LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:56:38 pm



Titolo: Roberto NAPOLETANO
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:56:38 pm
Signor Presidente, l'Italia prima di tutto

di Roberto Napoletano

21 settembre 2011

Il debito totale americano (Stato, imprese, finanza e famiglie) è pari a tre volte e mezzo il prodotto interno lordo. La geografia del mondo ha cambiato le sue 'capitali' e molti poveri di ieri sono i ricchi di oggi tra contraddizioni, processi democratici incompiuti, grandi squilibri, spirito di sacrificio e voglia di fare. La nuova Bretton Woods non si è vista e la finanza speculativa continua a farla da padrona (come prima, più di prima).

In una sola sera, nel luglio del 1790, tre uomini, Alexander Hamilton, da una parte, Thomas Jefferson e James Madison, dall'altra, raggiunsero un compromesso e fecero gli Stati Uniti d'America: una capitale, un esercito, un bilancio statale e buoni del Tesoro. Più di due secoli dopo l'Europa ha fatto l'euro e si è fermata: purtroppo, la cancelliera, Angela Merkel, e il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, insieme non fanno un Kohl.

Fare pagare alla piccola Italia il conto di tutto ciò è troppo. Abbiamo scritto tante volte che il lavoro e il risparmio degli italiani meritano rispetto. Perché se è vero che la crisi è globale ed esige leader e risposte globali che tardano a venire o non arrivano affatto, è altrettanto vero che come avevamo avvertito ('Guai se l'Italia diventa lo Stato da vendere', sabato 30 luglio) il primo Paese che rischia ora, dopo la Grecia, è proprio l'Italia e questo avviene per la fragilità della sua coalizione di governo, la catena imbarazzante di scandali che tocca direttamente il presidente del Consiglio, suoi ministri e loro diretti collaboratori, l'incapacità perdurante di assumere decisioni dolorose ma necessarie, un quadro complessivo di decoro violato delle istituzioni. Sentirselo dire da Jacques Attali, davanti al fior fiore degli imprenditori del made in Italy, come è avvenuto ieri a Bologna, garantisco che fa un certo effetto.

La credibilità del Paese, in questo momento, è un bene troppo importante per essere sacrificato sull'altare di qualsiasi calcolo politico o peggio personale, ancorché legittimi. L'interesse generale viene prima di quello individuale (è giusto che sia così) e sottrarre oggi l'Italia dal circuito perverso - default Grecia, sfiducia sull'Italia e sulle banche sue e francesi, sfiducia sull'Europa che fatica a 'salvare' l'Italia, le banche e se stessa - è un imperativo categorico.

Il presidente del Consiglio dimostri di amare davvero l'Italia e di avere, di conseguenza, la forza e la volontà di farsi da parte se è costretto (come tutto rende evidente) a prendere atto che non riesce a fare quello che serve. Lo faccia nell'interesse del Paese, si comporti da uomo di Stato e da uomo dell'economia. Dopo la Grecia, Signor Presidente, non ci può essere l'Italia, mai e poi mai, per una volta non si giri dall'altra parte e si ricordi che grandi responsabilità impongono anche grandi sacrifici. Sappiamo che le costerà, ma sappia pure che la storia (dopo questo gesto) saprà fare i conti giusti.

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Titolo: Roberto Napoletano. Guai se l'Italia diventa lo "Stato da vendere"
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:57:37 pm
Guai se l'Italia diventa lo "Stato da vendere"

di Roberto Napoletano

30 luglio 2011

La fuga dai depositi del 2008 non c'è e non è nemmeno all'orizzonte, per fortuna. L'interbancario mondiale vive una fase complicata, stare in campana è obbligatorio. La spia della delicatezza della crisi del debito americano, che purtroppo riguarda tutti, si chiama "Money Market Fund" ed è misurata dalla velocità con cui questi fondi monetari disinvestono dai titoli sovrani che hanno in pancia.

Sono l'anello debole della catena del mercato finanziario mondiale e vivono l'incubo che milioni di investitori, soprattutto in assenza di un accordo bipartisan negli Stati Uniti, si presentino mercoledì tre agosto e chiedano indietro i loro soldi per trasferirli sui conti correnti bancari. Questi soldi i "Fund" oggi non li hanno, o non li hanno tutti, e fanno raccolta liberandosi dei titoli pubblici sovrani dei Paesi che ovviamente ritengono più fragili.

In questo contesto, facciamo i conti con uno spread tra i BTp e i Bund che resta elevatissimo e misura in modo inequivocabile l'allargamento del differenziale tra i tassi italiani e quelli tedeschi, e siamo consapevoli che il nostro Tesoro dovrà effettuare una raccolta imponente nella seconda parte dell'anno. A questo punto,la priorità assoluta è una sola: evitare che lo "Stato da vendere" sia l'Italia. Bisogna evitare che le sue banche solide e liquide siano considerate una "propaggine" del debito pubblico italiano. Bisogna evitare che il nostro Paese conquisti sui mercati, agli occhi degli investitori e delle forti mani della speculazione, la palma della fragilità a causa di un quadro politico logorato, del suo maxidebito pubblico e di una malattia ormai strutturale qual è quella della debole crescita.

Questo giornale ha lanciato, il giorno dopo il varo della manovra-lampo da 48 miliardi, un manifesto in nove punti per la crescita. Qualche giorno fa le forze produttive, bancarie e sociali del Paese hanno chiesto all'unisono un segnale di discontinuità nella politica economica che ponga ad horas la crescita – fatti, atti, decisioni – al centro della politica economica del governo.

Il Paese esige che queste risposte vengano date ora, le pretende da chi governa, e ha come suo primo interlocutore, Giulio Tremonti, l'uomo che ha garantito a lungo la tenuta dei conti pubblici italiani, ha fatto da argine ai mille partiti della spesa facile, ed appare oggi indebolito dall'ultimo scandalo nostrano. Tremonti ha commesso una leggerezza (grave) nel chiedere ospitalità, nella casa di via di Campo Marzio a Roma, al suo consigliere politico, Marco Milanese, al centro di una serie di indagini giudiziarie e per il quale pende alla Camera una richiesta di arresto della Procura di Napoli, e si è rivelato in seguito ancora meno avveduto per almeno tre ragioni.

La prima: rimanere in quella casa anche dopo avere appreso dai magistrati la situazione giudiziaria di Milanese. La seconda: procedere al pagamento di questa specie di subaffitto in contanti(lui la chiama ospitalità alberghiera) non appare la più naturale delle pratiche per chi ha anche la responsabilità delle finanze di un Paese. La terza: accreditare l'ipotesi di avere accettato questa sistemazione perché si sentiva spiato (da chi? e perché non lo ha denunciato?).

Ieri mattina gli italiani, dagli schermi di Rai 1, hanno ascoltato il loro ministro dell'Economia parlare della casa di via di Campo Marzio e lo hanno sentito scandire «non ho bisogno di rubare soldi agli italiani». La moralità personale di Tremonti, le sue competenze e capacità intuitive, oltre a un carattere quanto meno spigoloso, appaiono un patrimonio condiviso ed è giusto sottolinearlo, anche in questa circostanza. Gli interrogativi di oggi, però, sono altri, e sono almeno due. Ha la serenità, la determinazione e la volontà per fare, ad esempio, quella riforma delle pensioni che lui voleva inserire nella manovra (e ha dovuto attenuarla) rendendola anzi ancora più strutturale? Si è fatto un esame di coscienza e si è chiesto se si sente nelle condizioni di credibilità per prendere ancora in mano l'iniziativa e cominciare a dare (da subito) quelle risposte sulla crescita che, peraltro, da tempo non ha voluto (o potuto) dare?

P.S. Voto di fiducia sul processo lungo al Senato e ministeri fantasma a Monza appartengono a metodi e bizzarie che non ci piacciono per nulla. Non sono, di certo, la medicina migliore per placare l'ansia dei mercati e ridare speranza al Paese.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com

Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 13 articoli)

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Titolo: Roberto NAPOLETANO L'errore (grave) da correggere
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2012, 02:39:33 pm
L'errore (grave) da correggere

di Roberto Napoletano

27 settembre 2012

«Caro Tonino, non ti illudere, le quattro o cinque misure che hanno rovinato l'Italia le abbiamo già prese, non ci possiamo fare più niente, siamo condannati...» La frase è di Ugo La Malfa e mi è capitata di citarla già altre volte. Era un suo modo per tirar corto nelle conversazioni private con Antonio Maccanico sul futuro dell'Italia.

Al primo punto delle «quattro o cinque misure», riferisce l'amico Tonino, c'erano sempre le Regioni: «Vedrai, vedrai, saranno un moltiplicatore di clientele e di spesa pubblica improduttiva». Ugo La Malfa, come spesso gli capitava, aveva visto lungo, ma in questo caso le sue previsioni nefaste peccano per difetto: non solo sono aumentate le spese pubbliche improduttive e si è trasferito sul territorio, elevandolo (spesso) al cubo, il vizio di caricare sul bilancio pubblico ogni genere di clientela, ma si è riusciti nel miracolo assoluto di aumentare in un decennio la pressione fiscale "territoriale" sui cittadini del 50% senza diminuire (anzi è aumentata fortemente) quella centrale.

Pochi numeri sono sufficienti per percepire la gravità del fenomeno. Ce li forniscono Eugenio Bruno e Gianni Trovati, nell'inchiesta condotta dal Sole 24 Ore che pubblichiamo per esteso alle pagine 2 e 3, e sono inequivoci: dalla nascita delle Regioni a oggi la pressione fiscale è balzata dal 27% al 44,7% e, in particolare, dal 2001 prima del debutto effettivo della riforma del titolo V al 2012 le tasse delle Regioni sono cresciute del 50% e quelle percepite dallo Stato, a livello centrale, del 31,6%. A fronte di tutto ciò, i costi della politica regionale, negli ultimi dieci anni, sono passati da 452,6 a 896,7 milioni l'anno. Distinguere caso per caso è sempre giusto e necessario, ma l'ordine di grandezza complessiva del fenomeno riassume algebricamente la dimensione (allarmante) della nuova questione statuale italiana che non si limita, evidentemente, ai costi diretti (abnormi) della politica.

Si era detto che il decentramento prima e il federalismo poi avrebbero accorciato la filiera tra cosa pubblica e cittadino e avrebbero reso più facile il controllo sulla gestione delle risorse. Non è stato così. Una volta aperta la nuova diga, la massa di acqua della spesa pubblica concentrata tutta al centro si è riversata in periferia travolgendo ogni argine di controllo e moltiplicando, parallelamente, il tasso di angheria burocratica sui cittadini e su chi vuole aprire un'impresa e i poteri di veto sui grandi investimenti infrastrutturali. Far passare la spesa cattiva (tanta) per clientele e poltrone insieme a quella buona (poca) per i servizi a cittadini e imprese è stato un gioco da ragazzi. Viene da sorridere a pensare che sia stato un "Batman" di Anagni a doverlo smascherare. Non è più tempo di indugi e denunce folcloristiche (alzano grandi polveroni e tutto resta come prima) ma è tempo di azione. Il Paese, stremato dalla crisi, esige moralità ed efficienza che passano attraverso la via (obbligata) di un decentramento controllato. Fatti (subito) non parole.

P.S. Domenica primo appuntamento con Rating 24 sul grado di attuazione dei provvedimenti di riforma del governo Monti. Moralità ed efficienza camminano sulle ruote della macchina statale molto più di quello che si pensi. Siamo certi che verificare e rendere conto sia un servizio ai lettori e a chi governa.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-27/lerrore-grave-correggere-063544.shtml?uuid=Abt8QJkG


Titolo: Roberto NAPOLETANO L'umiltà di ascoltare e la capacità di fare
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2013, 04:12:57 pm
L'umiltà di ascoltare e la capacità di fare

Roberto Napoletano
24 febbraio 2013


Mi sono venuti in mente due episodi che ho già raccontato separatamente nei miei Memorandum della Domenica, ma sono convinto che messi insieme possano descrivere bene lo stato d'animo di molti degli italiani che si accingono a recarsi ai seggi, oggi e domani, e le loro aspettative di cambiamento. Sono cittadini che avvertono ogni giorno di più il peso della crisi dell'economia reale, lo sentono fuori e dentro casa, al lavoro e in famiglia. Sono cittadini che non rinunciano a scommettere su questo Paese, sanno distinguere comportamenti, uomini e responsabilità e hanno la consapevolezza che abbiamo scampato il pericolo più grande ma non siamo affatto fuori pericolo. Credono di avere il dovere di diventare più esigenti con se stessi e il diritto di essere governati da chi sa rispondere ai propri bisogni promuovendo e assecondando il cambiamento.

Il primo episodio risale a ottobre dell'anno scorso quando mi sono ritrovato, al Politecnico di Milano, in un'aula gremita di ragazzi e ragazze che sprigionavano vita. A un certo punto, viene citato un passaggio del discorso di uno studente che non riesco più a togliermi dalla testa: «Nel considerare la mia condizione, mi sono chiesto quale caratteristica mi accomuni a tutti gli altri giovani e studenti di questo Paese. La risposta più istintiva è stata la paura». Sono andato a cercare il testo integrale di quel discorso e ho potuto leggere le seguenti frasi: «Sui nostri pensieri incombono mille paure: paura di non riuscire a riscattare tutti i crediti, paura del contratto a progetto che scade; paura di non trovare, dopo gli studi, un lavoro all'altezza delle nostre aspettative o di non trovarne affatto». Inquietante, la conclusione: «Questa generazione, la mia generazione, ha paura del proprio futuro; non credo possa trovarsi un indicatore più significativo per certificare lo stato di malessere di un Paese». Il secondo episodio appartiene alle sequenze di uno specialissimo documentario, dedicato allo storico leader della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, e riproposto davanti alla figlia Baldina, nel salone dell'Archivio Centrale dello Stato a Roma. «Lo voleva bene pure le pietre, non saccio come ha fatto a morì». Dice una voce di Cerignola, raccolta per le strade di Roma, nel giorno dell'addio a Di Vittorio, bracciante, figlio di bracciante, primo sindacalista italiano non ideologico. Fu lui a stringere un patto con i produttori, dentro le logiche del capitalismo, che guidò il mondo del lavoro sul sentiero dell'innovazione e contribuì a conquistare una prospettiva di crescita stabile e non assistenziale, soprattutto per i più giovani. Quella voce di Cerignola, a Roma, che si mescola con tutti i dialetti d'Italia, esprime la gratitudine per il coraggio delle sue scelte.

I giovani, il lavoro, l'economia reale. Questa è la sfida (vera) che il Paese ha davanti a sé e deve vincere assolutamente. C'è un filo che va riannodato in casa e in Europa per sciogliere le ansie e le paure dei nostri giorni. Bisogna tornare a mettere insieme la buona politica, uomini del fare, ceti produttivi e forze sociali, per ridefinire il perimetro dello Stato, eliminare la manomorta della burocrazia e collocare finalmente la manifattura, l'innovazione e la ricerca al centro della politica economica nazionale. L'interesse degli italiani è che domani sera dal voto emerga una indicazione di governabilità stabile in grado di realizzare progetti così impegnativi. Si deve avvertire il peso politico dell'Italia, fuori da semplicismi, trasformismi e nuovi conformismi, perché si attui in fretta il disegno degli Stati Uniti d'Europa, si combattano gli eccessi della finanza speculativa e si affianchi al rigore (necessario) la mobilitazione delle risorse indispensabili per stimolare la crescita.

Il Sole 24 Ore ha esaminato, punto per punto, i programmi di tutti i partiti su tutti i temi più spinosi, dalle tasse alla spesa pubblica, dal lavoro alla sanità, e così via, impegnandosi con un giudizio specifico (Rating 24) di efficacia e di realizzabilità. Abbiamo evitato di inseguire e offrire passerelle ai leader che hanno occupato ogni schermo e sito disponibili, sottraendosi a un confronto diretto e svicolando quasi sempre dai temi veri, ma ci siamo impegnati a dare il massimo delle informazioni utili per mettere il lettore nelle condizioni di fare una scelta con la (sua) testa e contribuire a rendere consapevole la più privata delle scelte pubbliche di un cittadino. Per vincere la paura e ripartire, ne siamo certi, il Paese si deve ricordare che cos'è e ha bisogno di una classe di governo che sappia riconoscere il suo capitale dimenticato e investa su di esso avendo l'umiltà di ascoltare e la capacità di fare.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-02-24/lumilta-ascoltare-capacita-fare-081359.shtml?uuid=AboYhjXH


Titolo: Roberto NAPOLETANO La discontinuità necessaria.
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:54:40 am
La discontinuità necessaria.

Editoriale di Roberto Napoletano

28 febbraio 2013


Il rischio che l'Italia non si può permettere è che l'incertezza politica generi tensione sui mercati finanziari e questa porti a ridurre la raccolta delle banche e faccia venire meno la capacità di credito incidendo sugli investimenti della seconda metà dell'anno e mettendo definitivamente fuori gioco le residue possibilità di riaccendere il motore dell'economia reale del Paese. Bisogna mettere le condizioni, fare le cose e comunicarle, attuare un disegno organico di interventi economici e civili che parli soprattutto ai giovani, affinché non si riproponga il rischio enorme e reale che abbiamo corso a novembre del 2011 e che la gente ha rimosso perché non si è materializzato. Parola di Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco.

Per fare tutto ciò occorre un governo nel pieno dei suoi poteri che porti urgentemente fuori l'Italia dalla tempesta perfetta del 25 febbraio e segni la piena discontinuità con quel filo indistinto di politica economica che tiene insieme i lunghi anni di Tremonti al Tesoro con l'ultimo anno di governo Monti dove la disciplina fiscale (virtù necessaria, da preservare) si è coniugata in forme e modalità differenti ma senza mai incidere nel corpo vivo della (inefficiente) macchina dello Stato e senza mai riuscire a scalfire in misura adeguata il tabù della spesa corrente. L'unico tabù, se abbattuto o ridimensionato fortemente, in grado di liberare correttamente le risorse necessarie per ridurre gli abnormi prelievi fiscali e contributivi su lavoratori e datori di lavoro e alimentare un flusso apprezzabile di investimenti, a a partire dalla scuola e dalle infrastrutture, per provare a modernizzare il Paese. Non è vero che non si è fatto niente, soprattutto in materia previdenziale, ma ciò che è sempre colpevolmente mancata è un'attenzione effettiva, di lungo periodo, fatta di scelte strategiche e di cose che si possono vedere e toccare sull'unico, assoluto, punto di forza dell'economia italiana, che è la sua peculiarissima manifattura. Una rete di imprese di ogni tipo di dimensione che è sempre riuscita, nonostante un carico di fardelli pesantissimi e più di una debolezza costitutiva, a intrecciare tradizione, innovazione di processo e di prodotto e a conquistare pezzi sempre nuovi di mercati.

