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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 79331 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:31:02 pm »

La nuova anomalia
Se i politici usano la giustizia

Di Antonio Polito

Un magistrato che accusa i politici di uso politico della giustizia è un’autentica novità, dopo vent’anni passati a discutere fino allo sfinimento dell’opposto, e cioè dell’invasione di campo dei giudici nella lotta politica. Eppure è proprio ciò che ha detto il procuratore capo di Palermo, Lo Voi, con la coraggiosa intervista rilasciata ieri a Giovanni Bianconi: «È un’anomalia italiana la tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura, come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario a cui attaccarsi, prima di muoversi».

Lo Voi si riferisce alla kafkiana vicenda di Palermo, dove il Pd sembra approfittare, per liberarsi del suo presidente di Regione, di una molto presunta intercettazione, che il povero procuratore si affanna a giurare inesistente, ma tutti continuano a far finta che ci sia, pur di costruire un «contesto» sciasciano che condanni Crocetta e promuova Faraone, il sostituto designato. Ma Palermo non è l’unico caso di questa nouvelle vague. Roma è l’altro. Anche lì un’inchiesta, Mafia Capitale, è usata come detonatore di una campagna contro il sindaco Marino, le cui dimissioni meritavano di esser chieste per le buche e la sporcizia della città forse più che per il suo (scarso) ruolo nei fatti penali: politica a orologeria si potrebbe chiamarla, parafrasando la vecchia polemica contro la giustizia a orologeria. E anche lì un procuratore, Pignatone, è stato chiamato a districare nodi politici non suoi, dovendo esprimersi sull’ipotesi di scioglimento del Comune per mafia.

Aggiungerei all’elenco anche il giudice di Napoli cui è stato chiesto di risolvere il pasticcio De Luca, creato dal Pd candidandolo nonostante la legge Severino, e che ha rinviato ad altri giudici, stavolta costituzionali, il verdetto finale sull’intricata storia. Sono tutte vicende che segnalano una fase nuova, ma non meno malata, del rapporto giustizia-politica. Stavolta i magistrati ne sono incolpevoli, hanno anzi spesso il merito di tirarsi fuori come Lo Voi e Pignatone, precisando che il loro compito «è fare indagini e processi, senza doppi fini e senza intenti pedagogici». Si vede che non intendono comportarsi, passando direttamente dalle inchieste sui politici allo scranno del politico, come hanno fatto Emiliano in Puglia e de Magistris a Napoli, o come ha provato a fare Ingroia. Ciò che denunciano è il frutto marcio di una lunga stagione in cui una vera e propria dipendenza dalle inchieste è entrata nelle vene della nostra democrazia, assuefacendola. Ora sul palcoscenico ci sono politici più giovani e più smaliziati perché nati nel post-tangentopoli, che hanno imparato a usare questa patologia nazionale, invece che esserne usati. Ma siamo ben lontani dalla guarigione. Anzi. Se proprio le inchieste devono avere un «uso politico», verrebbe da dire, meglio fidarsi della giustizia, che almeno ha tre gradi di giudizio, piuttosto che del giudizio politico, per sua natura interessato, volubile e fazioso.

23 luglio 2015 (modifica il 23 luglio 2015 | 07:19)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_23/se-politici-usano-giustizia-voi-crocetta-de-luca-bdd178f0-30f9-11e5-baf0-7fcacd4a9aca.shtml
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« Risposta #106 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:43:05 pm »

La fragilità della maggioranza
Renzi, lo stallo e tre vie d’uscita
Per quanto il governo dica di avere i numeri, la realtà è che oggi i numeri a Palazzo Madama non li ha. Dunque il premier ha un problema, e deve risolverlo

Di Antonio Polito

Chi nasce tondo non può morire quadrato, dice il proverbio. Nessuna meraviglia quindi se il Senato, privo fin dall’inizio di una maggioranza politica, sembra tornato a essere la Fossa delle Marianne della legislatura. Per quanto il governo dica di avere i numeri, la realtà è che oggi i numeri a Palazzo Madama non li ha. Non li ha per la riforma costituzionale che abolirebbe il Senato elettivo (prima o poi devono essere 161, ed è risaputo che i capponi non votano per il Natale); ma potrebbero mancargli anche ogni volta che la minoranza pd decide di scavarsi una trincea identitaria. Dunque il premier ha un problema, e deve risolverlo. Finora ha praticato il divide et impera, ha assecondato la frantumazione delle forze parlamentari, ha osservato benevolmente il via vai di fuoriusciti e scissionisti, convinto che più nani ci sono in giro più lui giganteggia. La nuova legge elettorale, l’Italicum, codifica anche per il futuro questa aritmetica, togliendo valore alle coalizioni. Ma ora Renzi, al giro di boa della legislatura, deve provare a riattaccare qualche coccio, a coalizzare un arco di forze che vada oltre la sua maggioranza; perché questa, da sola, è oggi minoranza al Senato.

Le vie che Renzi può seguire sono tre. La prima è la più pragmatica. Consiste nello strappare un numero consistente di senatori pd al fronte del dissenso. Ma devono essere molti. Se Renzi non riesce almeno a dimezzare il gruppo Gotor-Chiti, gli «aiutini» esterni su cui conta potrebbero non essere sufficienti. La scissione di Verdini, che è sembrata più concessa che subita da Berlusconi, può essere un veicolo per nuovi soccorsi sottobanco, ma entro certi limiti. Pareggiare così 24/26 voti contrari nel Pd non è possibile. Staccarne 10/12 non è affatto facile. In più l’operazione si baserebbe troppo sui trasformisti, base fragile per governare.

La seconda via è quella di uno scambio politico alla luce del sole. La minoranza pd voterebbe anche domattina il Senato non elettivo se fosse garantita da una legge elettorale con il premio alla coalizione invece che alla lista. Sarebbe la sua assicurazione sulla vita, in caso di scissione. Forza Italia ne ha a sua volta bisogno per allearsi con Salvini. E ai centristi, se vogliono davvero andare alle elezioni col Pd, servirà comunque una lista, non potendo confluirvi. Molti renziani la considererebbero una resa senza condizioni; ma se Renzi accettasse pubblicamente di ritoccare l’Italicum la partita politica cambierebbe in un istante. Non è escluso che nel prossimo dibattito in Senato sulla riforma costituzionale spunti qualche ordine del giorno che chieda al governo di farlo.



La terza via, la più impervia ma anche la più ambiziosa, sarebbe tornare al punto da cui è partita la legislatura, e cioè a un patto tra il Pd e Berlusconi. Non potrebbe essere una riedizione del Nazareno, accordo troppo oscuro e ambiguo, e comunque fallito con l’elezione di Mattarella, uomo che non l’avrebbe garantito. Oggi molti ne parlano, sia nel Pd che in Forza Italia, come di un accordo di coalizione che dia stabilità al governo; anche se nessuno sa che cosa esattamente sia, e ognuno aggiunge sempre nuovi ingredienti alla trattativa, come la giustizia. È perfino riapparso Gianni Letta, con un mezzo mandato a trattare, di cui ha fatto ampio uso nella vicenda Rai.

Si tratterebbe in ogni caso di un vero e proprio riallineamento del sistema politico, perché staccherebbe Berlusconi dalla destra di Salvini e porterebbe il Pd a una scissione con la sinistra. Forse una rotta troppo ambiziosa per chi naviga a vista. Ma Renzi è incline alla mossa del cavallo, e qualcosa dovrà pure tentarla. Non è un caso se si è tenuto finora nel manico la carta del rimpasto di governo, atteso da mesi. Non si sa mai.

