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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 79561 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Luglio 03, 2014, 06:38:25 pm »

Renzi, le nomine, la squadra
Un uomo solo al comando

Di ANTONIO POLITO

L’espressione «fare squadra» è caduta un po’ in disgrazia dopo l’uscita dell’Italia dal Mondiale. Ciò nonostante resta l’unico metodo per aver successo in qualsiasi confronto internazionale. E l’Europa è da ogni punto di vista una cooperazione basata sul confronto, quando non sulla competizione.

Desta perciò qualche legittimo dubbio il modo in cui il presidente Renzi sta affrontando la questione delle nomine. La più importante delle quali è il posto che ci spetta nella Commissione, perché sarà quell’organismo, sempre più politico, a decidere quanto tempo e quanta flessibilità ci verranno concessi per il risanamento dei conti pubblici.

In Europa lo stile di lavoro fin qui sperimentato con successo da Renzi, a Firenze come a Palazzo Chigi, potrebbe non essere il più indicato. Il premier è infatti abituato a ballare da solo. Per lui è diventato un elemento di forza, invece che di debolezza. Il suo rapporto diretto e carismatico con l’opinione pubblica prevede che non ci siano intermediari, né altri politici a fargli ombra. Dunque si contorna più di staff che di gruppi di pari, sceglie più in base alla lealtà che alla qualità. Ma a Bruxelles Renzi non ballerà da solo, dovrà agire di concerto con gli altri governi, peraltro in maggioranza di centrodestra. Né potrà minacciare i riottosi con l’arma delle elezioni anticipate, come fa in Italia.

Buon senso avrebbe suggerito dunque di puntare subito su nomi di prestigio in campo europeo, «pesi massimi» che siano in grado di influire sui dossier che ci riguardano. D’altro canto, una delle poche risorse di cui disponiamo in abbondanza sono proprio gli ex premier e gli ex ministri, grazie al forsennato turnover dei nostri governi. Anche altri Paesi si orientano verso figure di questo calibro. I finlandesi per esempio, da non prendere sotto gamba perché sono un po’ i cani da guardia del rigore tedesco (vedi Olli Rehn), hanno scelto come commissario il loro ex primo ministro Katainen. I francesi dovrebbero puntare su Moscovici, ex ministro dell’Economia. In passato gli inglesi, con Blair, non hanno esitato a nominare un uomo dell’opposizione purché di prima grandezza, come Chris Patten. Anche a noi è capitato di pensare più alla forza del nome che alla sua docilità politica: Berlusconi fece commissari Mario Monti ed Emma Bonino. E Mario Draghi è arrivato al vertice della Bce perché era il numero uno: se avessimo scelto un numero due o tre quella posizione oggi non sarebbe occupata da un italiano.

Puntare su Federica Mogherini e sulla posizione di Alto rappresentante della Politica estera presenta dunque due controindicazioni. La prima è il peso specifico che può avere nella Commissione, quando si discuterà dei dossier che ci riguardano, una persona alla sua prima esperienza europea e costantemente in viaggio per dovere d’ufficio. La seconda è che mentre aspettiamo il verdetto su di lei siamo costretti a nominare un supplente per i prossimi cruciali quattro mesi: l’ambasciatore Nelli Feroci.

Senza contare che potremmo non raggiungere l’obiettivo. A Bruxelles si dice che l’idea di affidare a un italiano la Politica estera comune non piaccia affatto ai nuovi membri dell’Est, i quali temono un eccesso di russofilia della nostra linea, dopo il caso ucraino. E se fallissimo la prima scelta, potrebbe poi essere troppo tardi per una seconda opzione più utile nella difesa degli interessi nazionali: magari quel commissariato per l’Immigrazione che Juncker pare intenzionato a istituire.

1 luglio 2014 | 07:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_01/uomo-solo-comando-98bcf21e-00e0-11e4-b768-bebbb8a7659d.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Luglio 13, 2014, 10:42:21 am »

Editoriale
Doppio forno, doppio gioco

Di ANTONIO POLITO

Per quanto si possa essere impazienti, è la Costituzione stessa che impone una certa lentezza e ponderatezza a chi vuole cambiarla: doppia lettura di entrambe le Camere, almeno tre mesi tra l’una e l’altra, maggioranza dei due terzi per evitare il referendum. E con buone ragioni. Non sempre la fretta è stata buona consigliera in materia costituzionale. Delle tre grandi riforme varate durante la Seconda Repubblica, una è stata sonoramente bocciata da un referendum popolare (la devolution del centrodestra), un’altra è stata un disastro (il federalismo del centrosinistra) e la terza l’abbiamo già ripudiata in nome della flessibilità (il pareggio di bilancio). Sarà dunque bene ascoltare con il rispetto dovuto ciò che il Senato avrà da dire, dalla prossima settimana, sulla sua autoriforma. Tutto è perfettibile, perfino la bozza Boschi-Calderoli-Finocchiaro. Purché sia chiaro che c’è qualcosa di peggio di una riforma imperfetta: lasciare in piedi il bipolarismo perfetto.

Ciò che però i padri costituenti non potevano prevedere è che tra una lettura e l’altra arrivasse al Senato un’altra riforma inestricabilmente intrecciata: la nuova legge elettorale. Non a caso, nelle telefonate personali con le quali l’ex Cavaliere sta chiedendo ai suoi dissidenti di baciare il rospo del nuovo Senato, l’argomento principe è il seguente: se voi mollate Renzi, lui fa la legge elettorale con Grillo, e io sono finito.

I due forni aperti dal premier portano infatti a esiti molto diversi. Nell’accordo con Forza Italia, che premia le coalizioni, Berlusconi concede la prossima vittoria elettorale a Renzi in cambio del monopolio dell’opposizione, visto che le forze minori di centrodestra non potrebbero che conferirgli i loro voti. In un eventuale accordo con i nuovi Cinquestelle scongelati alla Di Maio, il ballottaggio sarebbe invece tra i due maggiori partiti, e questo rischierebbe davvero di escludere Berlusconi da tutti i giochi, compresi quelli sui quali nutre un interesse per così dire personale.

