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Autore Discussione: UMBERTO VERONESI.  (Letto 44020 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Luglio 29, 2010, 11:40:35 am »

29/7/2010 - LA POLEMICA

Perché sto dalla parte del nucleare

UMBERTO VERONESI

Le polemiche sorte intorno alla proposta di una mia nomina a presidente dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare non mi stupiscono, anzi sono comprensibili e in gran parte giustificate.

In particolare capisco il pensiero del Pd di fronte all’offerta che mi ha rivolto il governo: riflette un dilemma che io stesso ho vissuto e sto ancora vivendo. Mi sono chiesto infatti se fosse giusto compiere una scelta che va contro la posizione del partito con il quale ho accettato di candidarmi al Senato.

Oppure se non fosse più corretto operare una sorta di autocensura e dire no al coordinamento di un piano che pure considero importante per lo sviluppo del Paese. Alla fine ha prevalso in me il desiderio di partecipare con decisione al ritorno del nucleare in Italia, se pure a condizione di un programma ineccepibile dal punto di vista della qualità scientifica, della sicurezza per l’uomo e per l’ambiente e della sostenibilità economica.

Con questa scelta è difficile continuare l’attività senatoriale. Già avevo elaborato dentro di me questa consapevolezza, che poi mi è stata espressa da molti membri del partito. Ha ragione il senatore del Pd Roberto Della Seta: non potrei perché gli impegni sarebbero troppi, ma anche perché la mia coscienza non me lo permetterebbe. La legittima discussione sulla mia scelta ha tuttavia oscurato agli occhi della gente le sue motivazioni: perché sono così convinto del nucleare da assumermi un incarico così spinoso e largamente impopolare? Che cosa glielo fa fare, professore, mi chiedono i pazienti e gli amici più stretti? Mi spinge la mia convinzione che l’energia nucleare è un progresso scientifico straordinario per l’uomo e, proprio poiché ci credo, ritengo in coscienza di dover offrire tutto il mio impegno di scienziato e di cittadino perché il mio Paese, che amo, sia all’avanguardia in questo settore e non rimanga arenato per motivi ideologici.

Vorrei ricordare che il nucleare è nato in Italia grazie a Enrico Fermi e quando nel dicembre 1942 lui e la sua squadra festeggiarono con un fiasco di vino Chianti (fiasco che fu firmato da tutti i fisici presenti e che diventò da allora un oggetto di «culto») si aprì una nuova era per la scienza e per l’umanità. Il brindisi era per la scoperta della «pila atomica» che era in grado di produrre enormi quantità di energia con la rottura di un atomo di uranio colpito da un neutrone. Fermi scoprì che per produrre energia non è necessaria la combustione (che consuma ossigeno) né il riscaldamento a carbone, o petrolio, e trovò quindi una soluzione potenziale al crescente fabbisogno energetico nel mondo. La politica poi fece un uso tragicamente improprio della sua scoperta, facendo costruire la bomba che gettò un’ombra indelebile su questo progresso.

Sul nucleare come fonte di energia io mi sento di poter rassicurare la popolazione circa la sostanziale assenza di rischio. L’attività delle centrali nucleari produce energia pulita, senza emissioni (presenti invece nei processi di combustione) di sostanze che rappresentano un rischio di malattie respiratorie, allergiche o tumorali nell’uomo.

Ma ciò di cui la gente ha paura sono gli incidenti alle centrali. Va detto che in 40 anni di utilizzo del nucleare nel mondo si sono verificati solo 2 casi: quello di Three Mile Island in Pennsylvania nel 1979, che non provocò nessuna contaminazione e nessuna vittima, e quello di Cernobil nel 1986, che fu un vero disastro. Spesso però si ignora che a Cernobil la causa fu la leggerezza e l’incompetenza del personale. Il direttore aveva esperienza solo di impianti a carbone e il capo ingegnere ne aveva soltanto con i reattori nucleari preparati per i sottomarini sovietici. Si è inoltre unito il fatto che il reattore era già allora inadeguato e tecnologicamente incapace di autoproteggersi dal rischio di malfunzionamento e infine che la tragedia avvenne nel corso di un esperimento, in cui furono paradossalmente violate tutte le regole di sicurezza e di buon senso. Si tratta quindi di un evento unico che ha dei tratti di pura assurdità, e che oggi non si potrebbe ripetere. La presenza di un rischio molto limitato non toglie nulla al compito dell’agenzia per la Sicurezza, che mantiene un ruolo importante e va gestita con fermezza e senza compromessi. Il mio obiettivo potrebbe essere non solo dare una certezza solida alla popolazione, ma anche mettere a punto un modello nuovo di approccio al concetto di sicurezza, più attento ai bisogni reali di salute e di tranquillità dei cittadini.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7651&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #31 inserito:: Settembre 28, 2010, 12:00:39 pm »

28/9/2010

Un passo avanti verso la pillola anticancro
   
UMBERTO VERONESI

L’attribuzione del Premio Lasker a Napoleone Ferrara è un’ottima notizia per almeno tre motivi. Il primo è la motivazione scientifica: la scoperta della proteina Vegf - che ha un ruolo nella crescita tumorale - e l’identificazione di una molecola in grado di contrastare la sua azione, bloccando lo sviluppo della malattia.

È l’applicazione del principio rivoluzionario dei farmaci intelligenti, che sono la grande promessa della ricerca contro il cancro e la speranza per milioni di malati. Si chiamano «intelligenti» perché, come i missili più sofisticati che riconoscono il bersaglio, si dirigono selettivamente contro le cellule malate, per distruggerle o disinnescarne la pericolosità, riducendo al minimo la tossicità per il resto dell’organismo. Alcuni farmaci - come quello individuato da Ferrara - interferiscono con un meccanismo vitale per il tumore quale il rifornimento di sangue, altri vengono attivati solo quando sono agganciati alle loro cellule-bersaglio.

I farmaci intelligenti già utilizzati in clinica, da soli o in associazione alla terapia tradizionale (oltre all’Avastin trovato grazie agli studi di Ferrara e utilizzato per alcuni tumori del rene e del colon), sono circa una decina. Le molecole in studio tuttavia sono migliaia e le prospettive promettenti; ma va detto che agli occhi dei malati i risultati sembrano tardare ad arrivare.

È vero che, sull’onda dell’entusiasmo per la decodifica del Dna e per l’enorme massa di nuove informazioni sulla malattia derivate dalla conoscenza dei geni che ci siamo ritrovati fra le mani, noi ricercatori abbiamo sperato che la realizzazione del grande sogno, la pillola anticancro, sarebbe stata ancora più rapida e abbiamo forse trasmesso un eccessivo ottimismo. Invece il percorso sta seguendo sistematicamente le sue tappe e i suoi ritmi; rimane tuttavia la certezza che la direzione è quella giusta e il prestigioso Premio Lasker a Ferrara ce lo conferma.

