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Autore Discussione: UMBERTO VERONESI.  (Letto 39630 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Febbraio 25, 2009, 10:09:28 am »

IL CASO

Quella scienza per la pace e i diritti scomodi

di UMBERTO VERONESI


L'ANNUNCIO, ieri a Milano, della nascita in Italia del movimento internazionale "Science for peace ", che ho creato insieme a oltre 20 premi Nobel e molte figure rilevanti della cultura mondiale, ha suscitato allo stesso tempo interesse e stupore.

Pensiamo che il tema della pace debba urgentemente essere riportato al centro del dibattito civile; volgiamo creare una cultura di tolleranza e nonviolenza; chiediamo la progressiva riduzione degli armamenti per destinare parte degli investimenti alle urgenze : nuovi ospedali, scuola, ricerca scientifica. Ma perché gli scienziati si devono occupare della pace, e perché devono farlo proprio adesso, per iniziativa di un medico oncologo? Innanzitutto perché il medico è vicino ai bisogni della gente e sa che la gente, come prima cosa, non vuole il dolore. E la guerra è il più grande dei dolori. Il medico è pacifista per natura perché ha fatto sua la dura missione di curare le malattie che ci affliggono e dunque non riesce ad accettare le ferite, gli scempi, le epidemie e le enormi sofferenze che potremmo evitare se cancellassimo la guerra.

Ora questo bisogno di sfuggire alla sofferenza evitabile è reso più forte dalla situazione di crisi mondiale che agita, anche nelle popolazioni occidentali cresciute nel benessere, lo spettro della povertà. La crisi richiede delle risorse aggiuntive per le urgenze sociali, e dove possiamo ricavarle se non dalle spese militari che assorbono fondi molto elevati? E' assurdo che non riusciamo più a mantenere le nostre famiglie, che gli ospedali non vengano ristrutturati, che l'accesso alle cure adeguate non sia garantito a tutti, che la ricerca scientifica, che potrebbe dare una nuova spinta al benessere, languisca nei laboratori deserti, per avere più carrarmati lucidi e splendenti e costosissimi aerei supersonici, che, siamo convinti, non utilizzeremo mai.

Al di là di questo momento drammatico, la scienza, che dissemina ovunque il pensiero razionale, ha da sempre una funzione civilizzatrice e pacificatrice e può fare molto per la pace. Oggi i tipi di conflitti mondiali che si prospettano sono quello atomico, che al momento sembra un'ipotesi lontana, e quello terroristico. Ebbene, la funzione del pensiero razionale nel combattere il terrorismo è molto significativa, così come lo sono tutte le forme di pensiero e di arte. Per esempio sono convinto che la musica di Barenboim ha avuto un ruolo nella composizione del conflitto fra israeliani e palestinesi. La scienza, così come la musica, rifiuta il principio esasperato dell'identità nazionale o della razza. Anzi, come ha dimostrato il genetista di fama mondiale Luca Cavalli Sforza, la razza dal punto di vista genetico non esiste proprio.

Per questo con la diffusione del pensiero scientifico abbiamo assistito ovunque alla promozione della tolleranza e alla riduzione della violenza. Come disse Benedetto Croce "La violenza non è forza, ma debolezza , né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla". Gli ultimi 60 anni di assenza di grandi conflitti mondiali sono stati teatro di avanzamenti scientifici e tecnologici senza precedenti , ma soprattutto di avanzamenti in civiltà , di cui l'abbandono della pena di morte in 62 Paesi è solo un esempio. Viceversa i conflitti di ogni tipo hanno creato disordine, regressione civile e arresto della crescita e del benessere. Viviamo in una società pluralistica multietnica, multiconfessinale e l'Italia di questi giorni percorsa da conflitti etici e da episodi di intolleranza, che minacciano la libertà dei cittadini, è un esempio della nuova realtà che dobbiamo imparare a capire per non esserne travolti. La pace non è solo assenza di guerra ma è composizione pacifica delle conflittualità.

La sostituzione di una cultura di pace ad una cultura di guerra non è impensabile ed è questa la finalità di "Science for peace".

(25 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 25, 2009, 11:31:20 pm »

Slitta l'esame del testo in commissione Sanità

Finocchiaro: "Non stiamo facendo ostruzionismo"

Veronesi al Pd: "Questa legge è una resa"

Pdl, i dubbi di 53 parlamentari

 
ROMA - Sempre più alta la tensione intorno al testamento biologico. Sia in commissione che all'interno di maggioranza e opposizione. Nonostante i tentativi di circoscrivere la diversità di opinione nel perimetro della libertà di coscienza, nel Pd che si avvertono le fibrillazioni maggiori. Ma anche nel Pdl si fanno sentire, sempre più forti, le perplessità di chi comincia a nutrire dubbi sul testo del ddl Calabrò.

Micromega. Oggi Umberto Veronesi, Stefano Rodotà, Andrea Camilleri e Stefano Rodotà, Paolo Flores d'Arcais, in una lettera pubblicata su Micromega si rivolgono al segretario del Pd Dario Franceschini. E lo fanno con toni duri. "La proposta del Pd sulla legge "fine-vita" non sono una mediazione, ma una resa" scrivo i quattro. Che definiscono "anticostituzionale e disumana" la proposta del governo. Ma i quattro puntando il dito anche contro le divisioni tra i democratici. "Gli emendamenti proposti dal suo partito lasciano intatta la violenza di alcuni articoli" continuano. Definendo "indistinguibile" dal disegno di legge della maggioranza la proposta di mediazione di Francesco Rutelli. Per la pattuglia di Micromega il Pd dovrebnn epuntare sulla legge firmata da Ignazio Marino: "Ogni passo indietro rispetto a tale proposta sarebbe una rinuncia pura e semplice ai diritti elementari sanciti dalla Costituzione, dalla convenzione di Oviedo, dalle sentenze della Cassazione". Nel mirono anche la scelta dei democratici di lasciare "libertà di coscienza" ai parlamentari al momento del voto. "Se venisse presentato un disegno di legge che stabilisce la religione cattolica come religione di Stato, proibisce il culto ai protestanti valdesi e obbliga gli ebrei a battezzare i propri figli, sarebbe pensabile lasciare i propri parlamentari liberi di "votare secondo coscienza", a favore, contro, astenendosi? O non sarebbe un elementare dovere, vincolante, opporsi a una legge tanto liberticida?".

E così, dopo la scelta di Rutelli e dei teodem di smarcarsi dal testo del Pd e di presentare emendamenti propri, dopo il tentativo di gettare acqua sul fuoco di Franceschini, dopo i malumori sul web di molti elettori o simpatizzanti del Pd, la lettera di Micromega alza il tono della polemica. E riceve, a stretto giro di posta, secche repliche. "Nessuna resa" sostiene il senatore Stefano Ceccanti.

Divisioni nel Pdl. E' un fatto che le firme dei 53 parlamenti del Pdl che chiedono "di avvicinare l'articolato alle intenzioni di chi ha affermato di volere una legge pro vita", aprano un fronte di dissidenza esplicita anche nella maggioranza. Sulla scia del dissenso già espresso da Beppe Pisanu. Non a caso oggi è andato in scena un vertice tra Gianni letta, la sottosegretaria al Welfare Eugenia Roccella, il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello e Calabrò. "Non ci sono verifiche ma soltanto un normale e fisiologico riunirsi a discutere'' minimizza Maurizio Gasparri. Sarà, ma intanto il senatore del Pdl Antonio Paravia annuncia: "Non voto il ddl calabrò". Mentre Benedetto Della Vedova, presidente dei Riformatori liberali avverte: "In quel testo troppe contraddizioni".

