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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 79313 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Maggio 30, 2016, 06:14:10 pm »

La ricerca elettorale dell’identità

 Di Antonio Polito

Cos’è la destra, cos’è la sinistra, si domandava stralunato Giorgio Gaber prima di lasciarci. Se lo sono chiesti l’altra sera anche alla redazione di Sky, quando è arrivato il momento di decidere che cosa scrivere nel sottopancia dei candidati romani durante il prossimo dibattito televisivo previsto per martedì. Giachetti non voleva «Pd» ma «centrosinistra», Meloni allora voleva pure lei «centrodestra», ma Marchini ha con sé metà centrodestra e dunque si è ribellato, e anche Fassina avrà obiettato che il «centrosinistra» non è tale perché manca Sel che la volta scorsa c’era eccome nelle vittorie di Milano, Roma, Napoli e Cagliari, e allora la Raggi ha accusato gli altri di vergognarsi del nome del loro partito mentre lei può scrivere con orgoglio «M5S», e a questo punto Giachetti le ha risposto che si dovrebbe aggiungere «Casaleggio associati», e alla fine Sky ha lasciato perdere: nei sottopancia non si scriverà niente. Solo la sfilza di sigle e simboli, spesso misteriosi o ignoti, che sostengono i candidati al Campidoglio.

Sembrerebbe un episodio del folklore politico romano, l’ultima puntata della saga «Chi viene dopo Marino?». M a l’incidente del sottopancia potrebbe invece anche essere il segno di un’epoca, l’epoca in cui i partiti sanno solo di non sapere chi sono e vogliono tutti essere qualcos’altro, possibilmente tutti «partiti della nazione». La crisi delle identità politiche, esplosa un quarto di secolo fa con l’irruzione sulla scena del berlusconismo, conoscerebbe così un nuovo inizio con il renzismo, ircocervo altrettanto difficile da definire. Intendiamoci, può anche darsi che si tratti dell’ennesima intuizione profetica partorita dall’anomalia italiana: tutto sommato siamo il Paese che ha inventato l’antipolitica negli anni 90, e ora che è esplosa ovunque forse saremo anche il primo Paese che la fronteggerà inventandosi nuove e inedite aggregazioni al posto di Popolari e Socialisti, centrodestra e centrosinistra, la norma nel resto d’Europa.

Non deve essere quindi un caso se lo stesso Renzi guarda con tanto distacco a queste elezioni comunali, al punto da aver lanciato nel pieno della campagna elettorale amministrativa la campagna elettorale per un referendum che si svolge tra cinque mesi. Si vede che più che come segretario del Pd, Renzi preferisce essere giudicato come leader di quel partito trasversale del Sì cui partecipano, a proposito di «centrosinistra», due partiti di centrodestra, il Nuovo Centrodestra di Alfano e l’Ala di Verdini. Mentre i candidati sindaci del Pd tutto vorrebbero tranne che nelle urne comunali si giocasse un anticipo del referendum costituzionale, perché così rischierebbero sicuramente di perdere degli elettori già schierati con il No (per esempio nella Torino di Fassino, patria putativa e intellettuale dei difensori della Costituzione a oltranza).

Il meno che si possa dire è che grande è la confusione sotto il cielo, ma ciò nonostante la situazione non è eccellente. Gli strumenti tradizionali della politica non sono più a disposizione dei cittadini, le alleanze future tra i partiti sono al momento un rebus avvolto in un enigma, e quindi gli elettori dovranno trovare dei nuovi e speriamo efficaci criteri per decidere chi votare la prossima settimana. «Una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra», cantava Gaber. Oggi il menù elettorale si è decisamente arricchito. Purché non siano minestre riscaldate.

27 maggio 2016 (modifica il 27 maggio 2016 | 23:11)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_maggio_28/alla-ricerca-dell-identita-7010747c-243c-11e6-b229-67fb25338505.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Settembre 12, 2018, 05:34:28 pm »

Lega e Cinque Stelle, gli alleati rivali e la piccola Yalta italiana
L’esecutivo è stato definito una Grande coalizione dei populismi.