Il secondo motivo di soddisfazione è legato al fatto che il Lasker vada a un italiano, a conferma dell’eccellenza dei nostri ricercatori. Certo è un «cervello in fuga», ma questo nulla toglie ai suoi brillanti risultati e significa che la nostra formazione scientifica e la nostra creatività sono ai massimi standard internazionali. Sostengo da anni che per aiutare lo sviluppo della scienza non si tratta solo di far rientrare i cervelli italiani in Italia, seguendo una sorta di neo-nazionalismo scientifico ormai obsoleto, ma di attirare qui studiosi di diversi Paesi e diverse scuole di pensiero per creare una comunità scientifica internazionale nel nostro Paese, che grazie allo scambio di cultura, la cross-fertilization, dia un nuovo respiro alla ricerca. Abbiamo la tradizione e la capacità innovativa per creare in Italia un «melting pot» della scienza.

Il terzo motivo che mi rende felice è legato alla storia del Premio Lasker. Ho avuto il piacere di conoscere di persona Mary Lasker che nel 1971 assieme a un gruppo di cittadini americani riuscì a far approvare dal parlamento il National Cancer Act, la «legge del cancro», con cui il governo si impegnava a destinare più fondi alla ricerca oncologica, che stava languendo a favore di quella spaziale e tecnologica. Il Cancer Act ebbe un effetto di stimolo per tutta la ricerca contro il cancro nel mondo. In Italia il Progetto finalizzato sul controllo della crescita neoplastica fu varato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche sull’onda del rinnovato impegno americano. Una conferma di come la partecipazione della popolazione civile sia un motore fondamentale della scienza.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7888&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #32 inserito:: Novembre 14, 2010, 09:09:45 am »

14/11/2010

Quel simbolo del futuro al femminile
   
UMBERTO VERONESI

L’immagine dell’esile Aung San Suu Kyi che esce dalla sua casa-prigione mettendosi un fiore fra i capelli e stringendo un fazzoletto bianco nella mano diventerà il simbolo del nuovo percorso mondiale verso la pace.

Che, inevitabilmente, sarà guidato dalle donne. Fra i tanti commenti dei leader mondiali mi ha colpito quello del presidente Obama: «È stata liberata un’eroina». È proprio la capacità tutta femminile di essere «eroi del bene» che fa delle donne le principali vittime dei conflitti e allo stesso tempo le più grandi protagoniste dei processi di pacificazione. Io ne sono convinto da sempre, come medico delle donne, come estimatore del pensiero femminile e come uomo che ha vissuto la guerra. Infatti nel Movimento Science for Peace, che ho creato due anni fa, le donne hanno un ruolo centrale, e nella seconda edizione della Conferenza Mondiale che inaugureremo giovedì prossimo a Milano un’intera sessione sarà dedicata a esperienze di donne che vivono in aree di conflitti e mettono a rischio la propria vita per sanarli.

L’amica Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace, dall’Iran, Mary Akrami dall’Afghanistan, Tara Gandhi dall’India, Aicha Ech-Cahnna e Rita El Khayat dal Marocco. Sono storie che dimostrano nei fatti ciò che la scienza e l’evoluzione ci confermano: le donne sono biologicamente portate alla pace. Gli ormoni androgeni, predisposti alla differenziazione in senso maschile, concorrono all’aggressività, che è un istinto «distruttivo»; mentre gli ormoni femminili, che hanno la funzione di mantenere un equilibrio che tende alla conservazione e alla riproduzione della vita, sono all’origine dell’istinto «costruttivo».

Non è un caso se sono maschi i teppisti allo stadio, i terroristi, i boia, i serial killer. La donna non uccide e non si uccide: la maggioranza degli omicidi sono perpetrati da uomini, mentre la maggioranza delle loro vittime sono donne. I suicidi femminili sono rari. La donna odia la violenza, odia la guerra e il suo caos, che porta via i compagni e le impedisce di far crescere serenamente i suoi figli. Quindi, per natura, si oppone alla violenza, e la sua forza è che lo fa rifiutando la provocazione, ignorando i soprusi, gli insulti e le privazioni; ma continuando invece, imperturbabile, la ricerca del dialogo. Questo ha fatto Aung San Suu Kyi in Birmania e, come lei, le eroine dei nostri giorni; che sono ben diverse dagli eroi della patria degli scorsi secoli, che troviamo immortalati nelle statue, su cavalli scalpitanti, con le spade sguainate.

«Quando immagino una Birmania democratica - ha scritto Suu Kyi - la vedo in termini di meno sofferenze per la gente. Voglio un Paese in cui siano rispettate le leggi, dove le persone siano sicure, dove siano incoraggiate e aiutate ad acquisire un’istruzione e ampliare i loro orizzonti, dove vengano favorite le condizioni per alleggerire mente e corpo. Al centro del mio movimento c’è “Metta”, che significa il desiderio di arrecare sollievo agli esseri umani».

In queste parole c’è l’espressione dell’amore universale, e penso che nessun uomo le avrebbe pronunciate e difese anche di fronte alle minacce di morte. Non è un caso se, ovunque nel mondo si calpestano i diritti umani, oggi troviamo a combattere in prima fila una donna, e questo mi rassicura su un futuro migliore e pacifico. Che la gestione femminile sia un vantaggio è stato ben capito, sorprendentemente, in Ruanda, dove, primo caso nel mondo, a seguito delle recenti elezioni il Parlamento è composto per quasi il 55% da donne.

La capacità di dialogo, comunicazione e mediazione oggi sono vincenti, mente l’aggressività è un handicap, per cui un maggior ruolo femminile nelle aree critiche non può che essere una speranza. Una doppia speranza, anzi. La positiva conclusione della vicenda di Suu Kyi in Birmania, così come quella di Sakineh in Iran, dimostrano come la sensibilizzazione e la partecipazione della popolazione (che oggi grazie ai media e a Internet è la popolazione di tutto il mondo), che le donne con la loro amorevolezza sanno spesso ottenere, sono uno strumento efficace per vincere le cause che rappresentano un valore e un progresso per tutta l’umanità. Io credo moltissimo nel coinvolgimento attivo della gente e per questo ho voluto per la pace una Conferenza aperta al pubblico e un Movimento a cui tutti possono aderire attraverso il sito

www.fondazioneveronesi.it/scienceforpeace
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8082&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 08, 2011, 06:36:27 pm »

8/3/2011

Ho fatto il testamento biologico

UMBERTO VERONESI

Io ho fatto il testamento biologico qualche anno fa, e per tre motivi. Per riaffermare le mie convinzioni sulla libertà di disporre della propria vita. Per l’amore profondo verso i miei familiari, che non voglio siano mai straziati dal dubbio sul che fare della mia esistenza. Per il rispetto verso i medici che si prenderanno cura di me. Ho voluto anche renderlo pubblico: «Io sottoscritto Umberto Veronesi, ..., nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno (nutrizione e idratazione)... Queste mie volontà dovranno essere assolutamente rispettate dai medici che si prenderanno cura di me...».

