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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 79428 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 28, 2013, 11:49:14 am »

La coda avvelenata


Poteva finire meglio, questo lungo pezzo di storia d’Italia? Sì che poteva. E doveva. Forse non è neanche finito; e infatti già si ricomincia, berlusconiani contro antiberlusconiani. E poi il modo. Nella sede istituzionale di Palazzo Madama Berlusconi viene dichiarato decaduto in contumacia, mentre si asserraglia in quella privata di palazzo Grazioli con i suoi sostenitori, nella iterazione di un contrasto perenne tra piazza e Palazzo. E infine il clima. Surreale. Con gli sconfitti più loquaci dei vincitori, che si costringono a una compostezza quasi imbarazzata come i senatori del Pd, o appaiono smarriti, come i Cinquestelle, all’improvviso orfani del feticcio dell’ammucchiata contro cui scagliarsi e privati del monopolio dell’opposizione.

Si conferma la maledizione della vicenda italiana, nella quale sembra impossibile chiudere un’era politica senza un trauma e uno strascico di odio. Altri leader sono stati mandati a casa con l’aiuto di uno scandalo: Nixon, Kohl, Chirac. Ma in nessuno di questi casi si è detto che la democrazia era a lutto, perché in nessun luogo la democrazia si identifica con un uomo.

Di questo finale portano la responsabilità molti avversari di Berlusconi. C’erano vie per togliere alla inevitabile decadenza il sapore della vendetta, o addirittura il sospetto che serva per rendere il decaduto più vulnerabile alle Procure. Un voto segreto del Senato sarebbe stato rispettoso delle regole e politicamente più definitivo, avrebbe tolto al dibattito di ieri quell’aria di copione già scritto altrove.
Ma una forte responsabilità la porta proprio Berlusconi. La sua lunga militanza nelle istituzioni gli avrebbe dovuto suggerire comportamenti diversi. La condanna per un reato fiscale può considerarla ingiusta quanto vuole, e ad essa opporsi in tutti i modi. Ma che fosse incompatibile con una carica pubblica era evidente, anche se non ci fosse stata la legge Severino. Avrebbe dovuto prenderne atto. Innanzitutto per i suoi elettori, che sono ancora tanti, forse più di quanti gli avversari pensano. Avrebbe dovuto offrire loro un progetto per tenere unito il centrodestra anche dopo di lui, per farlo tornare a vincere. Non chiedere l’ennesima battaglia pretoriana in difesa del capo, costi quel che costi al Paese, infatti rifiutata dai ribelli di Alfano.

E avrebbe dovuto chiedere la grazia, non pretenderla come una sottomissione dello Stato di diritto alla sua persona.
Invece Berlusconi ha scelto un’altra strada, per la felicità dei falchi di qua e di là. Spera così di costruire sul risentimento del suo elettorato l’ennesima resurrezione politica. Non sappiamo se ce la farà. Ma così non ce la farà l’Italia a voltare finalmente pagina.

28 novembre 2013
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_28/coda-avvelenata-5db59940-57f4-11e3-8914-a908d6ffa3b0.shtml
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« Risposta #61 inserito:: Dicembre 11, 2013, 10:38:30 am »

Primarie PD, dopo la vittoria di Renzi
Il peso del successo

La vittoria a valanga di Matteo Renzi è una benedizione per il Pd. Appena otto mesi fa quel partito si era liquefatto nel voto sul capo dello Stato, dopo aver perso un’elezione che poteva solo vincere. Era insomma allo sbando. Il governo Letta l’ha tenuto in vita con l’ossigeno; un nuovo leader, scelto da una base elettorale ancora una volta molto ampia e con un grande distacco, può ora rimetterlo in piedi. Renzi ha cominciato a vincere quando ha perso le primarie di un anno fa, perché il disastro politico che ne è seguito ha persuaso anche i più scettici elettori del Pd che rischiare con lui è sempre meglio che perdere di sicuro con gli altri.