Scontro in commissione Sanità. Nel frattempo, in commissione Sanità, il confronto tra maggioranza e opposizione si fa sempre più aspro. Si registra, infatti, un nuovo stop all'iter del ddl Calabrò. La commissione Affari Costituzionali del Senato avrebbe dovuto dare il loro parere sul testo e gli emendamenti questo pomeriggio. Ma sono stati sollevati dubbi di costituzionalità non solo dall'opposizione ma anche da una parte della maggioranza. Motivo per cui la decisione sul parere slitta al pomeriggio di martedì prossimo. "Il Pd ha cominciato a fare ostruzionismo" tuona il Pdl. Ma i demcoratici non ci stanno. "Non è così - ribatte Anna Finocchiaro - sentiamo solo la necessità, il bisogno, il dovere e il diritto di discutere un testo che riguarda una materia così impegnativa".

Stando così le cose non si potranno votare gli emendamenti prima di martedì pomeriggio". Per questo il calendario dei lavori della commissione ha subito una forte accelerazione, prevedendo sedute-fiume anche in notturna, da stasera fino a lunedì. E sull'ipotesi di approdare in Aula il 5 marzo senza un testo votato ma solo con il testo base di Calabrò il presidente della commissione sanità del Senato Antonio Tomassini, replica: "Più che un rischio è una grande opportunità".

(25 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 18, 2009, 06:23:26 pm »

INTERVISTA A UMBERTO VERONESI

«Vi spiego il confine tra vita e morte»

Una dieta rigorosa e il movimento donano longevità

La scienza può portare a 120 anni, ma morire è un diritto


Alessandro Cecchi Paone per il Magazine

 
Al Senato si discute in questi giorni la controversa legge sul testamento biologico che, dopo le polemiche sul caso Englaro, dovrebbe regolare la zona grigia di sofferenza in cui si trovano centinaia di italiani in stato vegetativo. In questa intervista destinata alla tv, il professor Umberto Veronesi difende la piena libertà di scelta e di coscienza dell’individuo.

Il professor Umberto Veronesi è appena tornato da un viaggio lampo negli Stati Uniti per un congresso internazionale di oncologia.
Lei è vicino agli 85 anni, ma non sta fermo un minuto. Quando non è in viaggio in Italia e all’estero, al mattino opera i suoi pazienti dell’Istituto Europeo di Oncologia che dirige a Milano, all’ora di pranzo riceve i collaboratori della Fondazione che porta il suo nome, il pomeriggio visita, la sera va al cinema che è una sua grande passione. C’è un segreto?
«A parte una buona eredità genetica, che non è merito mio, sono certo che molto dipenda dalla vita regolare che faccio da sempre e dalla dieta che ho adottato. E poi dalla passione per quel che faccio che mi dà una spinta continua, alimentando motivazioni sempre nuove per restare attivo».

In che consiste questa dieta miracolosa?
«Non è miracolosa, ma molto rigorosa. Tanta frutta fresca, verdura e legumi, un po’ di pesce ogni tanto, mai carne».

Perché ce l’ha tanto con la carne?
«Per motivi morali da un lato e igienico-sanitari dall’altro. Sono cresciuto in una cascina contadina nelle campagne intorno a Milano, in mezzo ai vitellini, agli agnelli, ai maialini, imparando che ti riconoscono, si affezionano, e così decisi molto presto che non avrei mai potuto mangiarli. Ma c’è anche una ragione umanitaria, maturata più tardi: per allevare gli animali necessari ad alimentare la dieta carnivora che prevale nei paesi ricchi sono necessarie gigantesche quantità di cereali, acqua e terreni, che vengono sottratte a quel miliardo di persone nel mondo che muoiono di fame e di sete. E poi c’è il ruolo della carne, soprattutto se carbonizzata in superficie, nella genesi del tumore del colon e in generale nelle patologie del metabolismo legate all’iperalimentazione».

Nel suo studio all’Istituto c’è una bicicletta da corsa. Vuol dire che anche in età avanzata bisogna fare molto sport?
«No, non molto, poco ma ben fatto, senza forzare e rischiare traumi. Fa bene stare sempre in movimento, camminare, non impigrirsi. Anche per questo dormo poco, quel che basta per ricaricarmi».

Non sarà che continua a fare così tante cose anche perché pure lei ha paura di morire, come tutti?
«Come a tutti anche a me non piace l’idea di dover morire. Ma fin da bambino con la morte ho fatto i conti prima degli altri. Mio padre è morto che ero molto piccolo, da giovane partigiano antifascista sono rimasto ferito in azione, la scelta di diventare oncologo mi ha costretto, all’inizio della mia vita di medico, a occuparmi soprattutto di malati terminali senza speranza».

Come l’hanno cambiata quelle esperienze così dolorose?
«Da una lato mi hanno indotto a fare di tutto, a impegnarmi al massimo. Perché il cancro non fosse più necessariamente sinonimo di morte sicura. Dall’altro mi hanno fatto capire che la morte si può allontanare ma non evitare. Anzi, che morire è anche un dovere».

Come sarebbe a dire un dovere?
«Sì, anche un dovere. Prima o poi, dobbiamo lasciare a chi viene dopo di noi lo spazio, le risorse per svilupparsi liberamente. In natura la morte è una necessità per preservare il ciclo vitale da cui dipendono tutti gli esseri viventi. Diciamo che la morte è un fatto naturale che dobbiamo accettare».

Lei ha curato migliaia di pazienti, moltissimi sono guariti, altri, in attesa delle terapie definitive capaci di sconfiggere tutti i tipi di tumori, sono morti, purtroppo. Tra questi ultimi chi ha affrontato meglio quella che lei chiama un fatto naturale?
«Sembra paradossale, ma ho visto morire meglio, più serenamente i non credenti, probabilmente perché si preparano all’eventualità per tempo, ci pensano quando impostano il loro progetto di vita sapendo che non avrà sviluppi ulteriori dopo la fine. Applicano una sorta di laicismo stoico. Paradossalmente, invece, molti credenti ci arrivano più spaventati, non so perché».

Secondo lei, però, morire non è solo un dovere ma anche un diritto, visto che per primo ha avviato in Italia il dibattito sul testamento biologico.
«Certo! Morire è un dovere biologico, nel senso che abbiamo detto prima, ma anche un diritto etico. La libertà dell’individuo, del cittadino, deve riguardare non solo il suo progetto di vita, ma anche il suo progetto di morte. Deve essere riconosciuta a tutti la libertà di scelta e di coscienza anche in questo. La scienza e le tecnologie della medicina non possono evitare la morte ma possono allungare la vita anche per decenni. È giusto riconoscere a chi lo vuole il diritto ad andare avanti senza limiti prevedibili, ma anche a chi la vede diversamente di chiedere di evitare o sospendere inutili accanimenti».

Ma secondo lei quando è che ci si trova di fronte a un accanimento, all’inutilità degli sforzi per il mantenimento in vita?
«Quando ci si trova di fronte allo stato vegetativo permanente diagnosticato a livello neurologico. Insomma, quando muore il cervello, come verificabile dopo almeno un anno di osservazione clinica e di esami elettroencefalici. È una fase in cui gli organi continuano a funzionare, ma la persona non è più viva, non ha coscienza, percezioni, nemmeno sofferenza. Proprio come in una pianta».

Dunque, contrariamente a quello che molti ancora pensano, secondo lei la vita di un uomo ha sede nel cervello e non nel cuore.
«Certamente! La stessa disciplina dei trapianti si basa sulla differenza fra morte cardiaca e morte cerebrale. Quando un organo viene espiantato il corpo può essere ancora caldo, fisicamente vitale, ma la persona è morta, il cervello non funziona più, non riceve né trasmette più sensazioni o pensieri. Quel che conta a quel punto è che una morte si trasforma nella salvezza di un’altra vita».

Ma è sempre tutto così chiaro, sicuro?
«Nel caso dei trapianti sì. Il testamento biologico deve invece tenere conto di alcuni casi intermedi, in cui il cervello mantiene il barlume di alcune funzioni, oppure negli stati cosiddetti locked, in cui un essere umano si ritrova incarcerato nel suo stesso corpo. Sono aspetti in cui le disposizioni date liberamente in vita e in piena coscienza diventano ancora più importanti».