Uno dei due forni andrà dunque spento. Non foss’altro per ragioni europee. L’intesa con Berlusconi, magari corretta su soglie e collegi, porterebbe a un bipolarismo di stampo continentale, tra socialisti e popolari. Quella con Grillo potrebbe partorire invece un sistema anomalo basato sul dualismo tra il centrosinistra e un movimento che a Bruxelles è alleato con Nigel Farage. Per quanto tatticamente conveniente, il doppio gioco non è il modo migliore di fondare la Terza Repubblica.

9 luglio 2014 | 08:25
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_09/doppio-forno-doppio-gioco-8dfeab96-072b-11e4-99f4-bbf372cd3a67.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Luglio 27, 2014, 11:31:39 pm »

Governo, più concretezza meno marketing
Crescono solo le promesse

Di ANTONIO POLITO

Matteo Renzi è davvero unico. Nessun altro primo ministro avrebbe mai detto la frase riportata da Alan Friedman nell’intervista al Corriere di venerdì scorso: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5%, non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone».

In realtà la differenza di un punto di crescita è la differenza tra la vita e la morte per l’economia italiana, e dunque anche per le famiglie. Un punto di crescita è 16 miliardi di ricchezza in più, posti di lavoro in più, più entrate fiscali, meno deficit e rientro dal debito, quindi meno spread e più credito. E così via. Avete presente l’effetto palla di neve? Ecco, un punto in più di Pil metterebbe l’economia italiana in un circolo virtuoso dal quale ogni sfida ci apparirebbe finalmente possibile. Un punto in meno, un altro anno a danzare intorno allo zero, e siamo nei guai neri: in autunno tutti i mostri del videogioco (deficit, fiscal compact, disoccupazione) ricomincerebbero a mangiarsi la speranza che il governo Renzi ha acceso negli italiani e in Europa.

Dunque speriamo che il presidente del Consiglio scherzasse con Friedman, contando sulla sua innegabile simpatia. Però speriamo anche che da ora in poi si faccia sul serio. Si ha infatti l’impressione di essere giunti a un tornante cruciale della vita di questo governo. L’inizio era stata una scommessa basata sul «tocco magico» del premier. L’idea era di accendere una scintilla di ottimismo in un Paese troppo depresso, che lo spingesse a ricominciare a investire e a consumare: una crescita autogenerata. Si trattava di una strategia possibile, le aspettative contano molto in economia; ma non sembra aver funzionato. Ne era parte integrante, al netto dei suoi vantaggi elettorali, lo sconto Irpef degli 80 euro. I dati sui consumi per ora dicono che il rimbalzo sulla domanda interna non c’è stato. E, nel frattempo, anche l’altro grande salvagente dell’economia italiana, l’export e la domanda esterna, sembra sgonfiarsi. Se questa fosse una corsa ciclistica, diremmo che ci siamo piantati sui pedali, e che non ci rimane che sperare in una spinta della Bce a settembre.

Ora ci sono due strade percorribili. La prima è rimettere la testa sulle carte e ripartire dal rompicapo di sempre: le riforme di struttura. La Spagna le ha fatte e ha ripreso a crescere e a creare occupazione. Ha messo a posto le sue banche e soprattutto ha fatto una vera riforma del mercato del lavoro, più facile licenziare e più facile assumere. Noi del Jobs Act sentiamo parlare da quando Renzi faceva la Leopolda e ancora non sappiamo se affronterà finalmente il nodo fatidico dell’articolo 18.

L’altra strada, inutile girarci intorno, sono le elezioni. Di fronte alle difficoltà dell’economia Renzi può decidere di sfruttare la riforma elettorale e costituzionale che riuscirà a portare a casa per rinviare la resa dei conti pubblici con l’Europa, rilanciandosi con una fase 2.0 e con un Parlamento più fedele.

La prima strada porta a fare un discorso di verità al Paese, la seconda ad annunciare sempre nuovi traguardi e cronoprogrammi che poi non possono essere rispettati. Per quanto entrambe legittime, la prima strada ci sembra quella più diritta.

27 luglio 2014 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_27/crescono-solo-promesse-acef9ff8-1552-11e4-bcb3-09a23244c28e.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:46:01 pm »

IL LEGAME TRA PREMIER ED EX CAVALIERE
Anatomia di un patto

di ANTONIO POLITO

È ragionevole chiedere a Renzi e Berlusconi di rendere pubblico il Patto del Nazareno. Poiché viene evocato costantemente quasi come una fonte normativa, le colonne d’Ercole oltre le quali il Parlamento non può andare, si capisce che qualcuno ne pretenda un testo olografo.

È ragionevole ma ingenuo. Perché il Patto del Nazareno non contiene nient’altro che il patto medesimo, politico e personale, tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. I contenuti sono solo una variabile, e infatti cambiano in continuazione, ogni volta che i due contraenti, o loro delegati, vogliano. All’inizio l’Italicum era senza ballottaggio e con soglie rigidissime, poi entrò il ballottaggio, ora stanno per cambiare le soglie, possono rientrare le preferenze fino a ieri vietate, e neanche il Mattarellum può dirsi escluso. La condizione, più volte esplicitata da Renzi, è sempre e solo una: che i due contraenti siano d’accordo.

Dunque il Patto consiste in una promessa di mutuo sostegno tra i due leader: pensate che possano aver messo per iscritto, nero su bianco, «prometto di esserti fedele, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, finché elezione non ci separi»? Più che un patto è una Entente Cordiale: Matteo garantisce a Silvio di conservare agibilità politica e controllo del centrodestra; Silvio garantisce a Matteo lo strumento per disciplinare la maggioranza ogni volta che si agita. Le minoranze di ogni colore ne sono annichilite. Sulla riforma del Senato ha funzionato. Non è escluso che funzioni anche su altro.