Il voto di ieri ha così dimostrato che il Pd è scalabile, anche da un uomo nuovo che viene dalla periferia, anche senza accordi preventivi, anche senza peli sulla lingua. Si tratta di una qualità democratica di cui oggi nessun altro partito dispone, e che speriamo contagi presto il futuro centrodestra (sul Movimento di Grillo, almeno da questo punto di vista, c’è poco da sperare).

Ma il successo di Renzi apre una pagina nuova anche nella storia della sinistra italiana. Se è vero infatti che il Pd aveva già avuto un segretario non ex comunista (Franceschini) e perfino un segretario ex socialista (Epifani), quello che è stato eletto ieri è il primo segretario che non è post di niente, nemmeno della Dc. È dunque l’incarnazione di una generazione X, giunta alla politica quando il Muro era già caduto e la Prima Repubblica già finita. La Bad Godesberg, che al riformismo italiano è sempre mancata sul piano dei programmi e delle idee, si è forse realizzata con un salto antropologico e una rottura genealogica.

Renzi ha insomma già cambiato il Pd. Cambierà anche l’Italia, come ripetutamente promette? Qui l’esperienza impone cautela, perché l’ultimo ventennio della sinistra italiana è lastricato di grandi speranze presto fallite.
Contro Renzi lavorano tre fattori. Il primo è il suo partito, nel quale operano ancora troppi nemici palesi e troppi finti amici, saltati sul carro del cambiamento all’ultimo istante solo per fare in modo che nulla cambi. Il secondo è Renzi stesso: finora ha dimostrato di avere molto scatto televisivo ma poca profondità di analisi, una notevole capacità immaginifica ma scarsa attenzione ai dettagli. Soprattutto è ancora troppo solo, perché intorno a lui non si è finora visto crescere l’abbozzo di una classe dirigente in grado di governare il Paese.

Ma il vero formidabile ostacolo che dovrà affrontare è la complessità quasi disperata del rebus italiano. Per risolverlo, a partire dal tassello centrale della legge elettorale, servirà una grande capacità di alleanze e di persuasione: la chiarezza della direzione di marcia non dovrà mai trasformarsi in arroganza. E bisognerà resistere alle sirene dell’opposizione, che lo spingono ad affrettare bottini elettorali destinati a risultare poi inutili per governare. Questa, soprattutto, è la svolta cui Renzi è chiamato. Fino a ieri la sua forza è consistita nell’essere all’opposizione di tutto: del passato, della nomenklatura, dell’establishment . Da stamattina è invece il capo del maggior partito di governo, chiamato a realizzare, e presto, le cose tanto predicate. Sarà capace il sindaco di Firenze, nei due giorni alla settimana che intende passare a Roma, di trasformarsi in un uomo di governo? Per come è messo il nostro Paese, bisogna augurarselo.


09 dicembre 2013
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ANTONIO POLITO 134

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_09/peso-successo-2f7d469a-609b-11e3-afd4-40bf4f69b5f9.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Gennaio 16, 2014, 04:33:35 pm »

La legge elettorale non basta
La perenne debolezza del potere

C’è oggi l’opportunità di intervenire per fare del capo dell’esecutivo si avrebbe un primo ministro padrone della sua maggioranza

Antonio POLITO

Una buona legge elettorale è ovviamente necessaria per la tanto agognata governabilità. Però credere che un sistema elettorale, qualsiasi sistema elettorale, sia anche sufficiente a risolvere il problema è una grande illusione, nella quale purtroppo stiamo cadendo di nuovo.
Si dice: se c’è un premio di maggioranza la sera delle elezioni si sa chi ha vinto, e chi ha vinto governa per cinque anni. Ma il premio di maggioranza c’era dal 2005, e nessuno di quelli che lo hanno vinto è poi riuscito a governare per cinque anni, nemmeno nell’epoca del bipolarismo pre-Grillo: Prodi ha resistito due anni, Berlusconi meno di tre (dall’uscita di Fini in poi il suo governo era finito).