Lei ha detto che la scienza medica non può evitare la morte ma allungare la vita sì. Che ne pensa di chi si fa congelare in attesa di nuove scoperte o di chi si fa lavare il sangue per non invecchiare?
«Che non mi posso occupare di fantascienza e di leggende metropolitane. Quanto alla depurazione del sangue la possono garantire solo fegato e reni funzionanti e in buona salute».

E invece dell’insistenza del Presidente del Consiglio Berlusconi sugli studi in corso per portare la vita umana a 120 anni?
«Che effettivamente ci si sta lavorando in varie parti del mondo e che è una prospettiva possibile. Basti pensare che in un secolo, in Italia, l’aspettativa di vita alla nascita è raddoppiata grazie ai miglioramenti nell’igiene, nell’alimentazione, nella medicina preventiva e nelle terapie, in generale alle condizioni di vita meno logoranti. È più che verosimile che con le nuove conoscenze genetiche e con le applicazioni della medicina predittiva si possa fare di meglio, ma gradualmente, generazione dopo generazione».

Dunque nessuna promessa di immortalità. Ma perché lavorare proprio sul traguardo dei 120 anni, né di più né di meno?
«Perché sappiamo che geneticamente ogni specie vivente, compresa quella umana, è programmata per una durata massima di vita che non è modificabile. Possiamo però puntare a portare progressivamente tutti più vicini a quel traguardo, correggendo le imperfezioni, riparando i danni, prevenendo e rallentando i processi di invecchiamento».

Mentre è nel pieno della battaglia sulla legge per il fine vita, lei intanto lavora anche al nuovo progetto della sua Fondazione, l'incontro mondiale Science for Peace in programma a Milano il prossimo novembre. Ma che c’entra un medico oncologo divulgatore scientifico con l’argomento principe della politica internazionale?
«La medicina contemporanea non può dimenticare la sua origine filantropica per eccellenza. Noi lavoriamo al servizio dell’uomo, per aiutarlo contro il dolore e le malattie. Ma, ancora oggi, nella maggior parte del mondo non si muore di infarto o di cancro o di incidenti stradali come nelle nazioni più ricche, ma a causa della fame, della sete e della guerra, con quest’ultima che è spesso conseguenza e sempre causa delle prime due. Ho invitato a Milano i premi Nobel e i massimi studiosi del problema per ricordare al mondo che il linguaggio della scienza è universale e pacifico; che può esprimere le soluzioni razionali dei problemi che sono alla base di molti conflitti; e deve ricordare che solo con la riduzione delle spese per gli armamenti si possono ricavare le risorse necessarie per evitare tutte quelle morti per fame, sete, malattia e violenza, che non sono affatto parte del ciclo della natura».


Alessandro Cecchi Paone

17 marzo 2009(ultima modifica: 18 marzo 2009)
da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 26, 2009, 06:42:50 pm »

Veronesi «Il referendum? Mi sembra inevitabile»


di Luca Lando'


«La volontà del malato può attendere. Lo ha deciso ieri il Senato votando l’articolo 3 del disegno di legge della maggioranza sul testamento biologico. Un voto strategico che impedisce ai medici di sospendere idratazione e alimentazione artificiali e che regala all’Italia una brutta legge. «Peggio: una legge anticostituzionale e inutile», dice Umberto Veronesi, oncologo di fama e senatore del Pd, che oggi sarà di nuovo in Aula a votare il testo finale.

«È incostituzionale perché la Carta sancisce il diritto della persona di rifiutare le cure. Ora, se i cittadini possono rifiutare di essere nutriti con un sondino, non si capisce perché non abbiano più questo diritto nel caso perdano la capacità di esprimersi. Ed è una legge inutile perché il testamento biologico è nato con un solo obiettivo: poter rifiutare la vita artificiale. Poichè alimentazione e idratazione forzata sono le condizioni indispensabili per mantenere la vita artificiale, di fatto la legge nega questa possibilità. Avremo una legge che nega l’obiettivo per cui è nata: è un’assurdità».
Quali saranno i risvolti pratici?
«Che nessuno farà il testamento biologico. Perché esprimere in anticipo le proprie volontà sapendo che saranno poi disattese? Oppure tutti faranno il testamento biologico come se la legge non esistesse, sapendo di essere protetti dalla Costituzione e dal Codice di Deontologia medica che obbliga il medico a rispettare le volontà del paziente. E succederà che molti medici faranno obiezione di coscienza per rispetto dei loro malati. Se questa legge non rispetta i diritti dei cittadini, non rispetta neppure quelli dei medici. Credo che difficilmente si potrà evitare un referendum abrogativo».

Era meglio non fare nulla?
«Senza dubbio: piuttosto che una cattiva legge è meglio nessuna legge. In realtà il testamento biologico è da considerarsi già valido nel nostro ordinamento in base, come abbiano detto, alla Costituzione, al Consenso Informato, al Codice deontologico medico e alla Convenzione di Oviedo che il nostro Paese ha ratificato. Ovviamente era auspicabile una legge perché quando esiste un diritto, ci vorrebbe anche una norma che lo tuteli. Ma questa legge invece di tutelare il diritto al rifiuto delle cure, lo cancella. Dal punto di vista dei diritti civili è un grosso passo indietro».

Torniamo all’ipotesi del referendum, non è un’arma a doppio taglio visto il precedente della legge 40?
«Più che altro mi sembra inevitabile, come ho detto prima. Ma penso che il risultato sarà molto diverso da quello sulla legge 40 perché diverso è il problema su cui i cittadini sono chiamati a esprimersi. La morte e la sua naturalità, l’invasione della medicina tecnologica nella nostra vita, riguardano veramente tutti mentre la fecondazione assistita riguarda una fascia precisa di donne o meglio di coppie. La gente non andò votare perché i quesiti erano complicatissimi e perché non sentiva il problema».

Dopo la legge 40 un’altra legge che va contro i diritti dei cittadini: che sta succedendo in Italia?
«Che c’è la tendenza a imporre delle verità di fede anche a chi la fede non ce l’ha».

È solo un problema di ingerenza vaticana o c’è anche dell’altro, ad esempio una difficoltà ad affrontare temi difficili ma importanti?
«Sicuramente esiste una difficoltà culturale di base, ma proprio per questo ci vuole ancora più apertura mentale e non chiusura ideologica. Questi temi, per complessi che siano, saranno posti sempre più di frequente alla riflessione di cittadini e politici: pensiamo alle staminali embrionali, appena “liberalizzate” da Obama. Dobbiamo prepararci perché la scienza non si ferma. Per fortuna».

Ieri si è deciso con voto segreto: è vero che si trattava di un tema personale ma i cittadini non hanno diritto di conoscere le posizioni di chi li rappresenta?
«È vero, ma il voto segreto dà qualche garanzia in più di un voto secondo coscienza, più libero dalle influenze e i ricatti degli schieramenti».

Il Pd ha lasciato libertà di coscienza: lei è d’accordo o si è trattato di un modo per non affrontare il problema?
«Evitare il problema direi di no. Ci sono aspetti positivi e negativi: da un lato trovo giusto che un partito lasci libertà di coscienza e rappresenti una pluralità di idee, dall’altro le lacerazioni che sono emerse non sono certo rassicuranti».

Lei è sempre stato un convinto sostenitore della forza della ragione: lo è ancora dopo quanto accaduto?
«Legge o non legge, la gente non rinuncerà al diritto di vedere le proprie volontà rispettate. Il movimento intellettuale a favore del testamento biologico non è un fenomeno italiano, è mondiale e non si fermerà. Anche per questo invito tutti i cittadini a sottoscrivere il proprio testamento biologico, come ho fatto io, affidandolo a un fiduciario e se possibile depositandolo da un notaio, prima che si concluda l’iter di approvazione di questa legge. È un documento semplice, il modello si può trovare su internet, per esempio su You Tube, o sul sito della mia Fondazione».