Il Paese ha bisogno di preservare il valore della disciplina fiscale ma deve uscire in fretta dalla percezione di una linea di politica economica filo-tedesca (hai peccato, devi soffrire) per riuscire a coniugare finalmente rigore e crescita in nome dell'interesse italiano, investendo organicamente sul talento dei suoi giovani e sulle forze sane della sua economia. Non c'è altra via per uscire dal circolo vizioso in cui ci siamo infilati e recuperare un tasso di crescita che ci consenta, tra l'altro, di pagare almeno una parte dei nostri debiti. Ai giovani si deve spiegare che molti dei lavori impiegatizi di una volta sono spariti per sempre ma si deve essere anche in grado di assicurare le risorse finanziarie e le capacità tecniche per guidarli in un mondo diverso dove sopravvivono lavori manuali e esplodono quelli della progettazione e della nuova economia. Alle imprese bisogna chiedere di fare fino in fondo la propria parte, ma bisogna anche assicurare loro alcune certezze all'interno di un ginepraio di distorsioni che arriva a consentire impunemente allo Stato di non cominciare nemmeno ad onorare il pagamento di una parte dei suoi debiti. Porre condizioni di non ritorno per ridefinire il perimetro dello Stato, snellire e modernizzare la sua macchina amministrativa a favore dei cittadini e di tutti gli operatori economici, eliminare le vergognose noccioline della cattiva politica, ridurne sensibilmente i costi e assicurare una legge che possa estirpare per davvero la mala pianta della corruzione, completano un disegno organico di interventi che ponga finalmente al centro della sua azione lo sviluppo del Paese e il suo capitale dimenticato.

Per fare tutto questo, e nessuno può a cuor leggero sottrarsi a tale sfida obbligata, occorre uscire in fretta, molto in fretta, dalla tempesta perfetta del 25 febbraio assumendosi ognuno per la sua parte la quota di responsabilità che i cittadini elettori hanno loro attribuito con il proprio voto. Il Paese ha bisogno di un governo stabile che faccia le cose, lo esige quello che resta della sua economia reale, lo pretenda la politica da se stessa se non vuole tornare a lamentarsi di quella "dittatura" dei mercati e dello spread che si appalesa solo occupando il vuoto della (buona) politica.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-02-28/discontinuita-necessaria-063540.shtml?uuid=AbpwAAZH


Titolo: Roberto NAPOLETANO Liberi l'Italia dal ricatto della burocrazia
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2013, 09:06:05 am
Liberi l'Italia dal ricatto della burocrazia

di Roberto Napoletano
8 settembre 2013


Non sarà questo giornale a mettere in discussione il valore costitutivo della stabilità politica per un Paese che vede i suoi tassi riallinearsi a quelli spagnoli, intravede tenui segnali di ripresa e porta sulle spalle i fardelli di un debito pubblico monstre. Vorremmo solo chiarire subito che la stabilità se non serve a liberare l'Italia dal ricatto della burocrazia in senso ampio e a cambiare le teste di noi italiani non ci porterà lontano.

Perfino la cosiddetta spending review della spesa pubblica è logorata dall'abuso di parola e dall'assenza di fatti, si trascina stancamente, come enunciazione programmatica, di governo in governo, e finisce con il misurare l'impotenza decisionale del Paese, il livello della (sua) malattia politica e civile e, di conseguenza, il suo tasso (grave) di declino. Enrico Letta ha un'occasione irripetibile ma deve dimostrare di avere la volontà e le capacità per coglierla. Non si accontenti di mettere a frutto tutto ciò che serve a creare stimoli per la ripresa, alzi con determinazione il tiro della sua scommessa politica, cominci da dove hanno fallito tutti e operi in una logica pluriennale di interventi. A quel punto, vedrà che il portato (inquietante) di vent'anni di distorsioni e di conflitti tra poteri e interessi mai affrontati e mai risolti che hanno inciso (e continuano a incidere) pesantemente sulla credibilità delle nostre istituzioni non potrà più sbarrarle la strada e si riuscirà a evitare, in extremis, l'umiliazione di vedere allargare in modo non più recuperabile il fossato tra noi e gli altri.

Si sporchi le mani in prima persona, presidente Letta, avviando concretamente con gli uomini giusti (ci sono) la ristrutturazione della macchina dello Stato, delle amministrazioni territoriali e delle autorità terze, lo faccia attrezzando ad horas strutture dedicate capaci di abbattere il muro culturale che sta impantanando questo Paese in un ragionamento del tipo: il tale ufficio non mi serve, non ti posso sciogliere, allora non ti do un soldo ma ti mantengo. Sfidi le parti politiche e sociali, tutte, alla prova dei fatti. Le amministrazioni devono capire che l'unica via non può essere sempre (e solo) quella di aumentare le tasse, si privatizzi tutto ciò che è privatizzabile particolarmente a livello locale. Il sindacato (soprattutto nel pubblico) deve capire che non può continuare a difendere l'indifendibile, deve superare i (suoi) tabù sui nuovi lavori e deve (non solo) consentire ma esigere che la digitalizzazione avanzi e si avvalga dei nostri cervelli migliori scegliendoli con criteri meritocratici e pagandoli per quello che valgono. Le imprese devono fare la loro parte fino in fondo alla voce innovazione e sui mercati globali, affrontino finalmente la sfida dimensionale in casa e non si tirino indietro per dare il loro contributo dentro le strutture pubbliche del Paese che ne hanno bisogno. Gli uomini della manomorta dello Stato centrale e locale dimostrino di essere lungimiranti, rinuncino alla conservazione non al patrimonio di esperienza, si rendano conto che il potere di interdizione coincide con la morte loro e del Paese: se si dice che si rilascia un'autorizzazione la si (deve) rilasciare non traccheggiare e se un ente è inutile lo si liquidi e si garantisca il sostegno entusiastico per valorizzare le risorse umane di quell'ente inutile laddove servono davvero.

Nessuno si deve più permettere, nemmeno per scherzo, di alimentare il dubbio che in Italia governa la burocrazia perché, altrimenti, gli investimenti non arrivano, la scuola non la cambieremo mai, i nostri giovani meritevoli ci lasceranno sempre più numerosi e, tanto meno, miglioreremo (anche questo è vitale) la nostra sanità e la qualità dei nostri servizi. Non esiste altra via, se non questa tutta in salita, per recuperare davvero le risorse necessarie a ridurre la mole abnorme di prelievi fiscali e contributivi che mette a terra un sistema produttivo non immune da vizi ma comunque tra i più dinamici e internazionalizzati. Non esiste altra via se si vuol tornare a fare davvero ricerca e a mettere in rete aziende, università, giovani di valore italiani e non. Non esiste altra via, se non la più difficile, quella che parte dalla ristrutturazione dello Stato e della sua manomorta burocratica, se si vuole garantire un futuro a un Paese come l'Italia che ancora soffre in un'Europa che prova a ripartire ma non ha risolto i problemi del suo Mezzogiorno e rischia di fare i conti con quelli potenzialmente non meno gravi di Francia e Olanda. Il pericolo guerra in Siria e il rallentamento dei Paesi emergenti rendono ancora più stretta la via per economie fortemente internazionalizzate e flessibili fuori dai confini nazionali come è la nostra. Il rischio più grosso, per l'Italia, è quello di continuare a non fare investimenti in casa, alimentare la spirale della sfiducia e lasciare cadere ulteriormente la domanda interna. Per questo è urgente che la scossa parta dallo Stato e liberi il Paese da quei piccoli o grandi ricatti della pubblica amministrazione che lo hanno messo in ginocchio e rischiano di non farlo rialzare più.


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Titolo: Roberto NAPOLETANO Ma quale Paese vuole Renzi?
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 07:02:18 pm
Ma quale Paese vuole Renzi?

di Roberto Napoletano
7 agosto 2014

«Ma Renzi le cose le fa o non le fa?». Questa è la domanda di oggi. Dopo il 40,8% nell'urna, un risultato politico storico che ha dato forza alla speranza, è arrivato il meno 0,2% del pil che segue il meno 0,1% del trimestre precedente e fa ripiombare l'Italia in recessione, con una stima annua di meno 0,3%. Alla domanda che tutti si pongono, dai vecchi saggi dell'Europa alla comunità degli investitori, imprese, famiglie, giovani, da ieri non fa più seguito la positiva attesa di qualche mese fa, ma un'aspettativa di semplice attesa. La capacità di Renzi e del suo ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, deve essere quella di agire, alla voce fatti, prima che questa aspettativa neutra si trasformi in un sentimento comune (pericolosissimo) di attesa negativa. Potremmo dire (Ritorno alla realtà, 16 maggio, Il coraggio della verità, 11 luglio) che siamo stati facili profeti, ma non lo faremo. Abbiamo l'interesse esattamente contrario: sappiamo quanto sia vitale che il Paese riparta, lo vogliamo come italiani, sappiamo che qui ci sono le competenze per cambiare con le proprie teste e con le proprie mani.

Servono investimenti interni ed europei, pubblici e privati, quelli veri, quelli possibili, non la farsa dei 43 miliardi annunciati all'Expo parlando dello sblocca-Italia. Serve un disegno di sviluppo condiviso che metta al centro l'investimento e Renzi deve dimostrare di averlo e di essere capace di realizzarlo. Mille giorni, bene, ma per fare che cosa? Chi ci osserva da fuori vuole capire se l'Italia è in grado di gestire situazioni difficili e la risposta non può non essere un disegno organico di azioni che riguardano l'economia e vengono comunicate e attuate in tempi certi. Con le risorse destinate al bonus di 80 euro, si poteva dare una scossa seria agli investimenti scegliendo la strada prioritaria di abbassare in modo significativo l'Irap, gli investimenti "producono" lavoro e consumi, ciò di cui si ha più bisogno. Non si è fatto e oggi i dati dell'Istat certificano che è, soprattutto, la caduta degli investimenti ad averci riportato in recessione. La linea di provvedimenti del fare del governo Letta (bonus per l'edilizia e altro) va proseguita e rafforzata. Non pensate che siano piccole cose, il pil si nutre di bonus che si ripagano. Si agisca, come promesso, su mercato del lavoro, riforma fiscale, macchina dello Stato e giustizia, a partire dalle due emergenze assolute che sono il civile e l'amministrativo. Sulla spending review si operi non con la logica del taglione (tolgo da qui e metto lì) ma con quella di un recupero di efficienza che riduca stabilmente i costi dello Stato. Queste sono le priorità, non le riforme istituzionali, che sono ovviamente importanti, ma vengono un attimo dopo e vanno messe a punto in Parlamento, consentendoci di uscire dalla trappola del bicameralismo perfetto evitando nuovi gattopardismi su ruolo e peso delle Regioni. L'urgenza è l'economia e guai se i mercati si dovessero convincere che chi ci governa sottovaluta. Il tema del debito pubblico e delle privatizzazioni si affronti con pragmatismo senza lasciare nulla di intentato, ricordandosi, però, sempre che la via maestra è quella di recuperare la strada della crescita.

    Il ministro Padoan: «L'economia italiana peggiora, la velocità delle riforme è tutto»
Sia chiaro: la metà dei problemi non è colpa nostra. I troppi focolai di crisi geopolitica (Russia-Ucraina, Israele-Palestina, Siria, Iraq, Libia) frenano la crescita mondiale e chiudono fette di mercato per le nostre esportazioni, ma anche per quelle tedesche. Il vero rischio che corre l'Europa è quello di non prendere atto che, così com'è, la Germania non riesce ad essere una forza propulsiva per sé e per gli altri, manca il traino del suo mercato interno. Oggi, però, la Commissione è in stallo, la Bei non funziona come dovrebbe, la politica monetaria ha fatto e farà tutto il possibile per evitare la deflazione iniettando tanta liquidità in giro, ma perché la ripresa riparta ci vuole almeno una domanda potenziale. Per questo l'Europa sarà chiamata, nei tempi che riuscirà a darsi, a promuovere con forza un vero New Deal, dovrà dotarsi di un esercito e di una politica estera comuni. Per noi e per la nuova Europa in costruzione sarà vitale che il governo Renzi raddoppi gli sforzi e alimenti un circolo virtuoso di investimenti-aspettative-fiducia che si trasmette alle imprese e alle famiglie facendo sì che ritorni la voglia (sana) di spendere. Si deve percepire che ci sono il disegno e la reale volontà di attuarlo uscendo dalla logica del colpevole (l'Europa, la banca, il burocrate e così via) che aumenta i voti nell'urna, ma non risolleva l'economia.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO L'orgoglio ferrarese, Donna Tartt e i libri eterni
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2014, 05:33:35 pm
L'orgoglio ferrarese, Donna Tartt e i libri eterni

Di Roberto Napoletano
5 ottobre 2014

Intorno al lungo tavolo a ferro di cavallo del salone d'onore di Palazzo Magnanini detto Roverella, nel cuore di una Ferrara piena di sole e di storia, ho passato la mattinata di sabato della scorsa settimana e mi ha riconciliato con la scrittura e l'amore per il libro.

Presiedo la giuria tecnica del Premio Estense e tutti i testi selezionati sono di assoluta qualità, ma ciò che mi è rimasto dentro è l'orgoglio dei quaranta giurati popolari ferraresi, la passione che traspare dalle loro parole, il senso profondo che lega questo premio al “popolo della Bassa” e alla città del Rinascimento. Si capisce, intervento dopo intervento, che dentro le Mura la magia del libro e il gusto della lettura non si sono mai spenti. Miracoli di quella provincia italiana che custodisce tradizioni e valori senza mai alzare la voce, che insegue la psicologia dei personaggi e si innamora del dettaglio, si accapiglia sulla qualità della scrittura e il gioco dei sentimenti. A vincere sarà Il Paese del Male di Domenico Quirico e Pierre Piccinin, molto più del racconto di una prigionia, un viaggio nella cattiveria che fa tremare il mondo, ma ora mi scorre davanti agli occhi il racconto di quella mattinata, le osservazioni sulla corposità del libro di Giuseppe Marcenaro, Wunderkammer, la sua copertina monocromatica e senza foto, la finezza della scrittura narrativa e il passo ironico che anima i suoi personaggi più o meno noti. Ricordo l'intervento appassionato di un imprenditore, Giorgio Piacentini, che non nasconde il suo trasporto per Wunderkammer e vuole a ogni costo smontare il rilievo sulla corposità e lo fa così: «Ascoltandovi, mi è venuto in mente un viaggio di qualche mese fa e una sosta in Autogrill.

Vedo un ragazzo di dodici/tredici anni che si avvicina all'espositore dei libri con occhio curioso e interessato. Prende in mano un grosso libro. Sopraggiunge la madre e con fare frettoloso, sbrigativo, ahimè superficiale, gli dice: che cosa fai con quel libro, è troppo grosso, vieni via! Il ragazzo ripone il libro con sguardo triste, rassegnato. In quel momento ho pensato che se quella mamma avesse letto Wunderkammer, probabilmente avrebbe lasciato libero suo figlio di approfondire la sua voglia di conoscenza».

Si ferma un attimo, alza gli occhi al cielo, e poi tira le sue conclusioni: «Siamo nella lunga notte dell'euro, i Paesi del Male si moltiplicano, i libri continuano a bruciare ma risorgono dalle loro ceneri: riposiamoci un po', leggendo un libro di incredibile bellezza che tra l'altro fa rifulgere, se ce ne fosse bisogno, la nostra lingua italiana». Divertente il siparietto, dopo la proclamazione del vincitore, di Giuseppe Marcenaro che ringrazia Piacentini per il suo giudizio e si sente dire da un altro giurato popolare, l'avvocato Giovanni Polizzi, che «il suo è un libro eterno, si può leggere sempre, in ogni momento della nostra vita mentre il libro di Quirico è un libro attuale, importante che si può leggere con interesse soprattutto in questo momento storico». Marcenaro saluta entrambi, e dice «Beh, vincere è sempre da snob!».



Venerdì sera vado a cena da Paolino, a Capri, mancavo da un po' ma sotto la limonaia sento odore di casa, e mi ritrovo a tavola a fianco di Donna Tartt, premio Pulitzer per la narrativa con il romanzo Il Cardellino, 892 pagine di grande letteratura e una donna minuta con il Mississippi nel cuore, e di un festeggiato molto speciale, Raffaele La Capria detto Dudù, che “accudisce” la Tartt come una figlia e viene ricambiato di premure fino al taglio della torta del novantaduesimo compleanno. Scherza Dudù, un pezzo di letteratura tra Napoli e Roma, e butta lì: «Mio fratello dettava e io scrivevo».