Considero il testamento biologico l’atteggiamento più corretto soprattutto verso i medici curanti, cioè verso chi si troverà, concretamente, ad avere la responsabilità terapeutica di un individuo non più consapevole. Nel febbraio 2009 il giurista Stefano Rodotà, argomentando intorno al caso di Eluana Englaro, ha scritto: «Proprio nell’art. 32 il tema della costituzionalità della persona si manifesta con particolare intensità. Dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell’individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possono essere previsti solo dalla legge, e tuttavia “in nessun caso” possono violare il limite imposto dal “rispetto della persona umana”.
E’, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, della necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indicibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di Habeas corpus, a un’autolimitazione del potere».

Il testamento biologico, che certifica la volontà dell’interessato, è quindi lo strumento più adatto a far sì che nessuna volontà esterna possa prevalere. A questo principio si ispirò nel 1997 la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, il cui articolo 9 prevede che vengano tenuti in considerazione «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà». Per quanto riguarda il nostro Paese, il 18 dicembre 2003 il Comitato nazionale per la bioetica approvò un documento in cui si auspicava un intervento del legislatore volto a obbligare il medico a prendere in esame le dichiarazioni anticipate di volontà e a motivare ogni diversa decisione in cartella clinica. Purtroppo tutto si è fermato per il timore, da parte di chi è contrario all’eutanasia, che proprio il testamento biologico le aprisse un varco.

Così nella primavera del 2010, mentre una perfetta operazione mediatica presentava con grande risalto l’entrata in vigore della legge che organizza e finanzia le cure palliative, alla Camera, dov’è in gestazione la legge sul testamento biologico, passava tra le proteste di pochi un emendamento che inficia gravemente il diritto all’autodeterminazione del paziente: alimentazione e idratazione artificiali non possono costituire oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Se dovessero risultare inutili o dannose, saranno i medici a decidere.

Ma i cittadini italiani vogliono veramente affidare ai medici la decisione su come desiderano morire? Tramite la Fondazione Veronesi, all’inizio del 2007 volli affidare la risposta a un sondaggio, che è stato effettuato su un campione significativo di 4300 maggiorenni, e realizzato dall’Ispo, l’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione. Prima di parlare degli altri aspetti emersi dalla ricerca, mi sembra fondamentale rispondere alla domanda più importante, che il legislatore non può far finta di ignorare: a chi spetta la decisione? Agli intervistati è stato sottoposto un quesito molto dettagliato: «Se una persona è affetta da una malattia o lesione cerebrale irreversibile che le impedisce di esprimere la sua volontà e la costringe alla dipendenza da macchine, a chi dovrebbe aspettare la decisione di non somministrare o eventualmente sospendere i trattamenti che la tengono artificialmente in vita?».

Ebbene, ecco le risposte: solo il 5% degli intervistati ha detto che la decisione spetta al medico che ha in cura il paziente (in ospedale, in reparto di rianimazione, a casa), mentre il 50% ha risposto che la decisione spetta al paziente che ha espresso la proprio volontà in merito quando ancora era in piena lucidità mentale. Questa risposta è stata data dalla metà di coloro che si erano posti il problema e dal 40% di coloro che non se l’erano mai posto. Questa risposta mi sembra assolutamente illuminante e nettamente prevalente rispetto alle altre, che comunque riporto: il 20% ha risposto che la decisione spetta a un familiare (coniuge/genitore/figli o altri parenti), il 20% che la decisione non spetta a nessuno perché «la vita è un dono e bisogna fare di tutto per tutelarla», un altro 5% affida la decisione «a una commissione etica di esperti», e un residuo 1% «a un giudice/magistrato».

Il brano che pubblichiamo è tratto dal nuovo libro di Veronesi «Il diritto di non soffrire» (Mondadori)

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #34 inserito:: Settembre 28, 2011, 09:54:24 am »

28/9/2011

I rischi dell'eccesso terapeutico

UMBERTO VERONESI

Anche se a prima vista la denuncia di Richard Sullivan e dei suoi colleghi può sembrare eccessivamente cinica, plaudo a questa iniziativa perché ha il merito di affrontare un tema che tutto il mondo dell'oncologia conosce, ma raramente ha avuto il coraggio di porre al centro del dibattito della pubblica opinione.

Conosco il pensiero di Sullivan, a cui l'Istituto Europeo di Oncologia è legato da collaborazioni scientifiche, e condivido il suo attacco alla «cultura dell'eccesso». Prima di tutto eccesso terapeutico. Ho sempre pensato che sia fondamentale in tutto il percorso di cura, e tanto più nella fase terminale, ridurre al minimo la tossicità per evitare situazioni estreme in cui si aggiunge malattia alla malattia. Ma non si tratta affatto di abbandonare il malato, al contrario si tratta di offrirgli terapie di supporto avanzate e mirate per il trattamento sia del dolore fisico, che della sofferenza, che è altra cosa. Terapie, dunque, che non aggiungono tossicità. Oggi disponiamo di approcci terapeutici che tengono conto anche dell'aspetto psicologico del paziente in fase terminale.

C'è poi il problema legato all'«eccesso di costi», che il lavoro di Lancet Oncology denuncia con forza. In un momento di crisi globale in effetti è ancora più incomprensibile un utilizzo di farmaci ad altissimo costo che non portino sensibili vantaggi ai malati. Posso capire le reazioni indignate di chi istintivamente rifiuta qualsiasi ragionamento economico applicato alla malattia. Ma tengo a sottolineare che la questione dei costi in questo caso non vuol dire risparmiare, ma cambiare l’atteggiamento della medicina moderna, che non deve dar prova di tutte le sue possibilità fino a sfiorare l’«accanimento terapeutico», quanto tornare a considerare la dimensione individuale di ogni malato, la sua storia e la sua percezione personale della vita con la malattia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9252
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« Risposta #35 inserito:: Dicembre 06, 2011, 05:16:06 pm »


6/12/2011
 
La forza della scienza
 
UMBERTO VERONESI
 
Il pensiero non è in crisi. La situazione economica mondiale assorbe, giustamente, la nostra attenzione quotidiana e ci assilla di preoccupazioni per il domani, ma dobbiamo ricordare che le difficoltà riguardano i capitali e i flussi finanziari, mentre la creatività scientifica, che è la chiave per il futuro, sta vivendo uno dei periodi più floridi della sua storia. Per lanciare questo messaggio ho accettato che i miei collaboratori più stretti organizzassero oggi a Roma la celebrazione dei 30 anni dalla pubblicazione sul New England Journal of Medicine- dello studio che cambiò da subito le sorti delle donne colpite da tumore del seno, e poi di tutti i malati di cancro. Perché sarà una celebrazione della forza innovativa del pensiero razionale scientifico e della eccellenza della ricerca medica italiana, che pure non ha mai goduto né di grandi risorse, né di grande considerazione nelle strategie di crescita del nostro Paese. Volli personalmente quello studio (che durò dal 1973 al 1981 su 700 pazienti), contro il parere dell’oncologia mondiale.