13 agosto 2015 (modifica il 13 agosto 2015 | 07:44)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_13/renzi-stallo-tre-vie-d-uscita-5c966a7e-4179-11e5-b414-c15278464aa4.shtml
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« Risposta #107 inserito:: Settembre 02, 2015, 04:35:54 pm »

Noi e le crisi in Asia
I meriti che ha l’Europa

Di Antonio Polito

Questa estate del settantesimo anniversario dalla fine della guerra l’Europa l’ha trascorsa a litigare sull’euro, ma l’Asia la sta passando a parlare di guerra. Domani la Cina comunista celebrerà per la prima volta, ascrivendosela, la vittoria contro il Giappone, con un’esibizione di potenza militare tanto più minacciosa perché inscenata in quella piazza Tienanmen dove l’Esercito Popolare fu usato contro il suo popolo (tra parentesi: era proprio necessario mandarci il nostro ministro degli Esteri? Non bastava un ambasciatore, come hanno fatto Usa e Germania?). Né è meno surriscaldato il clima nel Paese sconfitto: in Giappone infuria il dibattito sul riarmo, il governo reinterpreta e forse emenda l’articolo 9 della Costituzione, caposaldo del pacifismo nipponico post Hiroshima, con l’ambizione di riappropriarsi del diritto di usare le forze armate; e gli studenti protestano riempiendo la piazza di Tokyo come se fossero gli anni 60, insieme alle star della musica e della tv si schierano contro il premier Abe.

Territori restano contesi, tra il Giappone e la Russia, tra il Giappone e la Cina. La Corea del Nord è uno Stato canaglia che gioca col nucleare. Tokyo si sente accerchiata, sempre meno protetta da un’America stanca di guerra, teme di non potersi più permettere il pacifismo e appare sempre più stufa di dover chiedere continuamente perdono ai suoi ex nemici (per l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino l’attuale imperatore Akihito dovrebbe scusarsi con la Cina a nome del padre defunto Hirohito, riaprendo così la questione imperiale). Il Giappone riscopre il nazionalismo e lo nutre di un revisionismo storico che celebra, insieme alle vittime della guerra, anche i criminali di guerra sepolti con loro, e sempre più spesso tenta di ridimensionarne i crimini, a partire dallo stupro di Nanchino del 1937.

Per un europeo è sorprendente assistere al perdurare, e addirittura all’incrudelirsi di un così forte rancore per vicende storiche da cui ci dividono tre o quattro generazioni. I regimi asiatici sfruttano il patriottismo fino al punto di inventare tradizioni, per controllare il passato e far dimenticare i guai dell’oggi. È come se in Europa la Francia dedicasse una parata militare e una settimana di ferie dal lavoro a celebrare la sconfitta della Germania, o un giornale tedesco pretendesse le scuse di Elisabetta II per il bombardamento a tappeto di Dresda del 1945.

Ma la ragione per cui tutto ciò ci sembra assurdo e anacronistico non è perché la storia non si possa ripetere se non come farsa: basta guardare a ciò che sta accadendo in queste ore in Ungheria per capire che gli esseri umani sono capacissimi di ripetere anche la tragedia. Ciò che in Europa è diverso è l’atto di volontà politica con cui ci siamo buttati alle spalle il nostro tragico Novecento dando vita a una Unione tra gli Stati che si erano combattuti, trasformando cioè la fine della guerra in vera pacificazione, e l’antagonismo militare in cooperazione economica. I venti che soffiano in Asia, continente in cui questo processo non è mai nemmeno cominciato, dovrebbero ricordarcelo.

Aver messo fine alle guerre non è un merito obsoleto dell’Europa buono solo per la cerimonia del Nobel per la pace, qualcosa di così scontato e di così lontano dalle nuove generazioni da non giustificare più la fatica, le pecche e gli errori dell’Unione. Tutto sommato, è molto meglio litigare sull’euro che sul riarmo. Perfino la crisi dei migranti è una conseguenza di questo successo storico. L’Europa è un’oasi di pace circondata da un mare di guerre, attrae chi ama la vita come una calamita. O, se vogliamo, come un faro di civiltà nella notte infinita dell’odio tra i popoli.

2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 07:04)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_02/i-meriti-che-ha-europa-crisi-asia-904b70c4-512f-11e5-addb-96266eadb506.shtml
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« Risposta #108 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:00:48 am »

Di Maio e la selezione dei leader
Test di maturità per i Cinque Stelle
Nel movimento più carismatico di tutti, scaturito da un’ondata di anti-politica senza paragoni, si affermerebbe un processo di selezione del leader squisitamente politico

Di Antonio Polito

Se fosse vera anche solo metà delle chiacchiere che si fanno su Luigi Di Maio, e che lo danno lanciato come candidato premier del Movimento Cinque Stelle alle prossime elezioni, ci troveremmo di fronte a un fatto nuovo della nostra vita democratica, a una sua maturazione. Nel movimento più carismatico di tutti, sorto come d’incanto intorno alla verve oratoria di un comico, nel pieno di un’ondata anti-politica senza paragoni in Europa, si affermerebbe infatti un processo di selezione e di formazione della classe dirigente squisitamente politico. E nel senso buono: basato cioè sulle competenze e sulla capacità di creare consenso, non sulla lotta tra correnti e i lunghi coltelli delle preferenze.

Di Maio ha l’aria di un bravo ragazzo, con i capelli più corti e gli occhi meno indemoniati di un Grillo o di un Casaleggio; eppure sembra al contempo capace di garantire anche l’elettorato tradizionale grillino, col sostegno del fondatore. Ma anche se a prevalere fosse un altro dei tre cavalli di razza del M5S, ci troveremmo ugualmente davanti a una svolta. P er chiunque di loro la promozione a leader e portabandiera sarebbe infatti un premio assegnato alla attività parlamentare: dunque un sigillo al processo di transizione da un movimento gravido di pulsioni anti-parlamentari, e perfino sfiorato da qualche tentazione extraparlamentare, a una forza politica certamente originale e anomala, ma pienamente inserita nel gioco della democrazia rappresentativa.

Non è cosa da poco, trattandosi di un polo che attrae tuttora un quarto degli elettori italiani, e che ha dimostrato nel tempo di non essere un fuoco di paglia, radicandosi in maniera perfino sorprendente nelle abitudini di voto degli italiani. Il che vuol dire che interpreta un’esigenza e riempie un vuoto non colmato anche nell’epoca di Renzi (e la leggina con cui i partiti si sono appena condonati i bilanci spiega bene di che natura sia). A livello del governo locale poi, dove non sono impacciati dal peso di proposte economiche ancora un po’ naïf, i grillini possono contare su una immagine di forza moralizzatrice, da guardian angels della cosa pubblica, che li rende elettoralmente competitivi anche a prescindere da Grillo (la ragione per cui non si vota subito a Roma, o in Sicilia, è proprio la concreta probabilità di vittoria dei Cinque Stelle).
Il Movimento ha insomma bisogno di compiere il salto di qualità di una leadership per così dire laica, e credibile. Ma non basta mettersi la cravatta e buttare le scie chimiche: perché funzioni questa operazione deve essere vera, sincera. Di Maio, o chi per lui verrà scelto per correre alle prossime elezioni, non può essere un puro prestanome, al quale è impedito in partenza di introdurre le necessarie innovazioni. La prima delle quali, condizione indispensabile per fare davvero politica, è la possibilità di stringere alleanze senza dannarsi l’anima, per strappare così risultati concreti. È questa infatti l’essenza stessa della democrazia parlamentare: nella quale uno vale uno, ma non vale niente finché non conquista una maggioranza.