26 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:41:51 am »

L'INTERVISTA.

Veronesi: "Non ho voluto assistere a quel voto ma conto di poter ancora dare un qualche apporto"

"Che delusione il Parlamento calpesta i diritti scritti nella Carta"

di CARMELO LOPAPA


 ROMA - Professore Umberto Veronesi, la sua assenza al Senato nel giorno cruciale sul testamento non è passata inosservata.
"Un'assenza voluta, non casuale. Non ho voluto assistere impotente alla celebrazione di una legge che è antidemocratica, perché limita la libertà dei cittadini, antistorica, perché tutto il resto del mondo civile va in direzione opposta, infine incostituzionale, perché calpesta il diritto di decidere della propria vita. Hanno approvato una legge contro il testamento biologico".

Eppure fino a qualche giorno fa lei era in aula, è intervenuto, si è infervorato.
"Sì, ma mi sono reso conto di essere vox clamans nel deserto. Sono un po' deluso, ero entrato in Parlamento con la speranza di dare il mio contributo anche in forza dell'esperienza di una vita, trascorsa al fianco di chi soffre e muore. Quando mi dicono "che ci rimani a fare al Senato", qualche dubbio in effetti mi viene. Ma resto fiducioso e conto di dare ancora qualche apporto. Anche se l'impressione che ho avuto, nei tre giorni di sofferenza che mi sono imposto in aula, è stata che la legge fosse completamente blindata".

In effetti, non siete riusciti a far passare alcun emendamento.
"Ci misuriamo con quella che Cavour, 150 anni fa, chiamava una dittatura parlamentare. Se la maggioranza si blinda e non accetta alcuno degli emendamenti della minoranza, allora il Parlamento perde gran parte della sua funzione".

La soddisfa la linea tenuta dal suo gruppo, il Pd, in tutta questa partita? In ultimo due senatori hanno votato a favore.
"Non sono iscritto ad alcun partito, la mia libertà di pensiero mi impedisce di esserlo. E non mi iscriverò al Pd. Ho accettato di aderire al gruppo perché sono nato e cresciuto e morirò di sinistra, dalla parte dei poveri, degli ultimi. Resto al gruppo, almeno per adesso".

Detto questo, i cattolici che si sono distinti dal resto del Pd?
"Hanno seguito le proprie inclinazioni. È giusto che in Parlamento si possa discutere, non mi scandalizza il dibattito interno al Pd. Piuttosto la chiusura della maggioranza".

Da laico lamenta invece l'ingerenza della Chiesa.
"Da uomo di scienza, piuttosto. Il termine bioetica era nato perché, come sosteneva il suo inventore, Von Potter, l'etica medica deve ispirarsi alla natura e deve trattenersi dall'invadere e abbattere i limiti naturali della vita. Era un presupposto accettato anche dalla Chiesa, che oggi invece smentisce se stessa plaudendo a una legge che va contro la morte naturale".

E adesso? Referendum?
"Intanto, penso che il presidente della Repubblica avrà qualche dubbio sulla costituzionalità della norma. L'autodeterminazione è alla base della Costituzione. Ma penso che anche la Corte costituzionale avrà dei rilievi. Certo, il referendum resta l'ultima spiaggia. A me sembra più utile e pratico seguire un'altra via, nell'immediato".

Quale?
"Lancio un vero appello agli italiani. Scrivete il vostro testamento biologico prima che questa legge che lo vanifica entri in vigore. Depositatelo dal medico o da un avvocato o da un notaio, nominando un fiduciario. All'occorrenza, un buon magistrato potrà farlo valere. E i medici, com'è loro dovere deontologico, potrebbero decidere di dar seguito alla volontà del paziente. Io l'ho fatto. Avrà un senso se lo faremo in tanti".

(27 marzo 2009)
DA repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Aprile 24, 2009, 10:34:51 am »

SU OKSALUTE

Cari lettori: «Questo è il mio testamento biologico»

Il professor Umberto Veronesi rende pubbliche le volontà che depositerà presso un notaio


Ho scritto di mio pugno il mio testamento biologico un anno fa per tre motivi: le mie note convinzioni sulla libertà di disporre della propria vita, l’amore profondo per i miei familiari, che non voglio siano mai straziati dal dubbio sul che fare della mia esistenza, e la fiducia e il rispetto per i medici che si prenderanno cura di me.

So infatti, per esperienza personale, che per un medico oggi è fondamentale conoscere le decisioni del paziente, per poter curare in base alla concezione moderna della medicina, non più paternalistica ma condivisa, e per poter applicare il codice deontologico, che indica molto chiaramente come la volontà del malato vada sempre rispettata.

Il medico oggi è un custode non solo della salute, ma anche dei diritti del malato; un depositario, quindi, prima di tutto, di alti doveri morali. Per questo sono convinto che, anche se verrà approvata questa legge che calpesta e nega la volontà della persona, i medici italiani non la applicheranno e resteranno invece fedeli al rapporto con il loro malato, la cosiddetta alleanza terapeutica.

Faccio un appello a tutti i cittadini che, come me, rifiutano la vita artificiale, perché scrivano il loro testamento biologico, essendo fiduciosi nella protezione dei loro diritti da parte dei medici e della Costituzione italiana, che stabilisce per legge la libertà e il diritto di rifiutare le cure.

Ecco il mio.

«Io sottoscritto Umberto Veronesi, nato a Milano il 28 novembre 1925, nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno (nutrizione e idratazione). Nomino mio rappresentante fiduciario mio figlio Paolo Veronesi. Queste mie volontà dovranno essere assolutamente rispettate dai medici che si prenderanno cura di me. Una copia di queste mie volontà saranno depositate presso lo studio del notaio …, Milano».

Umberto Veronesi
22 aprile 2009(ultima modifica: 24 aprile 2009)

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« Risposta #21 inserito:: Maggio 08, 2009, 05:01:01 pm »

7/5/2009
Scrivetevi il testamento biologico
   
UMBERTO VERONESI


Lo slittamento della discussione della legge sul Testamento biologico è stato un bene per il Paese e ringrazio questo giornale per averlo sottolineato ieri, in un momento in cui il dibattito sul tema più che rimandato appare abbandonato.

Non pensino i tanti italiani che credono nella lotta a favore dei diritti fondamentali della persona e del malato - fra cui in tutto il mondo evoluto rientra quello di rifiutare le cure - che chi, come me, ha tentato di portare questo obiettivo in Parlamento, vi abbia rinunciato a causa delle fiaccolate e delle polemiche. Né temano quelli che si sono apertamente dichiarati a favore di una legge che permetta di rifiutare la vita artificiale - la maggioranza secondo tutti i sondaggi - che le loro aspettative siano state disattese e dimenticate.

In realtà più ci si allontana dall’ondata emotiva scatenata dal caso di Eluana Englaro, maggiori sono le chances che abbiamo di pervenire a una legge equilibrata e lontana dalla logica dei provvedimenti «ad personam».

Uscire dall’ossessione delle foto di Eluana nello splendore della giovinezza, dalle accuse di assassinio lanciate a un padre che ha perso la sua unica figlia, dal furore, insomma, delle immagini e delle parole, è una condizione imprescindibile per una discussione lucida e pacata su un argomento, come la vita artificiale, che ha già in sé valenze emotive molto forti. Deve invece essere chiaro che il dibattito sul testamento biologico non verte sulla visione e i misteri della vita e della morte, ma sulla libertà di autodeterminazione della persona. E lì deve ritornare.