Rivendichiamo giustamente una legge maggioritaria per un nuovo inizio, ma tendiamo a dimenticare che quella precedente non era certamente poco maggioritaria, è stata anzi giudicata incostituzionale proprio perché era iper-maggioritaria. Del resto in nessuna nazione democratica una buona legge elettorale basta di per sé a garantire maggioranze parlamentari omogenee. Ai fautori del sistema spagnolo andrebbe ricordato che Zapatero per due legislature ha governato senza avere la maggioranza assoluta alle Cortes; ai fautori del collegio uninominale che nemmeno in Gran Bretagna l’attuale premier ha ottenuto col voto una maggioranza a Westminster. E in Germania la Merkel ha stravinto le elezioni, e ciò nonostante ha dovuto fare la grande coalizione con gli avversari socialdemocratici.

Che cos’è allora che dà stabilità e governabilità alla Spagna, alla Gran Bretagna e alla Germania, se non basta la legge elettorale? Innanzitutto la cultura politica: partiti antichi, elettorati pragmatici, media responsabili. Poi il monocameralismo: una sola Camera dà la fiducia al governo (a questa anomalia italiana pare che finalmente si voglia porre rimedio, speriamo). Ma, forse più di tutto, contano l’investitura e i poteri del capo del governo. Che non a caso in Spagna si chiama presidente del governo, e in Gran Bretagna primo ministro, e in Germania cancelliere, e solo da noi presidente del Consiglio, cioè niente più che un primus inter pares , un’eredità che ci portiamo dietro dallo Statuto Albertino.

Da anni è chiaro che servirebbe invece un primo ministro padrone della sua maggioranza, in grado cioè di guidarla o di mandarla a casa se gli si ribella. Ma finora le necessarie modifiche costituzionali sono sempre state bloccate dalla diffidenza storica della sinistra nei confronti di ogni rafforzamento dei poteri del premier, nel timore che Berlusconi potesse ritagliare sulla sua figura i panni di un moderno tiranno. Adesso però Berlusconi è interdetto da Palazzo Chigi, e il nuovo capo della sinistra, Renzi, non sembra proprio uno che ha paura di un governo forte guidato da un leader forte.

Perché allora il tema è stato completamente abbandonato da tutte le forze politiche? Perché non si affronta adesso, insieme al bicameralismo, in questo anno di legislatura che forse ci resta? C’è un modo ambizioso di affrontarlo (forse troppo ambizioso per il Parlamento attuale) ed è quello di introdurre l’elezione diretta del capo dell’esecutivo. Ma c’è un modo più modesto, seppure di non di modesta efficacia, che consisterebbe nel dare al premier il potere di essere eletto dalla Camera ricevendo una fiducia individuale, e di sostituire o licenziare i suoi ministri (che non sarebbero investiti dello stesso rapporto fiduciario); nell’obbligare chi volesse votargli la sfiducia a raggiungere la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea per farlo cadere, oppure nel dare a lui la possibilità di chiedere lo scioglimento del Parlamento se la sua maggioranza viene meno; e infine nel concedergli il tempo parlamentare necessario per far passare le sue proposte di legge e realizzare il programma cui si è impegnato con gli elettori, invece di diventare un fabbricante di decreti peraltro esposti al racket degli emendamenti.

C’è oggi una formidabile finestra di opportunità: accoppiata con una buona legge elettorale, una riforma del genere cambierebbe il volto della politica italiana. Letta, Renzi, Alfano, Toti o chi per lui, non dovrebbero lasciarsi scappare questa occasione. Chiunque di loro governerà l’Italia di domani sarebbe altrimenti costretto a passare sotto le stesse forche caudine di Prodi e Berlusconi, che pure erano stati entrambi eletti con leggi maggioritarie.

