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Autore Discussione: Roberto NAPOLETANO  (Letto 11834 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 13, 2016, 12:58:19 pm »

Dossier | N. 76 articoli Elezioni comunali 2016
Il segnale «politico» da cogliere

  Di Roberto Napoletano 07 Giugno 2016

La storia di questo risultato “politico” del primo turno delle elezioni amministrative, che coinvolgono 1342 Comuni, inizia e finisce con la storia italiana che appartiene al disagio sociale mai domato e a una persistente fragilità della sua ripresa economica. Perché il consenso di chi è chiamato al governo del Paese negli anni di una crisi senza fine più pesante di quella degli anni Trenta non venga consumato dai tanti populismi, tra loro molto differenti e con alcune spinte civiche al cambiamento da non sottovalutare, bisogna fare le cose difficili.

Bisogna sporcarsi le mani con la più oppressiva e ottusa delle amministrazioni pubbliche nazionali e territoriali (non priva peraltro di valori e intelligenze individuali) e fare in modo che cambino le teste e i comportamenti collettivi prevalenti: uscire dalla cultura delle angherie e delle corruttele per entrare in quella del servizio al cittadino e all’impresa e, soprattutto, nello spirito dei sistemi economico-politici più illuminati al passo con i tempi dove chi vuole rischiare in proprio e creare lavoro qualificato per tutti non è visto come un nemico da osteggiare e angustiare con ogni mezzo ma come un soggetto positivo da incoraggiare nella sua azione e nel suo slancio di intrapresa. Bisogna dare segnali lineari, riscontrabili, con certezza per l’oggi e per il domani, sulla strada della riduzione dell’insostenibile fardello di oneri contributivi e fiscali che ancora grava sul sistema produttivo italiano per trasferire a chi è in casa fiducia duratura e, altrettanto importante, per testimoniare a chi è fuori casa in modo riscontrabile che le cose stanno cambiando e che, quindi, si può, anzi si deve, tornare a scommettere sull’Italia della manifattura, dei servizi e del suo capitale “nascosto” di innovazione, un Paese con il più grande patrimonio storico-artistico-museale al mondo e un talento giovanile ora più consapevole, che non teme confronti. Questa è la dura realtà di cui prima si prende atto meglio è.

Il dato di Milano, da questo punto di vista, è esemplare. Dove l’amministrazione è più efficiente, dove la comunità civile resta un presidio riconoscibile e si percepisce un disegno di sviluppo in cui le forze sane dell’economia si intrecciano positivamente con quelle della cultura e della politica, dove il carico delle diseguaglianze è meno forte, quasi per incanto, la spinta delle correnti populiste si attenua dentro le coalizioni e fuori di esse. Vorrà dire o no qualcosa? Si è detto troppo e fuori luogo sulla storia dell’Expo, prima quando era un disastro assoluto poi quando era un successo mondiale, quello che mi piace sottolineare qui è che in questi anni Milano è tornata ad essere la capitale mondiale della creatività, i servizi pubblici sono migliorati, il ceto imprenditoriale è tornato a scommettere sulla sua capitale economica, il profilo di testimonianza civile e di respiro internazionale si sono accentuati. Questa comunità ha selezionato due candidati che sono espressione della borghesia produttiva e manageriale, ora la contesa si sposta sulla capacità di intercettare la spinta di maggiore partecipazione che pure viene dai movimenti che il voto popolare ha tenuto fuori dai ballottaggi.

L’esito del primo turno delle elezioni, a Roma, offre valutazioni speculari rispetto a quelle di Milano: il degrado morale, politico e amministrativo della Capitale riduce la capacità di selezionare classe dirigente che possa esprimere la parte illuminata della borghesia e quella più sana della storica classe politica e apre, quindi, praterie da percorrere a chi si fa interprete del disagio sociale crescente, della spinta al cambiamento, e dovrà dimostrare di essere all’altezza di gestire l’uno e l’altra offrendo, sul campo, competenze e capacità di governo. Dovrà dimostrare di sapere fare le cose difficili che gli altri non hanno saputo fare, soprattutto, sul terreno della buona amministrazione. Si accorgeranno presto di quanto poco sarà di aiuto la forza delle parole. Ovviamente i romani diranno la loro al ballottaggio ed è buona regola non escludere mai sorprese.

Ha fatto bene il premier e segretario del Pd, Matteo Renzi, a dire chiaro e tondo: non sono soddisfatto, il Pd ha problemi. Queste dichiarazioni confermano il fiuto e la capacità di leadership politica che tutti gli riconoscono. Non commetteremo l’errore di rivendicare il merito di avere sempre segnalato l’esigenza di una politica economica di lungo termine, riscontrabile per linearità e coerenza di impianto, senza indulgenze elettoralistiche vere o presunte che siano, e neppure vogliamo mettere in discussione la spinta riformista che c’è stata ed è sotto gli occhi di tutti sui temi del mercato del lavoro, di riduzione della pressione fiscale, della pubblica amministrazione, della giustizia civile e di un nuovo assetto costituzionale con i necessari contrappesi che non vanno sottovalutati per nessuna ragione al mondo. Quello che vogliamo dire è altro: c’è un passaggio ineludibile, di dura fatica, che può segnare lo spartiacque tra l’oggi e il domani, ed è quello che permette di dare un contenuto effettivo alla riforma della pubblica amministrazione e una linearità visibile di lungo termine negli interventi (che pure ci sono stati) in tema di politica fiscale e di riduzione dei suoi prelievi.