Donna Tartt muove i suoi occhi vispi e intensi, e racconta: «Quando scrivo non mangio, mi nutro di mandorle». Le chiedo dei giovani americani e mi dà una risposta per me sorprendente: «Hanno riscoperto il libro di carta, tutto merito di Harry Potter, in America si va a decenni, prima c'è stata la moda dell'impegno civile, poi quella del cinema e della musica, poi è arrivata la lunga stagione salutista, ora i ventenni sono tornati a entrare in libreria, a toccare e leggere il libro». Guardo Dudù, mi sembra soddisfatto, ma chiede conferma: «Che cosa ha detto lo “scricciolo pieno di vita”? Ho capito bene? Ha detto che è ritornata di moda la lettura del libro, è vero? Che bella notizia!». «Sì Dudù, ha detto proprio così» rispondo e torno con la testa a Ferrara e all'incontro in Autogrill dell'imprenditore giurato. Speriamo che le altre mamme italiane leggano Wunderkammer e non dicano mai più «vieni via» al figlio adolescente che vuole comprare «un libro grosso».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-10-05/l-orgoglio-ferrarese-donna-tartt-e-libri-eterni--160510.shtml?uuid=ABZLfE0B


Titolo: Roberto NAPOLETANO IL CASO ITALIA E LE STRINGHE TEDESCHE DI EUROPA E BCE
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2014, 11:43:22 am
IL CASO ITALIA E LE STRINGHE TEDESCHE DI EUROPA E BCE

Di Roberto Napoletano
24 dicembre 2014

Dall'inizio della crisi ad oggi l'Italia ha perso un quarto della produzione industriale, nove punti di prodotto interno lordo, quindici nelle sue regioni meridionali, l'Italia che tutti abbiamo conosciuto non esiste più, si è dissolta, potremmo usare un'espressione forte e dire che è morta. Prima prendiamo coscienza di vivere in un'altra Italia, in un Paese più piccolo e sempre più diseguale, nato povero e diventato ricco, ma che ha continuato a vivere da ricco anche quando non lo era più, meglio è.

Sarà più facile rendersi conto delle colpe nostre, vengono da lontano, sono gravi (hanno la sintesi algebrica in un debito pubblico di 2.157 miliardi) e fanno fatica a sparire dalla scena di questi giorni dove monta la tensione sociale e riappaiono rigurgiti terroristici, i vizi della politica vecchia e nuova si intrecciano con quelli del malaffare e della criminalità e finiscono con intaccare duramente il capitale più importante di un Paese che è la sua reputazione.

Sarà più facile riconoscere le colpe, altrettanto gravi, che appartengono alla parte malata della finanza anglosassone e alle sue appendici tedesche ugualmente malate (non erano aiuti di Stato le centinaia e centinaia di miliardi che il Tesoro americano e il bilancio pubblico tedesco hanno sborsato per salvare le loro banche piene di buchi?) e a una cattiva regolamentazione dei mercati finanziari globali che sopravvive a tutto e tutti (dove è la nuova Bretton Woods?). Per non parlare di quel nazionalismo germanico ricorrente ammantato, di volta in volta, dietro questa o quella regola europea, che impedisce nei fatti di realizzare gli Stati Uniti d'Europa e di attuare l'idea solidaristica e ambiziosa che apparteneva ai padri fondatori e, senza la quale, si condanna alla marginalità la più grande area di consumo al mondo. Possibile che la politica e la finanza tedesche (l'industria ne è consapevole da tempo) non si rendano conto che l'America ha ripreso a correre perché ha attuato azioni economiche e monetarie fortemente espansive e che questa è la strada perché anche la domanda interna europea si risollevi?

I focolai italiani di fiducia e l'Europa politica bloccata
La piccola-grande Italia uscita dalle due crisi, interna e internazionale, si ritrova in questo passaggio di Natale e di fine anno a fare i conti con i suoi ritardi e i suoi difetti che incidono pesantemente sul tessuto civile, riducono le opportunità di lavoro, sbarrano la strada ai focolai di fiducia che pure ci sono, e con un'Europa politica bloccata (dove sono gli eurobond e gli investimenti veri, saranno o no fuori dal patto? Quanto varrà il piano Juncker?) e quella monetaria (Bce) alle prese con uno snodo delicato (arriva e come il bazooka di Draghi?). Per la prima volta, questa Italia tormentata di oggi si presenta con una situazione dell'economia reale più pesante di quella del novembre del 2011 stretta nella tenaglia di mercati pronti alla prima occasione a riaccendere i riflettori sui titoli sovrani italiani come fu in quella stagione (per i deboli di memoria: nessuno al mondo comprava un titolo Italia) e le ennesime stringhe che i condizionamenti tedeschi e del Nord Europa potrebbero di fatto imporre alla Bce nel varo del Quantitative Easing (QE), il nuovo bazooka, paventando il rischio di trasformare un'azione di politica monetaria in un'altra camicia di forza per un Paese stremato da anni di miope austerità .



La doppia partita di Renzi e Draghi
Sarà il governo di Renzi all'altezza di una sfida che fa tremare vene e polsi, ne ha la forza, il capitale umano e la statura internazionale? Ce la farà Mario Draghi a mettere in campo quella che è da sempre la migliore delle sue qualità e, cioè, la capacità politica di fare al momento giusto la mossa giusta? Quanto peseranno i mille populismi che fanno credere agli italiani (ahimè con successo) che i loro risparmi e i loro posti di lavoro sarebbero più al sicuro fuori dall'euro omettendo la banale considerazione che il debito pubblico italiano attaccato a quello europeo fa paura e incute rispetto, fuori sarebbe solo nostro e quindi nessuno si preoccuperebbe di risparmiarci la stessa sorte di povertà che è toccata agli argentini con il loro default? O ancora, molto banalmente, che aziende come Enel, Telecom, impegnate nella realizzazione di un importante piano industriale, e molte altre altrettanto indebitate, uscendo dall'euro, salterebbero dalla sera alla mattina perché non sarebbero più in grado di rimborsare i debiti, che resterebbero in euro, ai detentori delle loro obbligazioni sottoposte al diritto inglese? Questi sono i fatti, richiedono un'analisi ragionata e articolata che vada in profondità e, per questo motivo, abbiamo deciso di abusare della vostra pazienza e di scrivere questa specie di lettera che racconta l'Italia in Italia e l'Italia in Europa, con fatti e angoli di lettura meno usuali, allo scopo di far capire come stanno realmente le cose e di rendere più chiari e riconoscibili difetti e qualità della nostra classe politica e di quella a tratti “feticista” che guida oggi l'Unione europea.
 
L'Italia di oggi, al netto della propaganda gufi compresi, vive una situazione economica di stagnazione, le prospettive di ripresa sono legate a quanta gente si riuscirà a far lavorare, all'aumento del reddito disponibile e al ritorno degli investimenti pubblici (scarseggiano, 8 miliardi nel triennio 2015-2017) e di quelli delle imprese private le quali per tornare a investire chiedono di avere certezza nell'attuazione delle riforme a partire da quelle fiscale e burocratica. Chiariamoci subito: ci sono imprese che hanno saccheggiato lo Stato e hanno stretto patti perversi con la criminalità organizzata, sono il male assoluto, e il mondo delle imprese deve avere la forza di recitare il suo mea culpa e di tagliare alla radice questo tumore; è altrettanto vero, però, che c'è un tessuto diffuso di medie aziende manifatturiere italiane (vanno dalla meccanica di precisione e strumentale, chimica e informatica di specialità, al mobile-arredo, sistema moda e agro-alimentare) che ancora oggi fa 400 miliardi di esportazioni e 100 di saldo positivo che è, peraltro, l'unica voce all'attivo in un Paese che vive di spesa pubblica e debito. Se si voleva che la parte sana dell'economia italiana riprendesse a correre, investire e dare lavoro, non era proprio il caso di impegnare 9,5 miliardi in un bonus da 80 euro che non ha avuto effetti sui consumi e sottratto una dote preziosa per potere annunciare al mondo che lo shock fiscale italiano era finalmente cominciato in modo trasparente e lineare. Non riconoscere, tuttavia, che i 5,7 miliardi a regime di taglio della componente del lavoro dell'Irap e la detassazione per i nuovi assunti sono cosa buona e vanno nella direzione giusta sarebbe sbagliato. Il punto è che in recessione e deflazione si assume molto poco e resta il rammarico che l'effetto cumulato di questi nuovi interventi con l'utilizzo della dote dei 9,5 miliardi degli 80 euro avrebbe funzionato da moltiplicatore in termini di leva psicologica e di sostanza per gli imprenditori italiani e gli investitori esteri regalando un carattere davvero espansivo alla prima manovra non recessiva dopo tanto tempo. Peccato.

Il macigno di distorsioni da abbattere e il morbo italiano della corruzione
Sul secondo, decisivo fronte, si è cominciato a fare qualcosa, la semplificazione della delega fiscale è legge, mancano gli altri decreti attuativi, la delega di riforma della Pa che ha la polpa di tutto è approdata in Parlamento, si procede tuttavia a rilento e, a oggi, per aprire e gestire un'impresa in Italia bisogna ancora fare così tante cose, riempire così tanti fogli di carta, si incrociano discipline amministrative, fiscali, ambientali e sindacali, che alla fine del processo si è più maturi per fare il consulente d'impresa che l'imprenditore. Le norme ambientali e sanitarie variano da regione a regione, da Asl a Asl, se non si riesce ad abbattere un tale macigno di distorsioni, in questo Paese, creare lavoro e conservarlo diventa difficile. Questa è la realtà, il resto sono chiacchiere. Legalità e corruzione: Mose, Expo, Mafia Capitale, per molto meno un Paese consuma il suo capitale reputazionale, e noi esitiamo a prendere per decreto (non disegno di legge) le decisioni giuste. Non sono sempre lineari i calcoli che si fanno in termini di pil mancato per la corruzione, di certo la reputazione passa per una giustizia prevedibile, con pene certe, agenti provocatori, prescrizioni non di comodo, e un unicum di riforme esecutive che aggiusta, corregge, non ricomincia sempre daccapo finendo, di fatto, con il favorire i ladri. Si è fatta l'autorità per la corruzione e Cantone sta ben operando, merito di questo governo, ma per debellare il morbo che appartiene alla cattiva politica e a un intreccio perverso e diffuso di cattiva burocrazia e di criminalità organizzata che viene prima e dopo la politica, si deve far capire alla voce fatti (lo sdegno non basta) che questa volta si agisce sul serio. Perché, ad esempio, non si sono tagliate, come chiedeva Cottarelli, le municipalizzate? Che cosa si aspetta a disboscare le giungle burocratiche di Regioni e Comuni? Serve davvero il compromesso raggiunto sulle Province? Che fine ha fatto la spending review?

Il passo in avanti del Jobs Act e i pasticci da evitare
Per rimanere alla congiuntura, i consumi sono ancora in caduta, gli acquisti di Natale si fanno largo a fatica tra Imu, Tasi, saldi delle imposte di fine anno, qualche segnale positivo viene dall'immatricolazione delle auto ma il reddito disponibile resta scarso, è vero che persiste una dote di risparmio delle famiglie italiane ancora apprezzabile (meno di prima comunque) ma perché si mobiliti e entri nei consumi occorre la fiducia e quella non la danno piccoli sostegni al reddito mensile comunque erosi da tasse odiose ma la ripresa dell'occupazione, il ritorno del lavoro. Per creare lavoro sono fondamentali gli investimenti che, a loro volta, hanno bisogno di shock fiscale, meno burocrazia, serietà delle imprese e modernizzazione del sindacato. Siamo sempre lì. In questo quadro, l'intervento sul mercato del lavoro che va sotto il nome di jobs act è di certo un passo in avanti a patto che i decreti attuativi evitino pasticci. Soprattutto, a questo provvedimento che resta importante per la flessibilità in uscita e per la scelta delle tutele crescenti in entrata che spezza la catena del precariato a vita, è mancato il coraggio di abbattere il muro più alto e di fare in modo che le nuove regole valessero anche per i contratti in essere. Il cambiamento si nutre di scelte coraggiose, ma si può cominciare anche dal muro più piccolo soprattutto se nessuno ci era riuscito prima.
 
L'eresia di Di Vittorio che il Paese invoca per vincere la sfida dei nuovi lavori
Il coraggio eretico che ebbe Di Vittorio alla guida della Cgil negli anni della ricostruzione è necessario che lo abbiano oggi, in questo Paese, tutti i sindacati per affrontare e risolvere i problemi strutturali che si aggiungono a quelli congiunturali. Ci sono o non ci sono per affrontare la sfida dei nuovi lavori e capire come saranno retribuiti? Per capire che molti dei lavori di oggi presto non esisteranno più, ma serviranno, ad esempio, nuovi occupati nella logistica al servizio degli acquisti su internet che riguarderanno anche i prodotti alimentari. Le imprese resistano alla tentazione di sostituire tutta la manodopera in uscita con chi costa meno, bisogna investire sui giovani e sulla conoscenza, di questo hanno bisogno le multinazionali tascabili italiane, guai se rinunciano a investire sulla ricerca e sui brevetti e a scommettere sulle migliori risorse umane. Anche i medici rischiano con i nuovi protocolli e la standardizzazione dei prodotti, ma di un medico e di un insegnante specializzati e competenti ci sarà sempre bisogno e qui, su scuola e università dove l'impegno è dichiarato ma va riscontrato sul campo, si misura la volontà di fare riforme che cambiano davvero le cose.

Il cammino compiuto per garantire la normalità, gli errori da correggere
Dove si è fatta più strada è sul tema istituzionale, a partire dalla riforma della legge elettorale e del Senato, che è assolutamente fondamentale ma nell'emergenza italiana viene un attimo dopo le riforme fiscali, della pubblica amministrazione e della corruzione decisive per l'economia. Garantire la governabilità è un passo obbligato per un Paese che vuole cambiare e guadagnare la normalità: capire la sera, dopo lo scrutinio dei seggi, chi ha vinto e chi ci governerà. Attenzione, però, a consegnare il nuovo Senato totalmente nelle mani di quella classe politica regionale che si vuole giustamente ridimensionare. Attenzione ai tanti piccoli snodi, collegi e preferenze, dove si custodisce la democrazia e lo spirito lungo dei nostri Padri Costituenti. Sono valori importanti nel Paese dei mille conflitti di interesse. Potrà sembrare maldestro scendere dall'empireo della Costituzione e della democrazia effettiva ai problemi di amministrazione delle città e dei nostri mille borghi, eppure mi chiedo: che cosa impedisce di cominciare ad affrontare seriamente il problema della manutenzione del territorio e della programmazione dei servizi evitando lo sconcio di bucare in eterno una strada per attaccare, di volta in volta, la rete del gas, della luce, della banda larga, e così via? Quanto è lunga la strada italiana del cambiamento, ma è un sentiero obbligato, e qui il nazionalismo tedesco non c'entra niente, dipende solo da noi.

C'è una burocrazia europea che rischia di far rimpiangere quella italiana, pervasa da un senso quasi religioso per cui tutto è aiuto di Stato. Se si continua a chiedere, ad esempio, aumenti di capitale alle banche italiane c'è un rischio concreto di prociclicità perché si tolgono risorse da destinare al credito alle imprese e ci si lamenta che gli investimenti non ripartono dopo anni in cui sono calati del 25/30 per cento. Il quadro reale italiano, per come dovrebbe essere letto e correttamente interpretato a Bruxelles, è quello di un Paese dove la spesa, al netto degli interessi sul debito, è cresciuta nei primi sette-otto anni del nuovo millennio ed è discesa negli ultimi quattro-cinque sempre in rapporto al pil. Il nostro disavanzo è stato molto virtuoso, la crescita non è stata virtuosa, il rapporto debito/pil continua a salire perché l'austerità taglia le gambe alla crescita, in un circolo vizioso che si ripete da troppo tempo, e i mercati si chiedono se possiamo continuare a pagare nel lungo termine i tassi di interesse sul debito. Perché l'Europa non si chiede che senso ha un disavanzo virtuoso che ammazza l'economia di un Paese e la smette con quel “feticismo religioso” che li spinge a ritenere che ogni allentamento delle regole per gli italiani si tradurrebbe solo nell'ennesima occasione per buttare via altri soldi?

Il conto che paga ingiustamente l'economia reale italiana
La verità, e bisogna cominciare a dirselo con sempre maggiore chiarezza, è che la politica europea nella versione di Weidmann o di Schäuble è piuttosto nazionalista e nasconde il suo nazionalismo dietro la religione di regole affette da strabismo. Non erano aiuti di Stato, forse, i 247miliardi che i tedeschi hanno usato per coprire i buchi delle loro banche e perché l'Europa decise allora di non farli valere come tali per tutti? Come si giustifica l'altolà tedesco contro il “Made in” dopo gli impegni presi e quanto inadeguata è apparsa in questa partita la politica italiana? Tutto ciò è andato, è andato e non se ne parla, tutto nascosto, dimenticato, restano solo gli italiani che non sanno rispettare i vincoli di bilancio e non sanno garantire una trasparenza e una correttezza di comportamenti non censurabili sul piano etico e economico. All'Italia si rimprovera un ciclo elettorale continuo (è vero) e non si fidano, anche perché la nostra risposta è quella di cercare il colpevole (una volta le banche, un'altra l'euro, poi la burocrazia) per cui anche chi persegue un disegno nobile dentro l'Europa deve misurarsi con le posizioni estremistiche in casa e con i limiti di un percorso europeo che è ancora ostinatamente una moneta senza Stato. Non ci sono effettivi passi avanti nella condivisione dei bilanci pubblici o della difesa, si procede lentamente e con grande debolezza perfino sulla strada di un meccanismo unico, con fondi europei, per la risoluzione delle crisi bancarie.
 
 

Abbiamo fatto molto più dei francesi e non ci viene riconosciuto
In questo contesto, può addirittura accadere che gli stress test penalizzino anticipatamente le banche italiane non solo per il pil e la mancata crescita, ma addirittura per un evento ipotetico sulla base di simulazioni che accreditano un fatto che non si è realizzato. Immaginiamo che il tasso dei Btp ritorni ai livelli del novembre del 2011 (sette e qualcosa per il decennale) e imponiamo di aumentare subito prudenzialmente il capitale finendo con il sottrarre credito al finanziamento delle imprese: si ipotizzano tassi al 5,9% mentre nel mondo reale siamo ancora sotto il due e si fa pagare il conto all'economia reale italiana. La verità è che il modo di porsi dei tedeschi condiziona, spagnoli e olandesi hanno avuto il loro aiuto e hanno fatto bene, ora ci siamo solo noi e abbiamo una brutta presentazione, perché ci vedono come un popolo inaffidabile, corrotto, che ha abusato di una concessione da parte di chi ha fatto politica monetaria e ha sprecato il regalo iniziale dell'euro: l'azzeramento dello spread consentì di accordare ai cittadini italiani mutui favorevolissimi e abbassò drasticamente gli interessi sul nostro debito. È vero, certo, che c'è troppa corruzione, in Italia, per questo è importante agire subito e bene, ma è anche vero che di sacrifici ne abbiamo fatti come pochi in Europa. Siamo passati di patrimoniale in patrimoniale sulla casa e ora anche sui terreni, abbiamo un total tax rate su imprese e lavoratori che non teme confronti nonostante i tagli recenti, abbiamo adottato il regime contributivo per le pensioni, un cammino di riforme ancorché incompleto e insufficiente ha preso il via, di certo abbiamo fatto molto di più dei francesi.