11 settembre 2015 (modifica il 11 settembre 2015 | 07:15)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_11/test-maturita-cinque-stelle-f88da78c-5842-11e5-8460-7c6ee4ec1a13.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Settembre 15, 2015, 04:44:14 pm »

Con Corbyn si amplia il fronte populista
Il nuovo leader del partito laburista britannico ha simpatie per il greco Syriza e lo spagnolo Podemos, ma il suo programma ha punti in comune con le formazioni antisistema di destra, compreso il francese Front National

Di Antonio Polito

Ora la Gran Bretagna non ha solo il Regno più vecchio, ma anche il Partito laburista più antico della sua storia. A dire il vero Jeremy Corbyn, leader di questa nuova era elisabettiana della sinistra inglese, fosse per lui licenzierebbe la monarchia; farebbe anche uscire il Regno Unito dalla Nato, nazionalizzerebbe ferrovie, gas ed energia, aumenterebbe le tasse, e si alleerebbe agli «amici» di Hamas ed Hezbollah. È difficile immaginare qualcosa di paragonabile nella pur variopinta sinistra italiana (anche se adesso diventeranno tutti corbyani). È come se Gino Strada fosse stato eletto leader del Pd. L’evento è così eccezionale che appena tre mesi fa i bookmaker lo davano 200 a 1. Blair aveva consigliato un trapianto di cuore ai militanti il cui cuore batteva per Corbyn. Detto fatto: da ieri il Labour si è davvero strappato dal petto il suo cuore blairiano.

Eppure, a pensarci bene, la svolta inglese è tutt’altro che sorprendente. Il voto dei circa quattrocentomila iscritti e simpatizzanti che a grande maggioranza hanno scelto Corbyn si iscrive anzi alla perfezione nella lunga serie di tsunami che ha scosso gli elettorati di tutto l’Occidente dopo il trauma della Grande Crisi. Lo stesso Corbyn si paragona a Bernie Sanders, il socialista del Vermont che sta dando nei sondaggi e nelle piazze filo da torcere alla moderata Hillary Clinton; o a Syriza, il rassemblement che ha letteralmente ucciso il partito socialista in Grecia e ha strappato il potere ai conservatori (anche se non è detto che lo conservi dopo le prossime elezioni); o a Podemos, il movimento che si candida in Spagna come discendente diretto delle piazze degli indignados. Vi si potrebbe aggiungere un altro formidabile fenomeno analogo, l’ascesa improvvisa dei Cinque Stelle in Italia da zero al 25 per cento (e forse, al momento, di più). Niente di tutto questo era prevedibile, eppure è successo.

Inutile scervellarsi su quale sia l’elemento programmatico comune alle forze che stanno letteralmente mandando in soffitta la tradizionale sinistra socialdemocratica, sbaragliata in Gran Bretagna, ansimante nei Paesi Nordici, minoritaria in Francia, gregaria in Germania. Non sono i programmi il forte dei nuovi populismi. Quello di Corbyn, poi, sembra del tutto irrealizzabile visto che dei 232 parlamentari laburisti il 90% lo considera un suicidio. Ciò che spinge questi movimenti è piuttosto la voglia di dar voce a un sentimento: la rivolta dei piccoli e deboli contro l’establishment, la rabbia contro l’uno per cento dei ricchi che l’hanno sempre vinta, l’insofferenza per una economia in cui, anche dopo la Crisi, c’è più ineguaglianza, meno lavori, e sempre più immigrati a contenderseli. Nessuno di questi nuovi demagoghi sa davvero dire come cambiare, ma tutti sanno dire molto bene che va tutto male.

È un problema davvero serio per il socialismo democratico. Ma attenzione, lo è anche per il capitalismo liberale. Non è che a destra, infatti, le cose vadano molto diversamente. Donald Trump tuona nel Partito Repubblicano contro i pescecani di Wall Street e gli sfruttatori degli hedge funds con argomenti non dissimili da quelli che usa Sanders nei Democratici. Il Front National in Francia o la Lega in Italia sono contro l’austerità quanto Corbyn in Gran Bretagna. E questo ampio fronte di nazionalisti e di socialisti (i due termini sommati possono diventare esplosivi, come la storia ci insegna) è unito da un forte ripudio dell’Unione europea e da una altrettanto forte simpatia per Putin e il suo autoritarismo.

Il Financial Times, che pure è la Bibbia della City, si è spinto a dire che se tutto questo accade è colpa del capitalismo finanziario, che mostra di voler proseguire sul cammino interrotto dalla Grande Crisi come se niente fosse accaduto e niente dovesse cambiare. Di certo la socialdemocrazia europea è uscita dalla recessione senza un’idea nuova: non a caso i leader di maggior successo elettorale in Europa sono Merkel e Renzi, due democristiani. E quando si apre un vuoto di futuro, la nostalgia dell’antico è uno sperimentato ed efficace balsamo.

13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 07:26)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_13/corbyn-fronte-populista-commento-52eaa0fa-59d7-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml
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« Risposta #110 inserito:: Ottobre 08, 2015, 11:37:37 am »

Il rebus della sinistra televisiva

Di Antonio Polito

Annoiati dallo scontro sul Senato elettivo? Stufi dei primi piani di Gotor e Chiti? Niente paura. La prossima «guerra culturale» della sinistra si preannuncia molto più eccitante e fotogenica, quasi berlusconiana; perché si combatterà, come ai vecchi tempi, per la televisione e le sue star.

In gioco c’è il destino di Rai3, molto più di una rete, vera e propria chiave d’accesso al cuore e alle menti del popolo di sinistra, resistenza catodica di un mondo che fu, a metà strada tra Guccini e Ingrao, e ne fu orgoglioso.

Prima Renzi, col fioretto del sarcasmo sull’audience dei talk show, poi il suo uomo in Vigilanza Michele Anzaldi, con la mazza ferrata di un minieditto bulgaro, e infine l’ineffabile governatore della Campania De Luca, con il kalashnikov dell’accusa di «camorrismo giornalistico», hanno reso chiaro che il Pd ripudia la «sua» rete, della quale non si sente più amato e rispettato «editore di riferimento». L’accusa, esplicitata da Anzaldi, è molto chiara: a Rai3 e al Tg3 non hanno ancora capito chi è il nuovo padrone, cioè chi comanda nel partito che comanda.

E in effetti Rai3 è un bel rompicapo fin dai tempi del Pci. Va benissimo quando la sinistra è all’opposizione, e anzi ne diventa il simbolo: quante carriere, quanti martirologi, da Michele Santoro a Sabina Guzzanti, si sono costruiti in quegli studi cantando Bella Ciao contro il regime berlusconiano! Ma, non appena la sinistra va al governo, Rai3 diventa indigesta, perché alla fine i media sono fatti dai loro lettori prima ancora che dai loro direttori, e il telespettatore di Rai3 vuole sapere ciò che non va, non ciò che funziona; vuole la denuncia, non l’agiografia; affida all’inchiesta, al talk show, alla satira il compito esorbitante di vendicare i torti della società; sogna giornalisti che si tramutino in pubblici ministeri dell’informazione (e molti aderiscono di buon grado). Non per niente la chiamavano TeleKabul. Il mito della spina nel fianco del potere. E chi è al potere, comprensibilmente, non gradisce. E lo dice ad Anzaldi. Che non è certo Goebbels, come scrive Grillo, ma gli pare strano se un Tg critica il governo.

È una storia vecchia come il cavallo di via Mazzini. Solo che Renzi aveva promesso, con grande giubilo collettivo, di mettervi fine, annunciando una rivoluzione: «fuori i partiti dalla Rai», la «più grande azienda culturale del Paese» che si libera di tessere e padroni, che non prende più ordini, cari giornalisti e programmisti sentitevi liberi di pensare solo al pubblico, e all’interesse generale. Poi, si sa come è andata. La riforma si è arenata, il nuovo cda è stato eletto esattamente come ai tempi di Gasparri, gli uomini di partito sono tornati a fare i consiglieri, basta con questa bufala della società civile, e gli uomini di partito della Vigilanza sono tornati a comandare, un po’ meno urbanamente di un tempo.