Ma in realtà si tratta di una specie di Grande somma dei due programmi e delle rispettive promesse

  Di Antonio Polito

Per spiegare gli stratosferici livelli di consenso che avrebbe raggiunto la Lega, così alti da far dire «non ci credo» perfino a Salvini, il sondaggista Nicola Piepoli ne ha attribuito la ragione «a due eventi negativi: Genova e la nave Diciotti». Svelando così il paradosso al cuore della situazione politica italiana. Di solito, infatti, i partiti al governo si avvantaggiano di ciò che in inglese si chiama «effetto feel good»: meglio vanno le cose, più soddisfatti sono gli elettori. Ma nell’Italia reduce dalla rivoluzione elettorale del 4 marzo stiamo vivendo, e forse vivremo ancora per un po’, una diversa stagione: gli eventi negativi ci rendono governativi, perché appaiono la conferma delle colpe di chi c’era prima e rafforzano la convinzione che abbiamo fatto bene a mandarli via. Ecco perché i nemici del governo farebbero un grosso errore a sperare nell’aiuto del «generale spread», e cioè in un aggravarsi della situazione economica e finanziaria del Paese che faccia rinsavire gli elettori. Le cattive notizie non portano bene all’opposizione. Almeno finché gli elettori si aspettano buone notizie dal governo.

Ma perché l’incantesimo duri, queste prima o poi devono arrivare. A Genova, per esempio, il crollo del ponte è stato addebitato a chi c’era prima. Ma sulla ricostruzione verrà presto giudicato chi c’è adesso, così come già comincia ad avvenire per la consegna delle case agli sfollati. Lo stesso discorso vale, su una scala più vasta e decisiva, per la manovra di bilancio.

Negli intendimenti di Cinque Stelle e Lega essa infatti dovrebbe contenere tutte le buone notizie di cui la maggioranza è capace. Lì dentro c’è il patto che Di Maio da una parte e Salvini dall’altra hanno firmato con i loro rispettivi elettori, come del resto avviene sempre in democrazia. La originalità della vicenda politica italiana fa sì però che non si tratti di un programma elettorale, ma di due programmi elettorali che si sommano, e talvolta si contraddicono, perché rivolti a gruppi sociali e a realtà territoriali spesso in competizione tra di loro. Il popolo, come si sa, non è unico; ce ne sono molti; e Cinque Stelle e Lega ne rappresentano due diversi e distinti, oltre che vasti.

Il governo che è nato dopo il voto, e solo perché le urne non avevano dato una maggioranza, è stato definito una Grande coalizione dei populismi, la prima di questo genere in Europa. Ma in realtà non si tratta nemmeno di una coalizione: come gli stessi esponenti dei due partiti si affannano a chiarire, è solo un’alleanza basata su un contratto. Una specie di Grande somma dei due programmi e delle rispettive promesse. E infatti finora il tandem Salvini-Di Maio ha funzionato alla perfezione grazie a una rigorosa spartizione delle rispettive aree di influenza: se tu non obietti sulla flat tax per le piccole imprese del Nord, io non obietto sul decreto dignità che danneggia le piccole imprese del Nord, e viceversa. È una sorta di nuova Yalta, un modello in scala minore dell’intesa che portò Roosevelt e Stalin, alleati in guerra ma concorrenti nel dopoguerra, a dividersi il mondo senza pestarsi i piedi. Quell’esperimento durò però poco, e si trasformò nel giro di pochi anni nella Guerra fredda tra le due superpotenze. Quanto resisterà la piccola Yalta italiana di cui l’avvocato Conte fa da notaio?

La manovra economica ce lo dirà. Se infatti in politica le somme sono possibili perché aritmetiche, cioè si può vincere in due e si può volare in due nei sondaggi, quando si arriva al bilancio dello Stato le somme si fanno inevitabilmente algebriche: perché ci sia un più ci deve essere anche un meno. L’istinto dei più scapestrati tra leghisti e pentastellati sarebbe di aggirare il problema prendendo in prestito tutti i soldi che servono. Ma i ministri più avvertiti — e c’è da sperare anche i due leader — sanno che anche così si produrrebbe un «meno», anzi un gigantesco «meno», e cioè la cifra a nove cifre degli interessi che i mercati ci farebbero pagare per quel debito.