Le stringhe da rimuovere per fare un “ QE” che serva a tutta l'Europa
Soprattutto è vero che questo impianto squilibrato di Europa che non affianca lo sviluppo al rigore rischia di condannare i Paesi periferici a passare dal circolo vizioso a un tunnel senza uscite. Questo atteggiamento prevalentemente tedesco, ma purtroppo non più solo tedesco, guadagna terreno anche nella Banca centrale europea e la domanda è: il Quantitative Easing avverrà con stringhe o senza stringhe? Diciamo sì, ma purché non si consenta di comprare liberamente i titoli di Stato più rischiosi di altri e questo riguarda i titoli sovrani di Paesi i cui debiti tendono a aumentare con la bassa crescita e la bassa inflazione (come noi) oppure si può anche fare ma riducendo ulteriormente la possibilità di essere flessibili in quegli stessi Paesi. Questo vale sempre e soprattutto per l'Italia che sconta, probabilmente a torto, una persistente bassa fiducia nella capacità riformatrice della sua classe politica, si teme l'azzardo morale di una politica che sfrutterebbe la maggiore liquidità senza fare quello che deve. In questo scenario, i nostri tassi tornerebbero a salire e il nostro debito avrebbe un prezzo più alto. Si potrebbe arrivare al paradosso di ritrovarsi a fare i conti con il bazooka di un “Q E” che ex ante vale per tutti ma non vale per noi e, di fatto, potrebbe non valere granché in assoluto. A quel punto per noi anche il vantaggio della discesa dei prezzi del petrolio verrà annullato perché nel gioco tra debito e deflazione aumenta il tasso reale da pagare. È bene chiarire che le stringhe sancirebbero la fine della politica monetaria unica e fornirebbero l'implicita ammissione che ci si prepara alla fine dell'euro. Due elementi che dovrebbero fortemente sconsigliare tale prospettiva.

La doppia partita europea che l'Italia deve vincere
Questa tragedia va scongiurata assolutamente. Come? Primo, bisogna capire se Renzi avrà o no la capacità di essere convincente e avrà la forza di superare il test delle procedure di disavanzo eccessivo battendo sul tasto che un conto è il flusso (il disavanzo) e lì siamo nettamente i migliori perché abbiamo un surplus primario al netto degli interessi tra entrate e uscite e un conto è lo stock (il debito) dove paghiamo la mancata crescita e non si possono fare miracoli senza svendere. La strada da percorrere è davvero stretta e bisognerà verificare quanto il nostro Presidente del Consiglio potrà far valere il peso politico del successo alle europee e, soprattutto, quanto e se riuscirà a fare fronte comune con i francesi (al momento c'è poco da crederci) o con altri perché altrimenti tra flusso e stock il problema sarà sempre (sbagliando) il secondo e l'Italia a causa del suo debito ne uscirebbe con le ossa rotte. Non aiuta alzare la voce, ma fare le cose in Italia e agire politicamente fuori, far capire a tutti che mettere i bastoni nelle ruote dell'economia italiana è un danno per l'intera Europa e liberare investimenti produttivi europei e italiani è essenziale. Renzi sembra averlo capito e si muove con accortezza, ma alcune intemperanze del passato e l'assenza di risultati apprezzabili del semestre a guida italiana non aiutano lui e, su un terreno totalmente diverso, non aiutano neppure Draghi a costruire un consenso su un'azione di politica monetaria che serve davvero a tutta l'Europa e, cioè, una piattaforma che esprime ovviamente l'autonomia della banca ma è anche allo stesso tempo politica perché va nella direzione degli Stati Uniti d'Europa. Fino ad ora Draghi non ha mai sbagliato un colpo e, come abbiamo già detto, la sua grande capacità è quella di cogliere il momento politico giusto per fare, e fare bene, ciò che serve. Questa volta ha contro l'opinione pubblica tedesca, ha ragione ma non gli viene data, e per di più sull'Italia incombe il giudizio di primavera della religiosissima Commissione egemonizzata dai tedeschi. Al vertice franco-tedesco di Deauville si disse ristrutturiamo il debito privato e salviamo la Grecia, ma non si faranno le stesse cose per i Paesi con alto debito e questo produsse quello che tutti ricordano a scapito di Spagna e Italia. Oggi non ci possiamo permettere di correre lo stesso rischio perché i mercati ci farebbero tornare a ballare. Il presidente del Consiglio italiano deve dimostrare di avere la forza personale e il seguito per spingere l'Europa a fare un progresso decisivo in chiave politica e farebbe bene a dire le cose come stanno e a non privarsi dei contributi di esperienza che potrebbero rivelarsi preziosi. La partita non è facile, anzi difficilissima, ma dobbiamo vincerla. Sappiamo che l'Italia ha le risorse per farcela e ce lo auguriamo sinceramente. Buon Natale a tutti.
P.S. In questa situazione il cambio imminente della Presidenza della Repubblica non può essere terreno di sperimentazioni. Il cammino per arrivare alla normalità passa per una transizione complicata, non sono consentite distrazioni. Servono la testa e le mani esperte di un Presidente all'altezza del compito.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO L'Europa che serve a loro e a noi
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:02:50 pm
L'Europa che serve a loro e a noi (di Roberto Napoletano)

Di Roberto Napoletano

Tutto è diverso dal 2011, allora i mercati non avevano capito lo shock esterno e, soprattutto, non avevano fiducia nella capacità dell'Italia di mettere a posto i conti pubblici e di fare le riforme per tornare a crescere, non c'erano veri meccanismi di protezione e, tanto meno, il Quantitative easing della Bce.

Oggi lo shock è ancora esterno, i mercati lo hanno capito, riguarda la Grecia e mette in gioco democrazia e finanza, ma può toccare la vulnerabilità dell'euro, produrre turbolenza, incidere sui tassi e, quindi, sui costi del nostro debito pubblico. Non è quello che serve per la debole ripresa italiana, non è ciò che ci meritiamo.

Nessuno è in grado di dire, con sicurezza, che cosa succede se vince il sì o il no al referendum greco, gli scenari più probabili ve li raccontiamo a parte in questa edizione del giornale, ma vogliamo sperare che possa essere l'occasione per aprire in Europa un confronto vero sulla realizzazione di quella coesione di cui i Paesi del Sud (tutti) hanno disperato bisogno e per la quale, sono certo, oggi si batterebbero i Padri Fondatori, a partire da quelli del Nord Europa.

Bisogna prendere atto che il debito greco è carta, solo carta, e il futuro della Grecia non dipende di certo da un punto in più o in meno di aliquota Iva, da finzione su finzione, tra un accordo e l'altro, ma dalla ripresa degli investimenti e dalla capacità di cambiare dei cittadini greci e della loro macchina pubblica.

L'Europa, piuttosto, colga l'occasione per correggere i suoi peccati di omissione, l'eccesso di zelo rigorista e per sanare gli errori evidenti. E compia, finalmente, scelte politicamente coraggiose che dimostrino di avere ritrovato lo spirito solidaristico:
- si prenda una delle tante proposte formulate, alcune anche dai think tank più illuminati in Germania, e si vari un Fondo unico che raccolga gli “eccessi” nazionali di debito pubblico (rispetto al tetto del 60% del pil, uno degli errori iniziali) e si misurino le virtù dei singoli Paesi, liberati da fardelli insostenibili durante la più lunga e strutturale delle crisi mondiali; - ci si impegni tutti, di comune accordo, a rispettare vincoli ragionevoli nei conti pubblici e nei conti con l'estero per contenere ragionevolmente gli squilibri;
- si somministri una cura da cavallo di eurobond innovativi e di project bond che faccia ripartire le economie più deboli con investimenti materiali e immateriali sani, infrastrutturali, di lungo termine;

- si dimostri, con i fatti, che non esiste l'Unione del Nord Europa ma di tutta l'Europa sui terreni geopolitici decisivi del terrorismo e dell'immigrazione, qui si formeranno e misureranno l'anima e il corpo del nuovo cittadino europeo per l'oggi e per il domani.

Se la Francia continuerà a scambiare lo scudo sui tassi con l'obbedienza tedesca restringendo, di fatto, il campo di sperimentazione di una nuova visione politica del governo di Angela Merkel che pure, a tratti, sembra emergere e se la Spagna punterà a fare o almeno a essere percepita come la Germania dei poveri, la politica perderà, il sogno degli Stati Uniti d'Europa non si realizzerà, e il nostro Paese rischierà di pagare, ancora una volta, un prezzo più alto.

Non possiamo permettercelo noi, ma, a ben vedere, non se lo può permettere, ancora prima, l'Europa, se vuole uscire dai riti e dalle finzioni e cominciare a diventare realtà. Meno contabilità e più economia, meno finanza speculativa e più investimenti.

Il referendum greco almeno ci aiuti a ricordare che nessuno si può illudere di potere saltare questo bivio e che ci si deve impegnare, con i fatti, a ricostituire un clima di fiducia reciproca.

La serietà è richiesta a tutti, ricchi e poveri, in egual misura.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Il libro di carta, i nativi digitali e la libraia di Messina
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 05:01:51 pm
Il libro di carta, i nativi digitali e la libraia di Messina

Di Roberto Napoletano
2 agosto 2015

«Vagavo da un anno per le scuole e sentivo che qualcosa non tornava. La relazione con i nativi digitali incalzava, e io continuavo a promuovere la lettura come venti anni fa. Mi sono interrogata più volte su quale fosse il mio ruolo, cosa poter dire a un nativo digitale per creare nella sua mente e nel suo cuore uno spazio al libro di carta, alla lettura tradizionale, lenta e profonda. Li ho guardati negli occhi i ragazzi, li vedevo agitare le loro dita svelte sulle tastiere dei telefonini, leggevo i loro commenti sulla rete, li spiavo per non arrendermi. Questo ho fatto in questi ultimi due anni mentre un pezzo di certezza storica del mercato crollava sotto l'effetto della crisi. Ma ciò che più mi angosciava era il sentire con assoluta chiarezza che mediare lettura come fatto fino a ora non potrà più funzionare per il futuro. Quest'anno rilancio. Ho intuito la direzione da intraprendere e resto a scuola, con coraggio, senza abbandonare il campo tra nativi digitali, io immigrata digitale prestata all'opera, in un mondo che è cambiato in maniera sostanziale e che ha bisogno di una misura tra vecchio e nuovo. La lettura di libri per esistere ha bisogno di un sostegno che possa integrare vecchie modalità e nuovi valori, ecco la sfida».

Questo estratto di una lettera lunga, ma piena di passione, che ha il ritmo della vita e non stanca mai, appartiene a Daniela Bonanzinga, 53 anni, entrata nella libreria di famiglia a Messina, in via dei Mille, esattamente trenta anni fa con in tasca una laurea in lettere conseguita in tre anni e mezzo e il desiderio coltivato da bambina di perdersi tra una pagina e l'altra, di trasmettere la forza viva della lettura, fare un ponte tra scuola e libreria, genitori e figli. Avere raccontato la settimana scorsa la storia di Elisabetta Balduzzi, la libraia di Voghera che è diventata editore, mi ha consentito di “viaggiare” grazie alla posta dei lettori da un capo all'altro del Paese con i mille racconti dei mille angoli delle librerie indipendenti, dove la fisicità del libro persiste e il fascino della lettura e del consiglio d'autore s'incrociano, preservano un incanto tipicamente italiano, in particolare della sua provincia, e di una certa borghesia.

Ringrazio tutti e non mi stancherò mai di ripetere che le librerie indipendenti sono il cuore e l'anima della cultura di questo Paese, ne custodiscono qualcosa di prezioso perché mettono insieme la profondità della conoscenza e le pulsioni dei territori e delle loro famiglie, il fascino discreto di tanti, piccoli scrigni che custodiscono valori e memoria, scienza e economia, letteratura, filosofia, emozione e tanto altro. Ho scelto, però, di raccontare la storia di Daniela Bonanzinga, libraia di Messina da sempre, perché mi intrigano il suo racconto, la sua storia e la sua voglia di futuro, l'ostinazione di volere continuare a far dialogare la scuola e la libreria, il desiderio assoluto di riuscire a parlare ai nativi digitali, farli entrare nel libro della storia. Si percepisce la determinazione a ripetere con loro l'esperimento di molti anni fa da lei stessa tenacemente perseguito con il progetto “la libreria incontra la scuola” (leggere con “il cervello emotivo”, cioè, leggo per conoscere, mi emoziono e, quindi, conosco) dove la lettura «è mediata da attività creative» che spingono gli studenti a esprimersi con il loro linguaggio, a restituire proprie interpretazioni, a tornare ad innamorarsi della lettura, e fa finalmente dialogare insegnanti, studenti e genitori.

L'esperimento è riuscito, cinema e teatri stracolmi di studenti-lettori, incontri con autori che scaldano i cuori del pubblico, emozionano e conducono così alla lettura, la libreria e la scuola che «per una volta viaggiano insieme» e toccano le coscienze. Ora Daniela si è messa in testa di parlare ai nativi digitali, e lo vuole fare a modo suo: «Direttore, mi sono detta, ma come possiamo pensare di imporre a questi ragazzi la nostra arroganza intellettuale da vecchi bacucchi? Dobbiamo ascoltare molto e poi parlare, dobbiamo dimostrare prima a noi stessi e poi agli altri che il “commercio fisico” del libro è una realtà importante...», è bello constatare che tutto ciò viene da una libraia di Messina, la porta della Sicilia, per una volta il modello del cambiamento non arriva dal Nord. Non lo dice, ma è come se volesse dire, fatemi entrare un'altra volta nel mondo della scuola e vedrete che cosa succederà. Non so se i nativi digitali potranno amare davvero il vecchio, caro libro di carta, ma la sfida dei valori merita di essere combattuta, per noi e, soprattutto, per i nostri figli. È bello, ripeto, che questa sfida parta da Messina, dalla centralissima via dei Mille, in una libreria che ha mezzo secolo di vita, con una libraia laureata in lettere e innamorata del suo mestiere come fosse il primo giorno. Risento la voce di Daniela: «Dobbiamo porci molte domande, invece che abbracciare finte verità, mi creda, a salvare il libro di carta potranno essere solo i ragazzini se li sapremo ascoltare». Mi sembra un buon inizio di una sfida temeraria e ho voglia di spronarla, speriamo che il tempo sia galantuomo e ripaghi tanto coraggio.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Intervista a Renzi: «C'è una manovra su alcune banche, ma...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 22, 2016, 08:52:45 pm
Intervista a Renzi: «C'è una manovra su alcune banche, ma il sistema è solido»

Di Roberto Napoletano21 gennaio 2015

II mondo si è “fermato”, Cina e emergenti non sono più la locomotiva, la Russia è in recessione, il petrolio è sceso sotto il livello di guardia, vecchi e nuovi terrorismi minano le basi della crescita americana e della timida ripresa europea, la tempesta finanziaria è globale. C'è, però, un'altra tempesta tutta italiana che riguarda le nostre banche e brucia molto di più perché incide sulla fiducia e tocca il risparmio degli italiani. In una giornata di passione per Piazza Affari e i suoi titoli bancari, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, risponde su tutto: conflitto con l'Europa e questione bancaria, scandali e trasparenza dei mercati, manovre a rischio e clausole di salvaguardia, riforma dei contratti, ripresa e grandi partite dell'acciaio (Ilva) e della banda larga (Telecom), pubblica amministrazione, riforme istituzionali. Ascoltiamolo.

Presidente Renzi, siamo entrati nel nuovo anno con alcuni cauti segnali positivi sul fronte dell'economia reale, ma assistiamo a una nuova turbolenza sul fronte finanziario, con l'Italia e le sue banche in particolare sotto pressione sui mercati internazionali. In questo contesto la scena è stata occupata da un confronto muscolare del governo italiano con la Commissione europea. Non crede che possa essere una strategia ad alto rischio?
Dividerei i due aspetti. La tensione sul fronte bancario ci vede attenti e preoccupati, ma può essere persino una buona occasione per il sistema del credito italiano, a condizione che si agisca presto e bene. Ma i rapporti con l'Europa non sono collegati. Io credo che la politica economica europea vada cambiata. E del resto le istituzioni europee sono in difficoltà su tutto: immigrazione, crescita, energia, sicurezza. L'Italia non mostra i muscoli, ma dobbiamo smetterla col provincialismo di chi passa le giornate a pensare che Bruxelles sia infallibile. Anche perché – la storia di questi dieci anni ce lo insegna – purtroppo non sono infallibili alla Commissione.

Pretendere un cambiamento di politica europea in favore della crescita è giusto. Ma lei ha le alleanze per poter alzare la voce?
Io non alzo la voce. Alzo la mano. E faccio domande. È giusto un approccio tutto incentrato sull'austerity quando i populismi sono più forti nelle zone svantaggiate e di crisi economica? È giusto avere due pesi e due misure sull'energia? È giusto procedere a zig-zag sull'immigrazione? Mai alzato la voce a Bruxelles. Su questi punti in tanti pensano che le cose debbano cambiare. La sfida oggi è costruire una serie di proposte, come l'Italia – ritornata grande grazie alle riforme – può e deve fare. Nessuna polemica, solo proposte. Gli alleati non mancano, glielo garantisco.