L’unica differenza è che, stavolta, non si sente volare una mosca. Neanche un girotondo, un ottavo nano da salvare, un articolo 21 da invocare. Perfino la sinistra televisiva cambia. Solo la Rai, quella no, resta sempre la stessa.

30 settembre 2015 (modifica il 30 settembre 2015 | 09:43)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_30/rebus-sinistra-televisiva-03d966fc-673a-11e5-9bc4-2d55534839fc.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:22:06 pm »

Roma e non solo
La buona politica che ci manca

Di Antonio Polito

Commentando il patatrac del sindaco Marino, il giovane presidente del Pd, Matteo Orfini, ha raccontato di averne individuato la causa già nello slogan della campagna elettorale del 2013 che diceva: «Non è politica, è Roma». Da lì, da quel rifiuto della politica intesa come arte del governo della polis, sarebbero nate la solitudine, l’arroganza, l’inefficienza della sua gestione, ben prima della pochade degli scontrini.

Se Orfini ce l’avesse detto prima, se non avesse aspettato che il gallo cantasse tre volte per rinnegare il sindaco, avrebbe forse risparmiato ai suoi concittadini e al suo partito molti mesi di caos, e oggi non sarebbero «rimaste solo le macerie» di cui parla L’Osservatore Romano. E però, seppur tardivamente, mette il dito nella piaga. La vera lezione dell’incredibile vicenda romana sta proprio in questo: è il fallimento finora più clamoroso dell’idea che l’amministrazione della cosa pubblica non debba essere affare della politica e dei partiti, ma anzi vada affidata a chi più è capace di presentarsi come nemico dei partiti e alieno alla politica.

Il passo da alieno a marziano è breve e, come sappiamo, Marino lo ha compiuto con tutta la sventatezza di cui era capace, al ritmo di una spensierata biciclettata, sempre «pronto a mettere il suo sorriso davanti all’aiuoletta pulita, a spumeggiare di felicità nella celebrazione del matrimonio tra gay, ad annunciare ora la pedonalizzazione, ora la moralizzazione, ora la bonifica», come ha notato con acuto sarcasmo Sabrina Ferilli sul Fatto. Ma la strada per riportare la politica alla funzione per cui è stata inventata è invece ancora lunga in Italia. In tutto l’Occidente sono i partiti i luoghi della selezione del ceto di governo, l’arena in cui studiano, fanno pratica, competono per il consenso, affinano idee, incontrano competenze, costruiscono un programma, imparano a non essere soli e a rispondere a una comunità, che li controlla e li vaglia a lungo prima di affidarsi a loro. Questi partiti in Italia non ci sono più. Il nostro Paese è una federazione di uomini soli al comando. Più sono soli, e più piacciono. Ma siccome non sono tutti bravi politici come Renzi, o come fu Berlusconi, in giro è un fiorire di pessime imitazioni destinate a fallire, perché nessuna organizzazione complessa, nel mondo di oggi, può essere retta da un uomo solo.

All’assenza di una gavetta e di una scuola si è tentato di sopperire con l’ordalia delle primarie, che nel sistema italiano finiscono spesso come il referendum tra Gesù e Barabba, e raramente fanno vincere il migliore. Il caso di Marino, catapultato in pochi anni dal governo di una sala operatoria hi-tech a quello di una macchina amministrativa enorme e fatiscente, è clamoroso ma non unico. L’ex procuratore de Magistris a Napoli o l’accademico Doria a Genova non sono sindaci meno improvvisati, e infatti non è meno sofferente lo stato delle loro città. Ora che le primarie non vanno più di moda, è ricominciata poi la caccia al tecnocrate, prefetti, manager e magistrati cui si vorrebbe affidare la salvezza della cosa pubblica: il povero Raffaele Cantone è costretto a rifiutare una candidatura alla settimana, e a un funzionario serio come Franco Gabrielli è stata attribuita la poco dignitosa funzione di badante del sindaco di Roma. Senza dire di Giuseppe Sala, il cui successo come commissario dell’Expo ingolosisce sinistra e destra allo stesso modo.

Non è dunque un caso se tutti gli schieramenti fatichino oggi così tanto a trovare un candidato nelle tre più grandi città d’Italia che votano in primavera - Roma, Milano e Napoli - e si affannano a scovare improbabili conigli nel cappello perché non dispongono di dirigenti politici affermati e credibili a livello locale (e i leader nazionali si danno alla fuga, temendo la prova della concretezza nel governo di una metropoli).

Ma mentre ricomincia la ricerca del non-politico, o dell’anti-politico, in grado di ingannare per l’ennesima volta il pubblico, non parte mai il lavoro per una riforma profonda dei partiti, per un rilancio della loro democrazia interna, per la rinascita di comunità locali che si occupino del bene comune, seppure nei modi nuovi che l’era della Rete consente e impone. Così si continuerà a passare di illusione in delusione, come è accaduto per Marino, e a ritmi sempre più frenetici. Perché non si conosce democrazia che possa fare a meno di partiti seri, organizzati e retti da regole, che si assumano la responsabilità di governare. In fondo, il loro mestiere.

11 ottobre 2015 (modifica il 11 ottobre 2015 | 07:44)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_11/buona-politica-che-manca-marino-candidature-sindaci-pd-611f6880-6fd1-11e5-a08a-e76f18e62e8d.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:54:35 pm »

Dall’Iraq alla Libia
L’Occidente si pente troppo

Di Antonio Polito

Un’onda di pentimento per le guerre in Medio Oriente percorre l’Occidente. Perfino un leader come Blair, che pure fece dell’interventismo democratico il cuore della sua dottrina internazionale, sembra ora ritirarsi con tante scuse, ammettendo errori, colpe, omissioni, bugie, sottovalutazioni. Che senza dubbio ci furono, specialmente dopo l’invasione angloamericana dell’Iraq, provocando un danno incalcolabile alla causa occidentale. Ma che forse non consentono di concludere, alla maniera di Donald Trump, che il mondo sarebbe migliore con Saddam e Gheddafi ancora al potere.

Come spesso gli accade quando cerca di liberarsi del «fardello dell’uomo bianco», l’Occidente si dà anche colpe non sue. Per esempio: è una vulgata che non diventa più vera solo perché viene ripetuta ogni sera in tv (lo dicono spesso anche il nostro premier Renzi e il nostro ex premier Berlusconi) l’idea che sia stato l’intervento militare dell’Europa ad aprire la strada all’islamismo e al caos in Libia. Bisognerebbe infatti ricordare che da Tripoli a Bengasi era già in corso una sanguinosa guerra civile quando Francia e Gran Bretagna decisero di aiutare i ribelli anti Gheddafi. L’Europa non provocò la guerra, ma di fronte a un conflitto già esploso ai suoi confini aveva solo due scelte possibili: aiutare il dittatore o aiutare i suoi nemici. Chi oggi critica quell’intervento avrebbe dunque preferito puntellare il tiranno con la forza delle armi?

La terza opzione in Libia, non fare niente, non era praticabile, perché ci stava già scaricando addosso caos, instabilità e profughi: esattamente come è accaduto dopo che noi occidentali ce ne siamo lavati le mani, in una seconda guerra civile.

L’alternativa del diavolo esce confermata dalla tragedia della Siria: lì l’Occidente ha scelto per anni di non intervenire (meglio: lo ha scelto Obama, l’unico che avrebbe potuto). È stato forse più fausto l’esito di quella guerra civile? Ci sono forse stati meno morti, meno profughi, meno terrorismo islamico perché ci siamo astenuti dall’azione? E chi può dire che cosa sarebbe diventata la Libia se avessimo scelto di comportarci come in Siria?