A ben vedere, passa di qui, da queste cose difficili, la capacità di creare quella fiducia piena, indispensabile per innescare una ripresa robusta e duratura in casa e la conquista di quella piena legittimazione di leadership europea necessaria perché arrivi anche nelle nostre famiglie ciò che l’Europa può dare ai cittadini europei e si ostina sciaguratamente a negare. Forse, questo voto amministrativo potrà essere ricordato per il segnale “politico” che è stato capace di lanciare. A patto che venga raccolto e lo si sappia mettere a frutto. Noi speriamo che avvenga.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-06-07/il-segnale-politico-cogliere-071023.shtml?uuid=AD0XUSX
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 30, 2016, 11:09:07 am »

Storie di impresa in un Nordest che prova a cambiare

    –di Roberto Napoletano 17 luglio 2016

Katia Da Ros, Vice Presidente di Irinox, nel corso del suo intervento a Oderzo per la terza tappa del “Viaggio nell'Italia che innova”

Sono andato a Oderzo, nel cuore industriale di Treviso, per la terza tappa del Viaggio nell'Italia che innova del nostro giornale e porto con me il ricordo di due donne e il racconto delle loro aziende che mi hanno aiutato a capire, ancora di più, il fascino, le virtù e i limiti di questo unicum assoluto che è il Nordest, terra di inventori che non si arrendono mai, la testardaggine e le debolezze, il gusto delle intuizioni, il mondo come mercato domestico e un individualismo sfrenato in casa e fuori che non aiuta. Mi ha colpito Katia Da Ros perché ha parlato il giusto della sua Irinox e del suo “forno del freddo” («quando è arrivato il frigorifero nelle nostre case non eravamo preparati, si abitueranno presto a questi abbattitori rapidi di temperatura per conservare prodotti di alta qualità») e, cioè, del genio imprenditoriale delle famiglie venete che, nel suo caso, si misura con una crescita annua del 20% nel mondo e, sorprendentemente, del 30% sul mercato nazionale. Mi sono piaciuti il modo garbato e l’amore con cui ha raccontato del “lievito” del Nordest che è qualcosa di magico ed è quello con il quale questi “pasticceri” della manifattura, come dice lei, confezionano il loro “dolce”. Mi ha trasferito, con efficacia, i sapori di questa specialissima “torta” fatta di valori familiari, cromosomi artigiani («anni di studio per cambiare gli ingredienti e trovare il mix perfetto di un pasticcino») e respiro industriale, che nasce in casa ma è destinata a crescere sulle tavole del mondo, grazie a un’organizzazione naturalmente globale.

Eppure, ciò che mi ha colpito di più è altro. Ho sentito qualcosa che nessuno ha detto, prima e dopo di lei, in questa terra di inventori che non amano troppo il gioco di squadra, e lo ha fatto scandendo bene le parole: «Mio padre e i suoi due soci hanno scelto di investire sulla innovazione di processo e di governance, hanno scelto di farlo con noi, abbiamo aperto a contributi esterni qualificati il nostro Consiglio di amministrazione, abbiamo capito che lì, in quella sede, si doveva consumare il momento strategico e dovevamo poi lasciare ai manager la fase esecutiva. Non è stato facile per imprenditori fondatori e innovatori, per di più veneti, ma siamo al quinto anno consecutivo di crescita e siamo sempre più convinti di avere fatto la scelta giusta».

Poi, è entrata in scena Marzia Narduzzi, e si è incaricata di spiegare con i fatti, con le sue emozioni e la sua storia di impresa, Pier & Co, perché fosse così importante per il Veneto la lezione sull’innovazione di processo e di governance della signora del “freddo”. Sentiamo il racconto della Narduzzi: «Ci siamo inventati una camicia su misura da uomo con un collo lungo, un tessuto da donna e qualcosa di rock che non c’è al mondo, abbiamo puntato su un prodotto “fittato”, nuovo, ci siamo venduti la nostra diversità. Le più grandi Maison parigine e mondiali sono venute a cercarci e abbiamo prodotto per loro. Poi, Russia e Cina hanno cominciato a calare, dalla sera alla mattina ci ha lasciato un grosso cliente americano. Siamo entrati in crisi. Piccolo per noi è stato bellissimo, ma si è rivelato nei fatti molto insidioso. Conoscevo i nostri 80 dipendenti uno a uno ma mi sono dovuta rendere conto che basta un colpo di vento e rischi di vedere tutto sgretolarsi, è sparito un quarto del fatturato di qualche anno fa e ora, solo grazie a un nuovo investitore, abbiamo potuto “salvare” 35 degli 80 dipendenti in una nuova società, il cuore artigianale pulsante, dove noi siamo diventati piccoli azionisti. Facciamo ogni giorno i conti con questa realtà».