L'attacco che il presidente della Commissione Juncker ha rivolto all'Italia alcuni giorni fa è inusuale e inaccettabile. Ma al di là dell'attacco, non la preoccupa che nessun capo di governo d'Europa abbia espresso solidarietà all'Italia sottolineando questa incongruenza? Non c'è il rischio concreto di un isolamento?
Credo che Jean-Claude abbia sbagliato linguaggio nel metodo e sostanza nel merito. Ma non mi preoccupa certo un infortunio verbale del presidente della Commissione: siamo l'Italia, uno dei Paesi fondatori. E il mio partito è il partito più votato in Europa, con oltre undici milioni di voti. Se Juncker è lì, è grazie anche ai voti del Pd e del Pse. Non sono permaloso. Se Juncker sbaglia una conferenza stampa, pace. Se Juncker sbaglia politiche, allora sì che mi preoccupo.
Che cosa dirà alla Merkel quando la incontrerà?
Che la prima a essere interessata ad avere un'Italia forte e una Germania meno egoista si chiama Angela Merkel. La stimo e farò di tutto per darle una mano. Ma le regole devono valere per tutti, nessuno esclusa. Anche per la Germania, insomma.
Quando da Bruxelles si denuncia che a Roma manca un interlocutore, si sottolinea quello che è un problema più volte evidenziato in questi anni: la debolezza italiana rispetto ad altri Paesi nel lavorare con la dovuta costanza, serietà, determinazione sui dossier più delicati. Non crede che sia un problema vero?
Con una battuta potrei dire che di interlocutori ce ne sono fin troppi. Ma riconosco che un punto di verità c'è: l'Italia ha investito meno del dovuto nella creazione di una tecnostruttura in grado di essere squadra. Abbiamo funzionari e tecnici tra i più brillanti: talvolta non si sentono parte della stessa comunità. La dico in un altro modo: una squadra con diversi fuoriclasse che non si passano la palla e litigano nello spogliatoio non vince lo scudetto. La nomina di Carlo Calenda e la professionalità di tante donne e uomini della diplomazia, della carriera europea, della pubblica amministrazione in Italia consentiranno di lavorare meglio in questa direzione.
Facciamo l'esempio dei fondi europei. È antica la nostra incapacità a spendere e a spendere bene le risorse europee. Il suo governo se ne sta occupando? E con chi?
Sui fondi europei abbiamo fatto uno strepitoso lavoro di recupero, con il team guidato da De Vincenti. Pensi solo a Pompei, per fare un esempio. Certo, il potere di veto di alcune regioni è stato eccessivo, ma anche grazie alle riforme le cose stanno cambiando.
È soprattutto sulla questione bancaria che l'Italia, in passato come oggi, non è riuscita a difendere gli interessi nazionali. Sul tema cruciale della bad bank non si poteva trovare prima un'intesa con Bruxelles?
Certo che si poteva fare prima. Aggiungo: si doveva fare tre-quattro anni fa. Si è scelta un'altra soluzione e si è perso l'attimo fuggente. E il bello è che qualche responsabile di quella omissione adesso ci fa pure la morale. Ma bando alle polemiche, la prego: il ministro Padoan sta facendo miracoli sapendo che occorre un insieme di norme, a cominciare da quelle che velocizzeranno il disincagliamento dei debiti. Questione di qualche settimana e tutto sarà più chiaro.

Ma oggi lei ritiene che possa essere imminente una soluzione che possa attenuare il peso dei Non Performing Loans (Npl) sul sistema bancario?
La prima soluzione sui Npl è far ripartire l'economia, agevolare il mercato privato a comprarseli, incoraggiare aggregazioni, fusioni e consolidamenti bancari: tutte cose su cui la nostra iniziativa è incessante nel rispetto di tutte le norme. Io credo che il mercato stia mandando segnali chiari e penso che azionisti e manager interessati sappiano perfettamente cosa va fatto. Aggiungo: io credo stiano lavorando alacremente per farlo.

Era così impossibile ottenere la non retroattività delle nuove regole sulla risoluzione delle crisi bancarie?
Dura lex, sed lex. Noi rispettiamo le regole. E proprio per questo siamo autorizzati a chiedere agli altri di non usare due pesi e due misure.

Intanto in questi giorni i titoli bancari sono stati fortemente penalizzati sui mercati finanziari. Con lo scudo della Bce non è più possibile un attacco ai titoli sovrani di un Paese dell'Eurozona, come è accaduto in passato anche per l'Italia. Oggi l'opinione diffusa è che l'unico attacco possibile possa passare proprio per il settore bancario. È quello che sta accadendo?
No. C'è una manovra su alcune banche, punto. Il sistema secondo me è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono. Ai miei interlocutori dico sempre che quando alcuni importanti investitori hanno abbandonato l'Italia nel momento più buio del 2011-2012 hanno perso una grande opportunità: se avessero mantenuto le loro posizioni ad esempio sui titoli di stato – con quei valori – oggi farebbero soldi a palate. E invece magari l'assicuratore tedesco o il bancario francese ha acquistato altro. E oggi se ne pente, eccome se se ne pente. Gli eventi di queste ore agevoleranno fusioni, aggregazioni, acquisti. È il mercato, bellezza. Vedrà che sarà uno scenario interessante, ne sono certo.

Che cosa vi siete detti nell'incontro a Palazzo Chigi con il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, e il direttore generale Salvatore Rossi? Avete misure allo studio?
Seguiamo la vicenda, insieme.
Il Monte dei Paschi, in particolare, è sotto attacco: ha perso oltre il 40% in tre giorni. Gli investitori e i risparmiatori sono preoccupati. C'è una soluzione in vista? Può rassicurarli e come?
Il Monte dei Paschi oggi è a prezzi incredibili. Penso che la soluzione migliore sarà quella che il mercato deciderà. Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma chiunque verrà farà un ottimo affare.

Un analista di JP Morgan, ripreso dal Financial Times, ha detto: evitate l'Italia. C'è o non c'è il rischio che si moltiplichino i grandi investitori che tornino a suggerire di evitare i titoli italiani, anche in relazione allo scontro con Bruxelles?
Gli analisti con cui parliamo tutti noi, i big, di JP Morgan e di altre realtà sanno perfettamente che investire in Italia oggi è una ghiotta opportunità. Direttore, investire in Italia è una delle scelte più convenienti oggi: Paese stabile, sistema solido, tensioni geopolitiche altrove. Gli investitori lo sanno.

Ma gli italiani possono stare sicuri con i loro risparmi?
Ovviamente sì. E del resto avere uno dei risparmi privati più alti rispetto al Pil è la grande forza italiana. Non la disperderemo mai.

Sulla questione delle quattro banche (Banca Marche, CariFerrara, Banca Etruria, CariChieti) tutte le istituzioni coinvolte e i soggetti coinvolti hanno fatto il proprio dovere?

Nella situazione data non avevamo alternative. Mi spiace per gli obbligazionisti subordinati per i quali – comunque – confermo l'impegno: chi è stato truffato riavrà i suoi soldi grazie all'ottimo lavoro che sta predisponendo Anac con il Mef. Ma con queste regole non avevamo alternative: abbiamo salvato un milione di conti correnti, migliaia di stipendi, quattro banche che almeno avranno un futuro.

È merito di questo governo avere fatto la legge sulle banche popolari e avere costretto quelle messe peggio (compresa Banca Etruria) a fare i conti con i loro errori e con la nuova realtà. Sul piano politico, però, l'attenzione resta concentrata su Banca Etruria: il padre del ministro Boschi non è indagato ma è stato sanzionato da Banca d'Italia e sono emersi incontri tra lui e una figura discussa come Carboni. Si sente di escludere ogni tipo di conflitto di interesse?
Non c'è nessun conflitto di interessi. Il ministro Boschi lo ha spiegato in modo impeccabile in Aula e la Camera ha respinto la mozione di sfiducia. Comprendo le strumentalizzazioni interessate di parte delle opposizioni, ma la realtà è più forte delle strumentalizzazioni.

Il Sole 24 Ore con un suo Manifesto ha proposto di introdurre prospetti semplificati, dove sia indicato con estrema chiarezza il livello di rischio dei prodotti finanziari. Abbiamo anche presentato un fac-simile. Il Governo, lei, intende sostenere questa iniziativa?
Condivido totalmente il principio. Sul fac-simile lascio a Mef, Consob, Banca d'Italia e Abi le valutazioni tecniche. Ma il principio che esprimete è sacrosanto.

Si è parlato in passato di un progetto di fusione tra Banca Intesa e UniCredit. Ha mai creduto in questo piano? E lo ritiene ancora necessario? Non è mia competenza entrare in queste dinamiche.
Non crede che l'Italia abbia bisogno di più banche grandi in competizione tra loro e non di una grande e tanti nani intorno?
L'Italia ha il sistema delle piccole e medie imprese come punto di forza. Ma ci vogliono grandi player in alcuni settori: qualche banca, qualche assicurazione, qualche multinazionale nell'energia, nell'auto, nell'agroalimentare. In tutti i settori chiave. Le modalità però dipendono dagli azionisti, non dal Governo.

Altro tema di confronto con l'Europa è quello della flessibilità sui conti pubblici. C'è il rischio in primavera di dover correggere la manovra appena approvata?
Nessun rischio. Stiamo parlando di qualche decimale di differenza. In compenso questa Stabilità restituisce molta fiducia all'Italia e agli italiani. Per una volta non ho sentito una critica: Imu, superammortamenti, tasse agricole, welfare aziendale, patto di stabilità per investimenti dei comuni, potrei continuare a lungo. A me sembra una cosa enorme, totalmente oscurata dalle polemiche più o meno giustificate sulle banche. Ma l'Italia c'è, riparte. Con buona pace di chi scommetteva sul suo fallimento

Guardiamo alla prossima manovra: con le clausole di salvaguardia e un'Europa che appare molto poco disponibile a concedere nuova flessibilità potrebbe essere necessaria una stretta molto penalizzante per la ripresa. Come eviteremo questo rischio?
La flessibilità europea non è una concessione, direttore. È una regola dell'Unione Europea, un preciso impegno di Juncker e dei suoi. Io non ho cambiato idea. Credo neanche lui.

Che segnali avete sul fronte della ripresa? Ci sono dati positivi, ma non univoci, sia sul fronte dell'occupazione che della crescita.
I fattori esterni paradossalmente non ci aiutano: instabilità, il crollo del prezzo del petrolio diventa un'insidia geopolitica, l'inflazione non riparte. Ma l'Italia sta finalmente ripartendo, lo vediamo dall'immobiliare ai consumi. Questa è davvero la volta buona.
Cruciali saranno anche gli investimenti esteri...
I dati sugli investimenti esteri non sono mai stati così buoni. Aggiungo che non è solo merito delle riforme: la situazione di instabilità che hanno altre regioni del mondo, e persino qualche Paese nostro amico europeo, rendono l'Italia una delle realtà più interessanti. Ma dobbiamo fare ancora di più nell'agevolare l'investimento. La riduzione dei tempi sulle pratiche amministrative votata ieri dal Consiglio dei Ministri va in questa direzione.

Riforma della contrattazione, interverrete se le parti non troveranno un accordo? E in che direzione?
La palla è nelle mani delle parti sindacali. Ma il tempo sta per scadere. Se non si sbrigano loro, ci pensiamo noi. E non è una minaccia, ma una semplice constatazione di buon senso, converrà.
Lei è favorevole a un ingresso di Cdp nel capitale di Telecom scambiando la partecipazione in Metroweb? E che ruolo può avere l'Enel in questa partita?
Decideranno i vertici di Cdp.

Caso Ilva: a parte lo scontro con l'Europa che non promette nulla di buono, vede una via di uscita? Può dirci come?
Noi non accetteremo mai che Ilva sia uccisa dalle lobby di acciaieri di altri Paesi. Adesso è aperto il bando, vediamo se – come io credo – ci sarà una cordata vincente. Sono ottimista. Lo scontro europeo su Ilva mi sembra il meno grave.
Infine, capitolo riforme. Il Governo ha commesso qualche errore ma ha fatto molto: ieri è stata la volta dei decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione, quella più attesa in casa e fuori, che dovranno però ancora andare alle Camere per i pareri.

Quella più attesa è sempre la prossima. Quella della Pa segna un buon passo in avanti. Nulla è decisivo, tutto è importante: dai furbetti della timbratura sino alla riduzione dei corpi di polizia, dalle aziende partecipate sino alla dirigenza sanitaria fino ai tempi di concessioni e autorizzazioni. Ieri ho parlato in Senato sulla riforma costituzionale di revisione del bicameralismo e del titolo V perché a mio giudizio è una riforma storica.

Conferma che il referendum costituzionale sarà anche un test sul Governo? Ci può essere la tentazione di andare al voto in caso di vittoria?
Se perdo il referendum, lascio la politica. Non sono come gli altri. Non resto al potere se non posso cambiare le cose. Se vinciamo, invece, concluderemo la legislatura regolarmente: finalmente in Italia si rispetteranno le scadenze elettorali senza la brutta prassi delle elezioni anticipate. Ma per il referendum andremo casa per casa: la scelta è tra l'Italia che dice sempre no e non vuole mai cambiare e chi invece ci prova con coraggio e determinazione.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Il problema europeo e il differenziale tra il Nord e il Sud
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 11, 2016, 05:05:26 pm
Il problema europeo e il differenziale tra il Nord e il Sud

Di Roberto Napoletano
Martedì 09 Febbraio 2016

Non c’è più spazio per mediazioni di sorta o compromessi al ribasso. Difesa, politica estera e politica economica hanno bisogno di una guida europea unica, di principi solidaristici effettivi e di un disegno condiviso di sviluppo che riduca, non aumenti, le distanze all’interno del Vecchio Continente. Non è più tempo di processi lasciati a metà: che cosa si aspetta a rendere effettiva la garanzia unica sui depositi bancari?

Alla «zoppia» di Maastricht (molta stabilità, poca crescita) per quanto tempo ancora si vuole aggiungere quella dell’Unione Bancaria e, cioè, vigilanza bancaria e bail in per tutti, ma niente garanzia unica sui depositi? Così non si va da nessuna parte. Con la nuova, pesante, caduta delle Borse europee di ieri e gli spread dell’Italia (bassa crescita, alto debito pubblico) e della Spagna (rischio politico) balzati di nuovo intorno a quota 150, oggi è chiaro a tutti che il problema è europeo ed è un problema sia di crescita sia bancario.

Così come è chiaro a tutti che c'è un differenziale di crescita per l’Italia (ancora pesante) e che, inevitabilmente, non può non finire con l’incidere sui tassi dei titoli sovrani e portare in dote il suo carico di incertezza (i primi segnali già si intravedono). Sulle banche il problema è europeo, ritorna lo spettro greco e la stessa Deutsche Bank non può dare lezioni a nessuno, oggi è chiaro a tutti che l’Europa dei “dieci piccoli indiani” dove ogni giorno qualcuno mette un pezzetto (monetario, economico, bancario e così via) e lo fa in mezzo a mille asimmetrie (sempre più o meno interessate) non aiuta né l’Europa né l’Italia e, tanto meno, le sue banche. In casa ci sono stati errori e ruberie, non bisogna fare sconti a nessuno accertando responsabilità e assumendo decisioni esemplari, ma in un quadro che resta, tuttavia, solido e paga il conto di una crisi durissima.

Diciamo le cose come stanno: per fare gli Stati Uniti d’Europa bisogna cedere sovranità (difesa, politica estera) e abbiamo, di certo, bisogno di un ministro del Tesoro europeo unico. Attenzione, però, un ministro del Tesoro “tedesco” con un controllo “francese” (e noi sempre alle porte) è un rischio politico europeo enorme. L’Italia deve volere, anzi pretendere, un ministro del Tesoro unico, ma a patto che questa scelta politica sia accompagnata dalla condivisione dei debiti pubblici conferendo a un nuovo veicolo (si scelga la soluzione tecnica ritenuta più idonea) le eccedenze nazionali rispetto al tetto previsto del 60% con l’impegno di disciplinare poi la ripartizione dei costi dimostrando ragionevolezza.

Non si può dire: o accettate le nostre condizioni o ve la “faremo pagare”. Serve la Politica, non i burocrati travestiti da politici, serve soprattutto una Politica diversa. L’Europa non ha bisogno né di nuove onnipotenze tedesche né di nuovi velleitarismi nazionali. Questo non significa occuparsi dell’interesse generale. Quel differenziale italiano non ci aiuta, ma sbaglieremmo noi a dimenticarcelo e i tedeschi, altrettanto, a ritenerlo un problema solo nostro. La frenata mondiale della crescita non risparmia nessuno, per questo il mondo ha ancora bisogno del mercato dei consumi della vecchia Europa, di tutta l’Europa, non di antichi e nuovi squilibri tra Nord e Sud. Siamo certi che i Padri fondatori saprebbero che strada prendere senza trucchi o furbizie di sorta.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Schmidt, Tietmeyer, l'Europa e il merito di Draghi
Inserito da: Arlecchino - Maggio 02, 2016, 04:27:48 pm
Schmidt, Tietmeyer, l'Europa e il merito di Draghi

Di Roberto Napoletano

«La saluto, signor presidente della Bundesbank, con la massima considerazione ora come prima: ma ciò vale solo per la sua persona, non per la sua politica». Si conclude così la lettera aperta che l'ex cancelliere, Helmut Schmidt, scrisse al presidente della banca centrale tedesca dell'epoca, Hans Tietmeyer, l'8 novembre del 1996, e pubblicò sul “suo” «Die Zeit» con il titolo «La Bundesbank non è uno Stato nello Stato». Me la sono ritrovata tra le mani grazie a Pier Giuseppe Fontanili che venerdì sera mi ha mandato una mail nella quale è scritto: «Mi permetto di segnalarle alcuni stralci di quella lettera di venti anni fa, perché oggi, che il dibattito tra la Germania ed altri Paesi e istituzioni europee sta diventando sempre più uno scontro, è utile leggere perché vi si possono trovare utili parallelismi». Poi, un'annotazione: «Ritengo anche che nel panorama politico internazionale (europeo in particolare) certe figure politiche oggi siano assenti».