In realtà l’esperienza ci insegna che l’Occidente ha dovuto spesso pentirsi di essersi disimpegnato, o di non essersi impegnato abbastanza. Non a caso in Afghanistan Obama è stato costretto a restare, rinunciando alla sua ambizione di terminare il mandato senza più guerre in corso. Anzi, la lunga inazione gli suggerisce oggi addirittura di valutare l’invio di truppe in prima linea, tra l’Iraq e la Siria. I vuoti di potere prima o poi si riempiono sempre, e se li riempie Putin è un problema. D’altra parte gli unici due esempi di successo di un intervento militare occidentale, il Libano e l’ex Jugoslavia, dove i nostri soldati hanno veramente messo fine alla guerra e tuttora assicurano una pace seppure imperfetta, hanno richiesto un impegno molto lungo e dispendioso, che dura da decenni.

Spesso gli stessi che danno agli Stati Uniti e all’Europa tutte le colpe di ciò che non va nel mondo sono anche coloro che sventolano come una bandiera pacifista la terribile constatazione di papa Francesco, secondo il quale è in corso una «terza guerra mondiale». Ma se davvero c’è la terza guerra mondiale, qualcuno può pensare che l’Occidente se ne possa tener fuori, limitarsi a guardare, magari circondandosi di muri taglia fiamme e anti profughi per evitare che l’incendio ci lambisca?

La verità è che l’Occidente, con tutti gli errori che ha commesso, non è la causa di un conflitto che scaturisce da una vera e propria guerra civile interna all’Islam; ma non può disinteressarsene solo perché ne è la periferia. La presunzione di voler lasciare il mondo com’è, congelando la storia, solo perché così conviene al nostro quieto vivere, non è meno «imperialista» della presunzione di poterlo cambiare a piacimento, giocando alla guerra. Nella politica, come nella morale, non far niente può essere talvolta più pericoloso di far troppo.

28 ottobre 2015 (modifica il 28 ottobre 2015 | 07:31)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_28/occidente-si-pente-troppo-08482ad2-7d3a-11e5-b7c2-dc3f32997c8b.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Novembre 04, 2015, 05:44:14 pm »

MODELLI
Il partito dei manager ha commissariato la politica
Da Milano a Roma.
La classe dirigente attuale rincorre personaggi che sono estranei agli schieramenti tradizionali. È una dichiarazione di impotenza Il centrodestra e il centrosinistra non riescono a fronteggiare l’ondata di sfiducia che è montata

Di Antonio Polito

Dal carisma al curriculum, dal popolo al fatturato. Il commissariamento della politica sembra essere il futuro delle grandi città italiane. Privi di una classe dirigente locale all’altezza, i partiti cercano manager per Milano e Roma. Giuseppe Sala, Alfio Marchini, Paolo Scaroni, Corrado Passera: non troverete un politico di primo piano tra i nomi più gettonati del momento. E le primarie fanno paura proprio perché rischiano di catapultare sulla sedia di sindaco un politico di secondo piano, con gli effetti stupefacenti già osservati nel caso Marino.

Non è solo una tendenza dei partiti tradizionali. Perfino i Cinque Stelle sembrano alla ricerca di un Papa straniero: dicono che Casaleggio se ne sia convinto quando ha assistito in tv alla povera performance dei quattro tenori grillini di Roma.

È una dichiarazione di impotenza della politica democratica. La quale, in teoria, dovrebbe essere non solo gestione ma anche organizzazione del consenso, idealità, sistema di valori, selezione di classe dirigente. Tutta merce che i partiti non sembrano più in grado di offrire. In fondo è una rivincita del primo berlusconismo, quello del kit del candidato e della mentina: via i «professionisti della politica» dalla gestione della cosa pubblica.

Ma la Nouvelle Vogue sta conquistando a sorpresa anche il PdR (il partito di Renzi), che pure si era presentato sulla scena annunciando il ritorno della politica nella cabina di regia. Un tempo spettava al dirigente di maggior peso candidarsi a sindaco nella sua città: fu il caso di Bassolino a Napoli, di Rutelli (e di Fini) a Roma, di Cacciari a Venezia, di Chiamparino a Torino; oggi nessuno penserebbe di candidare Orfini al Campidoglio, e d’altra parte di candidarsi a Milano Salvini non ci pensa proprio. Gli unici politici rimasti nelle città sono quelli di ritorno, a fine carriera, da Fassino a Torino, a Bianco e Orlando in Sicilia, fino al possibile bis di Bassolino a Napoli. È un vero e proprio divorzio tra le città e la politica dei partiti.

Cinque anni fa un’analoga crisi produsse primarie a sorpresa, che imposero gente nuova, uomini più radicali e meno compromessi con il passato, talvolta veri e propri populisti. Alcuni hanno fallito come a Roma e a Genova, altri esperimenti sono riusciti ma si sono dimostrati non ripetibili come Pisapia a Milano, altri ancora si sono sciolti nel movimento, come de Magistris a Napoli. Non a caso il pur ex sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha affrontato da Palazzo Chigi questo declino della democrazia dei sindaci con il «modello Expo». Il commissariamento di Roma con il prefetto di Milano, che passa direttamente dalla gestione della fiera alla gestione della capitale, dove troverà già commissariato il Giubileo, ne è l’emblema più perfetto. La nomina di Sala, commissario dell’Expo, a candidato sindaco del Pd per le prossime elezioni di Milano, ne può tra breve essere il completamento. E a Napoli quasi un terzo della città, l’enorme area di Bagnoli, è stata affidata a un commissario governativo, tra gli strepiti del sindaco che grida all’usurpazione.

Questa nuova formula di governo locale si appella a criteri di efficienza e rapidità, punta a semplificare le procedure della politica, dimette un sindaco eletto nell’ufficio di un notaio piuttosto che in Consiglio comunale, prescinde dall’appartenenza politica dei prescelti (Sala e Marchini sono votabili sia a destra che a sinistra). Ma è una formula che ha sempre bisogno di un Grande Progetto, un Grande Evento, un Giubileo o una Expo, un’azione parallela che consenta di riversare soldi pubblici su amministrazioni pubbliche altrimenti esangui. Perché il primo grande cambiamento che è avvenuto nella politica locale è proprio questo: quando vent’anni fa cominciò la stagione dei primi cittadini eletti direttamente dal popolo i Comuni erano pieni di soldi, e di conseguenza i sindaci erano pieni di voti anche dopo il primo mandato. Ora nei Comuni non c’è più una lira, e i sindaci diventano rapidamente impopolari.

Così è esplosa l’antipolitica. E ora la politica non sembra avere più le forze a livello locale per fronteggiarla in prima persona. Si è fatta troppo leaderistica, troppo affaristica, con partiti troppo leggeri, quasi inesistenti sul territorio, per produrre sindaci di valore in proprio. La terza via che si sta profilando è quella che Alfio Marchini chiama la «soluzione del civismo: uomini di buona volontà sorretti dalla politica per battere l’antipolitica». Stelle locali contro Cinque Stelle. Funzionerà?

2 novembre 2015 (modifica il 2 novembre 2015 | 09:27)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_02/partito-manager-che-commissaria-politica-56fdacf4-8129-11e5-8d6e-15298a7eb858.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Novembre 17, 2015, 07:06:31 pm »

Novecento
Quelle idee appassite: essere pacifisti in un mondo così bellicoso
La cultura progressista deve ripensare se stessa. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno»

Di Antonio Polito

Con le idee del Novecento non comprendiamo più ciò che sta accadendo, e non capiamo come reagire. Perfino la ragazza del secolo scorso per antonomasia, Rossana Rossanda, ha confessato al Corriere che stavolta «una linea non ce l’ho». Il problema è che gran parte delle idee democratiche, delle idee progressiste, delle idee di sinistra, sono del Novecento. E che gran parte della nostra élite si è formata su quelle idee, e oggi dispone di una cassetta degli attrezzi inutilizzabile, fatta di classi sociali e di divisione internazionale del lavoro, mentre il mondo di oggi sembra fatto apposta per stupirci, e si spacca su linee di frattura che avevamo date per spacciate, sepolte dalla Storia, come la religione. Sfogliamo il dizionario delle parole d’ordine che hanno rassicurato tante generazioni dal dopoguerra a oggi. Il pacifismo resta una nobile opzione morale, ma non è più una risposta realistica di fronte a chi ci dichiara guerra, o a chi ci chiede, come il socialista Hollande, di aiutarlo in guerra. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno». E se ammazzano i nostri cugini francesi? Essere pacifisti in un mondo così bellicoso, mentre sono in corso una cinquantina di conflitti e mentre le vittime di molti di quei conflitti sbarcano ogni giorno sulle nostre spiagge, non è una opzione politica. Quando la guerra era un metodo di risoluzione delle controversie internazionali, l’abbiamo ripudiata. Ma che facciamo se diventa una necessità di autodifesa, se abbiamo bisogno come oggi di qualcuno che contempli l’uso, proporzionato e legittimo quanto si vuole, della forza militare contro chi arma gli uomini-bomba?