Il genio, la testardaggine e l’intuito di Marzia Narduzzi sono quelli tipici di queste famiglie venete, la forza e la debolezza di questa terra di trincea di irriducibili inventori. Tutti, però, hanno bisogno non più solo di innovazione di prodotto, qui non li batte nessuno, ma anche, anzi soprattutto, di innovazione di processo e di governance. Bisogna sapere distinguere il momento strategico da quello esecutivo, bisogna diventare più grandi, bisogna investire sui Big Data e fare gioco di squadra sul territorio. Forse, è tempo di ricominciare proprio da quella formula composta dal “lievito” e dall'intelligenza di tre imprenditori, fondatori e veneti, che hanno scelto di mettere insieme cultura familiare e manageriale, hanno deciso di innovare processo produttivo e governance, e di guardare così finalmente lontano. Speriamo che siano contagiosi. Potrebbe essere la volta buona perché il mitico Nordest rompa il suo isolamento e conquisti stabilmente il mondo.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-07-17/storie-impresa-un-nordest-che-prova-cambiare-100827.shtml?uuid=ADZFdCu
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 06, 2016, 04:01:29 pm »

Il coraggio di dire la verità e di costruire il futuro del Paese

Di Roberto Napoletano 21 agosto 2016

I numeri al lotto che accompagnano le congetture agostane sulla legge di stabilità prossima ventura vanno presi per quelli che sono, e noi siamo fermi all’impegno preso con questo giornale dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, su pochi articoli di legge e pochi interventi che pongano al centro della politica economica italiana la crescita sana con un mix di misure strutturali (detassazione del salario di produttività e riduzione del cuneo fiscale, riforma effettiva della pubblica amministrazione) e di misure mirate (superammortamento, leva fiscale per l’innovazione, con industria 4.0, e per l'edilizia) che contribuiscano a rilanciare gli investimenti e le opportunità di lavoro. All’agenda italiana Padoan affianca un impegno rafforzato in Europa perché prenda corpo un flusso europeo di finanziamenti produttivi che possa stabilmente sostenere la crescita e perché prevalga la consapevolezza dell’obbligo di completare l’Unione bancaria e di agire in un mondo, ripiegato su se stesso, con la forza di un soggetto politico-economico unico, anche se portatore di tante diversità.

In questo scenario, segnato peraltro dalla cronica scarsità di risorse dello Stato italiano, erose dai vincoli del debito, non c’è spazio per nuove prebende al pubblico impiego o nuovi interventi tipo bonus da 80 euro (magari per i pensionati) diretti a conseguire consenso immediato. Guai solo a pensarlo. Occorrono, viceversa, il linguaggio della verità (la situazione è ancora grave e questo non vuol dire che non si è fatto nulla), l’ambizione di mettere al centro dell’azione di governo produttività e investimenti pubblici e privati, il coraggio di uscire dal piccolo cabotaggio e di dire chiaro e tondo che non sono più possibili scambi elettorali (sempre e comunque sbagliati) per cominciare a costruire con lungimiranza il futuro del Paese in una navigazione difficile tra i marosi della debole congiuntura internazionale, la fragilità dei mercati, le nostre specifiche, pesanti anomalie, e quelle di un’Europa ancora troppo tattica e incompiuta.

Queste sono le cose serie di cui occuparsi e questo significa fare il bene dell’Italia: solo un percorso così chiaro e lineare può legittimare a chiedere e ottenere in casa che tutti facciano la loro parte, a partire dalle imprese che devono smetterla di inseguire aiuti assistenziali e devono sapere fare il loro mettendoci capitali e intelligenza e affrontando fino in fondo la sfida dimensionale-manageriale e quella dell’innovazione, e può renderci credibili in Europa per chiedere e ottenere che le cose cambino accordando una “flessibilità buona” all’Italia e iniziando a attuare un assetto europeo dove condivisione dei debiti e politiche di sviluppo camminino insieme in uno spirito finalmente solidaristico. Questa, non altre, è la posta in gioco e Renzi si deve mettere in testa, una volta per tutte, che il suo nemico non sono i grillini, ma la mancata crescita e l’assenza di uno spirito di condivisione che allarghi le consapevolezze e permetta di rendere effettivo questo sentiero virtuoso.

* * *
Paolo Pombeni non è solo uno dei principali editorialisti del Sole, storico dei sistemi politici europei e professore emerito dell'Università di Bologna, per me è anche un amico speciale da molto tempo con il quale condivido, tra le altre, la passione civile per l'opera e la figura di Alcide De Gasperi di cui lui è uno dei massimi conoscitori.

Forse, anche per questo, non mi ha stupito la sua telefonata con la quale mi sottolineava il riferimento alla “pazienza” usato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua lectio agostana a Pieve Tesino dedicata allo statista trentino e, soprattutto, la frase a lui attribuita grazie alla testimonianza diretta di un collaboratore: «Non si vuol comprendere che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci».

De Gasperi, politico di professione
Pombeni chiosa: «È una frase autenticamente “degasperiana”, non solo per il concetto che esprime, ma anche per la metafora, che deriva da quella immersione nella civiltà contadina delle sue montagne che De Gasperi non dimenticò mai». Si trattava, in quel caso, di uscire dal vecchio sistema dove erano convissuti monarchia e fascismo per entrare in un orizzonte tutto nuovo, repubblicano e democratico, è evidente che un uomo come De Gasperi che aveva visto che cosa era successo in Germania dopo la prima guerra mondiale, la deriva della Repubblica di Weimar e il sorgere degli estremismi, e aveva conosciuto proprio in quegli anni la prigione senza mai esitare a dichiararsi politico di professione (come il chirurgo può fare solo il chirurgo e l'ingegnere solo l'ingegnere, al massimo cambiano ospedale o politecnico, io posso fare solo il politico... scriveva in sostanza alla moglie in una lettera dal carcere) non poteva non avvertire il carico morale e il peso propriamente politico della doppia responsabilità di guidare e gestire una transizione così complicata.