Ripercorriamo insieme alcuni passaggi istruttivi di questa lettera: «Il carattere e la diffusione dei suoi discorsi la rendono non solo poco amato - cosa sopportabile - ma rendono anche la Germania poco amata - cosa che non ci siamo meritati e che non possiamo sopportare. A molti dei nostri Paesi vicini la Germania, che lei rappresenta, appare dispotica e troppo prepotente...la Bundesbank, al cui direttorio lei appartiene dagli inizi del 1990, ha pesantemente influenzato la stesura dei criteri di Maastricht. Ma né la Bundesbank né il ministero delle Finanze hanno mai pubblicamente spiegato il motivo per cui il debito totale di uno Stato partecipante non debba essere superiore al 60% del suo prodotto interno lordo... Allo stesso modo, non è motivato economicamente l'altro criterio fondante che il deficit annuale di uno Stato membro non possa essere superiore al 3% del suo prodotto interno». Mi viene in mente la battuta di Romano Prodi: «Il Patto di Maastricht è stupido. Non si governa l'economia con l'aritmetica». Qualche tenue, molto tardivo, segnale di ravvedimento si è intravisto all'Ecofin informale di ieri a Amsterdam.

Seguite quest'altro passaggio segnalato da Fontanili: «Se lei, onorato signor Tietmeyer, insiste esclusivamente sulla “sicurezza della valuta”, come dice il testo dell'articolo 1 della Legge bancaria federale, allora lei non può avere in mente esclusivamente la valuta interna... Se ne rende conto? La linea della Banca centrale negli anni dal 1930 al 1932, a causa di un'ideologia deflazionistica monomaniacale, ci ha condotto alla rovina, a perdite immense di posti di lavoro, con conseguenze politiche gravi... Mi auguro che la banca centrale europea, diversamente da lei, gentile signor Tietmeyer, prenda sul serio la stabilità esterna dell'euro, come la sua stabilità interna...l'unico presupposto è che la politica monetaria si trovi in mani esperte, scevre da ideologie, libere dalla pressione di gruppi di interessi e di inclinazioni partitiche... Il vantaggio più importante è il seguente: l'euro è il progresso tanto atteso che noi abbiamo percorso dal 1950 con il piano Schuman...allora si verificheranno i presupposti per una politica estera e per la sicurezza dell'Unione europea...il cancelliere Kohl ha detto a proposito:” Gioco qui la mia esistenza politica”».
Sono passati tanti anni, abbiamo attraversato una crisi globale che ha superato per dimensioni e qualità quella degli anni Trenta e non è ancora finita, la Banca centrale europea ha riempito di liquidità la vecchia, cara Europa, e domato l'incendio ricorrente della speculazione, difende con i fatti la sua autonomia dalla politica e le chiede di fare piuttosto la sua parte con riforme strutturali e misure di bilancio che sostengano la crescita. Politica estera e sicurezza comuni restano un'incompiuta, ma sono elementi fondanti di un'Unione europea davvero federale che non voglia vivere solo di moneta. Potremmo dire che sono una scelta obbligata perché era scritto nelle tavole dei fondatori e perché l'entità della nuova, grande crisi, il suo carico di diseguaglianze, il confronto duro della competizione globale, impongono scelte condivise, esigono il carisma e la forza che spingevano Kohl a riecheggiare Thomas Mann, e a gridare di volere una Germania europea e non un'Europa germanica.

Facciamo, invece, i conti con le astuzie e le miserie di una politica che non esce dal recinto degli interessi nazionali e arriva a minacciare un tetto agli acquisti di titoli di stato da parte delle banche pur di non onorare l'impegno della garanzia unica sui depositi e, cioè, a proporre un baratto senza senso che ha, di fatto, il solo esclusivo obiettivo di rinviare ancora la realizzazione di un pilastro fondante, strumentalmente rinnegato, di una vera unione bancaria europea. Dentro il debito pubblico italiano ci sono i vizi di ieri e di oggi di una politica che fa fatica a misurarsi con le scelte difficili e i ritardi culturali diffusi di una comunità economica e civile che ancora stenta a compiere scelte nette di rottura da un passato di compromessi non più riproponibile.

Continuare, però, a nascondersi dietro l'ottusità di parametri di austerità totalmente fuori dal mondo dentro uno scenario di crescita globale stentata e a ignorare l'entità degli sforzi di aggiustamento compiuti da un Paese come l'Italia dall'inizio della crisi a oggi che ne ha falcidiato un quarto della produzione industriale e ha fatto sparire dieci punti di Pil, significa imboccare una strada che porta tutti in una “terra incognita” dove il conto lo pagheranno ricchi e poveri senza eccezione alcuna.

Questa è la verità, e questo è il merito “politico” più grande, da statista, che va riconosciuto a Mario Draghi, colpisce che debba essere il banchiere centrale più innovativo che l'Europa abbia mai avuto, a chiedere alla Politica di assumersi le sue responsabilità e a fare le scelte conseguenti. Schuman, Monnet, De Gasperi prima, Kohl e Mitterrand dopo, ai loro tempi non avrebbero esitato un solo minuto. Ha proprio ragione il nostro Fontanili quando dice che è la leadership politica europea ad essersi smarrita. Ritroviamola in fretta, prima che la marea dilagante dei populismi superi la boa del non ritorno. Prima che il fantasma di Brexit riempia di ansie e paure contagiose strati sempre più larghi della comunità europea. Prima che Nord e Sud si separino per sempre. Prima che sia troppo tardi per tutti.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com
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Titolo: Roberto NAPOLETANO - Loro e noi
Inserito da: Arlecchino - Maggio 02, 2016, 04:34:43 pm
Loro e noi

Di Roberto Napoletano
1 Maggio 2016

L’ex consigliere economico della Cancelliera Merkel, il giovane governatore della Bundesbank Jens Weidmann, da qualche tempo si è innamorato dell’Italia. Stupiscono la frequenza delle sue visite, che assomigliano a un tour organizzato, e l’insistenza con la quale chiede di essere accolto a tutti i livelli, l’intento malcelato di fare avallare una campagna elettorale, strettamente personale, per la presidenza della Banca centrale europea.

Peraltro, saldamente guidata da Mario Draghi che rivendica con orgoglio l’indipendenza dalla politica, attua, con scelte coraggiose, la politica monetaria e delinea un percorso lungimirante di integrazione per l’intera Europa. L’ipotesi di una presidenza Weidmann è priva di qualsiasi fondamento e legittimazione, perché la candidatura di un governatore che si è ritrovato in posizione di minoranza in quasi tutte le decisioni che contano del board di Francoforte, colpirebbe al cuore la credibilità della Bce, le sue ragioni fondanti di autonomia e di garante della stabilità virtuosa, e finirebbe con il sancire una spaccatura non più ricomponibile. Può esserci ovviamente una successione tedesca a Draghi, nel rispetto dei tempi del mandato istituzionale, ma non potrà di certo riguardare l’uomo più divisivo che la Germania esprime oggi sulla scena della politica monetaria, portatore manifesto di interessi contrapposti a quelli di un’Europa solidale, assolutamente necessaria, che esca dal circolo vizioso di regole tanto astratte quanto pericolose.

«La saluto, signor presidente della Bundesbank, con la massima considerazione ora come prima: ma ciò vale solo per la sua persona, non per la sua politica». Si conclude così la lettera aperta che l’ex cancelliere, Helmut Schmidt, scrisse al presidente della banca centrale tedesca dell’epoca, Hans Tietmeyer, l’8 novembre del 1996, e pubblicò sul “suo” Die Zeit con il titolo: «La Bundesbank non è uno Stato nello Stato». Qualche riga più su si poteva leggere: «Il carattere e la diffusione dei suoi discorsi la rendono non solo poco amato - cosa sopportabile - ma rendono anche la Germania poco amata, cosa che non ci siamo meritati e che non possiamo sopportare. A molti dei nostri Paesi vicini la Germania, che lei rappresenta, appare dispotica e troppo prepotente...la Bundesbank, al cui direttorio lei appartiene dagli inizi del 1990, ha pesantemente influenzato la stesura dei criteri di Maastricht. Ma né la Bundesbank né il ministero delle Finanze hanno mai pubblicamente spiegato il motivo per cui il debito totale di uno Stato partecipante non debba essere superiore al 60% del suo prodotto interno lordo...Allo stesso modo, non è motivato economicamente l’altro criterio fondante che il deficit annuale di uno Stato membro non possa essere superiore al 3% del suo prodotto interno lordo».

Ora, non volendo mancare di rispetto al Tietmeyer di ieri, la cui statura, nonostante i palesi errori di impostazione del disegno europeo, è di gran lunga superiore a quella del Weidmann di oggi, è evidente che siamo di fronte alla stessa, identica miopia, con la differenza che un cancelliere tedesco del valore di Schmidt lo metteva alla berlina, mentre Weidman riceve stranamente attenzioni e insegue consensi proprio in quei Paesi del Sud Europa che più di tutti hanno da perdere dalle sue teorie e più di tutti devono alla politica monetaria espansiva, nettamente maggioritaria, che la guida di Draghi è riuscita ad assicurare alla Banca centrale europea. Assistiamo sorpresi al fatto che trovi ascolto, anche in casa nostra, chi come Weidmann vuole mettere un tetto agli acquisti di titoli di Stato da parte delle banche o, peggio ancora, attribuire un coefficiente di rischio agli stessi titoli e accampa questo ragionamento e altri espedienti per non adempiere all’impegno solennemente assunto in tempi non sospetti di completare l’unione bancaria europea con la garanzia unica sui depositi. Quanto valore brucia questa miopia penalizzando banche, credito alle imprese e capitali privati al di là di ogni considerazione di merito e di ragionevolezza! La realtà è che ci misuriamo ogni giorno con l’assenza drammatica di una leadership politica e nessuno si fida più di nessuno. Loro non si fidano di noi e noi non ci fidiamo di loro.

Questa è la cruda realtà. Tutti sono molto attenti a riconoscere e sottolineare i difetti degli altri per tutelare i propri interessi. Tutti vanno a vedere la trave degli altri, ma sarebbe giusto che qualcuno dicesse loro di guardare le travi che hanno in casa non sempre e solo quelle fuori, quelle appunto degli altri. I tedeschi, gli olandesi, i finlandesi, perfino le pulci hanno la tosse, hanno ripetuto all’Ecofin informale di Amsterdam: o così (tetto agli acquisti di titoli di Stato da parte delle banche) o niente (addio garanzia unica europea sui depositi) e si sono beccati da italiani e francesi: così no, sul mezzo poi si vede e non è qui la sede, ma comunque prendiamo atto che vi state rimangiando il terzo pilastro dell'Unione bancaria europea. È facile contestare all’Italia il peso (realmente molto rilevante e frutto di vizi soprattutto del passato) del suo debito pubblico, ma che cosa si dovrebbe dire dell’abnorme peso statale nell’economia tedesca a partire dalle sue banche o della debolezza nell’apertura alla concorrenza dei servizi? Ancora: che dire del disonore mondiale determinato dal dieselgate della Volkswagen e del surplus commerciale che viola sistematicamente i parametri concordati? La verità è che nessuno guarda davvero a che cosa fare e si impegna a realizzarlo per avere un ambiente complessivo più sicuro, eliminare le debolezze di ciascuno e contribuire a costruire una vera Europa federale che torni a fare investimenti in modo da consolidare lo slancio della domanda interna e si muova nel mondo con una difesa e una politica estera comuni. Loro non si fidano di noi e noi non ci fidiamo di loro. Questo clima è la morte dell’Europa, l’alimento migliore dei mille populismi che infatti si ingrassano, e va cambiato. Nel frattempo evitiamo almeno di schierarci dalla parte sbagliata.

P.S. Domani festeggeremo il centocinquantesimo del Sole 24 Ore a Milano, alla Scala, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e oggi ripercorriamo 150 anni di storia con le firme del nostro giornale. Qui vogliamo onorare lo spirito mazziniano dei fondatori del Sole e quello battagliero dello storico direttore di 24ore, Piero Colombi, senza rinunciare mai a prendere posizione e a dire come stanno le cose.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Il segnale «politico» da cogliere
Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2016, 12:58:19 pm
Dossier | N. 76 articoli Elezioni comunali 2016
Il segnale «politico» da cogliere

  Di Roberto Napoletano 07 Giugno 2016

La storia di questo risultato “politico” del primo turno delle elezioni amministrative, che coinvolgono 1342 Comuni, inizia e finisce con la storia italiana che appartiene al disagio sociale mai domato e a una persistente fragilità della sua ripresa economica. Perché il consenso di chi è chiamato al governo del Paese negli anni di una crisi senza fine più pesante di quella degli anni Trenta non venga consumato dai tanti populismi, tra loro molto differenti e con alcune spinte civiche al cambiamento da non sottovalutare, bisogna fare le cose difficili.

Bisogna sporcarsi le mani con la più oppressiva e ottusa delle amministrazioni pubbliche nazionali e territoriali (non priva peraltro di valori e intelligenze individuali) e fare in modo che cambino le teste e i comportamenti collettivi prevalenti: uscire dalla cultura delle angherie e delle corruttele per entrare in quella del servizio al cittadino e all’impresa e, soprattutto, nello spirito dei sistemi economico-politici più illuminati al passo con i tempi dove chi vuole rischiare in proprio e creare lavoro qualificato per tutti non è visto come un nemico da osteggiare e angustiare con ogni mezzo ma come un soggetto positivo da incoraggiare nella sua azione e nel suo slancio di intrapresa. Bisogna dare segnali lineari, riscontrabili, con certezza per l’oggi e per il domani, sulla strada della riduzione dell’insostenibile fardello di oneri contributivi e fiscali che ancora grava sul sistema produttivo italiano per trasferire a chi è in casa fiducia duratura e, altrettanto importante, per testimoniare a chi è fuori casa in modo riscontrabile che le cose stanno cambiando e che, quindi, si può, anzi si deve, tornare a scommettere sull’Italia della manifattura, dei servizi e del suo capitale “nascosto” di innovazione, un Paese con il più grande patrimonio storico-artistico-museale al mondo e un talento giovanile ora più consapevole, che non teme confronti. Questa è la dura realtà di cui prima si prende atto meglio è.

Il dato di Milano, da questo punto di vista, è esemplare. Dove l’amministrazione è più efficiente, dove la comunità civile resta un presidio riconoscibile e si percepisce un disegno di sviluppo in cui le forze sane dell’economia si intrecciano positivamente con quelle della cultura e della politica, dove il carico delle diseguaglianze è meno forte, quasi per incanto, la spinta delle correnti populiste si attenua dentro le coalizioni e fuori di esse. Vorrà dire o no qualcosa? Si è detto troppo e fuori luogo sulla storia dell’Expo, prima quando era un disastro assoluto poi quando era un successo mondiale, quello che mi piace sottolineare qui è che in questi anni Milano è tornata ad essere la capitale mondiale della creatività, i servizi pubblici sono migliorati, il ceto imprenditoriale è tornato a scommettere sulla sua capitale economica, il profilo di testimonianza civile e di respiro internazionale si sono accentuati. Questa comunità ha selezionato due candidati che sono espressione della borghesia produttiva e manageriale, ora la contesa si sposta sulla capacità di intercettare la spinta di maggiore partecipazione che pure viene dai movimenti che il voto popolare ha tenuto fuori dai ballottaggi.

L’esito del primo turno delle elezioni, a Roma, offre valutazioni speculari rispetto a quelle di Milano: il degrado morale, politico e amministrativo della Capitale riduce la capacità di selezionare classe dirigente che possa esprimere la parte illuminata della borghesia e quella più sana della storica classe politica e apre, quindi, praterie da percorrere a chi si fa interprete del disagio sociale crescente, della spinta al cambiamento, e dovrà dimostrare di essere all’altezza di gestire l’uno e l’altra offrendo, sul campo, competenze e capacità di governo. Dovrà dimostrare di sapere fare le cose difficili che gli altri non hanno saputo fare, soprattutto, sul terreno della buona amministrazione. Si accorgeranno presto di quanto poco sarà di aiuto la forza delle parole. Ovviamente i romani diranno la loro al ballottaggio ed è buona regola non escludere mai sorprese.

Ha fatto bene il premier e segretario del Pd, Matteo Renzi, a dire chiaro e tondo: non sono soddisfatto, il Pd ha problemi. Queste dichiarazioni confermano il fiuto e la capacità di leadership politica che tutti gli riconoscono. Non commetteremo l’errore di rivendicare il merito di avere sempre segnalato l’esigenza di una politica economica di lungo termine, riscontrabile per linearità e coerenza di impianto, senza indulgenze elettoralistiche vere o presunte che siano, e neppure vogliamo mettere in discussione la spinta riformista che c’è stata ed è sotto gli occhi di tutti sui temi del mercato del lavoro, di riduzione della pressione fiscale, della pubblica amministrazione, della giustizia civile e di un nuovo assetto costituzionale con i necessari contrappesi che non vanno sottovalutati per nessuna ragione al mondo. Quello che vogliamo dire è altro: c’è un passaggio ineludibile, di dura fatica, che può segnare lo spartiacque tra l’oggi e il domani, ed è quello che permette di dare un contenuto effettivo alla riforma della pubblica amministrazione e una linearità visibile di lungo termine negli interventi (che pure ci sono stati) in tema di politica fiscale e di riduzione dei suoi prelievi.