Oppure prendiamo l’internazionalismo, vero discrimine tra sinistra e destra fin dal loro sorgere nel fuoco della Rivoluzione francese, valore poi sconfinato in un sogno irenico di cosmopolitismo, nell’utopia di società europee così multiculturali da non rendere più distinguibile la cultura degli indigeni. Onestamente, non è discorso proponibile a opinioni pubbliche sconvolte dalla paura, scioccate dalle proporzioni delle migrazioni, preoccupate di veder sparire le loro radici e il loro stile di vita in un magma indistinto di relativismo culturale, nel quale anche esporre un crocifisso può diventare offensivo. Emblematica, da questo punto di vista, è la polemica in corso sul Giubileo, che pure dovrebbe essere l’apoteosi dell’universalismo cattolico, ma che tanti vorrebbero rinviare per quieto vivere, anche se non penserebbero mai di rinviare una partita di calcio della Nazionale o un concerto di musica rock solo perché sono stati obiettivi dei terroristi a Parigi.
E infine soffre la retorica del ponte sul Mediterraneo, verso l’Africa e il Medio Oriente, tra Nord e Sud del mondo, del ruolo che tante volte ci è stato indicato come vocazione storica per il nostro Paese e tanto più per il nostro Mezzogiorno. Che fare, come scrive Paolo Macry sul Corriere del Mezzogiorno, quando invece «dal Sud del mondo viene la guerra», e non richieste di dialogo, di apertura culturale, di comprensione reciproca?

Di fronte alla vetustà di questo armamentario ideale, è facile gioco per le idee di destra apparire più moderne, più calzanti al mondo di oggi, e soprattutto più popolari. Anche quando non sono praticabili, o non sono accettabili, o non sono risolutive. Nazionalismo, nostalgia dei muri e delle frontiere, rifiuto del diverso, egoismo al posto del solidarismo; possono, di fronte alla doppia minaccia delle migrazioni di massa e del terrorismo islamista, provocare un vero e proprio riallineamento verso destra delle opinioni pubbliche europee, come accadde negli Usa dopo la frattura del Sessantotto. Il pensiero democratico che teme questo sviluppo non può dunque limitarsi a deplorarlo, quando non a irriderlo, o ad attribuirlo a pura ignoranza manipolata. È la cultura progressista che deve piuttosto ripensare se stessa, adeguarsi alla realtà del mondo così com’è; a partire dal binomio pace-guerra, perché pace non è lavarsene le mani, per continuare sul crinale laicità-religione, perché c’è religione e religione, fino alla riscoperta di un concetto di sovranità nazionale compatibile con un nuovo internazionalismo. Altrimenti avrà perso la guerra culturale scatenata nell’Occidente dall’offensiva islamista, dall’11 settembre del 2001 al 13 novembre del 2015.

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 08:04)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_17/quelle-idee-appassite-essere-pacifisti-un-mondo-cosi-bellicoso-65386c3a-8cf2-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml
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« Risposta #115 inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:38:19 pm »

Sicurezza e accordi di Schengen
Il valore dei confini

Di Antonio Polito

Quante volte avete sentito usare nei talk show il seguente interrogativo retorico: «Pensate forse che i terroristi arrivino in Europa sui barconi degli immigrati?». Ebbene sì, ormai sappiamo che qualche terrorista è effettivamente arrivato anche a bordo dei barconi. Vuol dire che dobbiamo rivedere tutti i tabù e tutti i luoghi comuni che anche per nobilissime ragioni (per esempio contrastare il razzismo contro i migranti) abbiamo accettato finora. Non possiamo più dare nulla per scontato, e del resto non sarebbe un atteggiamento liberale negare l’evidenza solo perché questa porta acqua al mulino di chi fomenta le campagne anti Europa.
L’evidenza è che l’attuale sistema Schengen non funziona. È perforabile. Talvolta appare addirittura un colabrodo. Abbiamo detto dei barconi. Ma quello dei clandestini non è il solo problema. Anche più pericoloso è lo scarso controllo di chi entra mostrando i documenti alle nostre frontiere. E quando dico «nostre» intendo quelle comuni dell’Europa, perché le frontiere interne, tra Stato e Stato, come è noto non esistono più.

A vendo eliminato i controlli nell’area Schengen, dovremmo avere infatti un sistema di verifiche a prova di bomba per chi ci arriva dall’esterno. E invece, come ha raccontato sul New York Times Roland K. Noble, che è stato per 14 anni a capo dell’Interpol, alle nostre frontiere, non dico sulle spiagge o nei porticcioli, ma perfino negli aeroporti, non è previsto un controllo sistematico incrociato con il database, in dotazione all’Interpol da dopo l’11 Settembre, di tutti i passaporti rubati, contraffatti o smarriti. Lì dentro ci sono 45 milioni di documenti, e un documento falsificato fa capolino in ogni grande azione terroristica sul suolo europeo, da Madrid a Londra fino a Parigi. La Gran Bretagna, che è fuori dall’area Schengen e che questi controlli li fa, ha fermato in un anno 10 mila persone che tentavano di entrare con documenti fasulli.

L’anno scorso tra le dieci nazioni del mondo con il più alto numero di denunce per passaporti rubati o smarriti otto erano dell’area Schengen. Secondo l’Economist anche i database disponibili su presunti criminali e terroristi contengono troppo pochi dati, e troppo gelosamente custoditi dalle polizie nazionali. Se poi per caso i computer identificano un sospetto, l’unica informazione che restituiscono è il nome e il telefono del funzionario di polizia da contattare. Sembra che la libertà di movimento valga per i ladri ma non per le guardie.

In questo modo, dice Noble, è come se avessimo appeso un cartello di benvenuto per i terroristi ai nostri confini. Senza contare i controlli sui cittadini europei con regolare e valido passaporto europeo. Essi hanno infatti diritto di entrare ed uscire quando vogliono, ma solo ora ci si è accorti che forse sarebbe meglio tenere traccia di quante volte escono e da dove rientrano, visto che tra loro ci sono anche i foreign fighters che fanno la spola tra l’Afghanistan, la Siria e le nostre città, importando il know how del terrore.

Ci sono ottime ragioni per difendere la libertà di movimento nell’area Schengen. Una delle quali è che i nostri Paesi sono così intrecciati, uniti in un tale reticolo di connessioni che districarlo è impossibile: ci sono più di 200 strade che collegano il Belgio alla Francia. Un’altra buona ragione è che questo è uno dei maggiori successi dell’Unione Europea, e forse il più popolare, e tornare indietro su questa strada sarebbe certamente una sconfitta storica. Ma se si vuole salvare l’Europa senza frontiere che i nostri figli hanno conosciuto bisogna garantire loro che l’Europa sa controllare le sue frontiere esterne, che non entra chi vuole e quando vuole. Non c’è posto al mondo dove questo sia consentito. Perfino il sogno più ardito di un’Europa unita ha bisogno, da qualche parte, di una frontiera.