Le paure della Chiesa
La Chiesa aveva le sue paure e non “aiutava” di fronte alle mille incognite quotidiane, la pubblica amministrazione storicamente permeabile alle pressioni e ai voleri del vecchio regime non si presentava di certo come una roccaforte a difesa dei nuovi ideali, le forze politiche e intellettuali erano divise da profonde passioni ideologiche, le famiglie contavano i morti, l'economia usciva dalle macerie della guerra e doveva riorganizzarsi totalmente passando da un sistema agricolo minore a un assetto fondato sull'industria, il dualismo territoriale del Paese apriva fossati profondi all'interno del tessuto civile e sociale.

Un carro ancora fragile
Se non si fosse tenuto in debito conto questo contesto e si fosse derogato dal linguaggio della verità, il fragile carro della nuova democrazia italiana rischiava davvero di ribaltarsi. De Gasperi si affidò alla coesione e al fare, non rinunciò mai a essere presente dove riteneva che fosse giusto (memorabile l'intervento alla riapertura della Scala a Milano: questo Paese ha due soli capitali, il lavoro e la cultura, facciamo in modo che fruttino e si capisca che abbiamo rialzato la testa, questo il succo), soprattutto ripeté ostinatamente nei suoi discorsi di quel periodo che tutto si doveva tenere, in questo senso la “pazienza”, e alcuni scambiarono equilibrio e accortezza come il senno di un conservatore timoroso della rivoluzione alle porte, altri, all'opposto, lo giudicarono incapace di dare una svolta determinata che placasse le inquietudini di un'epoca che non si sapeva ancora come si sarebbe evoluta. Sbagliarono i primi e i secondi perché il politico di professione De Gasperi non lisciò il pelo a nessuna delle inquietudini di moda, spezzò con i fatti la spirale italiana sempre incombente delle demagogie più o meno ricorrenti, volle che dietro il centrismo ci fosse una “matrice umanistica” che facesse i conti, sotto una spinta etica costitutiva, con la povertà diffusa e un rapporto forte con i ceti produttivi e le rappresentanze dei lavoratori. Si posero i semi di una cultura politica che si allargava nei fatti alle anime liberale e azionista che avrebbe prodotto in seguito buoni frutti, si garantì un ancoraggio europeista solido che avrebbe sanato le ferite della seconda guerra mondiale e mise quest'uomo di confine insieme ad altri due uomini di confine, Adenauer e Schuman, alla testa della nuova locomotiva europea con la dignità che si riconosce ai grandi della politica e ai Paesi che loro rappresentano.

* * *
Questo insegna la storia politica di De Gasperi e del miracolo economico italiano di cui il suo centrismo pose le basi e di un'Europa già da allora pensata e sognata come federale. Ogni stagione politica è differente dalle altre. Di sicuro, però, in quest'epoca tormentata in cui viviamo oggi, di tornanti da superare ce ne sono molti e le strade sono rese scivolose, soprattutto in Italia, da tanti fattori e da troppo tempo. Sono scomparsi dieci punti di prodotto interno lordo e si è volatilizzato un quarto della produzione industriale, se possibile le due Italie sono ancora più distanti e, soprattutto, strutturalmente diverse. Si avvertono i segni terribili della più lunga crisi globale finanziaria e sono i segni di un mondo nuovo, digitalizzato e ancora più diseguale, attraversato da mille focolai di crisi geopolitica e in forte rallentamento congiunturale, dove i danni subiti sono per noi pari, se non superiori, a quelli di una terza guerra mondiale persa. Sui mercati, Brexit o non Brexit, prevale l'incertezza, abbiamo una delle Borse più sottovalutate al mondo, i valori delle nostre banche sono risibili soprattutto per le tante ben capitalizzate e ben gestite. Sul Monte dei Paschi si è fatto quello che si doveva fare e le banche italiane hanno superato gli stress test, non sono obbligate a ricapitalizzare però dovranno fare qualcosa, ma i mercati si chiedono se Mps ce la farà per davvero, non sanno di quanto sarà la tegola per le altre banche e, quindi, giù botte, a torto o a ragione, anzi sicuramente a torto, tra una speculazione e l'altra. Poi c'è il bubbone di Commerzbank e delle casse tedesche, l'incognita dei derivati della Deutsche Bank e lì, dicono i mercati, ancora una volta a torto o a ragione non conta, è un bel macello, a fine anno scoppierà il bubbone, si dovrà in un certo senso agire.

Insomma, facciamo i conti ogni giorno con la mancanza di notizie certe, in uno scenario avverso con tassi negativi che incidono sulla profittabilità, e in questo quadro è difficile fare in modo che prevalga una valutazione granulare e non all'ingrosso dei crediti in sofferenza italiani: il senso d'insieme prevalente è che i termini a venire saranno penalizzanti e la realtà (amara) è che a pagare ingiustamente il conto più pesante è sempre l'anello debole e quell'anello debole siamo noi, soprattutto per il macigno del debito pubblico ricevuto in eredità.

Dire come stanno le cose
Il governo deve avere il coraggio di dire la verità, di dire come stanno le cose, rivendicare i meriti delle cose fatte (jobs act prima di tutto, taglio del costo del lavoro Irap, riduzione dell'Ires dal 2017, ammortamento fiscale, legge sui macchinari e altro) e fare autocritica per gli 80 euro, i bonus culturali ai diciottenni e la politica “elettorale” sottostante che non hanno dato comunque i risultati auspicati sui consumi, come era peraltro facilmente intuibile. Bisogna avere il coraggio di fare tutto ciò per non cedere a nuovi scambi al ribasso, e dilapidare ulteriormente il capitale della fiducia, ma soprattutto per essere credibili in casa e fuori in modo da chiamare tutti, forze politiche, impresa e sindacato, alle proprie responsabilità dentro un rinnovato spirito di coesione. Per fare ripartire per davvero l'economia italiana e rimettere in carreggiata l'Europa, c'è disperato bisogno della “pazienza” e della capacità di fare di quella classe politica di allora. Perché, è vero, che i tornanti della nuova transizione non li percorrono più i “carri”, ma automobili più veloci e tecnologiche, è anche vero, però, che non meno di quelli si possono ribaltare, anzi possono incendiarsi o finire nei burroni.