Il Patto del Nazareno è - finora - il vero capolavoro politico di Matteo Renzi. È grazie a quell’accordo che riuscì a buttare giù il governo Letta, presentandosi legittimamente al Quirinale come colui che poteva ciò che al predecessore era negato. E finché l’accordo regge, il suo governo può navigare in un Parlamento a maggioranze variabili, che si formano e si sformano senza mai intaccare l’asse vero su cui si regge la legislatura.

Può certo apparire paradossale che Renzi, il quale si era fatto strada proprio criticando le larghe intese, possa oggi governare grazie a una larga intesa d’acciaio. Ma è un paradosso felice. Innanzitutto perché da troppi anni il bipolarismo di guerra impediva le riforme, e poi perché era l’unico modo di salvare una legislatura che sembrava nata morta.

C’è chi dice che il Patto del Nazareno contenga un accordo sul Quirinale. Ma se le cose stanno come le abbiamo descritte è ovvio che lo contenga. La nuova maggioranza istituzionale, composta da Renzi e Berlusconi, è ora abilitata a eleggere il nuovo capo dello Stato. Ed è altrettanto ovvio che, se così sarà, si tratterà di persona non sgradita all’ex Cavaliere: per lui una ricompensa che vale ogni sacrificio.

È dunque inutile cercare nel Patto clausole inconfessabili sulla sorte giudiziaria di Berlusconi, che Renzi non potrebbe e non vorrebbe siglare. Se poi ci fossero, di sicuro non sarebbero scritte. I contenuti del Patto sono inconfessabili solo perché sono sotto gli occhi di tutti. Come la lettera rubata di Edgar Allan Poe.

5 agosto 2014 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_05/anatomia-un-patto-fdf287cc-1c5e-11e4-af0c-e165f39759ba.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Agosto 23, 2014, 06:18:25 pm »

Editoriale

Il perimetro della sovranità
Ciò che c’è da fare lo decidiamo noi.
L’Italia ha l’obbligo di farcela da sola, altrimenti qualcuno lo farà al nostro posto

di ANTONIO POLITO

Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire.

Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?

Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.

Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno.

Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.

Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro.

Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così.

13 agosto 2014 | 07:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_13/perimetro-sovranita-c435c4f8-22a9-11e4-9eb4-50fb62fb3913.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:33:07 pm »

I mille giorni e le scelte da non rinviare
Il tramonto della fretta


Di ANTONIO POLITO

Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversione del giovane leader «rivoluzionario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazione di hashtag su #lasvoltabuona.

Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttura il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendosi più tempo per realizzarle, e insieme garantisce lunga vita ai parlamentari chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativa di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato. Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.

Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventerebbero millecinquecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizione tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica «normalizzi» un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendogli senso e consenso.

In due campi in particolare le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenziale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziaria. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.

Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata Jobs act , non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazione «entro la fine dell’anno» e l’applicazione entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazione retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.

Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibilità mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.

3 settembre 2014 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_03/tramonto-fretta-10d5f2ba-332b-11e4-9d48-ef4163c6635c.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Settembre 13, 2014, 06:40:37 pm »

L’analisi
Tra indagini e garantismo Pd prigioniero di se stesso

Di ANTONIO POLITO

Forse, col senno di poi, sarebbe stato meglio per Renzi se i magistrati di Bologna avessero fatto qualche giorno di ferie in più. Invece «la Procura ha lavorato anche in agosto», ha spiegato implacabile il vicecapo dell’ufficio. Risultato: primarie emiliane nel caos, direzione del partito rinviata, festa dell’Unità rovinata. Per quanto di modesta entità giudiziaria, l’inchiesta di Bologna è una bella tegola per il Pd renziano. Innanzitutto perché ricorda che il nuovo gruppo dirigente non è così vergine da non avere un passato, in cui viaggiò in auto blu e fu esposto agli incerti del mestiere (soprattutto nei consigli regionali con «nota spese selvaggia»); né è così fraternamente unito da non conoscere le notti dei lunghi coltelli, come quella che si sta consumando nella roccaforte emiliana e che solo i nuovi cremlinologi del renzismo sanno spiegare. Una macchia fastidiosa, insomma, per la generazione Dash, con la camicia bianca che più bianco non si può.

Ma la cosa peggiore è che ripiomba il partito nuovo in una questione antica, tipica dell’era che sperava di essersi ormai gettata alle spalle: come dotarsi di una moderna cultura garantista dopo una così lunga pedagogia moralista e, dunque, che fare quando uno dei tuoi è sotto inchiesta.
Al momento, la situazione è kafkiana. Richetti si è ritirato dalle primarie perché è indagato, ma senza averlo detto. Bonaccini l’ha detto ma non si è ritirato, confida come al solito di dimostrare ecc. ecc. (ma già deve sfuggire ai militanti inferociti sul suo blog: quanto potrà resistere?). Il terzo candidato, che non è indagato, rischia invece di essere eliminato se saltano le primarie. Il problema è che il governatore che sono chiamati a sostituire, Errani, si era dimesso dopo una sentenza di primo grado nonostante Renzi gliel’avesse sconsigliato, poiché viene dal Pci e sta ancora elaborando il lutto della diversità come perfezione morale; mentre Enrico Rossi, anche lui ex Pci, si ricandida a governatore della Toscana nonostante sia indagato. Nel frattempo nessuno obietta che in Campania Vincenzo De Luca, due volte rinviato a giudizio, si prepari a correre per le primarie regionali. Né che al governo ci siano quattro sottosegretari a loro volta indagati, ma confermati.