15 gennaio 2014
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_15/debolezza-potere-962f2c42-7db4-11e3-80bb-80317d13811d.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Gennaio 19, 2014, 06:06:11 pm »

L’editoriale
Il motore si è riacceso

Era dunque prematuro quel game over che Matteo Renzi scandì, per sancire l’uscita di scena di Berlusconi dopo la condanna. Invece rieccolo il Cavaliere, tornato protagonista; eccolo riprendersi nella sede del Pd, in via del Nazareno, quell’«agibilità politica» che impropriamente pretendeva dal Quirinale. Sono i voti di cui dispone a ridargliela, non il segretario del Pd, il quale non ha fatto altro che ripercorrere le orme di D’Alema, di Veltroni e di Bersani, tutti obbligati a trattare con il capo della destra sulle materie istituzionali (anche se di solito senza successo). L’unica differenza è che stavolta nessuno grida all’inciucio.

È infatti un bene che Berlusconi partecipi alla scrittura delle regole del gioco. Male era quando se ne ritirò, tentando di affossare Letta e il suo programma di riforme; bene è che ora, fallita la prova di forza anche grazie ad Alfano, conceda un bis a Renzi. Bene è che concordi anche quei minimi cambiamenti costituzionali, abolizione del bicameralismo e degli eccessi del federalismo, senza i quali il sistema affonda.

Male sarebbe invece se i due pensassero di potersele scrivere da soli le nuove regole; perché pur essendo due dei tre soggetti più forti, insieme rappresentano in Parlamento meno del 50% degli italiani. Il sospetto ha dominato la vigilia. I due leader condividono una certa idea del comando, che ha guadagnato a entrambi l’ammirazione di Briatore, «il Boss» di un fortunato programma tv. La tentazione di un accordo di ferro su un sistema elettorale alla spagnola, punitivo per le forze minori, era e resta forte. Metterebbe a rischio non tanto la serenità di Letta, cui Renzi ha assicurato di non voler togliere la poltrona, ma l’agibilità politica dell’Italia, esposta a un’ennesima crisi causata dall’incapacità dei partiti di trovare intese. Alfano non aspetterebbe inerte la cancellazione del suo partito a tavolino, si aprirebbe una crisi; e l’Italia perderebbe così anche quest’anno, mentre perfino la Francia socialista annuncia un massiccio piano di tagli di tasse e spesa pubblica.

Ma Renzi ha mostrato ieri di aver capito che uno scenario di caos affonderebbe anche la sua riforma. Per questo ha promesso, così come Berlusconi, che la soluzione finale sarà accettabile anche per gli altri partiti della maggioranza. Con Alfano si sta trattando su un modello elettorale che assomiglia solo pallidamente allo spagnolo caro a Verdini: si tornerebbe cioè a un proporzionale con liste bloccate, seppur corte, e a un premio di maggioranza, seppur condizionato al superamento di una soglia. Non si può dire che sia il viatico di una Terza Repubblica, né che dia certezze di governabilità. Vedremo: la strada parlamentare è ancora lunga. Ma è fuor di dubbio che prima la pressione di Napolitano, poi la sentenza della Consulta e oggi la forte accelerazione di Renzi abbiano finalmente riacceso un motore che sembrava destinato a marcire per sempre nella palude della politica italiana.

19 gennaio 2014
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_19/motore-si-riacceso-a26e11aa-80d7-11e3-a1c3-05b99f5e9b32.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Marzo 06, 2014, 12:05:35 pm »