Un pubblico complimento va dunque fatto al Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini: ha percepito che troppa commozione e troppa ideologia è stata riversata in un testo di legge e ha chiesto di rimandarne l’approvazione. Del resto, la fretta è sempre una cattiva consigliera e nessuna decisione politica andrebbe mai presa sotto la pressione dell’urgenza o degli allarmi. Tanto più che nel caso del Biotestamento non c’è nessuna fretta. Se il Paese in questo momento non è pronto culturalmente ad affrontare il tema senza cadere nelle trappole ideologiche e scadere nelle contese partitiche, meglio aspettare per evitare un danno ai cittadini.

C’è chi ha iniziato a pensare «che cosa fare», in caso di un prolungamento artificiale della vita da parte della medicina tecnologica, molto prima che accadesse l’incidente a Eluana Englaro. Abbiamo atteso fino a oggi, abbiamo fatto ricerche a livello internazionale, abbiamo studiato molti casi di persone in stato vegetativo permanente, abbiamo analizzato quasi tutti i diversi disegni di legge e dunque non c’è motivo per buttare tutto all’aria, stringendo i tempi su un processo che ha richiesto molti anni e molto impegno di tante intelligenze. Sono stato in Italia uno dei promotori del movimento civile a favore del Testamento biologico; ho partecipato, insieme con alcuni dei maggiori esperti in merito, alla stesura di quattro libri; ho lanciato, attraverso la mia Fondazione, una campagna informativa e presentato in Senato un disegno di legge. In virtù di queste esperienze ripeto che piuttosto che una cattiva legge è meglio non averne. Non esistono vincitori o vinti quando ci sono di mezzo i diritti di cittadini e malati. Questo non vuol dire sottrarsi al confronto in un dibattito che si è fortemente voluto, anzi direttamente provocato, ma ritornare all’essenza del problema: il diritto di decidere per sé, il diritto di rifiutare o accettare una vita artificiale, il diritto a vedere rispettate le proprie volontà, anche nel caso in cui non ci si potesse esprimere di persona. Il mio invito è quindi, per chi lo ritiene giusto, a scrivere il proprio testamento biologico anche in assenza di una legge specifica, nella certezza che le proprie volontà saranno tutelate dalla Costituzione che ha stabilito tali diritti per tutti gli italiani.

da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Luglio 25, 2009, 10:54:05 am »

22/7/2009 - LA POLEMICA
 
Ma io boccio la scuola che boccia
 
UMBERTO VERONESI
 
Molti di noi si sono sentiti rassicurati dalla notizia che quest’anno 15.000 studenti, 3000 in più rispetto allo scorso anno, sono stati bocciati alla maturità.

È finita, hanno pensato, l’epoca di una rete di scuola superiore dalle maglie troppo larghe, che manda all’Università studenti impreparati. Ragazzi destinati comunque ad arenarsi nel percorso di studio. Una scuola che immette nel mondo del lavoro giovani che saranno comunque rifiutati. Altri hanno visto nella bocciatura un «giro di vite», come ha scritto Marco Rossi-Doria in un intervento su La Stampa che per molti altri aspetti condivido. Oppure, ancora, c’è chi ha parlato di segnale educativo forte, «chi non si impegna fino all’ultimo, fallisce, e non ci sono eccezioni né deroghe per nessuno».

Io non la penso così. Io sono convinto che il fallimento, o la «sconfitta finale», se vogliamo, non sia dei ragazzi bocciati, ma della scuola, intesa come sistema formativo ed educativo nel suo insieme. Credo che non dovrebbe succedere che solo alla fine della fase fondamentale del cammino scolastico ci si renda conto che uno studente non è idoneo a proseguire, o ad accedere a una professione. Penso che sia un segnale preoccupante, che può indicare che la nostra scuola non è in grado di capire e interessare i nostri ragazzi, e deve ricorrere a strumenti di autoritarismo obsoleto per stimolare un percorso di crescita.

L’istruzione è un diritto-dovere sancito dalla nostra Costituzione, ma il suo obiettivo è formare dei cittadini, non trasferire una cultura nozionistica e poi misurarla rigidamente. La scuola dovrebbe essere l’ambiente privilegiato per motivare i giovani alla vita e fornire loro gli antidoti contro le fughe dalla realtà e il rifiuto del mondo adulto. Dovrebbe essere luogo di studio, certo, ma anche di sport, musica, teatro, laboratori scientifici e sperimentazioni culturali. In scienza, per parlare di un settore che conosco profondamente, la scuola dovrebbe essere in grado di stimolare la curiosità e la creatività. Nel mondo di domani, ciò che conterà non sono gli strumenti di cui disporremo, ma le idee che avremo, vale a dire la capacità innovativa e creativa. Due doti che la scuola attualmente non incentiva e non valuta. Sono convinto che la punizione (quale di fatto è la bocciatura alla maturità) non serva alla maturazione di un diciottenne. Servirebbe invece che la scuola fosse un luogo di formazione di una coscienza individuale, ruolo oggi giocato prevalentemente dalla tv e da Internet. Senza coscienza personale non c’è libertà di pensiero e senza libertà non c’è creatività e non c’è innovazione. Non stupiamoci più di tanto allora, se i giovanissimi bevono alcol, fumano sigarette e spinelli, insomma cercano evasioni e trasgressioni. Cosa proponiamo noi adulti di più interessante? Solo punizioni e divieti che li allontanano sempre più da noi, senza riempire in alcun modo il vuoto che ci separa. Sono convinto che ciò che farebbe bene ai nostri ragazzi, bocciati o promossi, sono segnali forti di fiducia.

Dare fiducia ai giovani non vuol dire abolire ogni regola e non stabilire un perimetro alla loro libertà. Vuol dire invece aiutarli perché sempre più autonomamente si costruiscano un set di valori su cui basare solidamente quelle regole e quei confini. Personalmente non faccio alcuno sforzo a comportarmi così e neppure fingerei «per il loro bene». Amo profondamente i nostri ragazzi e ritengo che la nuova generazione sia straordinaria per intelligenza, apertura mentale, ricchezza di ideali e generosità. Non scoraggiamoli.
 
da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 01, 2009, 10:26:28 pm »

L'ANALISI

Arriva l'influenza A Dobbiamo avere paura?


di UMBERTO VERONESI


La pioggia di dati sull'influenza da virus H1N1, la Nuova A, che ogni giorno ci invade ormai da molti mesi è sacrosanta, ma rischia di non rispondere alla domanda della gente, che invece è una sola: dobbiamo avere paura oppure o no? Siamo di fronte ad una pandemia mortale, una peste del ventunesimo secolo, o si tratta di un'altra influenza dal nome e l'origine più fantasiosi? Io penso che il panico è da escludere, la prudenza no. Tutti i virus influenzali, quelli che definiamo "stagionali", causano una lieve mortalità, in media intorno all'1 per mille dei contagiati. Al momento questo nuovo virus non sembra discostarsi sostanzialmente da questa percentuale, anche se dobbiamo tenere conto che, in caso di dati mondiali, i numeri relativi ai contagi sono di difficile interpretazione, perché in molti Paesi, con strutture sanitarie meno avanzate, numerosi casi non vengono identificati e neppure segnalati.

In Italia, dove il sistema si è mosso con indubbia efficienza come nel resto d'Europa, si riportano fino ad oggi fra i 1.600 e i 1.800 contagi e nessun decesso. Siamo quindi in linea con una normale influenza, che però ha, per il resto, caratteristiche nuove. Ciò che possiamo infatti dedurre con ragionevole certezza dai dati internazionali sono il tipo di virus e le sue tendenze di diffusione.

