2008, 11:56:12 am »

Si sono aperti a venezia i lavori della conferenza "Food and Water for Life"

Acqua e cibo per la vita, la scienza contro le ingiustizie

Veronesi: «La ricerca deve occuparsi di obiettivi essenziali, come la denutrizione e la malnutrizione»

 

VENEZIA - Nel contesto silenziosamente evocativo e suggestivo dell'isola di San Giorgio, a Venezia, si sono aperti i lavori della Quarta Conferenza Mondiale sul Futuro della Scienza. Il titolo è esplicito, semplice, persino provocatorio: "Food and Water for Life", ovvero il cibo e l'acqua per la vita, perché senza risorse alimentari e idriche non c'è vita. I temi che si affronteranno in questi tre giorni, che vedono riuniti scienziati, economisti, politici ed esperti da tutto il mondo, ruotano intorno al concetto dell'ingiustizia alimentare e dell'ingiustizia idrica e, soprattutto, richiamano la scienza al suo ruolo etico.

INGIUSTIZIA ALIMENTARE - E proprio a questo concetto si richiama l'intervento del professor Umberto Veronesi, presidente dell'omonima Fondazione che ha organizzato l'evento veneziano insieme alla Fondazione Silvio Tronchetti Provera e alla Fondazione Cini, che si conclude con l'annuncio di un'imminente conferenza mondiale sulla pace e il disarmo. La ricerca deve occuparsi degli obiettivi essenziali per l'umanità, come la fame nel mondo, la mortalità infantile, la denutrizione e la malnutrizione, l'ecosistema e l'approvvigionamento dell'acqua: questi traguardi sono già stati fissati – ricorda Veronesi nel suo intervento di apertura dei lavori – dalla Carta di Venezia, una dichiarazione di quattro anni fa sottoscritta da centinaia di scienziati sul ruolo morale e sociale della scienza in un mondo in continua evoluzione. Compito della ricerca dunque è ridurre il divide tra Primo Mondo e Terzo Mondo, tra persone che muoiono di sete e di fame e persone che muoiono per eccesso di cibo. Questo è il paradosso del terzo millennio, questa è la tragica verità di cui parleranno una cinquantina di esperti di tutto il mondo, cercando e proponendo risposte scientifiche a specifici problemi, «perché - ricorda Umberto Veronesi - la lingua universale della scienza può colmare la differenze e dar vita a un dialogo costruttivo», dando per scontato che l'accesso al cibo e all'acqua siano un diritto universale.

L'IMPORTANZA DELL'ACQUA – "Salus per aquam" dicevano gli antichi romani, primi ad aver intuito il collegamento cruciale tra acqua (acquedotti, acqua potabile) e salute, rammenta Giulio Tremonti, intervenuto alla cerimonia inaugurale dell'evento. Per il ministro dell'Economia l'acqua non sarà mai sostituibile (come è per esempio il petrolio) e non può essere abbandonata alla logica del profitto.

UN MONDO INTERCONNESSO - Marco Tronchetti Provera, intervenuto alla cerimonia d'apertura in qualità di Presidente di una delle tre Fondazioni, parla della crisi finanziaria di proporzioni incredibili, delle risorse del pianeta, delle charity e del microcredito, ricordando «che il nostro mondo interconnesso fa sì che un disastro della Borsa di New York si ripercuota in tutto il mondo». «Il mondo è nostro – dichiara Tronchetti Provera – e insieme dobbiamo trovare delle soluzioni per un uso più giusto e razionale delle risorse, considerando cibo e acqua le priorità assolute».

IL COMPITO DI CHI È FORTUNATO - Tra gli interventi quello di Kathleen Kennedy Townsend, vice presidente del vertice promosso dalle tre Fondazioni, è stato uno dei più emozionanti, evocando un ricordo strettamente personale: «Quando mio padre (Bob Kennedy) rientrò un giorno da un viaggio sul delta del Mississippi ci raccontò di una famiglia che viveva in condizioni di assoluta povertà e denutrizione. Ci spiegò quanto eravamo fortunati e ci insegnò che chi è fortunato ha il dovere di fare qualcosa per quei bambini». «I temi caldi di questo incontro veneziano sono tanti e tutti, scienziati, filosofi, politici, economisti, hanno un compito da svolgere» ricorda in collegamento video la presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf (prima presidente donna di uno stato africano), sottolineando la necessità di un approccio interdisciplinare ai problemi e snocciolando i numeri inquietanti dell'ingiustizia del cibo e dell'acqua: una persona su tre nel mondo non ha accesso ad acqua sicura, il 65 per cento della popolazione mondiale si trova sotto il livello minimo indispensabile di acqua potabile e 15 milioni di bambini muoiono ogni anno per malnutrizione.