Bisogna dunque augurarsi innanzitutto che il governo abbandoni ogni velleità di strategia della tensione con i vincoli europei di bilancio, evitando così di perdere insieme a Tria anche ogni credibilità. In questa materia il coltello dalla parte del manico non ce l’abbiamo noi. Ma se si rinuncia saggiamente a indebitarsi ancora, non resta che fare scelte. Non «compromessi» tra i due programmi elettorali, come li ha definiti Salvini, ma proprio scelte. Perché con le risorse limitate di cui dispone il bilancio dello Stato la cosa peggiore sarebbe disperderle per tener buoni i rispettivi elettorati, senza concentrarle dove possono essere utili per sostenere e accelerare la ripresa della nostra economia, dunque anche nella riduzione di un debito pubblico che per il nostro Paese e le future generazioni è un’autentica palla al piede.

Una coalizione di governo si distingue da una somma di interessi proprio perché ha un progetto, una direzione, e sa fare una sintesi. Se è troppo chiedere tutto ciò al presidente del Consiglio, che si trova a Palazzo Chigi un po’ per caso, non lo è pretenderlo dai suoi due vice. Durare è anche nel loro interesse. Con la legge di Bilancio possono dare la prova che davvero si ritengono un governo di legislatura: se così è, vuol dire infatti che hanno tutto il tempo per tradurre gradualmente gli impegni assunti con i loro elettori in una coerente e praticabile strategia di sviluppo al servizio del Paese. Meno tasse aiuta la crescita, sì, ma se corrisponde a meno spese. Più welfare aiuta la coesione sociale, ma se non produce meno occupazione. Lega e Cinque Stelle dovrebbero insomma sfruttare la luna di miele che stanno vivendo con l’elettorato per gettare le basi solide di un vero governo. Hanno il vantaggio di poter agire indisturbati: a questo giro non sarà certo un’opposizione evanescente e malmessa a poterli preoccupare.

4 settembre 2018 (modifica il 4 settembre 2018 | 21:09)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_05/gli-alleati-rivali-1360bf4c-b072-11e8-943d-6f0a93576229.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Febbraio 14, 2019, 07:33:13 pm »

POLITEIA
Adottate chiunque ma non un filosofo

L’ossequio alla filosofia come regina delle discipline umanistiche è anche il principale difetto della cultura partenopea

  Di Antonio Polito

Se dovessi spiegare l’Europa ai miei figli, sono onesto, non adotterei un filosofo. Non me ne vogliano i quattro accademici, Biagio de Giovanni, Aldo Masullo, Fulvio Tessitore e Vincenzo Vitiello, che si sono meritoriamente prestati a fare da testimonial di una campagna di educazione civica per sessanta scuole, promossa dalla Fondazione Campania dei Festival, e che dovrebbe servire a convincere i nostri giovani della bontà del progetto europeo. Per carità, si tratta di cattedratici di grande erudizione e sapienza. Ma l’idea che l’Europa sia qualcosa che ha a che fare principalmente con il mondo delle idee è forse una delle cause principali della sua crisi odierna.

E l’ossequio alla filosofia come regina delle discipline umanistiche è anche il principale difetto della cultura partenopea, così identificatasi nel tempo con i voli pindarici e l’empireo platonico da essersi progressivamente separata dalla realtà, finendo per venire percepita come estranea e aristocratica dalla gente comune, comunque inutile per le sorti collettive della nostra comunità, e infatti generalmente inascoltata. D’altra parte i quattro filosofi che si propongono per l’adozione sono da molto tempo tra i principali opinion makers, costruttori di opinione, nella nostra città. Hanno spiegato già a lungo sulle colonne dei giornali e nelle aule parlamentari il valore di emancipazione della cultura, il disvalore della demagogia populista, la necessità per Napoli di essere città europea, e non si può dire che la loro predicazione abbia dato fin qui grandi frutti, ahinoi.