Il deficit di leadership europea
C'è un deficit di leadership politica che l'Europa deve saper colmare, assolutamente in fretta, e una crisi di credibilità italiana che va superata con la fatica del lavoro quotidiano, la serietà dei comportamenti, la visione e l'energia necessarie per dare un contenuto effettivo al cambiamento, conseguire finalmente risultati che si possono vedere e toccare con mano. Non esistono alternative o scorciatoie a questo nuovo percorso di guerra, prima lo si comprende e ci si attrezza, meglio è. Siamo ancora in tempo per correggere errori, mettere a frutto il buono già realizzato, e fare bene cose nuove necessarie, ovviamente difficili, esattamente come quelle che fece De Gasperi. Bisogna volerlo, premunirsi di “pazienza”, e evitare che il “carro” si rovesci.

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« Risposta #18 inserito:: Settembre 20, 2016, 08:51:17 pm »

Ciao Carlo Azeglio

Di Roberto Napoletano 17 settembre 2016

«Pensa, lunedì avremmo festeggiato i settant’anni di matrimonio e gli avevo detto: Carlo, faremo una cosa intima tra di noi». Mi dice la signora Franca, al telefono, e aggiunge: «Tu lo conosci bene, devi dire quello che sai, devi dire che era una persona perbene». La signora Franca si esprime con il suo linguaggio diretto, fatto di imperativi affettuosi, e ha ragione: Carlo Azeglio Ciampi era, prima di tutto, una persona perbene. Ho scelto di iniziare con questo racconto familiare perché qui, in questo articolo, non intendo parlare del Normalista, del governatore della Banca d’Italia, dell’uomo di governo padre dell’euro e del presidente emerito della Repubblica. Vorrei parlare dell’uomo Carlo Azeglio Ciampi per come lo ho visto e conosciuto da vicino, di quello che mi ha insegnato e di quello che ha rappresentato nella difesa del decoro delle istituzioni, il sentimento viscerale dell’orgoglio della Patria, il tratto identitario dell’uomo delle istituzioni, di un grande italiano e di un grande europeo.
***
Un giorno abbiamo scherzato sull’ansia, qualcosa che ci accomunava, ma che io ho sempre sentito come un tormento, soprattutto per chi mi sta intorno. Ho davanti agli occhi il suo faccione burbero e quella frase buttata lì: «Guarda, conosco il tema. Chiariamo subito: l’ansia ci permette di vedere prima i problemi, e quindi può essere un vantaggio. A una condizione, però, che si individui un metodo per gestirla». Presidente, lei lo ha trovato? «Sì, una squadra di collaboratori competenti e fidati. Se l’ansia ti porta a individuare prima il problema, allora questo va affrontato con la squadra di collaboratori, vanno sentite con attenzione tutte le opinioni, poi si ponderano le cose, si prende una decisione e non ci si pensa più. A quel punto, l’ansia cessa e, spesso, è stata utile».
***
Ricordo un fatto di vita vissuta che risale ai tempi di quando era governatore e che mi ha voluto raccontare un pomeriggio, nella casa romana, in via Anapo. Cito a mente il suo racconto: un politico mi chiede un appuntamento, lo ricevo, restiamo insieme una buona mezz’ora, ragioniamo di tante cose e non mi chiede niente. Dopo qualche settimana un amico comune mi riferisce la confessione del politico: avevo voluto l’incontro perché dovevo chiedere un piacere, ma Ciampi mi trattò con così tanta cortesia e così tanto distacco che non ebbi il coraggio di dire niente. Distacco e cortesia, lezione di civiltà, un insegnamento da tenere a mente. Scavo nei ricordi e mi riaffiora nella testa una telefonata, sempre del Presidente, di un po’ di anni fa. Mi dice: «Ha letto le dichiarazioni di Paul Volcker? Parla di disintegrazione dell’euro. Questo un banchiere centrale non lo può dire». Non era orgoglio ferito, da padre dell’euro, anche in questo caso parlava il governatore che è in lui. Un abito mentale, da servitore dello Stato, mai dismesso.
***
Non so perché ma continuo a pensare all’ossessione di Ciampi contro l’infezione diffusa, e mai davvero domata, dei cattivi derivati e, anche in questo caso, ricordo una sua telefonata di diversi anni fa, mentre passeggiava a villa Ada, all’epoca in cui dirigevo il Messaggero e lui era il primo dei nostri editorialisti: «Direttore, le racconto un episodio che mi è successo da qualche minuto. Sono vicino al laghetto, mi saluta una signora e mi dice: grazie presidente per tutto quello che fa per noi. Replico: signora, ma io non faccio più niente. E lei: non è vero, scrive degli articoli bellissimi». Aveva ragione la signora. Qualche giorno prima, il 17 settembre del 2008, quest’uomo che ha avuto in Italia l’onore di tutte le responsabilità ed è apprezzato nei circoli più importanti della finanza internazionale, ma sapeva parlare come pochi al cuore degli italiani, aveva scritto un articolo che iniziava testualmente così: «Per capire quello che sta accadendo in questi giorni, forse, dovremmo partire dalla debolezza congenita degli accordi di Bretton Woods...».
***
È passato un tempo che, per la pesantezza del conto che l’Italia ha pagato sull’altare della crisi globale finanziaria, assomiglia a un’eternità e, soprattutto, non accenna a finire. La nuova Bretton Woods, invocata da Ciampi, non si è vista, anzi assistiamo a un indebolimento delle leadership politiche globali, aumentano le diseguaglianze, si continua a passare da una crisi all’altra, gli Stati Uniti d’Europa restano un sogno, i focolai di crisi geopolitica nel mondo si moltiplicano a vista d’occhio, la Cina non ha guadagnato in libertà ma ha fermato la sua galoppata, per la prima volta gli americani sono convinti che i figli avranno un futuro meno roseo dei padri. Servono la forza della democrazia e l’intelligenza della politica, servono uomini come Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill combattenti e costruttori di democrazia o del calibro dei Padri Fondatori dell’Europa come De Gasperi, Adenauer, Schuman. Servono proprio uomini con passione politica, servitori dello Stato e persone perbene come Ciampi. Ciao Carlo Azeglio.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-09-17/ciao-carlo-azeglio-000658.shtml?uuid=AD7nIkLB
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 30, 2016, 09:00:02 pm »