26 novembre 2015 (modifica il 26 novembre 2015 | 09:01)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_26/sicurezza-schengen-editoriale-polito-valore-confini-f9760c72-9404-11e5-be1f-3c6d4fd51d99.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Dicembre 04, 2015, 06:38:15 pm »

Il corsivo del giorno
Essere laici non significa negare la religione

Di Antonio Polito

«Un concerto di canti religiosi a Natale, dopo quello che è successo a Parigi, sarebbe stata una provocazione pericolosa». Lo ha detto il preside dell’istituto Garofani di Rozzano, e meno male che la sua autorità si ferma alle porte della scuola, perché se fosse diventato sindaco (è stato candidato di una lista civica) chissà che altro avrebbe potuto proibire per evitare provocazioni: tutte queste donne a capo scoperto, per esempio; o il rock, musica satanica; o lo spudorato consumo di alcol in pubblico.

Pur essendo favorevoli all’idea di dare più poteri ai presidi nelle scuole, dobbiamo confessare che ieri abbiamo vacillato di fronte a questa performance. Purtroppo, spesso per pura ignoranza, c’è chi in Italia confonde l’obbligo alla laicità del nostro sistema educativo con la negazione della religione. Il nostro preside, che gestisce una scuola in cui il 20% degli studenti è straniero, ritiene che il suo compito sia quello di nascondere ai genitori musulmani che il restante 80% è fatto da cristiani.

Invece di promuovere un dialogo, per esempio spiegando ai bimbi cristiani in che cosa consista il credo dei loro compagni di banco islamici e viceversa, il preside promuove il silenzio, la censura, estesa fino al canto di Natale (c’è un istituto a Fonte Nuova, in provincia di Roma, dove hanno addirittura fatto sparire il bambinello dal presepe). In compenso la scuola di Rozzano trabocca di alberi di Natale e di Babbi Natale, quasi come a dire che far festa si può, ma senza religione.

Il guaio è che il 25 dicembre, per quanto multietnici vogliamo diventare, si celebra la nascita di un personaggio storico chiamato Gesù Cristo. Che tra l’altro, è rispettato e venerato anche dalla religione islamica, come potrebbero spiegare tutti i genitori musulmani che ieri, intervistati davanti alla scuola, hanno tenuto a precisare che non si sarebbero sentiti neanche lontanamente offesi da Tu scendi dalle stelle. Dunque, cari presidi italiani, sinite parvulos ...

28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 10:51)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_novembre_28/se-natale-ciene-cancellato-rozzano-77d6e084-9598-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Dicembre 10, 2015, 07:12:57 pm »

Le religioni, i conflitti, le scuole
Se abbiamo paura di dire chi siamo


Di Antonio Polito

È il silenzio degli innocenti, più ancora del frastuono dei mitragliatori, ciò che dobbiamo temere. Il silenzio di chi non sa più che cos’è giusto e che cos’è sbagliato, e dunque non riesce più a parlare con chi invece pretende orgogliosamente di saperlo. Sul Corriere di ieri Lorenzo Cremonesi e Mara Gergolet ci hanno raccontato l’incomunicabilità tra questi due mondi osservata in una scuola di Milano, l’Istituto tecnico commerciale Schiaparelli, dove erano stati chiamati a parlare dell’Isis e delle sue origini. Di fronte ai giovani studenti musulmani che rifiutavano di discutere qualsiasi verità sull’Islam che non fosse contenuta nel Corano, perché nel Corano c’è tutta la verità, i giovani italiani tacevano segregandosi a loro volta, magari perché ignari di ciò che è scritto nel Corano, ma forse anche perché dubbiosi su che cosa sia la verità.

Non si può biasimarli. La nostra cultura, i nostri intellettuali, i nostri media, hanno da tempo perso interesse alla verità. Siamo disposti ad accettarne molteplici, spesso contraddittorie, e sempre relative. Mentre a chi cresce in una famiglia islamica viene insegnato che la verità è una ed è rivelata, una volta e per sempre, nel Corano. Al bisogno di senso della vita rispondono con un Assoluto, qualcosa che mal si concilia col dibattito in classe. Rifiutano il terrorismo, ma rifiutano anche di parlarne con noi. I nostri ragazzi rifiutano l’Assoluto, ma non sanno spiegare loro perché.

Pensavamo che la Storia stesse marciando in direzione della secolarizzazione. Invece la modernità ci si presenta densa di un senso religioso che non siamo più in grado di comprendere. Abbiamo paura di affermare che questa è una guerra di religione e che è interna all’Islam, poiché ha ucciso un numero di musulmani incomparabile con quello delle vittime cristiane. Eppure se lo dicessimo riconosceremmo che questa è anche la nostra storia, perché anche noi abbiamo vissuto un secolo di sanguinose guerre di religione tra protestanti e cattolici, proprio come ora avviene tra sunniti e sciiti.

Sarebbe l’ora di parlar chiaro. Invece per timidezza, per timore, le élite culturali cercano goffamente dentro la nostra civiltà qualche buona ragione per cui ci sparano addosso. E del terrorismo islamista danno la colpa all’Occidente, al capitalismo, alla società dei consumi, all’ineguaglianza, alle bidonville, alla povertà (come se chi lotta per l’esistenza avesse tempo per uccidere e morire).




Chissà per quale di questi sensi di colpa, in nome di quale correttezza politica, i vicini di casa della coppia middle class di San Bernardino non hanno denunciato i movimenti sospetti dei musulmani della porta accanto.

Quelli tra noi meno disposti all’autoflagellazione reagiscono all’opposto con la collera, il sentimento che la farà da padrone nelle urne oggi in Francia, e che gonfia ovunque le vele dei movimenti xenofobi. Sognano di isolarli tutti (quaranta milioni di islamici in Europa), e di trasformare l’incomunicabilità in scontro di civiltà, sperando di vincerlo. C’è chi dice che i terroristi cerchino proprio questo effetto. Non ne sono sicuro, ma è meglio non rischiare.

Così, in Italia e in Europa, o taciamo timorosi o urliamo minacciosi. Non si è ancora formata un’opinione pubblica capace di un confronto sincero e dunque fecondo tra le civiltà, in cui si possano difendere le proprie convinzioni perché si conoscono quelle degli altri. Nelle nostre scuole del Dio del Corano non si sa nulla, e del Signore dei Vangeli sempre meno. Cosicché, se ci viene intimato di farci i fatti nostri, obbediamo.

Condizione indispensabile di ogni dialogo è che questo silenzio finisca, che riprendiamo la parola, perché non possiamo intimare quotidianamente alle comunità musulmane di parlare con noi se non siamo in grado di farlo noi stessi, se non abbiamo le certezze necessarie a definire i valori sui quali non siamo disposti a tacere. È questa la guerra culturale che dobbiamo combattere. E la prima trincea è la scuola, l’unico luogo nel quale si può combatterla disarmati.

6 dicembre 2015 (modifica il 6 dicembre 2015 | 09:03)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_06/editroiale-corriere-polito-islam-se-abbiamo-paura-dire-chi-siamo-51e791dc-9be9-11e5-9b09-66958594e7c5.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Dicembre 30, 2015, 05:56:24 pm »

UN BILANCIO
Renzi, la partita più insidiosa inizia ora

Di Antonio Polito

Nel 2015 hanno perso i gufi. È stato questo il messaggio centrale della conferenza di fine anno del premier, e nemmeno un allocco potrebbe dargli torto: il 2015 è veramente andato meglio del 2014. D’altra parte Renzi c’era pure nel 2014, e ci sarà pure nel 2016, e l’oggi in politica è sempre già domani. Dunque il problema del leader è lo stesso dell’Italia: migliorare, e non di poco, la performance nell’anno che viene.