Così il nuovo Pd si trova tra due fuochi. Se dice, come in molti sussurrano, che l’indagine è una vendetta della magistratura per le ferie tagliate, dà ragione in un solo colpo a vent’anni di agitazione berlusconiana contro le toghe rosse e la giustizia a orologeria. Se dice, come molti vorrebbero, che lascerà decidere ai suoi elettori e non alle Procure chi deve essere candidato e chi no, dà torto in un colpo solo a vent’anni di antiberlusconismo, che ha fatto strame di molti principi di garanzia e che è stato a lungo usato come un surrogato della politica per cibare il popolo di sinistra.

Bisognerebbe che il nuovo partito-guida avviasse dunque una riflessione: su come essere più severi, prima che arrivino le Procure, con chi sale sul taxi solo per arricchirsi, e meno bigotti con chi viene fatto scendere ogni volta che fischia un pm. Bisognerebbe che Renzi ci pensasse e ne parlasse, visto che è anche il segretario del partito e non ha mai pensato neanche per un nanosecondo di lasciare la carica. Ma Renzi, per altro loquace, per ora ne tace.

11 settembre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_11/tra-indagini-garantismo-pd-prigioniero-se-stesso-f35b0bf8-3979-11e4-99d9-a50cd0173d5f.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Ottobre 29, 2014, 06:46:55 pm »

Gufi o allocchi? C’è una terza via
Il nostro sistema bancario era il più solido di tutti. Poi è arrivata la smentita dall’esame della Bce

Di ANTONIO POLITO

Per anni politici e banchieri ci hanno garantito che il nostro sistema bancario era il più solido di tutti. La smentita arrivata dall’esame della Bce si può dunque spiegare in due modi: o i problemi delle banche italiane sono stati sottovalutati qui, o sono stati sopravvalutati dall’Europa. Oppure tutte e due le cose insieme. Delle nostre colpe parlano i numeri: siamo la maglia nera, con due grandi istituti chiamati a rafforzare il loro capitale; un terzo dei miliardi che mancano sono addebitabili a noi; la più antica banca del mondo, Monte dei Paschi, è oggi la più debole d’Europa. Avessimo ricapitalizzato prima, invece di sbandierare ottimismo, forse avremmo anche avuto più credito disponibile in questi anni. E quando mai i governi italiani si sono occupati dei criteri di questi test di cui oggi ci lamentiamo?

D’altra parte è fuor di dubbio che l’esaminatore è stato particolarmente severo con noi. E non può trattarsi di un pregiudizio etnico, visto che il presidente della Bce è un italiano, alla guida della Banca d’Italia fino al 2011. Ma ogni volta che finisce in un sistema di valutazione internazionale, l’Italia sconta la debolezza intrinseca della sua economia e del suo sistema Paese. Giudicare la solidità di banche in una nazione che ha perso un decimo del suo Pil in sette anni è infatti cosa ben diversa che giudicare le banche tedesche. Contro di noi gioca sempre un sospetto in più. Come diceva l’apertura del Financial Times di ieri: «L’Italia finisce sotto pressione dopo che nove banche falliscono gli stress test».

Siamo sempre sotto pressione. È un po’ quello che accade anche ai nostri conti pubblici. Renzi ha dovuto strappare quasi con la forza a Bruxelles uno sconticino dello 0,2% (la Commissione voleva lo 0,5%, ieri il governo ha accettato lo 0,3%). Ma la vicenda delle banche ci ricorda che non è solo l’energia e neanche la statura del leader a fare il peso specifico di un Paese; che si calcola con altri criteri, crescita economica, credibilità internazionale, proiezione estera, forza militare. Ogni debolezza amplifica le altre: l’economia reale condiziona i test sulle banche, questi provocano il crollo della Borsa di ieri, che a sua volta influenza l’economia reale. È una lezione da tener presente. Per uscire dalla nostra crisi non basterà gettare il cuore oltre l’ostacolo: bisognerà farci passare l’intero corpo di un’Italia oggi molto gracile. Questo richiede un sistema Paese forte e coeso, dove non brilli solo la stella di un capo, tanto più forte quanto più solitario. E una classe dirigente consapevole della perdurante gravità dei nostri problemi: una terza via tra i gufi e gli allocchi, per i quali va sempre tutto bene.

28 ottobre 2014 | 08:10
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_28/gufi-o-allocchi-c-terza-via-43bc921a-5e69-11e4-9933-2a5a253459da.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:57:00 pm »

I neo dissidenti dell’euro
Calcoli errati e vedute corte

Di ANTONIO POLITO

Pare proprio che, come aveva minacciato D’Alema in tv, la sinistra pd abbia perso la pazienza. L’alzata di scudi di ieri notte contro il patto del Nazareno bis (o tris) avvia una fase in cui niente più può essere dato per scontato, nemmeno il voto sul Jobs act. È probabile che le piazze sindacali abbiano restituito coraggio e allo stesso tempo costretto a una accelerazione della lotta politica contro Renzi. Ma nel combatterla la minoranza che fa capo a Bersani e D’Alema deve stare attenta a non ripetere gli stessi clamorosi errori che già le costarono il controllo del partito.

Con l’aggravante che stavolta non rischierebbe solo in proprio, ma metterebbe a repentaglio la credibilità del governo Renzi in Europa, già in bilico di suo.

Il sospetto di una deriva politica è lecito. Appena qualche giorno fa, con un virtuosismo della litote certamente appreso alla scuola dei padri («Il vivente non umano» di Ingrao e «La non vittoria elettorale» di Bersani), Stefano Fassina è arrivato a proporre sul Foglio non l’uscita dall’euro, come un qualunque Grillo o Salvini, ma «il superamento cooperativo dell’euro», che poi è la stessa cosa, visto che non sembra esserci nessuno in giro disposto a cooperare con noi per farci uscire in modo indolore dalla moneta unica. Così più di vent’anni di zelante europeismo, nuova ideologia di una sinistra che trasferiva a Bruxelles il sol dell’avvenire tramontato all’Est, vengono buttati a mare in un sol colpo.