A ben vedere, passa di qui, da queste cose difficili, la capacità di creare quella fiducia piena, indispensabile per innescare una ripresa robusta e duratura in casa e la conquista di quella piena legittimazione di leadership europea necessaria perché arrivi anche nelle nostre famiglie ciò che l’Europa può dare ai cittadini europei e si ostina sciaguratamente a negare. Forse, questo voto amministrativo potrà essere ricordato per il segnale “politico” che è stato capace di lanciare. A patto che venga raccolto e lo si sappia mettere a frutto. Noi speriamo che avvenga.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Storie di impresa in un Nordest che prova a cambiare
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2016, 11:09:07 am
Storie di impresa in un Nordest che prova a cambiare

    –di Roberto Napoletano 17 luglio 2016

Katia Da Ros, Vice Presidente di Irinox, nel corso del suo intervento a Oderzo per la terza tappa del “Viaggio nell'Italia che innova”

Sono andato a Oderzo, nel cuore industriale di Treviso, per la terza tappa del Viaggio nell'Italia che innova del nostro giornale e porto con me il ricordo di due donne e il racconto delle loro aziende che mi hanno aiutato a capire, ancora di più, il fascino, le virtù e i limiti di questo unicum assoluto che è il Nordest, terra di inventori che non si arrendono mai, la testardaggine e le debolezze, il gusto delle intuizioni, il mondo come mercato domestico e un individualismo sfrenato in casa e fuori che non aiuta. Mi ha colpito Katia Da Ros perché ha parlato il giusto della sua Irinox e del suo “forno del freddo” («quando è arrivato il frigorifero nelle nostre case non eravamo preparati, si abitueranno presto a questi abbattitori rapidi di temperatura per conservare prodotti di alta qualità») e, cioè, del genio imprenditoriale delle famiglie venete che, nel suo caso, si misura con una crescita annua del 20% nel mondo e, sorprendentemente, del 30% sul mercato nazionale. Mi sono piaciuti il modo garbato e l’amore con cui ha raccontato del “lievito” del Nordest che è qualcosa di magico ed è quello con il quale questi “pasticceri” della manifattura, come dice lei, confezionano il loro “dolce”. Mi ha trasferito, con efficacia, i sapori di questa specialissima “torta” fatta di valori familiari, cromosomi artigiani («anni di studio per cambiare gli ingredienti e trovare il mix perfetto di un pasticcino») e respiro industriale, che nasce in casa ma è destinata a crescere sulle tavole del mondo, grazie a un’organizzazione naturalmente globale.

Eppure, ciò che mi ha colpito di più è altro. Ho sentito qualcosa che nessuno ha detto, prima e dopo di lei, in questa terra di inventori che non amano troppo il gioco di squadra, e lo ha fatto scandendo bene le parole: «Mio padre e i suoi due soci hanno scelto di investire sulla innovazione di processo e di governance, hanno scelto di farlo con noi, abbiamo aperto a contributi esterni qualificati il nostro Consiglio di amministrazione, abbiamo capito che lì, in quella sede, si doveva consumare il momento strategico e dovevamo poi lasciare ai manager la fase esecutiva. Non è stato facile per imprenditori fondatori e innovatori, per di più veneti, ma siamo al quinto anno consecutivo di crescita e siamo sempre più convinti di avere fatto la scelta giusta».

Poi, è entrata in scena Marzia Narduzzi, e si è incaricata di spiegare con i fatti, con le sue emozioni e la sua storia di impresa, Pier & Co, perché fosse così importante per il Veneto la lezione sull’innovazione di processo e di governance della signora del “freddo”. Sentiamo il racconto della Narduzzi: «Ci siamo inventati una camicia su misura da uomo con un collo lungo, un tessuto da donna e qualcosa di rock che non c’è al mondo, abbiamo puntato su un prodotto “fittato”, nuovo, ci siamo venduti la nostra diversità. Le più grandi Maison parigine e mondiali sono venute a cercarci e abbiamo prodotto per loro. Poi, Russia e Cina hanno cominciato a calare, dalla sera alla mattina ci ha lasciato un grosso cliente americano. Siamo entrati in crisi. Piccolo per noi è stato bellissimo, ma si è rivelato nei fatti molto insidioso. Conoscevo i nostri 80 dipendenti uno a uno ma mi sono dovuta rendere conto che basta un colpo di vento e rischi di vedere tutto sgretolarsi, è sparito un quarto del fatturato di qualche anno fa e ora, solo grazie a un nuovo investitore, abbiamo potuto “salvare” 35 degli 80 dipendenti in una nuova società, il cuore artigianale pulsante, dove noi siamo diventati piccoli azionisti. Facciamo ogni giorno i conti con questa realtà».

Il genio, la testardaggine e l’intuito di Marzia Narduzzi sono quelli tipici di queste famiglie venete, la forza e la debolezza di questa terra di trincea di irriducibili inventori. Tutti, però, hanno bisogno non più solo di innovazione di prodotto, qui non li batte nessuno, ma anche, anzi soprattutto, di innovazione di processo e di governance. Bisogna sapere distinguere il momento strategico da quello esecutivo, bisogna diventare più grandi, bisogna investire sui Big Data e fare gioco di squadra sul territorio. Forse, è tempo di ricominciare proprio da quella formula composta dal “lievito” e dall'intelligenza di tre imprenditori, fondatori e veneti, che hanno scelto di mettere insieme cultura familiare e manageriale, hanno deciso di innovare processo produttivo e governance, e di guardare così finalmente lontano. Speriamo che siano contagiosi. Potrebbe essere la volta buona perché il mitico Nordest rompa il suo isolamento e conquisti stabilmente il mondo.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Il coraggio di dire la verità e di costruire il futuro del...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2016, 04:01:29 pm
Il coraggio di dire la verità e di costruire il futuro del Paese

Di Roberto Napoletano 21 agosto 2016

I numeri al lotto che accompagnano le congetture agostane sulla legge di stabilità prossima ventura vanno presi per quelli che sono, e noi siamo fermi all’impegno preso con questo giornale dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, su pochi articoli di legge e pochi interventi che pongano al centro della politica economica italiana la crescita sana con un mix di misure strutturali (detassazione del salario di produttività e riduzione del cuneo fiscale, riforma effettiva della pubblica amministrazione) e di misure mirate (superammortamento, leva fiscale per l’innovazione, con industria 4.0, e per l'edilizia) che contribuiscano a rilanciare gli investimenti e le opportunità di lavoro. All’agenda italiana Padoan affianca un impegno rafforzato in Europa perché prenda corpo un flusso europeo di finanziamenti produttivi che possa stabilmente sostenere la crescita e perché prevalga la consapevolezza dell’obbligo di completare l’Unione bancaria e di agire in un mondo, ripiegato su se stesso, con la forza di un soggetto politico-economico unico, anche se portatore di tante diversità.

In questo scenario, segnato peraltro dalla cronica scarsità di risorse dello Stato italiano, erose dai vincoli del debito, non c’è spazio per nuove prebende al pubblico impiego o nuovi interventi tipo bonus da 80 euro (magari per i pensionati) diretti a conseguire consenso immediato. Guai solo a pensarlo. Occorrono, viceversa, il linguaggio della verità (la situazione è ancora grave e questo non vuol dire che non si è fatto nulla), l’ambizione di mettere al centro dell’azione di governo produttività e investimenti pubblici e privati, il coraggio di uscire dal piccolo cabotaggio e di dire chiaro e tondo che non sono più possibili scambi elettorali (sempre e comunque sbagliati) per cominciare a costruire con lungimiranza il futuro del Paese in una navigazione difficile tra i marosi della debole congiuntura internazionale, la fragilità dei mercati, le nostre specifiche, pesanti anomalie, e quelle di un’Europa ancora troppo tattica e incompiuta.

Queste sono le cose serie di cui occuparsi e questo significa fare il bene dell’Italia: solo un percorso così chiaro e lineare può legittimare a chiedere e ottenere in casa che tutti facciano la loro parte, a partire dalle imprese che devono smetterla di inseguire aiuti assistenziali e devono sapere fare il loro mettendoci capitali e intelligenza e affrontando fino in fondo la sfida dimensionale-manageriale e quella dell’innovazione, e può renderci credibili in Europa per chiedere e ottenere che le cose cambino accordando una “flessibilità buona” all’Italia e iniziando a attuare un assetto europeo dove condivisione dei debiti e politiche di sviluppo camminino insieme in uno spirito finalmente solidaristico. Questa, non altre, è la posta in gioco e Renzi si deve mettere in testa, una volta per tutte, che il suo nemico non sono i grillini, ma la mancata crescita e l’assenza di uno spirito di condivisione che allarghi le consapevolezze e permetta di rendere effettivo questo sentiero virtuoso.

* * *
Paolo Pombeni non è solo uno dei principali editorialisti del Sole, storico dei sistemi politici europei e professore emerito dell'Università di Bologna, per me è anche un amico speciale da molto tempo con il quale condivido, tra le altre, la passione civile per l'opera e la figura di Alcide De Gasperi di cui lui è uno dei massimi conoscitori.

Forse, anche per questo, non mi ha stupito la sua telefonata con la quale mi sottolineava il riferimento alla “pazienza” usato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua lectio agostana a Pieve Tesino dedicata allo statista trentino e, soprattutto, la frase a lui attribuita grazie alla testimonianza diretta di un collaboratore: «Non si vuol comprendere che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci».

De Gasperi, politico di professione
Pombeni chiosa: «È una frase autenticamente “degasperiana”, non solo per il concetto che esprime, ma anche per la metafora, che deriva da quella immersione nella civiltà contadina delle sue montagne che De Gasperi non dimenticò mai». Si trattava, in quel caso, di uscire dal vecchio sistema dove erano convissuti monarchia e fascismo per entrare in un orizzonte tutto nuovo, repubblicano e democratico, è evidente che un uomo come De Gasperi che aveva visto che cosa era successo in Germania dopo la prima guerra mondiale, la deriva della Repubblica di Weimar e il sorgere degli estremismi, e aveva conosciuto proprio in quegli anni la prigione senza mai esitare a dichiararsi politico di professione (come il chirurgo può fare solo il chirurgo e l'ingegnere solo l'ingegnere, al massimo cambiano ospedale o politecnico, io posso fare solo il politico... scriveva in sostanza alla moglie in una lettera dal carcere) non poteva non avvertire il carico morale e il peso propriamente politico della doppia responsabilità di guidare e gestire una transizione così complicata.

Le paure della Chiesa
La Chiesa aveva le sue paure e non “aiutava” di fronte alle mille incognite quotidiane, la pubblica amministrazione storicamente permeabile alle pressioni e ai voleri del vecchio regime non si presentava di certo come una roccaforte a difesa dei nuovi ideali, le forze politiche e intellettuali erano divise da profonde passioni ideologiche, le famiglie contavano i morti, l'economia usciva dalle macerie della guerra e doveva riorganizzarsi totalmente passando da un sistema agricolo minore a un assetto fondato sull'industria, il dualismo territoriale del Paese apriva fossati profondi all'interno del tessuto civile e sociale.

Un carro ancora fragile
Se non si fosse tenuto in debito conto questo contesto e si fosse derogato dal linguaggio della verità, il fragile carro della nuova democrazia italiana rischiava davvero di ribaltarsi. De Gasperi si affidò alla coesione e al fare, non rinunciò mai a essere presente dove riteneva che fosse giusto (memorabile l'intervento alla riapertura della Scala a Milano: questo Paese ha due soli capitali, il lavoro e la cultura, facciamo in modo che fruttino e si capisca che abbiamo rialzato la testa, questo il succo), soprattutto ripeté ostinatamente nei suoi discorsi di quel periodo che tutto si doveva tenere, in questo senso la “pazienza”, e alcuni scambiarono equilibrio e accortezza come il senno di un conservatore timoroso della rivoluzione alle porte, altri, all'opposto, lo giudicarono incapace di dare una svolta determinata che placasse le inquietudini di un'epoca che non si sapeva ancora come si sarebbe evoluta. Sbagliarono i primi e i secondi perché il politico di professione De Gasperi non lisciò il pelo a nessuna delle inquietudini di moda, spezzò con i fatti la spirale italiana sempre incombente delle demagogie più o meno ricorrenti, volle che dietro il centrismo ci fosse una “matrice umanistica” che facesse i conti, sotto una spinta etica costitutiva, con la povertà diffusa e un rapporto forte con i ceti produttivi e le rappresentanze dei lavoratori. Si posero i semi di una cultura politica che si allargava nei fatti alle anime liberale e azionista che avrebbe prodotto in seguito buoni frutti, si garantì un ancoraggio europeista solido che avrebbe sanato le ferite della seconda guerra mondiale e mise quest'uomo di confine insieme ad altri due uomini di confine, Adenauer e Schuman, alla testa della nuova locomotiva europea con la dignità che si riconosce ai grandi della politica e ai Paesi che loro rappresentano.

* * *
Questo insegna la storia politica di De Gasperi e del miracolo economico italiano di cui il suo centrismo pose le basi e di un'Europa già da allora pensata e sognata come federale. Ogni stagione politica è differente dalle altre. Di sicuro, però, in quest'epoca tormentata in cui viviamo oggi, di tornanti da superare ce ne sono molti e le strade sono rese scivolose, soprattutto in Italia, da tanti fattori e da troppo tempo. Sono scomparsi dieci punti di prodotto interno lordo e si è volatilizzato un quarto della produzione industriale, se possibile le due Italie sono ancora più distanti e, soprattutto, strutturalmente diverse. Si avvertono i segni terribili della più lunga crisi globale finanziaria e sono i segni di un mondo nuovo, digitalizzato e ancora più diseguale, attraversato da mille focolai di crisi geopolitica e in forte rallentamento congiunturale, dove i danni subiti sono per noi pari, se non superiori, a quelli di una terza guerra mondiale persa. Sui mercati, Brexit o non Brexit, prevale l'incertezza, abbiamo una delle Borse più sottovalutate al mondo, i valori delle nostre banche sono risibili soprattutto per le tante ben capitalizzate e ben gestite. Sul Monte dei Paschi si è fatto quello che si doveva fare e le banche italiane hanno superato gli stress test, non sono obbligate a ricapitalizzare però dovranno fare qualcosa, ma i mercati si chiedono se Mps ce la farà per davvero, non sanno di quanto sarà la tegola per le altre banche e, quindi, giù botte, a torto o a ragione, anzi sicuramente a torto, tra una speculazione e l'altra. Poi c'è il bubbone di Commerzbank e delle casse tedesche, l'incognita dei derivati della Deutsche Bank e lì, dicono i mercati, ancora una volta a torto o a ragione non conta, è un bel macello, a fine anno scoppierà il bubbone, si dovrà in un certo senso agire.

Insomma, facciamo i conti ogni giorno con la mancanza di notizie certe, in uno scenario avverso con tassi negativi che incidono sulla profittabilità, e in questo quadro è difficile fare in modo che prevalga una valutazione granulare e non all'ingrosso dei crediti in sofferenza italiani: il senso d'insieme prevalente è che i termini a venire saranno penalizzanti e la realtà (amara) è che a pagare ingiustamente il conto più pesante è sempre l'anello debole e quell'anello debole siamo noi, soprattutto per il macigno del debito pubblico ricevuto in eredità.

Dire come stanno le cose
Il governo deve avere il coraggio di dire la verità, di dire come stanno le cose, rivendicare i meriti delle cose fatte (jobs act prima di tutto, taglio del costo del lavoro Irap, riduzione dell'Ires dal 2017, ammortamento fiscale, legge sui macchinari e altro) e fare autocritica per gli 80 euro, i bonus culturali ai diciottenni e la politica “elettorale” sottostante che non hanno dato comunque i risultati auspicati sui consumi, come era peraltro facilmente intuibile. Bisogna avere il coraggio di fare tutto ciò per non cedere a nuovi scambi al ribasso, e dilapidare ulteriormente il capitale della fiducia, ma soprattutto per essere credibili in casa e fuori in modo da chiamare tutti, forze politiche, impresa e sindacato, alle proprie responsabilità dentro un rinnovato spirito di coesione. Per fare ripartire per davvero l'economia italiana e rimettere in carreggiata l'Europa, c'è disperato bisogno della “pazienza” e della capacità di fare di quella classe politica di allora. Perché, è vero, che i tornanti della nuova transizione non li percorrono più i “carri”, ma automobili più veloci e tecnologiche, è anche vero, però, che non meno di quelli si possono ribaltare, anzi possono incendiarsi o finire nei burroni.