UN DIALOGO APERTO A TUTTI - Alla fine si è trattato di una presentazione ufficiale che è entrata già molto nel merito dei temi che si affronteranno in questi giorni, con approfondimenti che hanno riguardato anche la biodiversità e l'importanza di tornare alle coltivazioni tradizionali, come ha ricordato Barbara Burlingame, per la Fao. Le idee della scienza sono tante, a cominciare da come risolvere il problema delle piante che hanno un alto fabbisogno idrico in zone dove c'è siccità, per finire con una qualità di riso, geneticamente modificata, che promette di risolvere il problema della fame nel mondo. Il dibattito non è, e non deve essere, riservato solo agli scienziati. Il cibo e l'acqua riguardano tutti.

Emanuela Di Pasqua
25 settembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Ottobre 15, 2008, 04:10:34 pm »

2008-10-14 19:32

TUMORE AL SENO: VERONESI, OBIETTIVO MORTALITA' ZERO NEL 2020


 ROMA - Obiettivo mortalità zero: una speranza che l'oncologo Umberto Veronesi ritiene possibile contro il cancro al seno entro il 2020. Una stima "ambiziosa" e "ottimistica" ma, spiega, "raggiungibile". Alla presentazione del progetto 'Tumore al seno: progetto mortalita' zerò, organizzato al Senato da Europa donna-Forum italiano Onlus, Veronesi ha riferito che oggi questi tipo di cancro colpisce una donna su 9. Si contano in tutto 36.000 nuovi casi all'anno e sono 300.000 le italiane in vita che hanno incontrato la malattia Lo sforzo che l'oncologo chiede è quello di spingere il piede sul pedale dell'acceleratore della prevenzione. Oggi oltre il 35% delle pazienti che vengono operate hanno tumori "impalpabili", così piccoli da essere visibili solo con strumenti diagnostici.

E' proprio in questi casi, ha spiegato Veronesi, che la medicina vince con più facilità la sua battaglia contro la morte: "Ogni millimetro in più di massa equivale ad un 1% di possibilità di guarigione in meno. Basti pensare che se il tumore è di un centimetro si ha il 95% di sopravvivenza". Ed un altro studio condotto dall'Ieo (l'Istituto Europeo di Oncologia guidato proprio da Veronesi) su 5.408 donne - seguite per 15 anni e sottoposte a mammografia, ecografia e visita annuale - ha dimostrato che la mortalità generale per tumore è stata dell'1%. E sui 136 tumori al seno scoperti, si sono registrati solo 4 decessi rispetto ai 47 per tumori diversi: una mortalità, quindi per tumore al seno, inferiore all'uno per mille. Ma come convincere le donne a non avere paura a sottoporsi a controlli regolari? Sapere che le conseguenze di un intervento sono sempre meno pesanti, ha detto Veronesi, aiuta le donne a scegliere la strada della prevenzione.

Per Veronesi sarebbe importante avviare una campagna di informazione, ed investire "qualche milione" per far crescere realmente la conoscenza e persuadere le donne a fare più prevenzione; ma anche formare da mille a 1.500 medici ecografisti specializzati sulle nuove macchine più sofisticate.