Prima di tutto va precisato che le notizie dall'emisfero australe, che sta aprendo la stagione influenzale con il "doppio virus" (quello stagionale e la nuova A) sono rassicuranti perché il virus ad oggi non è mutato, cioè nel moltiplicarsi non è diventato più pericoloso per la salute rispetto all'esordio. La malattia ha mostrato due caratteristiche: una grande velocità di contagio e una "predilezione" per i più giovani, tratto che la rende peculiare rispetto alle altre forme e che ha messo in speciale allarme i pediatri. Va detto anche che non appare fra le sue caratteristiche la gravità: la regola è la guarigione, non le complicanze e tantomeno la morte. Alvaro Ulribe, presidente della Colombia, ha appena annunciato, senza problemi di "immagine", di essere stato contagiato e lo staff si è dichiarato per nulla preoccupato perché la malattia è stata da subito sotto controllo. Si è ammalato anche Raffael Correa, presidente dell'Ecuador, ed già è guarito Oscar Arisa Sanchez, presidente del Costarica. Del resto la terapia è disponibile, per tutti: si tratta di antivirali già presenti sul mercato. Che fare però per evitare di ammalarsi? Il periodo di diffusione durerà molti mesi e dunque mi sembra inutile spostare l'inizio della scuola, come è stato proposto in Italia, perché significherebbe perdere l'anno scolastico. Così come non appare pensabile rimandare i viaggi all'estero perché i flussi di spostamento della popolazione, soprattutto i giovani, da un Paese all'altro ormai sono continui e inarrestabili. Non serve quindi stravolgere le proprie abitudini di vita e farsi ossessionare dall'incubo del contagio.

È più utile prestare attenzione particolare ai sintomi tipici influenzali e segnalarli subito al proprio medico, oltre che seguire le norme igieniche preventive che si applicano a tutti i contagi. Penso che in realtà dobbiamo tutti abituarci gradualmente all'idea che paradossalmente sulla diffusione dei nuovi virus il mondo moderno appare più fragile del mondo antico.

Nell'era della globalizzazione, come accennavo, non ci sono più, a farci da barriera, gli oceani e le grandi distanze via terra. E anche il concetto di "cordone sanitario" si è di conseguenza, indebolito: l'allarme si diffonde più tardi rispetto alla velocità dei viaggi e il gran numero di viaggiatori nel mondo. Esiste, dall'altra parte, un "sistema di salvataggio" (controlli, terapie, vaccini) più efficiente, che rischia di incepparsi, però, se la popolazione non segue razionalmente le raccomandazione di comportamento, perdendosi nelle proprie ansie. Nel caso di un nuovo allarme di malattia, l'emotività può creare fragilità nelle strutture sanitarie e indurle ad adottare misure sproporzionate, con l'obiettivo di debellare più la paura che il virus. Questo è il rischio che possiamo e dobbiamo evitare.

(1 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Novembre 03, 2009, 09:54:22 am »

3/11/2009

Niente panico: il virus è raramente letale
   
UMBERTO VERONESI


Esiste una via di mezzo fra psicosi e superficialità nell’affrontare il caso della nuova influenza A. E’ quella della razionalità. I dati scientifici in tutto il mondo ci dicono che il virus A è raramente letale.

E non è molto più aggressivo dell’influenza stagionale. Ha però delle caratteristiche peculiari: è molto contagioso e colpisce una fascia d’età nuova per una sindrome influenzale, che è quella dai 5 ai 14 anni, spesso in una forma grave che richiede il ricovero. Se stiamo agli ultimi dati ufficiali, rispetto a una media in Italia di 3,8 casi ogni 1000 abitanti, questa fascia di età ha un’incidenza di 13,02 ogni 1000 soggetti, che è effettivamente alta. Non ci sono però dati che giustifichino un allarme circa la mortalità: anche i casi di decesso in Italia come quelli nel resto del mondo, riguardano età diverse e sono per lo più legate a gravi malattie già esistenti (che vanno dalla tubercolosi polmonare, alle cardiopatie, alla broncopatia ostruttiva fino al diabete e l’obesità) o più raramente, come nel caso della signora di 46 anni di Messina, a complicanze causate dal virus. Altra informazione che la scienza ci dà è che non ci sono segni nel mondo di mutazione del virus, cioè della sua trasformazione in una forma più grave, che è il vero pericolo delle nuove pandemie. L’ultimo dato, e non certo in ordine di importanza, è che esiste un vaccino (in realtà ce ne sono diversi tipi) che ha dimostrato efficacia. Ovviamente non esiste ancora un controllo molto prolungato, cioè non sappiamo la durata della protezione nel tempo, ma sappiamo dai dati dell’altro emisfero, da cui il contagio è partito, che la vaccinazione funziona.

Dobbiamo ricordare che un vaccino è un farmaco e tutti i farmaci hanno effetti collaterali e dunque minime percentuali di rischio per la salute; ma questo vale per tutte le medicine, anche per gli antibiotici, che hanno cambiato la storia dell’uomo. E come tutti i farmaci ha dietro di sé un processo produttivo, ma questo non ci autorizza a pensare che la vaccinazione sia solo un business dell’industria farmaceutica, come qualcuno ama insinuare. E’ inevitabile che ci siano interessi economici in gioco, ma la questione centrale che fa decidere la sanità mondiale per il vaccino è la salute della gente e pensare ad una macchinazione finanziaria di dimensioni planetarie è sbagliato. Che fare allora? Di fronte a questo quadro obiettivo, il buon senso, oltre che la medicina, ci consiglia di aderire alla campagna di vaccinazione, così come è stata predisposta dal nostro governo. Il programma è di vaccinare subito i gruppi a rischio (personale sanitario, forze di pubblica sicurezza e protezione civile, donne al secondo o terzo mese di gravidanza, i malati cronici di ogni fascia di età) e poi il 40% della popolazione entro i primi mesi del 2010. Va detto che di fronte ad un nuovo virus, la medicina deve essere pronta a «navigare a vista»: se il contagio si evolve in modo inaspettato, la strategia vaccinale può cambiare e dare priorità a fasce diverse. La flessibilità e la prontezza di reazione diventano le caratteristiche più importanti della sanità di un Paese e fino ad ora mi sembra che Europa e Italia si siano comportate con efficacia.

Vaccinarsi è un atto di responsabilità individuale e civile perché, come dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una pandemia influenzale è causata da un virus che può esser del tutto nuovo nella popolazione umana e questo crea una generale vulnerabilità all’infezione. Questo significa che anche se non tutta la popolazione viene contagiata nel momento dell’infezione, quasi tutti si possono potenzialmente infettare. Il vaccino è dunque un modo, oltre che per proteggersi da un malanno comunque molto fastidioso, per contenere il più possibile la diffusione nel momento di picco: il fatto che molte persone si ammalino nello stesso periodo crea un sovraccarico per le strutture sanitarie che fanno poi fatica ad occuparsi dei casi più preoccupanti, e il suo affanno crea una situazione di panico nella popolazione. Una volta di più il mio invito è alla misura: non serve la corsa ansiosa alla vaccinazione perché non siamo in imminente pericolo di vita, ma non bisogna sottovalutare il problema. Serve seguire le norme più semplici di prevenzione senza fobie, e aderire alle campagne di vaccinazione.

da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:15:38 am »

18/11/2009 - LA PROPOSTA
 
A Internet il Nobel per la pace
 
UMBERTO VERONESI
 
Lo so: è inusuale e sorprendente proporre il Nobel per la Pace a favore di un mezzo di comunicazione di massa invece che di una o più persone.

Eppure sono convinto che chi dal futuro si volgesse a controllare i nomi dei vincitori del premio di questi anni, e trovasse Internet accanto ad Al Gore e Barack Obama, avrebbe la fotografia fedele della parte migliore della nostra epoca.

Se il Web vincesse il Nobel dimostreremmo agli osservatori futuri due cose: che avevamo capito la portata della rivoluzione globale rappresentata dalla Rete; che eravamo determinati a volgerla al miglior utilizzo nell'interesse dell'umanità intera.