Il Professore, la “profezia” di Barbara Bush e la nuova Bretton Woods

    –di Roberto Napoletano 27 novembre 2016

In questi giorni di sbornia americana post-trumpiana mi viene in mente una battuta di Romano Prodi di qualche tempo fa a Bologna, a tavola, dopo una mattinata passata a discutere di manifattura made in Italy, di filiere e territori, i primati della meccanica strumentale e di precisione, packaging di qualità e abiti sartoriali dell’industria italiana globalizzata. Ricordo la faccia del Professore, prima ancora delle parole, quando qualcuno dei commensali gli chiede insistentemente se la Clinton riuscirà ad arginare la pressione populista e l’insofferenza dell’anima profonda americana coagulatesi intorno a Trump. Ricordo quel sorriso divertito, fintamente bonario, che balena tra gli occhiali e il naso, e la “sua” sentenza di forte apprezzamento ma dura come un sasso: «Hillary è persona di altissimo livello intellettuale e di grande carattere, ma, nel linguaggio emiliano, l’abbiamo definita anni fa una donna di classe e una chioccia fredda che non ha il calore sufficiente per trasformare le uova in pulcini. Concludevamo, quindi, che poteva essere una grande presidente, ma avrebbe avuto difficoltà altrettanto grandi nella campagna elettorale».

E così il Professore a modo suo, senza pronunciarsi, anticipava in “linguaggio emiliano”, come dice lui, e in tempi non sospetti, l’esito delle elezioni americane: entrava dentro quell’anima profonda in subbuglio tra storie personali mai rinnegate di clan politici e familiari, dove tutto e il contrario di tutto è possibile proprio per la straordinaria unicità del sogno americano diventato realtà pur tra mille contraddizioni di ieri e battute d’arresto di oggi. Il solco aperto tra politica e società dal carico crescente delle diseguaglianze, il conto fatto pagare al mondo da una finanza malata e il primato globale dei mercati e delle sue regole, la cultura della severità per chi le viola e una genuina “religione” della concorrenza, il senso profondo di una scuola dove stanno insieme il gioco di squadra e la sana, gioiosa competizione sportiva, quella fatta di valori e di merito.

Prodi ha voglia di scavare nei ricordi, e butta lì: «Per capire che cosa è davvero la società americana e come si muove la politica, anche se molte cose stanno cambiando, ho sempre davanti agli occhi un viaggio in macchina a fine ’98 con Bush padre e la moglie Barbara e, soprattutto, la scena di lei che siede dietro con Flavia e dice a voce alta: “io ho due figli appassionati di politica e non so ancora quale dei due diventerà presidente degli Stati Uniti”. Quando scendiamo dalla macchina, Flavia mi dà un colpetto e domanda: “Romano, ho capito bene? Non vorrei che non avessi afferrato l’inglese perché corre troppo con le parole”. No, Flavia, hai capito proprio bene. Ha detto esattamente così, non sa ancora quale dei due farà il presidente degli Stati Uniti». Il bello, poi, è che la profezia in macchina si è pure avverata. Misteri della democrazia americana.

Chiedo al Professore di Trump, e mi risponde con un’altra battuta, questa volta fulminante: «Ascoltando le sue parole, salvo le americanate, è un perfetto leader populista europeo». Sottinteso: è un figlio della rivoluzione francese dei nostri giorni, globale e diffusa, dove facciamo i conti quotidianamente con lo scontro tra i “sans-culottes” e le élite che cambiano di Paese in Paese, una protesta viscerale contro tutto ciò che è diverso, tutto ciò che è percepito a torto o a ragione come élite. È amico di Putin, Trump, che cosa vuol dire? Anche qui Prodi ha la risposta pronta: «Mi disse Gorbaciov, all’inizio della sua ascesa, che quest’uomo, Vladimir Putin, nonostante il suo curriculum, era l’unico in grado di tenere la Russia unita e legata all’Europa, poi le cose sono andate diversamente per gli errori di entrambe le parti. Resta il fatto che questa divisione è un danno certo per loro e per noi». Poi, però, alza lo sguardo al cielo il Professore, e diventa terribilmente serio: «Stiamo morendo tutti di iniqua distribuzione del reddito, i giovani dei Sud del mondo non hanno lavoro e vivono abbandonati senza speranza come cani randagi, il flusso della paura non si interrompe, ti accorgi che soprattutto in Europa non hai strumenti per distribuire il reddito, non capisci perché la politica non batta un colpo».