Francesco Schittulli, presidente della Lega Italiana per la Lotta i Tumori, sulla linea di Veronesi, propone con forza una misura: mammografia gratis e annuale a tutte le donne con più di 40 anni. Oggi gli screening sono offerti gratuitamente alle donne dai 50 ai 69 anni. Ma nel nel Sud l'adesione è troppo bassa, ha spiegato la senatrice Laura Bianconi (Pdl), e una nuova attenzione deve essere dedicata alla donne sotto i 40 anni, fascia di età in cui si registrano il 40% dei casi di nuovi tumori. 

da ansa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Ottobre 29, 2008, 12:19:18 pm »

Ora una legge giusta

di Umberto Veronesi


Di quello straordinario documento pubblicato la settimana scorsa da 'L'espresso' in cui il cardinale Martini e il professor Marino, entrambi con onestà intellettuale e coraggio etico, mettono a confronto le proprie idee su alcuni temi che toccano la coscienza dell'uomo moderno, fino a volte a lacerarla, mi ha colpito prima di tutto il titolo: 'Dialogo sulla Vita'. Perché sia che si parli di fecondazione artificiale, o di Aids, o di aborto, o di eutanasia, è sempre della vita dell'uomo che si parla, e della dignità dell'uomo che va rispettata anche quando questa vita va spegnendosi.

Certamente quello dell'eutanasia, come convengono sia l'uomo di fede sia l'uomo di scienza, è un problema lacerante per la sensibilità di molti, perché c'è una grande difficoltà ad accettare che si spenga la vita. Ma la fine della vita ci riguarda tutti, ed è un tema che non si può nascondere, ignorare o mistificare. Credo che dibattiti come quello tra il cardinale Martini e il professor Marino, alla ricerca di punti di incontro condivisibili e non di steccati ideologici, portino a una presa di coscienza, e la riflessione sul dolore e sulla morte, e sulle circostanze che accompagnano il morire e lo rendono troppo spesso intollerabile, diventa un argomentare il più possibile partecipato.

Come ho sostenuto in altre occasioni, io credo che il diritto di morire con dignità è, come tutti i diritti della persona, un diritto che fa capo unicamente al soggetto, nell'ambito di quel concetto onnicomprensivo che è il diritto di ogni uomo all'autodeterminazione, cioè di libertà. E il primo passo verso il riconoscimento di questo diritto è quello di dare valore giuridico alla volontà del soggetto espressa liberamente e coscientemente, cioè al 'testamento biologico', o volontà anticipate, chiamate anche biocard, carta di autodeterminazione, living will. Per ora diversamente da altri paesi europei in Italia, il testamento biologico ha la possibilità di essere preso in considerazione soltanto attraverso un passaggio che non è giuridico, ma deontologico, vale a dire se i medici curanti ravvisano nelle terapie che dovrebbero essere praticate il carattere di 'cure inappropriate', in quanto il malato è giunto alla fine della vita e non può guarire. Si tratta evidentemente di un criterio discrezionale (la decisione di sospendere le cure può cambiare da medico a medico) e quindi si avverte l'esigenza di una legge che tuteli l'inalienabile diritto del malato a decidere come morire.

Le direttive anticipate dovrebbero essere l'estensione di quella cultura del consenso che lentamente sta entrando nella società italiana, e che è stata anche registrata dal Codice deontologico dei medici, il quale con l'articolo 34 afferma che "il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso". In Italia, secondo il Comitato nazionale di bioetica, che ha cercato di semplificare al massimo il problema, le direttive anticipate potranno essere scritte su un foglio firmato dall'interessato, e non solo i medici ne dovranno tenere conto, ma dovranno giustificare per iscritto le azioni che violeranno questa volontà. A mio giudizio, i tempi sono maturi perché si passi dal piano etico al piano giuridico, tanto più che il problema è universalmente sentito e che l'appoggio dato al disegno di legge presentato al Parlamento tre anni fa è stato trasversale agli schieramenti, perché si tratta semplicemente di rispettare il desiderio di non dover subire cure inutili e penose.

Il testamento biologico tuttavia non esaurisce il problema.È dal diritto a disporre della propria vita ed è partendo da questo principio generale di libertà che vanno considerate le richieste che un malato può rivolgere ai medici se si trova in uno stato di grave sofferenza e di malattia inguaribile: il rifiuto di cure in eccesso, la richiesta di essere aiutato e assistito ad accelerare una morte senza sofferenza che viene data per pietà. Ma alla luce della ragione e della mia lunga esperienza di medico mi chiedo: ci sono differenze tra 'lasciar morire', 'aiutare a morire', 'provocare il morire'? Sul piano della legge e della deontologia queste differenze possono valere ai fini del codice penale e del codice di deontologia professionale, ma non lo sono sul piano filosofico ed etico: rispondono tutte allo scopo che si persegue, cioè quello di abbreviare con un atto di pietà le sofferenze del malato.