Da molti anni sono convinto, e vado dicendolo e scrivendolo, che esiste una Lingua Universale capace di riuscire dove hanno fallito altri linguaggi e altre logiche nell'assicurare benessere e prosperità ai popoli e ai singoli. Ed è la Lingua Universale della Scienza. Quella che uso da oltre sessant'anni per capirmi con i miei colleghi medici e ricercatori di ogni Paese del mondo; per costruire la necessaria empatia con i miei pazienti; per spiegare i contenuti e le ragioni dei miei atti e delle mie posizioni prima di ministro poi di senatore. Ripensandoci sempre più mi accorgo che non ci sono parole migliori di quelle della scienza umana per raccontare della vita e della morte, per contenere la paura e riaccendere la speranza, per far tesoro del meglio del passato per preparare un futuro migliore per tutti.

In molti Paesi però, Italia compresa purtroppo, la Lingua della Scienza è poco conosciuta, e dunque poco utilizzata. Eppure, come tento di dimostrare da anni, è insostituibile per descrivere il mondo, la natura, il nostro modo di essere. E per poter intervenire se qualche equilibrio si rompe: si tratti del cambiamento del clima, della fame o della malattia. Forse mancava un veicolo comune e a disposizione di tutti per veicolare questa Lingua Universale per definizione.

Ora c'è e si chiama Internet.

Ora abbiamo finalmente messaggio e messaggero per realizzare una promessa mai mantenuta. Perché insieme Scienza e Internet propongono e portano la Pace.

Questo è il testo scritto dal professor Umberto Veronesi per «Wired» in occasione del numero in edicola dal 21 novembre che lancia la candidatura di Internet per il Nobel per la Pace. Un appello firmato anche da Giorgio Armani e dal Nobel Shirin Ebadi. Di pace e scienza Veronesi e alcuni premi Nobel discuteranno a Milano venerdì e sabato in occasione della conferenza mondiale «Science for Peace».

da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 05, 2010, 04:04:27 pm »

Lo scienziato Umberto Veronesi a Sky Tg24 Pomeriggio

«La religione impedisce di ragionare»

«La religione, per definizione, è integralista, mentre la scienza vive nel dubbio, nella ricerca della verità»


MILANO - La religione impedisce di ragionare mentre la scienza vive nella ricerca della verità. Sono mondi molto lontani. Umberto Veronesi, nel corso di Sky Tg24 Pomeriggio, ha spiegato i motivi che, da scienziato, lo hanno portato ad allontanarsi dalla fede. «Scienza e fede non possono andare insieme - ha affermato l' oncologo - perché la fede presuppone di credere ciecamente in qualcosa di rivelato nel passato, una specie di legenda che ancora adesso persiste, senza criticarla, senza il diritto di mettere in dubbio i misteri e dogmi che vanno accettati o, meglio, subiti».

«INTEGRALISTA» - Secondo Veronesi, infatti, la religione, per definizione, è integralista, mentre la scienza vive nel dubbio, nella ricerca della verità, nel bisogno di provare, di criticare se stessa e riprovare. In sostanza, è la sua tesi, si tratta di due mondi e concezioni del pensiero molto lontani l'uno dall'altro, che non possono essere abbracciati tutti e due. Nel corso della trasmissione l'oncologo ha poi ricordato di venire da una famiglia religiosissima, «ho recitato il rosario tutte le sere fino ai 14 anni», ma di aver deciso di allontanarsi, nei primi tempi con grande difficoltà, dopo aver esaminato a fondo tutte le religioni. «Perché - ha concluso - mi sono convinto che ogni religione esprime il bisogno di una determinata popolazione in quel momento storico». (Fonte: Ansa)


04 febbraio 2010
da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 27, 2010, 04:36:04 pm »

27/5/2010 - LA STORIA

Le mie lezioni anticancro in Madagascar
   
UMBERTO VERONESI

Il cancro è una maledizione o una punizione divina che possiamo solo accettare con rassegnazione. Noi pensavamo così non più tardi di cinquant'anni fa e oggi ne è ancora convinta la popolazione africana. Ho sperimentato come questo atteggiamento culturale sia un enorme ostacolo allo sviluppo di cure adeguate, in Madagascar, dove sono stato chiamato dal governo per mettere a punto un programma di lotta al cancro.

Come in tutti i Paesi africani, i tumori fino a poco fa erano di scarso rilievo perché la popolazione era falcidiata dalle malattie infettive, prima fra tutte la malaria, e dalla fame. Oggi in alcuni Paesi il cancro diventa più frequente e si presenta nella gravità umana e sociale che noi dei Paesi occidentali ben conosciamo. Per questo il governo di Antananarivo si è rivolto a me, sapendo l'impegno della mia Fondazione, perché facessi il regista di un piano antitumore che sia insieme scientifico e culturale.

La Fondazione, sin dalla creazione sette anni fa, si è posta come obiettivo la disseminazione della cultura scientifica nei Paesi emergenti come atto umanitario e anche come presupposto imprescindibile del processo di pace, a cui noi profondamente crediamo. Per questo non ho esitato ad accettare questo impegno ambizioso e difficile e ho chiesto ai miei collaboratori dell'Istituto europeo di Oncologia di affiancarmi, per mettere in piedi un programma di prevenzione, terapia, organizzazione e soprattutto formazione dei medici e operatori. Le scelte che abbiamo fatto con il governo sono state da subito molto coraggiose. Si è deciso di dare priorità alle donne. Sono loro infatti l'anima e la colonna portante della famiglia, che è a sua volta il perno su cui ruota la società. Quando una donna è colpita dalla malattia, il sistema si sgretola più facilmente. Dunque si è deciso di avviare la lotta al cancro del collo dell'utero, che causa in Madagascar circa 5000 morti all'anno, e poi del seno, che ne provoca circa 6000. Per il seno abbiamo pensato a una grande campagna di sensibilizzazione per cancellare l'atteggiamento di fatalismo e di rimozione e avvicinare le donne alla diagnosi precoce, che, sappiamo, può salvare la loro vita. Per il tumore del collo dell'utero abbiamo deciso di applicare le tecniche più avanzate di prevenzione: la vaccinazione contro il virus dell'Hpv (che è la prima causa di questo tumore) per le ragazze e lo screening con l'Hpv test a partire dai 30 anni.

Per le donne che risultano positive al virus, prevediamo un controllo con pap test annuale. Con queste azioni pensiamo di ridurre drasticamente la mortalità per i due killer femminili nei prossimi dieci anni. Contiamo che non sarà troppo difficile convincere le donne ad aderire al nostro programma, mentre culturalmente il tema più complesso appare quello di creare velocemente una preparazione adeguata fra i medici. A questo livello abbiamo creato un’intesa fra lo Ieo e l’istituto francese Gustave Roussy perché venga strutturato un programma di formazione in grado di creare tecnici per la diagnosi precoce, chirurghi e radioterapisti.

Una della maggiori novità del progetto è l'applicazione estensiva della telemedicina: i tecnici africani prepareranno i vetrini, che saranno poi letti e diagnosticati dai patologi di Milano e Parigi attraverso le telecomunicazioni visive a fibre ottiche. Il piano prevede anche nel futuro la costruzione di un centro oncologico nella capitale, che si ispirerà allo Ieo. Il costo dell'operazione è di circa 22 milioni di euro a cui contribuiranno, insieme con donatori privati africani, anche l'Oms, la Banca Mondiale degli investimenti e la mia Fondazione. Io penso che i Paesi ricchi abbiano il dovere morale di intervenire sugli squilibri e le ingiustizie sociali del resto del mondo e credo ci faccia onore il fatto che dal Madagascar abbiano pensato di chiedere scienza e cultura a noi italiani.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7407&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #28 inserito:: Maggio 31, 2010, 10:02:23 am »

31/5/2010

Sì, i malati si curano con la speranza
   
UMBERTO VERONESI

Ha ragione Ferdinando Camon («Bisogna dire la verità ai malati?» su La Stampa di ieri) e hanno torto i primari: non è giusto mai che il medico dia un orizzonte temporale - giorni, mesi, o anni che siano - alla vita del malato, e non è vero che sia obbligato a farlo per legge.