Al posto dell’integrazione europea, cui hanno dedicato la vita leader fino a ieri venerati come Spinelli, Prodi e Napolitano, ecco che si propone la «dis-integrazione ordinata» della moneta unica, così da farne due, o tre, o quindici, come se questo risolvesse il nostro problema cruciale: il costo di un enorme debito.

Il fatto è che il gruppo dei Fassina e dei Cuperlo ha letto fin dall’inizio male il segno politico della crisi economica mondiale, interpretandolo come una potente spinta a sinistra dell’elettorato. Su questa base ha indotto Bersani a fare una campagna elettorale perdente in stile Cgil, mentre il suo popolo se ne andava da tutt’altre parti. Ora è sotto choc per aver scoperto che quello stesso popolo segue Renzi, pur bollato come una Thatcher col lifting da Susanna Camusso. Non resta che l’ultimo populismo, quello antieuropeista. Pericoloso ovunque, ma molto di più quando alligna all’interno del partito di maggioranza e di governo di un Paese a rischio come l’Italia.

Non è certo così, facendo i proto-grillini o gli pseudo-leghisti solo un po’ più colti, che la sinistra pd può sperare non dico di riprendersi, ma nemmeno di correggere la barra del timone che ha perso.

13 novembre 2014 | 07:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_13/calcoli-errati-vedute-corte-9b137fb2-6afb-11e4-8c60-d3608edf065a.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Novembre 22, 2014, 05:23:53 pm »

Spiegazioni sbagliate
Vie d’uscita consolatorie dalla crisi

Di ANTONIO POLITO

Matteo Renzi ha molti meriti che gli resteranno, comunque finisca la sua avventura politica. Ha mandato a casa una generazione di capi della sinistra mai veramente uscita dalla cultura del Pci, ha ringiovanito drasticamente e reso più femminile il governo, ha ristabilito il primato del consenso democratico dopo una stagione di paralisi e di soluzioni tecniche. Che cosa è allora che genera ancora diffidenza in lui da parte di molti che pure hanno sempre auspicato una tale svolta?

Questa domanda merita di essere approfondita, e non solo perché viene rivolta spesso da chi ha invece abbracciato con tale entusiasmo l’ennesimo nuovo corso da sacrificargli lo spirito critico. Ma anche perché la risposta contiene forse qualche indizio sul possibile esito dell’ardito tentativo renziano di cambiare l’Italia, dopo averne cambiato il ceto politico.

Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere di giovedì 20 novembre), ha individuato una serie di difetti del leader, incentrati su un punto cruciale: la necessità di «trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese». Vorrei aggiungere al suo elenco un altro peccato del renzismo, che forse è originale.

Il nostro premier offre infatti agli italiani una spiegazione un po’ troppo consolatoria della crisi grave in cui versiamo. Dalla sua retorica, e anche dal suo programma di riforme, si trae un’idea fuorviante. L’ idea di Renzi sembra essere che l’Italia, altrimenti grande Paese in grado di «guidare l’Europa», soffra esclusivamente per il fatto di essere stata rovinata da una élite incapace, vecchia e da cambiare. Che ci sia insomma un possibile capro espiatorio, sacrificato il quale si possa riprendere il cammino della dolce vita italiana, fatta di stile, bellezza e furbizia. Naturalmente l’errore non sta nel fatto che la nostra élite è effettivamente vecchia e da cambiare; sta nel lasciar credere agli italiani che non ne fanno parte che le cose siano così facili, e che loro non vi abbiano nessuna colpa e dunque nessuna necessità di cambiare. Esattamente ciò che vogliono sentirsi dire.

Dalla bocca di Renzi si sono sentite in questi mesi molte e dure invettive contro i politici da rottamare, contro i burocrati, contro i sindacati, contro i magistrati, contro i salotti buoni, contro il club delle tartine, contro Cernobbio e contro Bruxelles. Ma pochi ragionamenti su come intervenire nel profondo sul fenomeno dell’evasione fiscale, del sistema degli incentivi alle imprese, sui mercati chiusi dalle corporazioni professionali, sul sistema del socialismo municipale e delle migliaia di società partecipate, sui cacicchi locali che, anche nel suo partito, drenano risorse pubbliche solo per auto-riprodursi.

Ognuna di queste battaglie sarebbe difficile e dura, non meno di quella che il premier ha dovuto affrontare con i sindacati sull’articolo 18. Ma ognuno di questi problemi incide sulla capacità di ripresa dell’Italia molto più delle ferie dei magistrati e del sistema di elezione dei senatori. Ecco dove sono gli accenti di «drammatica verità» che dovrebbe trovare il leader: convincere gli italiani che votano per lui che devono cambiare anche loro. È un’operazione che può rivelarsi costosa in termini elettorali. Ma è l’unica che può alla lunga farci uscire dalla condizione in cui siamo, che non è passeggera ma strutturale, e per la quale non bastano iniezioni di ottimismo.

Il male italiano non è incurabile, su questo ha perfettamente ragione il premier e non è necessario essere allocchi per esserne convinti. Ma se fosse stato così facile guarirlo, oggi non ci sarebbe Renzi a Palazzo Chigi. E se non lo si cura come si dovrebbe per non perdere il consenso del malato, si rischia di esaurire il consenso ben prima che arrivi la guarigione.

22 novembre 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_22/vie-d-uscita-consolatorie-crisi-4d59cc24-7210-11e4-9b29-78c5c2ace584.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Dicembre 09, 2014, 03:15:33 pm »

Il presidente che verrà: al Quirinale uno che non avrà nulla da fare?

Di ANTONIO POLITO

I l prossimo presidente della Repubblica non avrà molto da fare. Almeno a dar fede al programma di riforme del governo Renzi. Stando alle promesse, avremo una sola Camera che vota la fiducia. Dunque nessun rischio di maggioranze diverse o addirittura inesistenti in un ramo del Parlamento, come è avvenuto all’inizio di questa legislatura. Dunque nessun bisogno di un capo dello Stato che ne cerchi una alternativa o più ampia.