Il lavoro ha dimostrato che i tumori del seno in fase iniziale potevano essere curati con gli stessi risultati, conservando la mammella e asportando solo la parte sede del nodulo. Fu una rivoluzione profonda che pose fine all’accanimento sul corpo femminile e a ogni forma di eccesso di cura, e insegnò agli oncologi nel mondo a tener conto della qualità di vita dei malati e della loro percezione della malattia. Le donne furono motivate a controllare periodicamente il proprio seno e, poiché i tumori iniziali guariscono di più, l’impatto fu enorme: in 40 anni la guaribilità è passata dal 40% all’85% dei casi. Ora miriamo ad un obiettivo più ambizioso: sviluppare questa tendenza, fino a trasformare il tumore del seno in una malattia con mortalità vicino allo zero. Come? Sappiamo che la probabilità di guarigione del tumore del seno è proporzionale alla tempestività della diagnosi e oggi abbiamo a disposizione conoscenze più avanzate (abbiamo decodificato il genoma umano) e strumenti di indagine molto più efficaci e accurati di 40 anni fa. La sfida è quindi di applicarli su ampia scala e uniformemente a livello nazionale. All’Istituto Europeo di Oncologia abbiamo dimostrato con uno studio pilota su 1258 pazienti che, se il tumore del seno è scoperto quando è impalpabile e rilevabile solo con gli esami strumentali (mammografia, ecografia, risonanza magnetica), la percentuale di guaribilità è del 98%. Chirurgia e radioterapia si sono velocemente attrezzate per trattare tumori sempre più piccoli, diventando ancora meno invasive e più mirate: così sono nate e si svilupperanno le tecniche di chirurgia radioguidata e la radioterapia intraoperatoria.

Quando arriveremo ad intercettare la maggioranza delle lesioni impalpabili, la chirurgia lascerà il passo a tecniche di cura senza bisturi, come i fasci di protoni, ioni carbonio e gli ultrasuoni (la tecnica Hifu). Molto ci attendiamo ancora dalla rivoluzione molecolare. Nella diagnosi la novità è la ricerca di MicroRNA (Mirna) nel sangue: frammenti di Rna (la «copia» del Dna) che ci permetteranno di agire sul tumore prima che sia un nodulo rilevabile da qualsiasi apparecchio diagnostico. L’analisi di questi frammenti è in grado di identificare quei tumori che non infiltreranno mai altri organi, e di distinguerli da quelli che invece tendono per loro natura a dare metastasi. Con un semplice esame del sangue, quindi, otterremo indicazioni fondamentali per l’approfondimento della diagnosi e l’orientamento della cura. Avremo più farmaci biologici diretti a bersagli molecolari e riusciremo a colpire le cellule staminali del cancro al seno, che già abbiamo individuato, e che sono le responsabili delle temute metastasi.

La medicina è quindi in pieno fermento, ma i suoi risultati oggi non dipendono soltanto dal pensiero e dallo sviluppo, perché stiamo vivendo il passaggio, come dice il motto inglese, da un Welfare State a una Welfare Community. Non è più pensabile che lo Stato offra ai suoi cittadini un’assistenza totale, come era nel sogno garantista, ma è la comunità civile che deve assumere in prima persona la responsabilità della propria salute. Nella lotta ai tumori il primo passo è aderire ai programmi di diagnosi precoce. Per i tumori del seno, solo se le donne prenderanno coscienza, si faranno controllare in massa, educheranno le loro figlie, faranno lobby, ove necessario, l’obiettivo mortalità zero potrà davvero essere raggiunto.
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9523
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 18, 2012, 12:07:34 pm »

18/1/2012

La scienza apra i santuari ai giovani

UMBERTO VERONESI

Sono dalla parte dei giovani che si ribellano al potere oligarchico delle storiche pubblicazioni scientifiche - per dirla semplicemente, nessuna scoperta è vera se non appare su Nature , Science , o The New England Journal of Medicine - e reclamano una «Open Science», una scienza aperta a chi, per età e cultura, non può far parte di quella oligarchia.

Negli anni passati ho avuto il privilegio di avere quasi una decina di lavori pubblicati sul New England Journal of Medicine e non vorrei sembrare irriconoscente. Ma i tempi sono cambiati. Per sua natura, la scienza è «aperta», ma ciò che dobbiamo migliorare è l’accesso al suo mondo. Per questo, già cinque anni fa ho avviato in Europa una campagna a favore dell’Open Access to Science.

Il problema del difficile ingresso dei giovani nelle carriere della ricerca è mondiale ed è certamente legato alla scarsità di investimenti globali, ma ha cause profonde anche nell’organizzazione stessa del mondo scientifico. Fra queste figura senza dubbio la comunicazione delle nuove scoperte e i risultati degli studi, prima all’interno della comunità scientifica mondiale e poi alla società civile, che giustamente attende di conoscere questi nuovi traguardi.

Proprio lavorando molto in mezzo ai giovani ricercatori mi sono reso conto di almeno tre ragioni di insoddisfazione nei confronti dell’attuale sistema di informazione in scienza. La prima è il tempo troppo lungo che intercorre fra risultati di un lavoro e la loro pubblicazione. Prima che una nuova ricerca appaia su una rivista scientifica bisogna aspettare mesi per sapere se verrà pubblicato oppure no; poi l’articolo che la descrive va corretto, e altri mesi o un anno intero possono ancora passare prima della effettiva pubblicazione. Questo ritardo operativo si traduce in un ritardo nella disseminazione delle conoscenze, che può a sua volta comportare un ritardo nel progresso scientifico. La seconda ragione è la scarsa disponibilità di informazioni in tutti gli angoli del Pianeta, che va contro il principio galileiano dell’universalità della scienza. Gli alti costi delle riviste scientifiche limitano la loro distribuzione nei Paesi emergenti. La terza ragione è che i commenti o le critiche a un lavoro pubblicato su una rivista appaiono mesi dopo, e così le risposte degli autori: il processo che dovrebbe essere di «botta e risposta» può durare un anno, e in un mondo che è ormai abituato ai tempi di reazione di Twitter, questo non è più accettabile. Oggi dunque non c’è alternativa al web per la diffusione delle informazioni scientifiche, come succede per il resto delle comunicazioni. Ci sono progetti, come quello di Negroponte, che disegnano un futuro in cui ogni cittadino della Terra avrà accesso a un computer. Il mondo già si orienta verso questo scenario. Se tutti questi computer avranno accesso a un network, la disseminazione dell’informazione scientifica sarà garantita e i giornali cartacei rischierebbero di diventare un ricordo.

Noi ci siamo mossi in questa direzione creando la prima pubblicazione scientifica oncologica on-line che abbiamo chiamato «ecancermedicalscience».