Ci spieghiamo ogni giorno che all’origine del rifiuto dell’Europa c’è una frattura tra élite e popolo. Vogliamo provare a ricucirla mandando avanti la più sofisticata delle nostre élite, quelle accademica? Non ricomincerei dunque davvero dai filosofi, per rilanciare l’Europa. Magari dai botanici. Si tiene oggi a Monopoli, in Puglia, una manifestazione contro la Xylella. Ecco. Non c’è caso più chiaro per capire a che serve l’Europa. Se l’avessimo ascoltata, e avessimo ascoltati gli scienziati che a suo nome parlavano, avremmo già debellato un batterio che si sta mangiando gli ettari più belli e più ricchi della nostra campagna, producendo uno scempio che ci siamo procurati con le nostre mani, noi meridionali, rifiutandoci di fare ciò che andava fatto, e subito. Scuole, adottate un botanico, dunque. O adottate un ingegnere. Uno di quelli che con i fondi europei hanno costruito la metropolitana napoletana, una delle poche cose che distingue oggi la nostra città da quella che era alla fine dalla guerra.

Voglio dire che se vogliamo ridare un senso all’idea di Europa ci serve spiegare ai cittadini che cosa ha fatto per noi e che cosa può fare ancora: qualcosa di concreto, una convenienza, un fatto. Per quanto infatti le idee platoniche spiegate da Benedetto Croce alla cuoca siano paragonabili a caciocavalli appesi, purtroppo non si mangiano. E oggi nel sud non puoi proporre una qualsiasi opzione politica o etica che non sia in grado di sfamare anche il bisogno di sviluppo e di benessere che si mangia le nostre terre, e le ha incattivite al punto da consegnarsi ai demagoghi di ogni risma.

Adottate un economista, che possa spiegare ai nostri ragazzi perché se avessimo ancora la lira il reddito dei napoletani sarebbe anche più basso di quello che è oggi, e perché se non è cresciuto non è colpa dell’euro. Adottate un medico, che spieghi perché da quando esistono standard europei per l’igiene alimentare si muore meno (anche se a Napoli si muore più che a Milano, ma questa è colpa dell’Italia, che non è abbastanza europea). Adottate un calciatore, così che risulti chiaro che chiunque oggi voglia competere e vincere deve farlo in Europa, e per questo ci teniamo tanto alla Champions. Adottate un cantante, che ci racconti come il local oggi possa avere successo diventando global, che si può cantare in napoletano come Pino Daniele e sfondare in Inghilterra. Adottate un insegnante, che dica ai nostri studenti perché è importante che possano completare i loro studi in un altro paese europeo, fare un Erasmus, andare a Londra senza il visto che sarà richiesto dalla Brexit.

Adottate chiunque ma, per favore, non un filosofo. È dalla fine del Medioevo che altri saperi hanno prevalso sulla metafisica e sulla teologia, togliendo lo scettro alla filosofia e trasformandola in ancella. Il Rinascimento è stato scienza e arte, Leonardo e Cristoforo Colombo al posto di Aristotele e Tommaso d’Aquino. Per quanti sforzi la filosofia possa fare nel tentativo di spiegare la separazione del mondo intellegibile dal modo sensibile, è il mondo sensibile che interessa ai nostri ragazzi. Basta dunque filosofi. A Napoli ne abbiamo già avuti abbastanza.

13 gennaio 2019 | 09:03
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/19_gennaio_13/adottate-chiunque-ma-non-filosofo-0fda2982-1709-11e9-b1b4-4e95b2102835.shtml?fbclid=IwAR2J83A1O5RIj10GDih-SjPK8fSIDzu-sIxQfGb-W860acBHeLtXZ5w56wc
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« Risposta #123 inserito:: Maggio 06, 2019, 06:48:58 pm »