D’altra parte, grazie all’ Italicum 2.0 con premio al partito, non ci saranno più coalizioni, né dunque crisi di coalizione, e perciò tutto il lavoro per rimetterne insieme i cocci sarà fatica inutile che il presidente potrà risparmiarsi.

Una volta che il primo ministro sarà scelto direttamente dal popolo con il ballottaggio, e non più dal Parlamento, che bisogno rimarrà delle consultazioni nello Studio alla Vetrata? E di quell’articolo della Costituzione secondo il quale il presidente della Repubblica nomina i ministri? Il premier potrà presentarsi al Quirinale con una lista prendere o lasciare, e il presidente prenderà. E quando il premier deciderà che la legislatura è finita, il capo dello Stato scioglierà. Tolta qualche inaugurazione e i discorsi di fine d’anno, per il resto il nuovo presidente potrà riposarsi ben più di quanto sia stato concesso al suo predecessore.

Ma se le cose stanno davvero così, perché mai politici e partiti si stanno già dannando per vincere la partita del Quirinale? Tutto sommato, un candidato varrebbe l’altro. A meno che la fondamentale importanza che tutti annettono alla scelta del futuro presidente non nasconda in realtà tre sospetti. Il primo è che la legislatura finisca prima delle riforme, e allora tutto il lavoro dovrebbe ricominciare daccapo nella prossima.

Il secondo sospetto è che, pur con le tanto attese riforme, il garante dell’unità nazionale continuerà ad avere un ruolo cruciale, perché come si può rompere una coalizione si può rompere anche un partito, e una crisi può nascere anche in una Camera sola, e allora meglio avere al Quirinale uno che risponde al telefono piuttosto che uno che risponde al Paese. Il terzo dubbio è che, con un debito senza freni, nei prossimi sette anni torni utile un presidente autorevole per garantire l’Europa.

In fin dei conti, il rebus è tutto qui: portare al Quirinale una o uno che non avrà niente da fare, un signor Nessuno, magari a tempo, con la data di scadenza incorporata nella legge elettorale? O qualcuno/qualcuna cui toccherà far rispettare il molto che resta della Costituzione, e che ne abbia la competenza, l’indipendenza e l’intelligenza? Optiamo senza dubbi per la seconda soluzione.

9 dicembre 2014 | 07:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_09/presidente-che-verra-23bb33ec-7f69-11e4-92ce-497eb7f0f7a3.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:08:36 pm »

Una lettura critica
Lo sguardo del Colle

Di ANTONIO POLITO

Giorgio Napolitano ha dedicato gli anni della sua presidenza alla difesa della politica democratica. Si capisce dunque che, forse anche cominciando a trarne il bilancio, indichi oggi con toni accorati nell’antipolitica «la più grave delle patologie del nostro vivere civile», e la bolli addirittura come «eversiva». Non è un fenomeno di questi giorni, e non può essere nemmeno esclusivamente identificato con gli ultimi arrivati come Grillo, che se ne è adombrato, o come Salvini, che lo ha fuso in una miscela esplosiva con l’antieuropei-smo, esplicitamente condannata da Napolitano. E infatti il presidente ricorda correttamente come l’antipolitica alberghi tra noi almeno dal 1992, al punto che essa è stata tra le fondamenta su cui è stata edificata la Seconda Repubblica, una Repubblica senza partiti e contro i partiti, il cui frutto non è stato però una rigenerazione democratica ma la degenerazione di una politica che Napolitano ha definito «senza moralità», predatoria, personalistica, non meno ladra di quella che c’era prima, ma per di più scalabile dai poteri criminali, come i fatti di Roma dimostrano. È il punto che merita di essere approfondito nell’analisi del presidente: tra la degenerazione della politica e la degenerazione nell’antipolitica, quale viene prima? E, soprattutto, qual è oggi «la più grave delle patologie»? Napolitano mette l’accento sulla seconda; e sui media, rimproverando loro di essere stati corrivi con l’onda antipolitica, così alimentandola.

Ci prendiamo il rimbrotto: perfino in fisica è ormai accertato che l’osservatore modifica la realtà anche semplicemente descrivendola. Ma ci sono davanti a noi numerosi esempi in cui l’antipolitica si è affermata da sola, senza aiuti esterni, e per ottime ragioni, al punto tale da sfociare in una reazione squisitamente politica contro la decadenza morale, come è stato evidente nel voto che gli elettori emiliani hanno dato alla loro Regione, non votando. È difficile perciò sfuggire alla sensazione che Grillo e Salvini siano l’effetto, più che la causa, di quella patologia. L’unico sollievo è che finora l’antipolitica si è rivelata meno violenta di quanto non sia stata la violenza politica in anni non troppo lontani. Del resto perfino nei rimedi che la parte migliore del sistema sta cercando a questa grave crisi della rappresentanza si sentono gli echi di un senso comune antipolitico, che oggi chiede più delega e meno partecipazione, meno eletti e più nominati, più uomini soli al comando e meno minoranze fastidiose. Oggi il successo politico ha bisogno dell’antipolitica, al punto che anche per il prossimo inquilino del Quirinale va di moda fare nomi di non politici. L’allarme lanciato ieri da Napolitano avrebbe dunque bisogno di una discussione spietatamente autocritica da molti versanti per produrre gli effetti di rigenerazione che giustamente auspica. Dobbiamo augurarcela con l’ottimismo della volontà.