Sulla nostra rivista i lavori sono esaminati immediatamente e l’accettazione o il rifiuto viene reso noto nel giro di una settimana; i commenti appaiono in diretta; l’accesso alla rivista è gratuito e la partecipazione alla discussione è gratuita. E’ un giornale aperto agli autori e aperto ai lettori. «Ecancer» sta avendo molto successo. Certo, è un modello scomodo da seguire, perché comporta lo scardinamento dei pilastri dell’autorevolezza scientifica. Ma vorrei rassicurare i giovani «ribelli»: l’open access alla scienza è un obiettivo che può solo essere ostacolato o ritardato, ma non può essere evitato. La rivoluzione del web ha fatto del nostro Pianeta un mondo globale, in grado di ascoltare anche la voce del singolo individuo da ogni angolo remoto: non c’è via di ritorno e la scienza non può che cogliere il lato positivo di questa nuova straordinaria realtà.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9659
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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 04, 2012, 11:45:08 am »

L'INTERVENTO

La prevenzione a tavola funziona

di UMBERTO VERONESI

Per due sabati consecutivi, l'Airc scende nelle piazze d'Italia con le "Arance della Salute" (le immagini). Una mobilitazione per ricordarci che non ci sono dubbi: la prevenzione a tavola funziona e le conoscenze del Dna lo hanno confermato. Lo studio dei geni ha spiegato e rafforzato i dati che l'epidemiologia ha raccolto da anni. Nel secolo scorso abbiamo raggiunto la certezza che il cibo è responsabile di una larga quota di tumori, e che alcuni alimenti hanno un valore protettivo. In seguito, grazie alla lettura del genoma, abbiamo iniziato a scoprire i meccanismi biochimici alla base dei diversi cibi e ad identificare in alcuni alimenti, tipicamente frutti e ortaggi, la presenza di veri e propri principi farmacologici. Se infatti è nota da tempo la proprietà preventiva di un'alimentazione ricca di frutta e verdura, in grado di potenziare i sistemi biochimici che il nostro organismo ha sviluppato per eliminare le sostanze tossiche, oggi è stato fatto un ulteriore passo avanti: si è osservato che una dieta selezionata è anche una fonte di composti che hanno attività terapeutiche.

Dall'incontro dell'approccio nutrizionale con quello farmaceutico è nata quindi una nuova disciplina medica, la "nutraceutica", che consiste appunto nell'impiego dell'alimentazione come cura. Alcuni molecole naturali hanno dimostrato in laboratorio di poter di rallentare la crescita delle cellule tumorali, altri di facilitare l'apoptosi, cioè il 'suicidio programmatò delle cellule (un meccanismo naturale di protezione dell'organismo al quale sfuggono le cellule tumorali), altri ancora hanno proprietà antiangiogenesi, cioè bloccano lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni in prossimità dei tumori impedendone la crescita, moltissimi altri ostacolano la crescita delle cellule tumorali facilitando il lavoro del sistema immunitario. Sostanze potenti, ma presenti in natura, quindi a bassa tossicità e poco costose: ad esempio la catechina presente nelle foglie del tè, il licopene presente nel pomodoro e gli antociani presenti appunto nelle arance rosse di Sicilia.

Ora ci aspettiamo ulteriori progressi dalla nutrigenomica, che studia come le molecole alimentari siano in grado di agire sul Dna per bloccare i tumori. Negli ultimi anni abbiamo scoperto ad esempio che alcuni geni coinvolti nella regolazione di processi vitali della cellula si attivano o si disattivano, proprio come lampadine che si accendono o si spengono, al variare delle calorie che assumiamo o alla presenza o meno di determinate sostanze nella nostra dieta. L'alimentazione sarebbe dunque uno dei fattori in grado di regolare "l'espressione del genoma", cioè di influire su come alcuni geni vengono attivati per fare in modo che la cellula esegua le funzioni vitali. Il grande sogno ha dunque due volti: arrivare da un lato una dieta anticancro personalizzata e dall'altro a una cura che utilizza i cibi come farmaci.

Grazie alle nuove conoscenze sui legami tra cibo e malattia, dalla classica dietologia "proibizionista" (evitate i cibi che fanno male) si è passati alla nutrizione consigliata (assumete i cibi che fanno bene) e infine appunto alla nutrigenomica (assumete quei cibi che fanno bene proprio a voi). La ricerca, svelandoci le interazioni tra l'ambiente esterno e i nostri geni, ci dà continue conferme scientifiche che il nostro stile di vita, anche nelle azioni più ordinarie ed elementari, come mangiare, è il fattore che maggiormente può incidere sulla nostra salute. Ma noi Italiani siamo fortunati, non dobbiamo stravolgere le nostre abitudini perché abbiamo già una tradizione alimentare molto sana: la dieta mediterranea, che dal punto di vista scientifico è un autentico patrimonio (come l'ha definita l'Unesco), perché è ricca di vegetali, di cereali e legumi e povera di proteine animali.

Per trovare le Arance della Salute: numero speciale 840 001 001 - www.airc.it - www.arancedellasalute.it

(03 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/salute/prevenzione/2012/02/03/news/arance_veronesi-29288958/?ref=HREC2-26
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 15, 2012, 04:56:04 pm »

15/2/2012

Caso Eternit le colpe dei governi

UMBERTO VERONESI

La condanna dei proprietari dell’azienda produttrice di amianto è sacrosanta, ma a rigor di logica dovremmo incolpare anche quei governi che hanno aspettato più di trent’anni prima di mettere fuori legge una sostanza che la scienza aveva pubblicamente denunciato come cancerogena.

Che l’amianto fosse causa di mesotelioma, una forma di tumore della pleura molto aggressiva, si sapeva già dagli Anni 50. Addirittura negli Anni 60 l’International Agency for Cancer Research (Iarc) organizzò una conferenza internazionale sul rischio amianto e nel 1964 il «New York Times» pubblicò una pagina sul caso Eternit, informando direttamente anche la popolazione. Eppure una legge che vieta l’uso
dell’amianto arriva soltanto nel 1992, - dopo che l’azienda, inaugurata nel 1906, aveva chiuso per autofallimento nel 1987 - quando il materiale cancerogeno per 80 anni aveva già invaso il mondo. Ora è difficile andare a reperire tutti i siti contaminati. L’amianto, come materiale ignifugo, è stato ampiamente utilizzato nell’edilizia sia civile che industriale, per costruire navi, scuole, case, uffici, tettoie, magazzini etc. Con l’amianto erano fabbricate le pastiglie dei freni delle automobili e quindi ogni frenata provocava un’emissione nociva nell’aria.