Appunto, la politica, quella che non si nutre di sondaggi, ma sa ascoltare la coscienza e la pancia degli elettori, per rispondere ai bisogni e guidare il cambiamento, non per assecondare la deriva. Quella politica che avrebbe dovuto scrivere da tempo una nuova Bretton Woods perché le ragioni del governo del mondo e dell’economia tornino a incontrarsi in nome della cooperazione e, in casa, avrebbe dovuto riscrivere da tempo le regole di ingaggio del patto europeo. Questa politica non si è vista, latitano le leadership, ma guai a perdere la speranza che torni a battere un colpo. Vorrebbe dire che la deriva non è più arginabile.

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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 21, 2017, 12:21:21 am »

Il tempo che l’Italia non può sprecare

di Roberto Napoletano

L’uso del tempo deve essere proficuo, non può essere sprecato, questo non altro è il valore della stabilità politica. L’Italia non ha interesse a infilarsi nella fibrillazione europea dei mercati dentro le scadenze elettorali di Olanda, Francia e Germania, è meglio che si parli del debito francese e della Le Pen, piuttosto che la scena sia occupata dal nostro macigno di un debito pubblico al 133% del Pil. L’Italia, però, ha ancora meno interesse al tirare a campare determinato dalle contorsioni politiche di un dibattito surreale all’interno del partito di maggioranza e dal clima di sospensione del Paese che ne scaturisce. Questo è il punto.

L’Europa chiede che non ci sia una crisi di governo prima della legge di bilancio e che Gentiloni sia più visibile. A noi interessa che l’esecutivo Gentiloni dimostri di governare e faccia le cose perché se è vero che l’Italia è il Paese che cresce meno in Europa e produce ancora meno di quanto producesse prima della grande crisi, il record del surplus commerciale (51,6 miliardi) e delle vendite all’estero (417 miliardi) e i segnali diffusi di risveglio che vengono dalla manifattura e dal mondo dei servizi più internazionalizzato dimostrano che ora più che mai la parte sana del Paese ha bisogno che non si fermi il processo esecutivo di riforme, pubblica amministrazione e giustizia, che si faccia finalmente qualcosa di decente in tema di concorrenza e che si riapra per davvero la stagione della ripresa degli investimenti in infrastrutture/edilizia (forse basterebbe fare oggi la legge Goria del 1987 per i mutui casa ai giovani). A quel punto, vedrete che quello 0,9% di crescita di Prodotto interno lordo certamente salirebbe e produrrebbe i suoi effetti benefici sul rapporto per noi in assoluto più importante e, cioè, quello debito/Pil.

Il Paese ha disperato bisogno di governo per fare queste cose che consentano di curare la sua malattia strutturale, il divario di produttività, restituire fiducia e ridare slancio alle sue energie vitali a partire da un capitale umano unico che è quello dei suoi giovani. Con tutto il rispetto per le ragioni “nobili” della politica, non vediamo una sola ragione al mondo se non quella della irresponsabilità che possa giustificare lacerazioni e contorsionismi partitico-correntizi che non portino a uno sbocco chiaro: si governi ventre a terra e si moltiplichino gli sforzi o si vada al voto. La sospensione non serve al partito egemone di questo governo, ma soprattutto fa malissimo al Paese.
L'Editoriale
La questione irrisolta del capitalismo italiano

Se ci saranno le condizioni perché prevalga la prima ipotesi, quella del buon senso, non si perda tempo in dibattiti irritanti quanto vacui su un banalissimo 0,2% di correzione su un bilancio di 800 e passa miliardi di spesa pubblica, si metta mano con serietà alle privatizzazioni e ai conti pubblici perché la nuova legge di stabilità ci aspetta al varco con il suo pesante carico di clausole di salvaguardia da disinnescare. Soprattutto perché solo scelte effettive di questo tipo, non proclami, ci legittimerebbero in Europa per sfruttare il clima politico favorevole al cambiamento, determinato dalla grande paura populista, ottenere uno scambio virtuoso tra riforme e investimenti e, cosa ancora più importante, guidare con la forza di un Paese fondatore legittimato il cammino verso un’Europa federale solidale che ponga al centro il lavoro, la ricerca e lo sviluppo, e si appalesi finalmente come tale su terreni decisivi quali sono difesa, immigrazione e politica estera.

Per quanto ambiziosa, lunga e piena di insidie, questa è la strada percorribile, rotture o scorciatoie in un mondo dove tutto è cambiato (Brexit, Trump, “ritorno” di Putin, e molto altro) potrebbero avere effetti rovinosi per tutti e impedirebbero di cogliere segnali politici importanti che vengono dall’Europarlamento, penso alle risoluzioni contro lo strabismo della vigilanza bancaria europea e a un indirizzo più solidale, e, in modo diverso, dall’ala più dura della roccaforte tedesca.