11 dicembre 2014 | 08:25
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_11/sguardo-colle-9dae02d8-80f9-11e4-98b8-fc3cd6b38980.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 17, 2014, 05:43:09 pm »

Tentazione pericolosa
Chi vuole il voto anticipato

Di ANTONIO POLITO

Non ha certo la potenza mediatica del «Che fai, mi cacci?» urlato da Fini in faccia a Berlusconi. Però anche il «Se vuoi il voto, dillo» con cui Stefano Fassina ha apostrofato Renzi durante l’assemblea pd un posticino nella storia potrebbe conquistarselo. La sua originalità sta nel fatto che, a parti rovesciate, poche ore prima era stato Delrio, cioè Renzi, a rivolgere la stessa accusa alla minoranza pd, cioè a Fassina, sospettata di aver ordito un agguato parlamentare al governo. Cosicché ora due cose sono chiare: c’è qualcuno che vuole andare al voto, anche se non si sa chi, e quel qualcuno sta nel Pd.

Già questa è un’anomalia non da poco. Da che mondo è mondo è l’opposizione che vuole votare e il governo che vuole durare. Nell’Italia del 2015 avremo invece un’opposizione terrorizzata dal voto anticipato (che lo ammetta, come Forza Italia, o che lo nasconda, come il M5S). E un governo tentato dall’avventura elettorale: quasi come se, una volta esauriti tutti gli annunci possibili, non restasse che annunciare le urne.

Naturalmente le elezioni sono, se non l’igiene, l’alimento della democrazia. Guai a demonizzarle. Ancora oggi si discute del resto se sia stato meglio per l’Italia evitarle nel 2011, quando al culmine della crisi finanziaria collassò il governo Berlusconi. Però un’elezione all’anno non è sintomo di salute, casomai di asfissia. Anche ammesso che ci fosse una legge elettorale, che fosse costituzionale, e che valesse per entrambe le Camere, il vincitore dovrebbe comunque ricominciare daccapo a fare le stesse cose che ha annunciato, per di più buttando ciò che già è stato fatto in materia di riforme istituzionali. In assenza delle quali avrebbe un Parlamento forse più docile ma non più produttivo, e certamente non migliore.

Questo vizietto antico della politica italiana di giocare perennemente alle elezioni, di riempire con l’attesa delle urne il vuoto dell’azione, di promettere messianicamente ciò che non si riesce a realizzare, sembra poi oggi del tutto inconsapevole della gravità estrema della situazione europea in generale e di quella italiana in particolare. Il semplice evocare il rischio di elezioni in Grecia (anche lì, manco a farlo apposta, c’entra l’elezione del presidente della Repubblica), ha subito riacceso i timori di una tempesta sull’euro capace di spezzare la moneta unica. Un ritorno all’instabilità politica del Paese con più di duemila miliardi di debito potrebbe sollevare uno tsunami, e costarci il ritiro del credito che è stato concesso a Renzi proprio perché sembrava in grado di tenerne il timone.

Già oggi l’Italia è un caso in Europa. I governi ci considerano una variabile indipendente che può far pendere da una parte o dall’altra la sorte dell’unione monetaria. La Bundesbank può usarci come pretesto per fermare le misure non convenzionali che prepara la Bce di Draghi.

I lavoratori belgi scioperavano ieri contro i tagli anti-deficit accusando l’Europa di aver usato due pesi e due misure con italiani e francesi.

Giocare con le elezioni è dunque, almeno in questa fase, giocare col fuoco. E il gioco non varrebbe la candela. Confermerebbe anzi tutti i dubbi sull’Italia proprio quando più abbiamo bisogno di ispirare fiducia. Speriamo che nel Pd lo capiscano, e si mettano a litigare su altro.

16 dicembre 2014 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_16/chi-vuole-voto-anticipato-2d982476-84ee-11e4-bef0-810da32228c1.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 13, 2015, 04:44:40 pm »

Lo scontro nel Pd
Brogli e sospetti affondano le primarie

di ANTONIO POLITO 200


La storia delle primarie regionali del Pd sembrava destinata a fermarsi a Eboli, e invece è finita a La Spezia. C’è infatti un punto oltre il quale il simbolo della riconquistata freschezza giovanile e democratica del Pd si trasforma nello specchio di Dorian Gray. Lo specchio delle primarie all’improvviso restituisce l’immagine, piena di rughe e anche un po’ ripugnante, della politica più vecchia e decrepita: quella dei capibastone, delle correnti, dei brogli e dei sospetti.

Questo limite è stato varcato domenica in Liguria, dove la vincitrice Raffaella Paita, «quarantenne renziana che promette anni rock», come la descrivono le cronache del nuovismo, viene accusata dall’attempato, grigio e antirenziano Sergio Cofferati di aver vinto anche grazie a numerose irregolarità: roba da Procura a suo dire, contro le quali ha presentato ricorso. Come al solito, il sospetto si appunta sul voto «cammellato»: non perché troppo multietnico (sarebbe paradossale prendersela con i numerosi elettori cinesi per non aver votato il «cinese»; né di questi tempi si può criticare l’entusiasmo democratico di marocchini e rom, pure loro accorsi alle urne in numero abnorme); ma perché suscettibile di essere stato organizzato e fors’anche retribuito.

In più, in Liguria è di nuovo esplosa la polemica che fu al centro dello scontro tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi nelle primarie per la scelta del segretario: gli elettori di centrodestra, e addirittura i sindaci e i dirigenti del centrodestra, possono partecipare alla scelta del candidato del Pd? Sì per la vincitrice, che ha ricevuto il sostegno esplicito di pezzi di Forza Italia ormai orfani di padrini; no per lo sfidante Cofferati, perché avrebbero «inquinato» il voto.