Che fare ora? Il problema della bonifica ha ormai proporzioni gigantesche. E’ necessaria un’analisi per capire con esattezza dove ci conviene rimuovere (con il rischio di diffusione delle polveri) e smaltire e dove isolare e sigillare il materiale perché non possa venire in contatto con le persone. La tragedia dell’amianto ci deve inoltre far riflettere sul fatto che è ora di riprendere gli studi sulla cancerogenesi ambientale. Il principio dell’origine ambientale del cancro nasce nel ‘700 quando un chirurgo inglese, Percival Pott, descrisse carcinomi cutanei negli spazzacamini. Nel 1896, a Francoforte un chirurgo, Ludwig Rehn, scoprì che il cancro della vescica era molto più frequente nei lavoratori dell’industria delle amine aromatiche (anilina) e nello stesso periodo il cancro del polmone veniva riscontrato con frequenza nei lavoratori in miniere con forti emissioni radioattive; nel mentre apparivano le prime osservazioni del rischio di tumore polmonare per inalazione di cromati, composti ferrosi e, appunto, amianto. Abbiamo così scoperto via via una serie di sostanze che sono causa di tumore e che sono recensite dal già citato Iarc: sostanze utilizzate sui luoghi di lavoro come appunto le amine aromatiche (per i coloranti), o che compongono alcuni materiali, come il nichel, o presenti nell’aria, come il benzene, o come i prodotti della combustione, oppure ancora i raggi ionizzanti di origine terrestre o prodotti dall’uomo, e infine alcuni virus. Nel nuovo millennio tuttavia l’epidemiologia (vale dire lo studio delle cause della malattia in relazione a come si presenta e si distribuisce nelle popolazioni) è stata leggermente trascurata, a favore degli studi «costituzionali», incoraggiati dalla decodifica del genoma umano: la conoscenza dei geni dell’uomo ci ha informati che il cancro è legato a un danno al Dna cellulare che «sprogramma» la cellula, che inizia a comportarsi in modo anomalo rispetto alla sincronia armonica dell’organismo. Tuttavia non dobbiamo cadere in equivoco: il fatto che la conoscenza del Dna sia diventata un elemento primario nella lotta al tumore, significa che il Dna è il primo ad essere danneggiato.

Ma la causa del danno rimane esterna. Dunque la ricerca sui fattori ambientali rimane una delle vie principali per la sconfitta della malattia. A patto che la sua voce venga ascoltata. Credo che questa sia la grande lezione della vicenda Eternit. Personalmente ho vissuto negli Anni 60 il caso amianto, partecipando agli studi che ne hanno definito la pericolosità, e negli stessi anni ho partecipato ai movimenti per risolvere il caso delle amine aromatiche: abbiamo lottato per decenni per la chiusura delle fabbriche che utilizzavano le sostanze e le ultime, in Val Bormida, sono state chiuse pochi anni fa. Bisogna fare in modo che un altro caso non avvenga più.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9773
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« Risposta #39 inserito:: Luglio 30, 2012, 09:30:02 am »

30/7/2012

Sanità, strutture da ripensare e ricoveri brevi

UMBERTO VERONESI

Penso che le liste d’attesa in sanità siano un problema strutturale che non può essere risolto con interventi regolatori estemporanei: decreti e ingiunzioni che stabiliscono tempi massimi non servono. Bisogna intervenire sulle cause e le condizioni che creano nelle strutture ospedaliere l’impossibilità di rispondere al bisogno reale di salute dei cittadini.

Da tempo affermo che è necessaria una ristrutturazione profonda del sistema ospedaliero, che rifletta più fedelmente la medicina moderna. Il ruolo dell’ospedale va ripensato nel suo insieme . Innanzitutto la diagnostica deve essere separata dalla terapia e deve essere accessibile «sotto casa», per fare in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di ottenere una diagnosi tempestiva, senza dover affrontare grandi spostamenti. L’ospedale deve svolgere due funzioni : l’ approfondimento diagnostico e la terapia. Deve essere altamente tecnologizzato e contemplare ricoveri brevi per avere un ricambio frequente di pazienti, che devono restare in ospedale lo stretto tempo necessario per ricevere le cure adatte alla fase «acuta» della loro malattia.

E qui sta la chiave per risolvere il problema delle liste d’attesa : la degenza media in ospedale, dai sei/sette giorni attuali deve ridursi a tre/quattro giorni. Per ottenere questo e dimettere i pazienti precocemente, dovrebbe sorgere nelle vicinanze dell’ospedale una struttura di «accoglienza protetta», dove i pazienti possono restare il periodo che occorre per una buona ripresa, senza occupare un letto necessario per chi si deve sottoporre ad un intervento terapeutico. Questa è la soluzione adottata dai sistemi sanitari più avanzati a livello internazionale ed ha dimostrato di essere ottima per una efficienza globale del sistema ospedaliero. Con una rete diagnostica territoriale e la riduzione drastica della degenza media, il problema delle liste d’attesa per esami e ricoveri si annullerebbe automaticamente.

La liste d’attesa sono un problema quasi ovunque e non credo siano influenzate dalla Spending Review. Stiamo parlando di riorganizzare e razionalizzazione un sistema complesso, in fase di profonda trasformazione in tutto il mondo. Bisogna anche sottolineare che questa trasformazione è difficoltosa, ma estremamente positiva per i malati e i loro familiari. Il principio fondante della concezione di ospedale moderno è infatti, accanto all’eccellenza della cura, l’ attenzione alla qualità di vita della persona, un parametro fino a ieri inesistente nella progettazione ospedaliera. Certo, la soluzione strutturale profonda ai problemi sanitari richiede un investimento pubblico che in questo momento sembra un’utopia. Al contrario, proprio ora, io credo che sia un dovere investire nel rilancio dei lavori pubblici - in particolare in un’area strategica come la sanità che possono fare da volano a molti settori e contribuire a ridarci il bene più prezioso che la temporanea situazione di crisi ci ha sottratto : la fiducia nel futuro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10388
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 29, 2012, 04:50:33 pm »

29/8/2012

La rivincita del progresso sull'ideologia

UMBERTO VERONESI

La sentenza della Corte di Strasburgo è per il nostro Paese una rivincita culturale ed etica molto significativa. Il referendum che nel 2004 avrebbe dovuto sondare l’opinione degli italiani circa 4 punti della legge 40, fra cui quello relativo al divieto di diagnosi reimpianto, è stato uno sforzo purtroppo inutile, perché la forte spinta ideologica all’astensionismo ha impedito di capire il reale pensiero dei cittadini.