Secondo le norme di deontologia medica dire la verità è un dovere del medico e conoscerla è un diritto del paziente. Ma va fatto un distinguo, perché la verità sulla malattia è composta da due momenti: la diagnosi e la prognosi. La diagnosi va comunicata sempre perché è una conoscenza verificabile, documentata e documentabile. È dunque certa, con i limiti intrinseci di ogni certezza in medicina, che non è una scienza esatta. Nell’informare della diagnosi il compito del medico è dunque spiegare qualche cosa che è scritto nero su bianco e che, se venisse taciuto, sarebbe comunque prima o poi scoperto attraverso altre vie: la cartella clinica, l’amico male informato, l’infermiere o il vicino di letto in ospedale.

Sapere la propria diagnosi per errore è il modo peggiore, perché la persona si sente ingannata, perde la fiducia nel medico e nella cura proposta, e precipita in un mare di ipotesi fantasiose e spettri allarmanti.

Anche la prognosi va comunicata dal medico e non da altri, ma il discorso è molto diverso perché la prognosi è un’ipotesi basata sulla proiezione delle statistiche e i dati riferiti alla malattia del paziente. Ma ogni paziente è diverso, ogni persona è un unicum. Non esistono percentuali certe di remissione o di condanna perché troppe sono le variabili in campo e per questo nessun medico potrà mai essere sicuro di cosa succederà veramente a quel paziente. Più di una volta nella mia professione mi è successo che casi considerati gravissimi hanno inspiegabilmente avuto un’evoluzione positiva, e persone considerate spacciate sono state recuperate alla vita per lunghi periodi. Del resto il codice deontologico medico parla molto chiaro: «Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai elementi di speranza». Dunque la legge ci dice che il medico quando fa una prognosi deve esplorare chi gli sta di fronte, valutare quanto sia in grado di capire e quanto voglia conoscere. Esiste anche, per il malato, il diritto di non sapere, perché non tutti vogliono sapere tutto e anche questa volontà va rispettata. In ogni caso va sempre lasciata una speranza, perché c’è sempre uno spiraglio da aprire, qualcosa in più da fare. Quando il medico comunica la prognosi deve pensare che non sta parlando di ciò che è, ma di ciò che potrebbe essere: del futuro e delle aspettative della persona malata.

La prospettiva cambia e il suo obiettivo deve essere di mantenere un benessere e una serenità compatibile con la situazione clinica. Direi in sintesi che il medico ha il dovere di mantenere un visione ragionevolmente ottimistica. Deprimere il paziente e creargli angoscia con una visione buia non serve a nulla: non aiuta il paziente, non aiuta il medico. Un malato angosciato è più difficile da curare e invece la speranza e la fiducia che può infondere un medico si trasforma in forza d’animo per il paziente e in voglia di combattere la malattia ad ogni stadio. Come ho scritto per la nona Giornata del Sollievo, che ho istituito come ministro della Sanità il giorno 30 maggio, tutti i medici dovrebbero ricordare che anche quando non si può più guarire, il nostro dovere più alto rimane quello di curare dando, appunto, il Sollievo, che non viene solo da una terapia, ma anche da un gesto, una carezza, uno sguardo, che faccia sentire fortemente al malato la dimensione umana che dovrebbe essere alla base del rapporto medico-paziente, sempre, fino all’ultimo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7422&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 26, 2010, 11:12:07 pm »

La lettera

Ecco le cinque ragioni per cui potrei dire sì all'Agenzia sul nucleare

Parla l'oncologo Umberto Veronesi, senatore del Pd


Caro direttore,
Il dibattito che si è sviluppato intorno all'ipotesi di una mia nomina a Presidente dell'Agenzia per la Sicurezza del nucleare appare confuso su 5 punti fondamentali, che tengo molto a chiarire.

Primo, la scelta non è ancora fatta: non ho accettato la proposta di nomina a Presidente, ma la sto attentamente valutando. La decisione che ho preso è che, nel caso in cui accettassi, sicuramente mi dimetterei dal Senato. Lo farei non per motivi partitici, ma perché non potrei conciliare attività scientifica, agenzia e lavori in Senato. Dunque al momento continuo la mia attività senatoriale, all'interno della Commissione Istruzione, Ricerca e Cultura, dove si lavora bene intellettualmente e umanamente.

Secondo, ho posto precise condizioni al mio sì: il piano deve essere tecnologicamente avanzato, economicamente sostenibile e professionalmente gestito da figure di alto profilo scientifico e non selezionate in base a logiche di partito. Inoltre il mio ruolo deve garantire ampi margini di libertà di decisione e di azione, e deve essere compatibile con la mia attività clinica, medica e scientifica, che non ho alcuna intenzione di abbandonare.

Terzo, le mie competenze in qualità di Presidente sarebbero di coordinamento degli esperti in materia di nucleare (prevalentemente fisici), con una responsabilità diretta circa la sicurezza per la salute della popolazione.
Chi teme la mia mancanza di sapere ed esperienza tecnica sul nucleare va rassicurato: mi occuperò di rischio per la salute e prevenzione, come faccio da sempre, con impegno. Va detto comunque che ho sempre coltivato l'interesse per la fisica (anzi direi che sono un appassionato); non a caso ho ricevuto la Laurea Honoris Causa in Fisica dall'Università di Milano.

Quarto, la motivazione del mio profondo interesse per la proposta è che ritengo che la scelta del nucleare sia un Bene per il Paese, che amo e che vorrei vedere sviluppare in linea con gli standard mondiali più avanzati. La mia posizione ha origini scientifiche «storiche» e non è cambiata nel tempo. Gli Stati Uniti e, proprio ai nostri confini, la Francia e la Svizzera (modello di qualità di vita per noi italiani) hanno da anni investito nel nucleare e continuano a sviluppare strategicamente la loro scelta. Come fonte di energia, il nucleare è al momento la meno tossica per l'uomo: il rischio collegato al suo utilizzo è quello di incidente alle centrali di produzione, ed oggi nel mondo è calcolato vicino allo zero.
E' dunque l'alternativa più valida al petrolio, che è altamente inquinante ed è causa di conflitti sanguinosi, oltre che di episodi disastrosi per l'ambiente e la salute, come abbiamo vissuto di recente con la vicenda americana della Bp.

Quinto ed ultimo punto, la mia eventuale decisione a favore della nomina non cambia il mio pensiero, la mia filosofia e il mio impegno sociale. Sono legato (in alcuni casi anche iniziatore) ai movimenti che sostengono i diritti dei più deboli e dei più poveri, che lottano contro l'ingiustizia sociale, che si impegnano contro gli squilibri economici, l'indigenza e la fame nel mondo, che promuovono la pace e il rispetto dei diritti umani, che agiscono a favore della questione femminile. Questi sono i temi che applicano i valori della Sinistra, a cui ho aderito per tutta la vita, dalla lontana Resistenza, all'incarico come Ministro in un Governo di sinistra, fino al mio recente impegno in Parlamento.

Valori che non rinnego e continuerò a trasformare in atti concreti. Per questo, su caloroso invito di Walter Veltroni, nel 2008 ho accettato di candidarmi al Senato e per questo, sono convinto, sono stato eletto a Milano: portare in Parlamento i miei 50 anni di battaglie per la salute, la scienza e la libertà di pensiero e di ricerca. Come ho dichiarato apertamente, non sono mai stato iscritto ad un partito e non mi sono iscritto al Pd. Il mio contributo alla vita dei cittadini e al Paese sono convinto sia, in questo momento, accettare un ruolo di tutela della salute nell'ambito di una scelta nucleare (che strategicamente condivido) comunque già presa dall'attuale Governo. Per questo, se tutte le condizioni che ho indicato saranno rispettate, accetterò la nomina di Presidente dell'agenzia per la sicurezza del nucleare.

Umberto Veronesi

26 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_26/veronesi-lettera_f7e70862-9882-11df-a51e-00144f02aabe.shtml
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