***

    CAMBI E POLITICHE MONETARIE 18 febbraio 2017

Merkel: il valore dell’euro è un problema per l’Eurozona

Chi ha incontrato di recente il giovane governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, giura di averlo sentito ripetere che sono in molti i tedeschi pronti a sostenere che con la politica dei bassi tassi viene colpita la ricchezza privata ma che lui non la pensa così, che questa è una rappresentazione populista, è vero che i tedeschi soffrono per i bassi tassi di interesse ma lui non discute che la politica monetaria, in questo momento, debba essere espansiva, ritiene che sia la scelta giusta e dà volentieri atto a Mario Draghi di avere imboccato questa strada. Il ragionamento di Weidmann è più o meno il seguente: per noi oggi contano più i posti di lavoro che il risparmio dei ricchi, chi risparmia ha diversi ruoli, è un lavoratore dipendente, è un cittadino, quindi per lui la politica espansiva contribuisce a dare la sicurezza del posto di lavoro, probabilmente pagherà meno tasse e avrà il vantaggio di potere decidere di investire una parte del risparmio per comprare una casa. Se non si è ancora capito il falco della Bundesbank e primo azionista della Bce, sempre all’opposizione, da un po’ di tempo in qua fa intendere che la strada imboccata da Draghi è quella giusta.

Mi viene da dire, meglio tardi che mai per un economista che non ha mai creduto in un vero rischio di deflazione e che si è sempre opposto alla politica monetaria della Banca centrale europea, ma che si vede ora costretto a constatare che l’Europa cresce più degli Stati Uniti, che il mostro deflazione è stato per lo meno domato, che il tasso di disoccupazione tedesco è poco sotto il 5%, i giovani sono appagati perché trovano il lavoro che desiderano, e potrebbe aggiungere, ma non lo farà, di avere un surplus commerciale record senza che nessuno a Bruxelles alzi la paletta, apra una procedura d’infrazione, dica di “restituire” qualcosa. Poi, però, farà capire che è sempre Weidmann, anche quando dice cose giuste: non smetterà, cioè, di ripetere che non ha senso che chi ha un debito pubblico più elevato paghi come chi ne ha molto meno per gli acquisti della Bce e ripeterà le critiche al Quantitative Easing (Q E), ma queste critiche sono fuori dalla storia e dal nuovo gioco politico europeo che ha gli occhi puntati sulle elezioni in Francia, dove l’onda lunga della Le Pen è un dato reale, e in Germania, dove Alternativa per la Germania viaggia oltre il 10% e dove la candidatura europeista di Schulz si presenta ostica e competitiva per la cancelleria Merkel.

***

Questi sono i quadri d’insieme europeo e italiano. L’interesse del Paese in casa è chiaro a tutti, impone azioni non galleggiamento, coesione e fare, non proclami, divisioni e dibattiti surreali. Il QE non finirà domani, ma non durerà per sempre, i tassi risaliranno e finanziare il debito costerà di più. Il fattore tempo non è indifferente, mettersi a posto prima è necessario. Bisogna consolidare i risultati raggiunti, il buono ma insufficiente realizzato fin qui non ha debellato il virus del disagio sociale e non può quindi fermare l’onda lunga della protesta e di chi se ne fa a torto o a ragione portabandiera politico. Fare una legge elettorale omogenea tra i due rami del Parlamento è utile, ma le emergenze vere del Paese sono altre e le abbiamo elencate nei dettagli. Abbiamo calcolato qualche giorno fa, con Rating 24, che agire con serietà su pubblica amministrazione, concorrenza, giustizia, cantieri e cuneo fiscale vuol dire “costruire” con le proprie mani le basi per un rafforzamento della crescita da qui al 2019 dell’ordine di due punti di pil e, in un momento in cui l’incertezza politica torna a fare fibrillare i mercati, sottrarsi al ciclone infernale elettorale è di certo una scelta saggia per un Paese che deve collocare ogni anno titoli di Stato ben oltre 400 miliardi, ma non a prescindere e in ogni caso.

C’è bisogno di una maturità e di una consapevolezza dell’interesse generale che si traducano in una scelta politica condivisa e in azioni nettamente più incisive di quelle fatte fino ad ora per recuperare produttività e prospettiva di lungo termine. Il governo Gentiloni è espressione del Pd di Renzi e ne riproduce pressoché in fotocopia la compagine governativa, sarebbe grave se non si cogliesse l’opportunità politica che questo partito ha di continuare a governare, e soprattutto di farlo bene, in un momento delicato come è quello attuale. Siamo tra i più bravi nella gestione del debito pubblico sui mercati, ora dobbiamo dimostrare di essere capaci anche di farlo scendere quel debito e, soprattutto, di farlo scendere rispetto al pil aumentando la crescita. A quel punto, in Europa, si tornerebbe a parlare di messa in comune fino al 60% dei debiti pubblici nazionali e di “Redemption fund” a lunghissima scadenza per il resto e, forse, su questa strada si arriverebbe a capire anche che quei parametri di Maastricht esprimevano medie aritmetiche non valori evangelici e che la storia del mondo è andata da un’altra parte sotto la spinta di una crisi globale senza precedenti.

La vecchia Europa deve riempire di politica quei numeretti, prima di tutto nel suo interesse, che è quello di un assetto federale compiuto e solidale che gioca alla pari con l’America di Trump e l’espansionismo cinese, si misura con il grande focolaio globale del terrorismo, i risvegli nazionalisti alla Brexit e il protagonismo di Putin. Un’Italia con i conti a posto, che non si stanca di governare e rifulge dalle scorciatoie, può dire la sua a testa alta in questa Europa da ricostruire. Dipende da noi, anzi come direbbe Ciampi, sta in noi.

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