Quel filo ormai troppo sottile
Si logora il patto sulle riforme

Il filo da acrobata su cui Renzi cammina ha resistito alla prima prova della legge elettorale, ma si è fatto molto più sottile. Ora che è al governo, il premier ha dovuto scegliere tra le due maggioranze, e ha ovviamente preferito quella di governo. Più ancora che Alfano, a imporlo è stato il Pd. Dal Pd non renziano, tuttora in maggioranza a Montecitorio, viene l’emendamento vincente che limiterà la riforma elettorale alla Camera, e da quel Pd Renzi rischiava, in caso contrario, una sonora bocciatura in Aula. Berlusconi, il contraente dell’altro patto, ha dovuto accettare, seppure con «grave disappunto». Per un po’ di tempo il Cavaliere non potrà fare molto altro. Da oggi le due maggioranze di cui disponeva Renzi si sono ridotte a una e mezza: quella con Alfano, che si allarga a Berlusconi sulle riforme. D’altra parte, l’ultima volta che una doppia maggioranza ha funzionato risale ai tempi di De Gasperi a Palazzo Chigi e Terracini alla Costituente. Altri uomini.

Il compromesso trovato ieri ha una sua logica. «Avremmo fatto ridere il mondo con una riforma elettorale inapplicabile per il Senato», ha detto ieri il senatore Quagliariello, e ha ragione. Però la soluzione escogitata non suscita minore ilarità: una riforma applicabile solo alla Camera. Il che vuol dire che se per caso o per scelta il Parlamento non eliminerà del tutto il Senato elettivo, alle prossime votazioni avremo un sistema che dà certamente una maggioranza a Montecitorio e altrettanto certamente non la dà a Palazzo Madama. Provate a spiegarlo a un marziano, o anche a un tedesco. Se si aggiungono le tre soglie diverse, un premio di soli sei seggi e la deroga alla Lega, si apprezza fino in fondo l’«esprit florentin» della riforma che sta nascendo.

Come tutte le soluzioni a metà anche quella trovata ieri contiene una buona opportunità ma anche un immenso rischio. Garantisce al Parlamento il tempo necessario, gliene servirà più di un anno, per cambiare la Costituzione. Ma il fallimento, o la dilazione alle calende greche, stavolta ci precipiterebbe in una situazione perfino peggiore di un pessimo passato.

Sospettare che qualcuno dei giocatori stia barando sotto il tavolo è del resto legittimo. Suona infatti strano che, mentre tutti la danno per scontata, non sia stata in realtà neanche presentata da Renzi una bozza di riforma del Senato. Eppure aveva indicato un cronoprogramma che ne prevedeva entro l’estate l’approvazione in prima lettura, e proprio al Senato.

È quello il vero ostacolo della corsa. E non è un caso se la proposta di legge non c’è ancora. Il fatto è che il progetto iniziale di Renzi non convince: in molti, pare di capire anche nella Consulta, hanno seri dubbi a trasformare la Camera Alta in una sorta di Cnel di sindaci piuttosto che in un Bundesrat alla tedesca. È giunto dunque il momento di scegliere. Ieri il premier ha salvato la velocità della macchina che ha messo in moto, ora deve indicare il traguardo.

05 marzo 2014
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_05/quel-filo-ormai-troppo-sottile-9bbf6098-a42c-11e3-9bdf-bc722bc1b030.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Aprile 06, 2014, 05:45:29 pm »

L’EDITORIALE
Le acrobazie di una doppia maggioranza
Il Berlusconi che ha minacciato di ritirarsi dal processo delle riforme è lo stesso che fece saltare le stesse riforme ai tempi del governo Letta

di ANTONIO POLITO

Prima o poi doveva accadere. La doppia maggioranza, una con Berlusconi e una senza, era insieme obbligata e spericolata, un filo di acrobata vertiginosamente teso sopra le vicende umane e giudiziarie di un leader a fine carriera. D’altra parte il Berlusconi che ieri ha minacciato di ritirarsi dal processo delle riforme è lo stesso che fece saltare le stesse riforme ai tempi del governo Letta, dopo la sua condanna in Cassazione.

Ciò nonostante un brivido di allarme ha percorso l’intero mondo politico quando il capo di Forza Italia, a pochi giorni dagli arresti domiciliari o dall’affidamento ai servizi sociali, ha annunciato che, cosi com’è, il suo partito non voterà la legge che trasforma il Senato. Perché quella legge è un po’ l’architrave di tutto l’attuale, e fragile, edificio politico: senza di quella, la legge elettorale approvata alla Camera non vale nulla, e dunque anche la legislatura vale poco.