A noi promotori sembrava naturale mettere a disposizione della società una grande conquista della scienza, che permette a chi è portatore di una malattia ereditaria di non trasmetterla ai propri figli. Va sottolineato che, sia dal punto di vista medico che logico, la diagnosi preimpianto non è altro che l’anticipazione di quella diagnosi prenatale che viene effettuata frequentemente in gravidanza. Ora, in base alla legge italiana è possibile verificare la salute del feto nell’utero della madre, ma non quella dell’embrione nella provetta. Inoltre, la legge 194 dice che, in presenza di malattie genetiche, è possibile interrompere la gravidanza ricorrendo all’aborto. Ma poiché esistono le tecniche di diagnosi embrionale, perché dover aspettare la formazione del feto? Perché ricorrere a un aborto, più traumatico per la donna, quando basta decidere di non impiantare l’embrione che presenta un danno genetico? Questi danni, all’origine di malattie molto gravi - come la fibrosi cistica, di cui i due italiani che hanno fatto ricorso a Strasburgo sono portatori sani -, sono purtroppo molto frequenti, e il fatto che lo studio del Dna permetta di sapere, prima dell’impianto nell’utero della madre, se l’embrione presenta geni alterati oppure no, è un progresso che nessuna ideologia e nessuna religione possono negare. L’azione stessa della medicina oggi è sempre più un’azione predittiva. La decodifica del Dna ci ha permesso di risalire sempre più indietro nei processi di origine e sviluppo delle malattie e di poter intervenire prima che la patologia si manifesti. Addirittura prima della nascita, appunto.

Per fortuna in Italia accade sempre più spesso che la magistratura corregga con le sue sentenze le incongruenze del Parlamento e interpreti più fedelmente i bisogni e il pensiero dei cittadini. E’ curioso come i quattro divieti, oggetto del referendum del 2004, siano stati di fatto sorpassati dai ricorsi dei cittadini e dai giudizi delle Corti. Segno che, indipendentemente dalla politica, progresso e Diritto proseguono insieme sulla stessa via.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10468
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« Risposta #41 inserito:: Settembre 04, 2012, 11:00:37 am »

IL COMMENTO

Quel no alla medicina che fa soffrire

di UMBERTO VERONESI

Di fronte al mistero e la dignità della morte di un uomo straordinario come il Cardinal Martini potremmo tacere e meditare. Oppure, pensando alla sua figura pubblica, che rimarrà un punto di riferimento per il pensiero moderno, forse invece dovremmo riflettere sulla lezione illuminata che ha voluto lasciarci anche nella sua ora suprema. Martini incarnava la Chiesa ecumenica, aperta al dialogo sia con le altre religioni che con il mondo laico. Martini si è costantemente impegnato a trovare i punti di incontro fra pensiero laico e pensiero cattolico ed ha identificato, fra questi, la situazione che lui stesso ha vissuto nei suoi ultimi giorni: quando una medicina tecnologica che cura di più, ma di più non sa guarire, si ostina (qualcuno dice "si accanisce") a intervenire con trattamenti che non hanno altro effetto se non prolungare una sofferenza e un'esistenza che non è più definibile come vita. In questo momento, ha dichiarato e scritto Martini, è lecito per ogni uomo, credente o non credente, rifiutare le cure eccessive. Così ha fatto quando è toccato a lui decidere, con coerenza, e con quel coraggio che viene dalla forza e dalla libertà del pensiero. Io, laico e non credente, avendo avuto la fortuna di confrontarmi con lui molte volte su questo ed altri temi di scienza e fede, so bene che non è mai stato facile difendere questa sua convinzione.

Certo, aveva dalla sua Giovanni Paolo II secondo il quale "quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia... ma esprime l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte". Ed anche filosofi cattolici di grande levatura, come Giovanni Reale. Ma una parte della sua Chiesa ha visto questa accettazione piuttosto come una crepa nel principio incrollabile della sacralità della vita, in base al quale la vita umana è dono e proprietà esclusiva di Dio e solo Dio può decidere come darla e come toglierla.

Martini ha risolto questo dilemma facendo appello a due pilastri del pensiero cristiano: la dignità e l'amore per l'uomo. "Non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate". La dignità. "Questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni. Anzi, è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina". L'amore. Non un sentimento retorico e universale, ma, al contrario, un amore molto concreto e personalizzato, come quello che la medicina esprime con le cure palliative, di cui Martini è stato un forte sostenitore.

Il termine "palliativo" deriva da Pallium, che significa mantello e la palliazione ha il senso di avvolgere amorevolmente il malato, per proteggerlo dal dolore fisico che può annullare, appunto, la sua dignità. "Forse sarebbe più corretto parlare non di "sospensione dei trattamenti" ma di "limitazione dei trattamenti". Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche", ha scritto Martini recentemente. Nella dignità di ogni uomo e nell'amore per i più deboli, i sofferenti e i morenti, pensiero laico e cattolico possono trovare un terreno comune di intesa e insieme ricondurci a quell'accettazione della morte di cui parla papa Giovanni Paolo II: un evento naturale, parte di un ciclo biologico, che è oggi un valore perduto. Credo che, dopo averci insegnato molto sul significato della vita, il Cardinal Martini abbia voluto insegnarci molto anche sul significato della morte.

(01 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/09/01/news/veronesi_martini_accanimento-41798599/?ref=HRER3-1
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 23, 2012, 06:10:13 pm »

Editoriali
23/10/2012

Tumori, la strada per prevenire

Umberto Veronesi


I dati sulla mortalità nella provincia di Taranto diffusi dal ministero della Salute ci impongono una riflessione approfondita, al di là della situazione di drammatica emergenza.

La gravità del problema tumore emerge in maniera così evidente da non richiedere quasi sottolineature. Ci sono tuttavia due aspetti che meritano di essere evidenziati. 

Innanzitutto dovremmo ragionare sui numeri assoluti perché le percentuali - pur chiare e significative - fotografano soltanto una parte della questione. Dall’analisi dei numeri assoluti si può invece definire con maggiore precisione il livello di rischio per il cittadino. In secondo luogo bisognerebbe sforzarsi di non concentrare l’attenzione sui dati della mortalità, anche se sono quelli che ci choccano di piu’ . E’ invece il numero di nuovi casi in un anno, che chiamiamo incidenza, ovvero la frequenza con cui ci si ammala in una determinata zona, il fattore su cui concentrare l’attenzione, perché è dall’esame di questo aspetto che possono nascere le strategie per una migliore prevenzione e una più efficace cura dei tumori.

Dal punto di vista della mortalità, l’Italia è un territorio ben controllato. A partire dai risultati delle rilevazioni dell’Istat, possiamo dire di sapere molto sui diversi tipi di cancro. Ad esempio sappiamo che ci sono meno tumori nel Sud che nel Nord Italia, in misura variabile anche del 30 o 40%, mentre i valori del Centro si collocano circa a metà dei due estremi. Le cause di questa differenza sono l’alimentazione, gli stili di vita - il fumo in primis - la presenza di siti industriali. E’ stata l’analisi della mortalità, inoltre, che ha dimostrato con evidenza lampante l’emergenza mesotelioma da amianto a Casale Monferrato.

Ma ciò di cui abbiamo più bisogno è una mappa altrettanto accurata dell’incidenza dei tumori nel nostro Paese. Realizzarla oggi equivarrebbe ad avere lo strumento più utile per evitare di ritrovarci fra cinque, dieci o quindici anni con altri casi Taranto.