Ora la gatta da pelare è direttamente sul tavolo di Renzi: la commissione di garanzia dovrà decidere se annullare o confermare un risultato così contestato. Ma non è l’unica grana. Un’altra, potenzialmente più grossa, sta scoppiando in Campania. Dove, a dire il vero, detengono il copyright delle primarie finite in Procura. Quelle per scegliere il candidato sindaco di Napoli, nel 2011, furono annullate per brogli aprendo la strada al suicidio del Pd e al trionfo di de Magistris: su di esse è aperta un’inchiesta della Procura antimafia, così come per il voto nel salernitano in occasione della vittoria di Renzi nel 2013. Roma vorrebbe evitare ad ogni costo un nuovo armageddon in Campania, anche perché non si fida dei due maggiori concorrenti, Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino, stagionati e discussi dirigenti in prima linea fin dai tempi del Pci, entrambi già candidati cinque anni fa (De Luca è anche in attesa di sentenza per peculato). Ma i plenipotenziari del segretario, che pure hanno imposto già per due volte il rinvio del voto, non sono ancora riusciti a farlo saltare regalando una candidatura octroyée a Gennaro Migliore, transfuga vendoliano. Cosicché se ora le primarie si fanno, Renzi ci fa una brutta figura; e se le impedisce, ce la fa lo stesso.

Una cosa sembra ormai chiara: il sistema delle primarie locali è giunto al capolinea. Per una ragione giuridica e una politica. La prima è che nessuna consultazione può dirsi democratica se prima di iniziare non c’è un elenco di chi ha diritto al voto. Anzi, diventa un raggiro della democrazia, e in quanto tale non è più un affare interno al Pd. Il fatto che in molti casi le primarie siano andate bene (in Veneto e Puglia, per esempio) non assolve il metodo, perché se può fallire anche una sola volta vuol dire che non ci si può mai fidare dei risultati. Sono ormai in molti, anche nel Pd, a dire che senza una legge dello Stato non si possono più fare.

La ragione politica è che lì dove il partito è spaccato in correnti e gruppi di potere le primarie rischiano addirittura di peggiorare le cose, offrendo l’occasione per una lotta nel fango senza esclusione di colpi. Comprare gli elettori non è infatti meglio che comprare le tessere.

13 gennaio 2015 | 09:14
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_13/brogli-sospetti-affondano-primarie-7fa4c9c2-9afb-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Gennaio 13, 2015, 05:01:31 pm »

Gli indifferenti
Svegliamoci: troppi silenzi e amnesie

Di ANTONIO POLITO

N on c’è da meravigliarsi se l’Aula di Montecitorio era semivuota, mentre il ministro Alfano riferiva sulla nuova guerra santa scatenata in Europa. Tutto sommato è lo stesso Parlamento che, rinunciando agli F35, sarebbe pronto a disfarsi dell’arma aereonavale nel Paese che è geograficamente una portaerei nel Mediterraneo. E la politica non è l’unico pezzo della nostra classe dirigente che appare indifferente ai limiti della diserzione di fronte a una svolta così radicale della storia. È certo un ritardo antico: abbiamo sempre inteso la politica estera come una paziente attesa di ciò che avrebbero fatto gli Usa o la Francia. N on basta un upgrading nella prima classe di Bruxelles per colmare il ritardo di una classe dirigente: prova ne sia lo scarso interesse che suscita in questo frangente, perfino sulla stampa italiana, l’azione della nostra Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue. Ma bisogna dire che la fine dei partiti, un tempo capaci di formare un’intellettualità diffusa, informata sui fatti del mondo anche se partigiana, colta per quanto faziosa, ha peggiorato le cose. Il nostro dibattito politico è rimasto così avvitato sull’asse Est-Ovest, pulluliamo ancora di antiamericani e di filorussi; ma nel frattempo il mondo è girato, e sull’asse Nord-Sud, Europa-Islam, non sappiamo che dire.


Non tace solo la politica. Da quanto tempo in Italia non si pubblica un best-seller come Le suicide français di Eric Zemmour, o un romanzo come Sottomissione di Michel Houellebecq? Chi, dopo la Fallaci, ha provato a «profetizzare il presente» nel Paese più esposto d’Europa all’ondata migratoria, sollevata proprio dallo tsunami dell’Islam? E in quante università italiane si studia e si legge l’arabo? Sono di fronte a noi, a pochi chilometri da noi, ma non sappiamo niente di loro (con rare eccezioni: un politico come la Bonino, saggisti come Cardini e Buttafuoco).
Poiché nulla accade per caso nella storia delle nazioni, è possibile che questa indifferenza nasca in realtà da una rimozione. I nostri ceti intellettuali, quelli che formano l’opinione pubblica dalla scuola ai talk show, sono infatti molto più a loro agio con l’appeasement che con la guerra, se la cavano meglio con la retorica del dialogo che con quella dello scontro di civiltà. Sanno apprezzare un «ritiro» e deprecare una battaglia.


Quando la storia si incarica di smentirne il sogno irenista, e scoprono che il mondo è pieno di cattivi, restano senza parole. Nasce da qui l’ostracismo a ogni serio dibattito sull’identità nazionale, subito tacciato di razzismo (e perciò regalato al furbo Salvini, che ne fa un uso stupefacente). Nasce così la orribile confusione tra interesse nazionale e scambio commerciale, che consente di dire pubblicamente «chi se ne frega dell’Ucraina, pensiamo al nostro export con la Russia». Siamo pur sempre il Paese del colonnello Giovannone, pronto a stringere negli Anni 70 un patto di non belligeranza col terrorismo palestinese, purché non colpisse in casa nostra. In più, da noi il dibattito pubblico è di solito egemonizzato da un’opinione militante, pronta a scendere in piazza per difendere la satira quando attacca Berlusconi, ma molto più prudente quando se la prende con Maometto.
Nel suo ultimo romanzo Houellebecq ipotizza che l’Europa sia esausta proprio perché stanca della sua libertà, e sempre più disposta a barattarla con un po’ di benessere e di quieto vivere. È una tentazione che in Italia ben conosciamo. Ma è anche l’ennesima illusione: il nemico che abbiamo di fronte non fa prigionieri.

10 gennaio 2015 | 08:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_10/svegliamoci-troppi-silenzi-amnesie-d7640858-988f-11e4-8d78-4120bf431cb5.shtml
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