Su questo Renzi è stato invece alquanto parco di indicazioni: sul timing della sua manovra di taglio fiscale, per esempio, o sull’urgentissima riforma del credito cooperativo, o su come risolvere il problema dei crediti incagliati nelle banche.

Ma gli elettori, saggiamente, tendono a giudicare i politici più sul futuro che sul passato (a Churchill non bastò aver vinto la guerra per vincere le elezioni del 1945). Nessun italiano può sottovalutare il fatto che nel 2015 siamo passati dal segno meno della recessione al segno più della crescita, ma ogni italiano sa che a questo ritmo (+0,8%) ci metteremmo più di dieci anni solo per riportare il Paese al livello di ricchezza che aveva prima della crisi.

L’anno prossimo dovrà andare dunque nettamente meglio: secondo le previsioni a un ritmo addirittura doppio (1,6%). È possibile? Sì. Ma c’è una montagna da scalare. L’anno che si chiude ha goduto infatti di circostanze favorevoli, dal quantitative easing della Bce al calo dei tassi e del cambio dell’euro, eppure è andato così e così. L’anno prossimo il clima esterno potrebbe peggiorare (rallentamento dell’economia globale, movimento dei tassi al rialzo in Usa). Crescere sarà più difficile, non più facile.

Pur essendo cresciuta poco, l’Italia spenderà però molto quest’anno. Lo stesso Renzi che si lamenta dell’austerità imposta da Bruxelles, si vanta poi — giustamente — di aver ottenuto la flessibilità: un punto di Pil pari a 16 miliardi. Il nostro deficit cala dunque poco rispetto all’anno scorso (-0,2) nonostante il Pil sia cresciuto. In Europa ci lasciano fare sperando che così imbocchiamo l’autostrada della ripresa. Ma se sprechiamo l’occasione, spendendo male i soldi, questo credito si esaurirà.

C’è poi una mina politica sulla strada del 2016. Il governo Renzi avrà ben due incontri ravvicinati con gli elettori. La sua stabilità, finora un vanto, verrà messa alla prova. Se il voto nelle grandi città premiasse troppo i movimenti anti-sistema cadrebbe anche un alibi che in Europa il premier ha finora utilizzato con successo: sarò pure un gianburrasca, ma sono anche l’unico in grado di fermare l’ascesa dei populisti. Perché l’incantesimo duri, Renzi ha dunque bisogno di nuove vittorie elettorali. Per non dire del referendum costituzionale, senza quorum, sul quale ha già detto tutto lui: «Se lo perdessi sarebbe il fallimento della mia esperienza in politica».

E, aggiungiamo noi, anche il fallimento della legislatura e delle speranze di cambiamento che ha acceso in tanti italiani.

30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:53)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_30/partita-piu-insidiosa-inizia-ora-1f794814-aec5-11e5-8a3c-8d66a63abc42.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Gennaio 20, 2016, 04:28:50 pm »

EDITORIALE
Da soli mai, servono alleanze

Di Antonio Polito

Juncker si è offeso. Ha accusato il premier italiano di «vilipendere la Commissione». E, pur con tutto il rispetto per le istituzioni europee, ha esagerato. Ciò che divide Roma da Bruxelles non è infatti una questione di galateo, ma un episodio di lotta politica. E come tale va giudicato. Juncker non è uno sprovveduto, è un alto papavero europeo da un quarto di secolo, non può nascondersi dietro una questione di lesa maestà quando un governo attacca la Commissione. D’altra parte Renzi deve capire che lui non è l’unico leader baciato dal consenso popolare, perché tutti i premier dei 28 Paesi membri sono stati eletti (in elezioni nazionali) e perché lo stesso Juncker è un politico legittimato da un voto, essendo stato candidato come presidente della Commissione dai Popolari europei, vincitori nelle urne. Nessuno può dunque «intimidire» nessuno. Sgombrato il campo dagli inutili «lei non sa chi sono io», si possono individuare meglio origini e soluzioni di uno scontro politico tra Italia e Unione europea con pochi precedenti, e tutti riconducibili all’era Berlusconi. Era infatti prevedibile, e più volte previsto, che la vis polemica con cui il nostro premier ha preso a trattare i problemi europei non avrebbe prodotto partner più disponibili all’ascolto delle nostre ragioni, ma piuttosto il contrario.

Bisogna vedere se quella seguita è la miglior tattica per perseguire l’interesse nazionale italiano, che rimane inestricabilmente legato all’Europa, perché la soluzione di problemi come la gestione del nostro enorme e crescente debito pubblico, il flusso di migranti, la difesa dal terrorismo, o è comune o non è: nemmeno la nuova Italia di Renzi, così sicura di sé, può infatti farcela da sola. I punti forti delle critiche italiane all’Unione sono noti. Alcuni sono condivisi dallo stesso Juncker. Le chiusure nazionalistiche delle frontiere ai migranti, espediente cui il nostro Paese, pur così in prima linea, non ha mai ceduto, sono motivo di imbarazzo per l’Europa. Ma se a questa realtà si replicasse, da parte italiana, rifiutandosi di partecipare alla spesa comune per blindare in Turchia le frontiere esterne dell’Europa, si ingenererebbe il sospetto che chiediamo aiuto quando i migranti vengono da noi e lo neghiamo quando i migranti vanno in Germania o in Svezia. Questo indebolisce la nostra posizione.

Altra critica giusta che possiamo rivolgere a Bruxelles è il mezzo flop del piano degli investimenti che proprio Juncker aveva annunciato, sperando di moltiplicare i pochi soldi disponibili come i pani e i pesci della parabola. Però sulla flessibilità dei bilanci Juncker non mente quando dice che è stata la Commissione a vararla, seppur su spinta italiana e francese, superando le resistenze tedesche (come il quantitative easing di Draghi, che pure la Bundesbank non voleva). E Moscovici, non certo un falco tedesco, iscritto al Pse come Renzi, ci ha invitato a non abusarne: la flessibilità per definizione non può essere permanente, perché altrimenti diventa nuova regola, che per il momento non c’è. Il punto è che per averla vinta in Europa bisogna inevitabilmente costruirsi alleanze, e le nostre non si vedono. Renzi è abituato in Italia ad aver ragione dei suoi avversari sfruttando il favore dell’opinione pubblica. Anche questa lite con Juncker non può fargli che bene nei sondaggi. Ma il fatto è che pure gli altri 27 premier europei hanno un’opinione pubblica cui rispondere, e molti di loro guadagnano in popolarità ogni volta che fanno la faccia feroce con l’Italia. Di questo passo si va su una via che non ci conviene. Se la Commissione europea proponesse di aprire contro di noi una procedura di infrazione sul bilancio, le basterebbe trovare l’accordo di un terzo dei Paesi europei per averla vinta, e così l’Italia tornerebbe dove Renzi l’ha trovata, sotto esame e con più vincoli.

Il governo italiano deve dunque farsi alleati. Innanzitutto nella Commissione. Il nostro unico membro in quell’organismo, Federica Mogherini, ha detto ieri che è «stupido creare divisioni in seno all’Europa»: tocca anche a lei prevenire la stupidità. Inoltre Roma deve chiarire quale è la sua proposta per riformare la Ue, invece di infilarsi in una spirale di repliche e ripicche. E su questo le idee non sembrano ancora molto chiare. Il sottosegretario Gozi aveva infatti annunciato da parte di Roma una iniziativa per la revisione dei Trattati, ma il giorno dopo Renzi ha dichiarato che «nessuno sano di mente può imbarcarsi oggi a cambiare i Trattati». È arrivato il momento di scegliere una strada e percorrerla con l’autorevolezza e la serietà che un grande Paese fondatore dell’Europa può vantare: è per questo, come dice Renzi, che «merita rispetto».

16 gennaio 2016 (modifica il 16 gennaio 2016 | 07:21)
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