In realtà esistono già gli strumenti per conoscere quanto ci si ammala dei diversi tipi di cancro nelle zone d’Italia. Mi riferisco ai Registri Tumori che sono presenti nel nostro Paese, ma non in modo capillare. Circa trent’anni fa io stesso ho dato il via a questa esperienza in Lombardia e successivamente sono nati altri centri in cui gli epidemiologi raccolgono dati e li esaminano per capire la frequenza di un certo tipo di tumore nel territorio di competenza. Ci sono tumori - penso a quello al seno - che oggi hanno una mortalità molto bassa, ma una frequenza alta. Ecco allora che avere un’analisi dettagliata su quanto ci si ammala diventa fondamentale per mettere in atto la migliore soluzione possibile di diagnosi e cura: per organizzare il sistema ospedaliero, il numero di posti letto, le specializzazioni dei medici sui quali si deve poter contare. Studiando l’incidenza è possibile fornire la risposta più efficace in termini di cure, ma al tempo stesso lavorare a fondo per scoprire le cause dei tumori, che è il grande quesito irrisolto, o solo parzialmente risolto, della ricerca oncologica. Potremo infatti affermare di avere vinto la guerra contro il cancro non tanto quando lo guariremo nella maggioranza dei casi, un traguardo non troppo lontano, ma quando ne avremo capito ed eliminato le cause, per fare in modo che non ci si ammali più.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/23/cultura/opinioni/editoriali/la-strada-per-prevenire-PW2eOzrlYStFfoLD0DeUuJ/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Novembre 17, 2012, 03:20:06 pm »

Editoriali
16/11/2012 - giustizia

Perché sostengo che l’ergastolo vada abolito

Umberto Veronesi


Il dibattito sulla giustizia ci aiuta a delineare la società in cui vorremmo vivere. Per questo abbiamo voluto mettere al centro della quarta conferenza mondiale Science for Peace che si svolge oggi e domani a Milano il tema della violenza dei sistemi giudiziari nel mondo e in quest’ambito sosteniamo la campagna a favore dell’abolizione dell’ergastolo, che riteniamo una forma di pena antiscientifica e anticostituzionale. 

 

Antiscientifica perché è dimostrato che il nostro cervello ha cellule staminali che possono colmare il vuoto lasciato dalle cellule cerebrali che scompaiono; quindi, come gli altri organi del corpo, può rinnovarsi. Questo dato scientifico ha implicazioni importanti per la giustizia perché il carcerato dopo 20 anni può essere una persona diversa da quando ha commesso il reato. Inoltre l’ergastolo è anticostituzionale perché contro il principio riabilitativo della nostra Costituzione, che all’articolo 27 recita che le pene devono essere tese alla rieducazione del condannato. Ma per chi è condannato a morire in carcere, il futuro si consuma nei pochi metri della sua cella, e senza futuro non ci può essere ravvedimento.

 

Dunque l’ ergastolo non risponde al bisogno di giustizia, ma a quello di vendetta, per soddisfare la reazione istintiva ed emotiva dei cittadini. Ma non risolve il problema reale, che è quello di vivere in un Paese civile e avanzato, in cui la sicurezza individuale è tutelata da una giustizia equa. Una giustizia vendicativa e non rieducativa infatti non riduce la criminalità, è un pessimo insegnamento per i cittadini, e difficilmente porta a un miglioramento nei rapporti umani. L’abbiamo sperimentato con la pena di morte, da molti considerata una punizione esemplare per dissuadere i cittadini dall’omicidio. Ma in Italia dopo la soppressione della pena capitale si è progressivamente ridotto il numero annuale di omicidi fino al livello di 1 caso ogni 100.000 abitanti : il più basso del mondo assieme alla Finlandia. Del resto non è una novità che la violenza generi nuova violenza: è la conclusione di grandi pensatori, da Platone a Leonardo da Vinci fino a Gandhi. Oggi la ricerca scientifica avvalora le loro tesi perché gli studi antropologici e genetici confermano che l’essere umano è biologicamente portato alla non-violenza e dunque l’aggressività, nelle sue varie forme, è nella maggioranza dei casi dovuta a cause ambientali, come il disagio sociale o la povertà, o a violenze e abusi subite durante l’infanzia. Ecco allora che capire, prima di punire, diventa necessario per rimuovere le cause che sono alla radice dei conflitti e dei comportamenti criminali. L’Italia è l’unico Paese ad avere introdotto, nel ’92 l’ergastolo ostativo (il fine pena mai) per i condannati particolarmente pericolosi, come i mafiosi responsabili di omicidi. Possiamo obiettivamente affermare di avere così ridotto il potere delle mafie? Io credo di no. Allora aboliamo l’ergastolo e avviciniamoci a una giustizia che possa fare del nostro Paese un modello avanzato di civiltà.

da - http://lastampa.it/2012/11/16/cultura/opinioni/editoriali/perche-sostengo-che-l-ergastolo-vada-abolito-EKtPoFIQuU7DjQM5Chby8K/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:42:37 pm »

Editoriali
28/11/2012

Sanità, chi può dovrebbe pagare di più

Umberto Veronesi

Trovo giusto che il premier Monti si ponga il problema della sostenibilità economica del nostro Sistema sanitario nazionale, che è un fiore all’occhiello dell’Italia e una misura importante del grado di democrazia e civiltà, che fa di noi un Paese ad alto indice di sviluppo. 

 

Per questo la sanità pubblica è, a mio parere, intoccabile e di fronte alla scarsità di risorse di finanziamento, credo che dobbiamo seguire le indicazioni della nostra Costituzione. All’articolo 32 leggiamo che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’ individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Il testo è molto chiaro: la salute è un diritto di tutti, ma la gratuità è un diritto dei più poveri. Come fare ad applicare questo principio? 

 

Occorrerebbe stabilire un certo reddito-soglia: il cittadino che supera questa soglia si rivolgerà alle assicurazioni private, mentre chi è al di sotto, avrà diritto alle cure gratuite. Certo, qui si apre il dibattito su quale può essere il valore di questa soglia, e non sarà un dibattito facile, ma è importante che si introduca il principio di far uscire dal Sistema sanitario nazionale le fasce di cittadini a maggior reddito. Ciò che, io credo, va assolutamente evitato è l’innalzamento del costo dei ticket perché sarebbe una specie di tassa sulla malattia: più sono malato, più ho bisogno di prestazioni e dunque più pago. Io credo invece che in una società equa debba pagare di più chi è più ricco e può permettersi di farlo.

 

Sono comunque d’accordo con Monti che occorre allo stesso tempo trovare nuovi modelli di organizzazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie. Per esempio il sistema ospedaliero va razionalizzato, con un numero ridotto di ospedali altamente tecnologizzati ed efficienti e una rete diagnostica capillare. Da Ministro della Sanità avevo preparato un progetto di rinnovamento dell’ospedale italiano insieme a Renzo Piano, che però nessun governo ha mai tirato fuori dal cassetto.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/sanita-chi-puo-dovrebbe-pagare-di-piu-tM3AYaEcm5cgoZINtpvnqL/pagina.html
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