Il deficit di leadership europea
C'è un deficit di leadership politica che l'Europa deve saper colmare, assolutamente in fretta, e una crisi di credibilità italiana che va superata con la fatica del lavoro quotidiano, la serietà dei comportamenti, la visione e l'energia necessarie per dare un contenuto effettivo al cambiamento, conseguire finalmente risultati che si possono vedere e toccare con mano. Non esistono alternative o scorciatoie a questo nuovo percorso di guerra, prima lo si comprende e ci si attrezza, meglio è. Siamo ancora in tempo per correggere errori, mettere a frutto il buono già realizzato, e fare bene cose nuove necessarie, ovviamente difficili, esattamente come quelle che fece De Gasperi. Bisogna volerlo, premunirsi di “pazienza”, e evitare che il “carro” si rovesci.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Ciao Carlo Azeglio
Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2016, 08:51:17 pm
Ciao Carlo Azeglio

Di Roberto Napoletano 17 settembre 2016

«Pensa, lunedì avremmo festeggiato i settant’anni di matrimonio e gli avevo detto: Carlo, faremo una cosa intima tra di noi». Mi dice la signora Franca, al telefono, e aggiunge: «Tu lo conosci bene, devi dire quello che sai, devi dire che era una persona perbene». La signora Franca si esprime con il suo linguaggio diretto, fatto di imperativi affettuosi, e ha ragione: Carlo Azeglio Ciampi era, prima di tutto, una persona perbene. Ho scelto di iniziare con questo racconto familiare perché qui, in questo articolo, non intendo parlare del Normalista, del governatore della Banca d’Italia, dell’uomo di governo padre dell’euro e del presidente emerito della Repubblica. Vorrei parlare dell’uomo Carlo Azeglio Ciampi per come lo ho visto e conosciuto da vicino, di quello che mi ha insegnato e di quello che ha rappresentato nella difesa del decoro delle istituzioni, il sentimento viscerale dell’orgoglio della Patria, il tratto identitario dell’uomo delle istituzioni, di un grande italiano e di un grande europeo.
***
Un giorno abbiamo scherzato sull’ansia, qualcosa che ci accomunava, ma che io ho sempre sentito come un tormento, soprattutto per chi mi sta intorno. Ho davanti agli occhi il suo faccione burbero e quella frase buttata lì: «Guarda, conosco il tema. Chiariamo subito: l’ansia ci permette di vedere prima i problemi, e quindi può essere un vantaggio. A una condizione, però, che si individui un metodo per gestirla». Presidente, lei lo ha trovato? «Sì, una squadra di collaboratori competenti e fidati. Se l’ansia ti porta a individuare prima il problema, allora questo va affrontato con la squadra di collaboratori, vanno sentite con attenzione tutte le opinioni, poi si ponderano le cose, si prende una decisione e non ci si pensa più. A quel punto, l’ansia cessa e, spesso, è stata utile».
***
Ricordo un fatto di vita vissuta che risale ai tempi di quando era governatore e che mi ha voluto raccontare un pomeriggio, nella casa romana, in via Anapo. Cito a mente il suo racconto: un politico mi chiede un appuntamento, lo ricevo, restiamo insieme una buona mezz’ora, ragioniamo di tante cose e non mi chiede niente. Dopo qualche settimana un amico comune mi riferisce la confessione del politico: avevo voluto l’incontro perché dovevo chiedere un piacere, ma Ciampi mi trattò con così tanta cortesia e così tanto distacco che non ebbi il coraggio di dire niente. Distacco e cortesia, lezione di civiltà, un insegnamento da tenere a mente. Scavo nei ricordi e mi riaffiora nella testa una telefonata, sempre del Presidente, di un po’ di anni fa. Mi dice: «Ha letto le dichiarazioni di Paul Volcker? Parla di disintegrazione dell’euro. Questo un banchiere centrale non lo può dire». Non era orgoglio ferito, da padre dell’euro, anche in questo caso parlava il governatore che è in lui. Un abito mentale, da servitore dello Stato, mai dismesso.
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Non so perché ma continuo a pensare all’ossessione di Ciampi contro l’infezione diffusa, e mai davvero domata, dei cattivi derivati e, anche in questo caso, ricordo una sua telefonata di diversi anni fa, mentre passeggiava a villa Ada, all’epoca in cui dirigevo il Messaggero e lui era il primo dei nostri editorialisti: «Direttore, le racconto un episodio che mi è successo da qualche minuto. Sono vicino al laghetto, mi saluta una signora e mi dice: grazie presidente per tutto quello che fa per noi. Replico: signora, ma io non faccio più niente. E lei: non è vero, scrive degli articoli bellissimi». Aveva ragione la signora. Qualche giorno prima, il 17 settembre del 2008, quest’uomo che ha avuto in Italia l’onore di tutte le responsabilità ed è apprezzato nei circoli più importanti della finanza internazionale, ma sapeva parlare come pochi al cuore degli italiani, aveva scritto un articolo che iniziava testualmente così: «Per capire quello che sta accadendo in questi giorni, forse, dovremmo partire dalla debolezza congenita degli accordi di Bretton Woods...».
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È passato un tempo che, per la pesantezza del conto che l’Italia ha pagato sull’altare della crisi globale finanziaria, assomiglia a un’eternità e, soprattutto, non accenna a finire. La nuova Bretton Woods, invocata da Ciampi, non si è vista, anzi assistiamo a un indebolimento delle leadership politiche globali, aumentano le diseguaglianze, si continua a passare da una crisi all’altra, gli Stati Uniti d’Europa restano un sogno, i focolai di crisi geopolitica nel mondo si moltiplicano a vista d’occhio, la Cina non ha guadagnato in libertà ma ha fermato la sua galoppata, per la prima volta gli americani sono convinti che i figli avranno un futuro meno roseo dei padri. Servono la forza della democrazia e l’intelligenza della politica, servono uomini come Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill combattenti e costruttori di democrazia o del calibro dei Padri Fondatori dell’Europa come De Gasperi, Adenauer, Schuman. Servono proprio uomini con passione politica, servitori dello Stato e persone perbene come Ciampi. Ciao Carlo Azeglio.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Il Professore, la “profezia” di Barbara Bush e la nuova...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2016, 09:00:02 pm
Il Professore, la “profezia” di Barbara Bush e la nuova Bretton Woods

    –di Roberto Napoletano 27 novembre 2016

In questi giorni di sbornia americana post-trumpiana mi viene in mente una battuta di Romano Prodi di qualche tempo fa a Bologna, a tavola, dopo una mattinata passata a discutere di manifattura made in Italy, di filiere e territori, i primati della meccanica strumentale e di precisione, packaging di qualità e abiti sartoriali dell’industria italiana globalizzata. Ricordo la faccia del Professore, prima ancora delle parole, quando qualcuno dei commensali gli chiede insistentemente se la Clinton riuscirà ad arginare la pressione populista e l’insofferenza dell’anima profonda americana coagulatesi intorno a Trump. Ricordo quel sorriso divertito, fintamente bonario, che balena tra gli occhiali e il naso, e la “sua” sentenza di forte apprezzamento ma dura come un sasso: «Hillary è persona di altissimo livello intellettuale e di grande carattere, ma, nel linguaggio emiliano, l’abbiamo definita anni fa una donna di classe e una chioccia fredda che non ha il calore sufficiente per trasformare le uova in pulcini. Concludevamo, quindi, che poteva essere una grande presidente, ma avrebbe avuto difficoltà altrettanto grandi nella campagna elettorale».

E così il Professore a modo suo, senza pronunciarsi, anticipava in “linguaggio emiliano”, come dice lui, e in tempi non sospetti, l’esito delle elezioni americane: entrava dentro quell’anima profonda in subbuglio tra storie personali mai rinnegate di clan politici e familiari, dove tutto e il contrario di tutto è possibile proprio per la straordinaria unicità del sogno americano diventato realtà pur tra mille contraddizioni di ieri e battute d’arresto di oggi. Il solco aperto tra politica e società dal carico crescente delle diseguaglianze, il conto fatto pagare al mondo da una finanza malata e il primato globale dei mercati e delle sue regole, la cultura della severità per chi le viola e una genuina “religione” della concorrenza, il senso profondo di una scuola dove stanno insieme il gioco di squadra e la sana, gioiosa competizione sportiva, quella fatta di valori e di merito.

Prodi ha voglia di scavare nei ricordi, e butta lì: «Per capire che cosa è davvero la società americana e come si muove la politica, anche se molte cose stanno cambiando, ho sempre davanti agli occhi un viaggio in macchina a fine ’98 con Bush padre e la moglie Barbara e, soprattutto, la scena di lei che siede dietro con Flavia e dice a voce alta: “io ho due figli appassionati di politica e non so ancora quale dei due diventerà presidente degli Stati Uniti”. Quando scendiamo dalla macchina, Flavia mi dà un colpetto e domanda: “Romano, ho capito bene? Non vorrei che non avessi afferrato l’inglese perché corre troppo con le parole”. No, Flavia, hai capito proprio bene. Ha detto esattamente così, non sa ancora quale dei due farà il presidente degli Stati Uniti». Il bello, poi, è che la profezia in macchina si è pure avverata. Misteri della democrazia americana.

Chiedo al Professore di Trump, e mi risponde con un’altra battuta, questa volta fulminante: «Ascoltando le sue parole, salvo le americanate, è un perfetto leader populista europeo». Sottinteso: è un figlio della rivoluzione francese dei nostri giorni, globale e diffusa, dove facciamo i conti quotidianamente con lo scontro tra i “sans-culottes” e le élite che cambiano di Paese in Paese, una protesta viscerale contro tutto ciò che è diverso, tutto ciò che è percepito a torto o a ragione come élite. È amico di Putin, Trump, che cosa vuol dire? Anche qui Prodi ha la risposta pronta: «Mi disse Gorbaciov, all’inizio della sua ascesa, che quest’uomo, Vladimir Putin, nonostante il suo curriculum, era l’unico in grado di tenere la Russia unita e legata all’Europa, poi le cose sono andate diversamente per gli errori di entrambe le parti. Resta il fatto che questa divisione è un danno certo per loro e per noi». Poi, però, alza lo sguardo al cielo il Professore, e diventa terribilmente serio: «Stiamo morendo tutti di iniqua distribuzione del reddito, i giovani dei Sud del mondo non hanno lavoro e vivono abbandonati senza speranza come cani randagi, il flusso della paura non si interrompe, ti accorgi che soprattutto in Europa non hai strumenti per distribuire il reddito, non capisci perché la politica non batta un colpo».

Appunto, la politica, quella che non si nutre di sondaggi, ma sa ascoltare la coscienza e la pancia degli elettori, per rispondere ai bisogni e guidare il cambiamento, non per assecondare la deriva. Quella politica che avrebbe dovuto scrivere da tempo una nuova Bretton Woods perché le ragioni del governo del mondo e dell’economia tornino a incontrarsi in nome della cooperazione e, in casa, avrebbe dovuto riscrivere da tempo le regole di ingaggio del patto europeo. Questa politica non si è vista, latitano le leadership, ma guai a perdere la speranza che torni a battere un colpo. Vorrebbe dire che la deriva non è più arginabile.

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Titolo: Roberto NAPOLETANO Il tempo che l’Italia non può sprecare
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2017, 12:21:21 am
Il tempo che l’Italia non può sprecare

di Roberto Napoletano

L’uso del tempo deve essere proficuo, non può essere sprecato, questo non altro è il valore della stabilità politica. L’Italia non ha interesse a infilarsi nella fibrillazione europea dei mercati dentro le scadenze elettorali di Olanda, Francia e Germania, è meglio che si parli del debito francese e della Le Pen, piuttosto che la scena sia occupata dal nostro macigno di un debito pubblico al 133% del Pil. L’Italia, però, ha ancora meno interesse al tirare a campare determinato dalle contorsioni politiche di un dibattito surreale all’interno del partito di maggioranza e dal clima di sospensione del Paese che ne scaturisce. Questo è il punto.

L’Europa chiede che non ci sia una crisi di governo prima della legge di bilancio e che Gentiloni sia più visibile. A noi interessa che l’esecutivo Gentiloni dimostri di governare e faccia le cose perché se è vero che l’Italia è il Paese che cresce meno in Europa e produce ancora meno di quanto producesse prima della grande crisi, il record del surplus commerciale (51,6 miliardi) e delle vendite all’estero (417 miliardi) e i segnali diffusi di risveglio che vengono dalla manifattura e dal mondo dei servizi più internazionalizzato dimostrano che ora più che mai la parte sana del Paese ha bisogno che non si fermi il processo esecutivo di riforme, pubblica amministrazione e giustizia, che si faccia finalmente qualcosa di decente in tema di concorrenza e che si riapra per davvero la stagione della ripresa degli investimenti in infrastrutture/edilizia (forse basterebbe fare oggi la legge Goria del 1987 per i mutui casa ai giovani). A quel punto, vedrete che quello 0,9% di crescita di Prodotto interno lordo certamente salirebbe e produrrebbe i suoi effetti benefici sul rapporto per noi in assoluto più importante e, cioè, quello debito/Pil.

Il Paese ha disperato bisogno di governo per fare queste cose che consentano di curare la sua malattia strutturale, il divario di produttività, restituire fiducia e ridare slancio alle sue energie vitali a partire da un capitale umano unico che è quello dei suoi giovani. Con tutto il rispetto per le ragioni “nobili” della politica, non vediamo una sola ragione al mondo se non quella della irresponsabilità che possa giustificare lacerazioni e contorsionismi partitico-correntizi che non portino a uno sbocco chiaro: si governi ventre a terra e si moltiplichino gli sforzi o si vada al voto. La sospensione non serve al partito egemone di questo governo, ma soprattutto fa malissimo al Paese.
L'Editoriale
La questione irrisolta del capitalismo italiano

Se ci saranno le condizioni perché prevalga la prima ipotesi, quella del buon senso, non si perda tempo in dibattiti irritanti quanto vacui su un banalissimo 0,2% di correzione su un bilancio di 800 e passa miliardi di spesa pubblica, si metta mano con serietà alle privatizzazioni e ai conti pubblici perché la nuova legge di stabilità ci aspetta al varco con il suo pesante carico di clausole di salvaguardia da disinnescare. Soprattutto perché solo scelte effettive di questo tipo, non proclami, ci legittimerebbero in Europa per sfruttare il clima politico favorevole al cambiamento, determinato dalla grande paura populista, ottenere uno scambio virtuoso tra riforme e investimenti e, cosa ancora più importante, guidare con la forza di un Paese fondatore legittimato il cammino verso un’Europa federale solidale che ponga al centro il lavoro, la ricerca e lo sviluppo, e si appalesi finalmente come tale su terreni decisivi quali sono difesa, immigrazione e politica estera.

Per quanto ambiziosa, lunga e piena di insidie, questa è la strada percorribile, rotture o scorciatoie in un mondo dove tutto è cambiato (Brexit, Trump, “ritorno” di Putin, e molto altro) potrebbero avere effetti rovinosi per tutti e impedirebbero di cogliere segnali politici importanti che vengono dall’Europarlamento, penso alle risoluzioni contro lo strabismo della vigilanza bancaria europea e a un indirizzo più solidale, e, in modo diverso, dall’ala più dura della roccaforte tedesca.

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    CAMBI E POLITICHE MONETARIE 18 febbraio 2017

Merkel: il valore dell’euro è un problema per l’Eurozona

Chi ha incontrato di recente il giovane governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, giura di averlo sentito ripetere che sono in molti i tedeschi pronti a sostenere che con la politica dei bassi tassi viene colpita la ricchezza privata ma che lui non la pensa così, che questa è una rappresentazione populista, è vero che i tedeschi soffrono per i bassi tassi di interesse ma lui non discute che la politica monetaria, in questo momento, debba essere espansiva, ritiene che sia la scelta giusta e dà volentieri atto a Mario Draghi di avere imboccato questa strada. Il ragionamento di Weidmann è più o meno il seguente: per noi oggi contano più i posti di lavoro che il risparmio dei ricchi, chi risparmia ha diversi ruoli, è un lavoratore dipendente, è un cittadino, quindi per lui la politica espansiva contribuisce a dare la sicurezza del posto di lavoro, probabilmente pagherà meno tasse e avrà il vantaggio di potere decidere di investire una parte del risparmio per comprare una casa. Se non si è ancora capito il falco della Bundesbank e primo azionista della Bce, sempre all’opposizione, da un po’ di tempo in qua fa intendere che la strada imboccata da Draghi è quella giusta.

Mi viene da dire, meglio tardi che mai per un economista che non ha mai creduto in un vero rischio di deflazione e che si è sempre opposto alla politica monetaria della Banca centrale europea, ma che si vede ora costretto a constatare che l’Europa cresce più degli Stati Uniti, che il mostro deflazione è stato per lo meno domato, che il tasso di disoccupazione tedesco è poco sotto il 5%, i giovani sono appagati perché trovano il lavoro che desiderano, e potrebbe aggiungere, ma non lo farà, di avere un surplus commerciale record senza che nessuno a Bruxelles alzi la paletta, apra una procedura d’infrazione, dica di “restituire” qualcosa. Poi, però, farà capire che è sempre Weidmann, anche quando dice cose giuste: non smetterà, cioè, di ripetere che non ha senso che chi ha un debito pubblico più elevato paghi come chi ne ha molto meno per gli acquisti della Bce e ripeterà le critiche al Quantitative Easing (Q E), ma queste critiche sono fuori dalla storia e dal nuovo gioco politico europeo che ha gli occhi puntati sulle elezioni in Francia, dove l’onda lunga della Le Pen è un dato reale, e in Germania, dove Alternativa per la Germania viaggia oltre il 10% e dove la candidatura europeista di Schulz si presenta ostica e competitiva per la cancelleria Merkel.

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Questi sono i quadri d’insieme europeo e italiano. L’interesse del Paese in casa è chiaro a tutti, impone azioni non galleggiamento, coesione e fare, non proclami, divisioni e dibattiti surreali. Il QE non finirà domani, ma non durerà per sempre, i tassi risaliranno e finanziare il debito costerà di più. Il fattore tempo non è indifferente, mettersi a posto prima è necessario. Bisogna consolidare i risultati raggiunti, il buono ma insufficiente realizzato fin qui non ha debellato il virus del disagio sociale e non può quindi fermare l’onda lunga della protesta e di chi se ne fa a torto o a ragione portabandiera politico. Fare una legge elettorale omogenea tra i due rami del Parlamento è utile, ma le emergenze vere del Paese sono altre e le abbiamo elencate nei dettagli. Abbiamo calcolato qualche giorno fa, con Rating 24, che agire con serietà su pubblica amministrazione, concorrenza, giustizia, cantieri e cuneo fiscale vuol dire “costruire” con le proprie mani le basi per un rafforzamento della crescita da qui al 2019 dell’ordine di due punti di pil e, in un momento in cui l’incertezza politica torna a fare fibrillare i mercati, sottrarsi al ciclone infernale elettorale è di certo una scelta saggia per un Paese che deve collocare ogni anno titoli di Stato ben oltre 400 miliardi, ma non a prescindere e in ogni caso.

C’è bisogno di una maturità e di una consapevolezza dell’interesse generale che si traducano in una scelta politica condivisa e in azioni nettamente più incisive di quelle fatte fino ad ora per recuperare produttività e prospettiva di lungo termine. Il governo Gentiloni è espressione del Pd di Renzi e ne riproduce pressoché in fotocopia la compagine governativa, sarebbe grave se non si cogliesse l’opportunità politica che questo partito ha di continuare a governare, e soprattutto di farlo bene, in un momento delicato come è quello attuale. Siamo tra i più bravi nella gestione del debito pubblico sui mercati, ora dobbiamo dimostrare di essere capaci anche di farlo scendere quel debito e, soprattutto, di farlo scendere rispetto al pil aumentando la crescita. A quel punto, in Europa, si tornerebbe a parlare di messa in comune fino al 60% dei debiti pubblici nazionali e di “Redemption fund” a lunghissima scadenza per il resto e, forse, su questa strada si arriverebbe a capire anche che quei parametri di Maastricht esprimevano medie aritmetiche non valori evangelici e che la storia del mondo è andata da un’altra parte sotto la spinta di una crisi globale senza precedenti.

La vecchia Europa deve riempire di politica quei numeretti, prima di tutto nel suo interesse, che è quello di un assetto federale compiuto e solidale che gioca alla pari con l’America di Trump e l’espansionismo cinese, si misura con il grande focolaio globale del terrorismo, i risvegli nazionalisti alla Brexit e il protagonismo di Putin. Un’Italia con i conti a posto, che non si stanca di governare e rifulge dalle scorciatoie, può dire la sua a testa alta in questa Europa da ricostruire. Dipende da noi, anzi come direbbe Ciampi, sta in noi.

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