La tanto citata ma poco conosciuta legge olandese al comma 1 dell'art. 293 recita: "Chi intenzionalmente toglie la vita a un'altra persona per rispondere alla sua richiesta espressa e sincera, è punito con la reclusione non superiore ai 12 anni". E al comma 2: "Il fatto previsto sopra non è punibile se è stato commesso da un medico che rispetti i rigorosi criteri indicati dalla legge relativa al controllo dell'interruzione della vita su richiesta del paziente". Come si vede l'etica di fine vita suggerisce il soccorrevole atteggiamento che ascolta la volontà del malato. Se aumentare la quantità di vita non è più praticabile perché i giorni, le ore e i minuti portano al malato soltanto dolore e sofferenza, il medico consapevole e umano deve rispettare la dignità del malato.


da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Novembre 13, 2008, 03:09:18 pm »

«Testamento biologico, il medico può dire no»

La proposta di legge firmata Veronesi: possibile l’obiezione di coscienza sulla decisione del paziente

Nei secoli scorsi c’era la paura di morire anzitempo.

Oggi c’è quella di sopravvivere oltre il limite naturale della vita, in una condizione artificiale.

Ognuno deve avere il diritto di decidere sul termine della propria esistenza



MILANO — Se la morte è il termine naturale della vita umana, di fronte alla possibilità di allontanare questo confine chi deve porre limiti e a quali condizioni? La tecnologia? Le istituzioni? I medici? «Io penso che ognuno di noi ha il diritto di autodeterminarsi e di esprimere cosa vuol fare nel caso si trovasse in condizioni che lo privano della sua identità e dignità. Ognuno deve essere libero di scegliere». E’ il senatore Umberto Veronesi a parlare. Il Veronesi medico si ferma di fronte al confine tra vita artificiale e morte naturale. E affida a uno stringato disegno di legge il suo modello di testamento biologico. Il caso Eluana Englaro ha fatto cambiare idea all’ex ministro della Sanità («Non serve una legge, basta il notaio», diceva fino a poco tempo fa). Ora la legge occorre. «Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di volontà», è il titolo del ddl 972 che porta la sua firma. Nove articoli in tutto. Si aggiunge alla decina di altri testi in attesa di giudizio... parlamentare.

«La mia legge — spiega — non riguarda il tema dello stato vegetativo permanente nella sua globalità, ma solo il diritto di ogni cittadino di rifiutare questo modo innaturale di terminare la propria vita. Oggi la decisione di come e quando prolungare l’assistenza è completamente nelle mani dei medici, mentre invece è diritto inalienabile di ogni cittadino decidere se iniziare o quando lasciare il trattamento di sostegno». A Veronesi non piace il termine accanimento terapeutico («E’ un controsenso linguistico»). «Compresa l’alimentazione e l’idratazione artificiale».

«In passato—aggiunge il senatore Pd — c’era la paura di morire anzitempo. Oggi c’è quella di sopravvivere oltre il limite naturale della vita, in una condizione artificiale, priva di coscienza e di vita di relazione ». Conseguenza dell’ipertecnologica medicina moderna. Un limbo che «pone la società di fronte a dilemmi sconosciuti alla storia e al pensiero». E che ha portato a un movimento, negli Stati Uniti e in Europa, favorevole alla possibilità di esprimere, in condizioni di normalità e di lucidità mentale, le «direttive anticipate» che i medici devono rispettare «nel caso che un danno cerebrale grave impedisca la consapevole espressione di assenso o di dissenso alle cure proposte». Un movimento che ha scatenato il dibattito tra medici e pazienti, tra laici e credenti, tra politici appartenenti agli stessi partiti.