L’EDITORIALE

La differenza tra popolo e cittadini

  Di Antonio Polito

Ci avete fatto caso? I nostri politici, più che mai in questa campagna elettorale, parlano sempre di «popolo», si rivolgono al «popolo», si dichiarano dalla parte del «popolo». I «cittadini», protagonisti di un tempo della nostra democrazia, quando così vennero chiamati donne e uomini della nuova Italia repubblicana uscita dal referendum del 2 giugno di 70 anni fa, sono spariti. Siccome le parole contano, bisogna stare attenti a certi slittamenti semantici, domandarsi che cosa significano, perché non sono mai casuali. La parola «cittadini» faceva riferimento a una condizione di piena partecipazione al governo della cosa pubblica. Cittadini furono in principio quelli della Repubblica nata dalla Rivoluzione francese, per antonomasia sono individui liberi, informati ed esigenti, che si riuniscono in partiti e organizzazioni «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come recita la nostra Costituzione, e che usano l’arma del voto per scegliere i propri rappresentanti. Ralf Dahrendorf, il grande sociologo liberale tedesco del Novecento, diceva che «non può esistere una democrazia senza i cittadini». Ma poi, a mano a mano che la Repubblica cresceva, i «cittadini» si assottigliavano, sia in termini di citazioni che di impegno nella vita pubblica del Paese, prova ne sia il costante declino della partecipazione al voto. E al posto dei cittadini, nella retorica dei politici, è comparsa la parola «elettori»: «cari elettori», «il volere degli elettori», «gli elettori hanno sempre ragione».

A differenza di «cittadini», che allude alla condizione civica della cittadinanza, «elettori» ha una connotazione più marcatamente commerciale, perché negli elettori ciò che rileva è il fatto che dispongono di voti, e i voti servono ai politici. E infatti nel linguaggio comune hanno fatto irruzione espressioni tipiche del marketing, quali «l’offerta elettorale», «i desideri degli elettori», e a poco a poco si è cominciato a sondare con metodi sempre più scientifici e sempre più di frequente lo stato d’animo degli elettori per scoprire che cosa i politici potevano vendere loro e come.

Ma già nel decennio passato appare prepotentemente una nuova parola che prende il posto dei «cittadini» e degli «elettori» di un tempo: il «popolo». Lo sdoganatore del termine, ovviamente, è il più grande innovatore della politica italiana del dopoguerra, Silvio Berlusconi, che a un certo punto decide, dopo lungo cogitare, di chiamare la sua nuova forza politica non «Partito della libertà» ma «Popolo della libertà». Partito, come si sa, suonava male dopo la crisi della Prima Repubblica e la sparizione di tutti i partiti tradizionali. Però la parola «partito» aveva, insieme a un carattere fazioso, anche una sua modestia. Un «partito» è infatti quella organizzazione che accetta e riconosce di rappresentare solo una «parte» del Paese, e dunque di doversi confrontare con le altre parti. Quando una parte politica si autodefinisce invece «popolo», vuol dire che ha una tentazione egemonica perché esclude dal popolo tutte le altre parti, e dunque fa un piccolo passo in direzione del «populismo»; che, per l’appunto, vuol dire identificarsi con un mitico «popolo», pretendendo cioè di rappresentarlo tutto, e relegando dunque nel ghetto dei «nemici del popolo» tutti quelli che non la pensano allo stesso modo.

«Popolo», inoltre, è un sostantivo singolare, a differenza di «cittadini» e di «elettori» che sono plurali, e quindi presuppongono il pluralismo, nel senso che ogni cittadino, ogni elettore, la pensa a modo suo. Nel «popolo», invece, non c’è tutta questa libertà, è un termine collettivo, tutti quelli che fanno parte del «popolo» sono considerati uguali, una massa indistinta. Ecco perché i regimi autoritari hanno sempre fatto riferimento al «popolo», mentre le democrazie ai «cittadini».

Quindi, cari cittadini di Napoli, ora che destra e sinistra sono sempre meno riconoscibili e distinte tra loro, ora che Valente e Verdini vanno a braccetto, che Lettieri si candida con Berlusconi ma tifa Renzi, che de Magistris fa il Peron e Brambilla il Brambilla, e tutti insieme vi chiamano «popolo» per chiedervi il voto, imparate a distinguere e ricordate l’aggettivo qualificativo che a questa parola appone la nostra Costituzione: domani non dobbiamo essere un generico «popolo», massa di manovra del demagogo di turno che vuole prendere o tenersi il potere, ma bensì «popolo sovrano», composto di cittadini adulti e consapevoli, e per questo depositario dello scettro in democrazia.

4 giugno 2016 | 10:53
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Da - https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/amministrative-2016/notizie/differenza-popolo-cittadini-f6530258-2a30-11e6-9dad-95a4efefa57d.shtml
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