Per i medici contrari al testamento biologico c’è l’obiezione di coscienza: «E’ data la possibilità al medico che ha in carico il paziente di non seguire le indicazioni di volontà anticipate, se questo contrasta con le sue convinzioni etiche, affidando il paziente ad altri medici». E ai veti del Vaticano risponde: «Chi ha fede sceglierà di affidarsi a Dio. O, ancora per fede, rifiuterà trattamenti che potrebbero salvarlo (le trasfusioni di sangue per i Testimoni di Geova). Chi non ha fede, potrà affidarsi ai poteri della scienza medica o scegliere di stabilire dei limiti».Mario Pappagallo

Mario Pappagallo
13 novembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Gennaio 30, 2009, 02:59:46 pm »

MEDICINA

Ecco il cibo anti-cancro

Tornano le arance dell'Airc

La ricerca, e la genetica in particolare, ci aiuta a riscoprire l'enorme potenziale della natura per proteggere e perpetuare la vita

di UMBERTO VERONESI


 Cibi come farmaci, alimentazione come scudo contro le malattie. La genetica, che ha condotto la nostra mente fino alle strutture più complesse della biologia, allo stesso tempo ci ha aiutato a riscoprire l'immenso potenziale della natura.

Nelle sue forme più banali e conosciute, come una pianta o un frutto, e la sua tendenza originaria, fortissima, a proteggere e perpetuare la vita. La lettura del DNA è una scoperta ed insieme un ritorno alle origini. E così oggi la scienza ci conferma che alcuni degli strumenti più efficaci per proteggerci da malattie gravi, come il cancro, si celano nei gesti quotidiani e antichi, come sedersi a tavola. Lo ricorda quest'anno l'appuntamento AIRC domani in 2700 piazze italiane con le Arance della salute.

La ricerca scientifica negli ultimi anni, grazie alla scoperta dei geni che sono comuni a tutti gli esseri viventi, si è alleata sempre più strettamente alla natura, imparando a valorizzarne le intrinseche capacità di difendere la salute dell'uomo. Per questo la contrapposizione culturale fra "biologico", collegato alla natura, e "artificiale" collegato alla scienza, è superata ed è destinata a sparire. L'obiettivo della ricerca scientifica è armonizzare natura e uomo, per evitare le dissonanze e gli errori, quali sono appunto le malattie.

Ho sempre sostenuto che il cancro è un incidente, un danno che si produce a carico dei nostri geni, un errore di programmazione che destabilizza il sistema perfetto del nostro corpo. Molti di questi danni derivano da ciò che mangiamo ed da lì che dobbiamo partire. Studiando l'alimentazione innanzitutto abbiamo capito come agisce il cibo sul nostro corpo scoprendo che ciò che mangiamo regola il metabolismo, cioè attiva o disattiva in noi la produzione di un insieme di sostanze, come gli ormoni ad esempio, che nel tempo influenzano il nostro stato di salute fisico e mentale.

Poi abbiamo scoperto come il metabolismo si lega ai nostri geni: per esempio abbiamo trovato come alcune molecole dei cibi siano capaci di agire sul DNA per bloccare lo sviluppo dei tumori. Ora siamo a un passo più in là. Stiamo studiando come certi cibi, da soli o in associazione a farmaci possono impedire lo sviluppo di alcune malattie o come possiamo, se già la malattia esiste, personalizzare le dosi dei farmaci in rapporto agli alimenti presenti nella dieta del malato. Stiamo scoprendo la potenza di sostanze derivate dalla natura, a bassa tossicità e poco costose: la catechina presente nelle foglie del tè, il resveratolo contenuto nel vino rosso, il licopene del pomodoro. Sappiamo che in alcuni cibi si trovano principi attivi curativi, veri farmaci, che fanno pensare a un utilizzo terapeutico dell'alimentazione. Anzi già lo facciamo consigliando ad esempio un certo tipo di dieta per migliorare gli effetti delle terapie farmacologiche o radianti e ridurne i danni all'organismo nel suo insieme. O ancora certi alimenti diventano dei modelli a cui ispirarsi per trovare nuovi farmaci. E' il caso della "molecola della buccia d'arancia".

E' in fase avanzata di studio una nuova categoria di farmaci anti-cancro a base di molecole costruite sul modello molecolare degli olii essenziali delle bucce d'arancia. Questi nuovi farmaci potrebbero curare il tumore della prostata e prevenirlo nella popolazione maschile a maggior rischio di sviluppare la malattia per familiarità. Ma non dobbiamo aspettare il futuro per proteggerci di più con la semplicità di una buona alimentazione. Non ci vuole una rivoluzione delle nostre abitudini né una frustrante rinuncia al piacere del cibo rispettando la varietà.

(30 gennaio 2009)
da repubblica.it
Registrato
Pagine: [1] 2 3 4
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!