È da vedere se Berlusconi fa sul serio. Potrebbe star solo tentando di riaccendere i riflettori su di sé e su Forza Italia, sempre più negletti dai sondaggi; o forse alza la voce per farsi sentire anche dal Tribunale di sorveglianza di Milano; o magari cerca di riportare un po’ d’ordine in un partito che sembra aver perso fiducia nel capo, e ne parla in privato nei termini ascoltati ieri nel fuori onda tra Toti e Gelmini.

In ogni caso, che faccia sul serio o no, vista la parziale retromarcia successiva, l’uscita di Berlusconi non va sottovalutata, e vanno approntate le contromisure necessarie per evitare che anche questa non sia la volta buona per cambiare legge elettorale e istituzioni invecchiate.

Bisogna innanzitutto districare la vicenda giudiziaria di Berlusconi da quella istituzionale. E questo può farlo solo lui. Non c’è niente, assolutamente niente che possa cambiare le cose nei prossimi dieci mesi, se non la serietà, la dignità e l’orgoglio del suo comportamento. Berlusconi ha davanti a sé una prova molto difficile, ma può superarla solo riconquistando nel servizio al Paese, e alle riforme di cui ha bisogno, l’onore politico ferito dalla sentenza.

Poi però bisogna districare le riforme dalla campagna elettorale, e questo spetta a Matteo Renzi. Non si può cambiare di corsa il sistema parlamentare solo perché tra due mesi ci sono le Europee e le riforme devono essere portate come uno scalpo sulle piazze. Renzi ha il dovere di ascoltare le critiche, quelle dei professoroni di sinistra alla Zagrebelsky e quelle dei professorini di destra alla Brunetta. Deve accettare il fatto che il suo progetto di Senato presenta molti limiti e contraddizioni, e che in queste materie gli errori di precipitazione non sono ammessi perché producono effetti per i prossimi cinquant’anni. Invece di cercare un accomodamento privato con Berlusconi, Renzi deve trovare in un libero e trasparente dibatto parlamentare le buone ragioni di una riforma cui l’opposizione non possa dire no per motivi strumentali o irrazionali.

È vero che il premier potrebbe anche sfidare Berlusconi: approvare la sua riforma a maggioranza semplice e poi farsela confermare con un referendum popolare. Ma senza la spalla di Forza Italia, Renzi dovrebbe in ogni caso consegnarsi alla volontà del corpaccione del suo partito e a quella che lui chiama «palude», dove si annidano gli istinti più conservatori in materia costituzionale. Forse gli conviene dismettere un po’ del suo arditismo elettorale per guadagnare un po’ di profondità politica. Non può insomma usare le riforme per prendere voti a Berlusconi, almeno non con i voti di Berlusconi. Ma non può perderle senza perdere il consenso degli italiani. Per il giovane e scapestrato fiorentino è giunta l’ora della maturità.

6 aprile 2014 | 09:28
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_06/acrobazie-una-doppia-maggioranza-b4889e26-bd5b-11e3-b2d0-9e36fa632dc6.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Aprile 15, 2014, 05:48:33 pm »

C’eravamo tanto uniti

Di ANTONIO POLITO

La sinistra che non cambia, dice Renzi, diventa destra. Ma che succede alla destra che non cambia? Difficile dirlo, in un Paese che dopo la caduta della Destra storica, nel 1876, ha dovuto aspettare 118 anni prima che un’altra destra democratica, risvegliata dal bacio di un Cavaliere, tornasse all’onor del mondo.

Oggi che la vicenda cominciata nel 1994 si avvia alla conclusione, sempre più il ruolo storico che vi ha svolto Berlusconi sembra simile a quello che Tito ha impersonato per la Jugoslavia: appena uscito di scena il fondatore, appena sollevato il velo di un’unità fittizia steso su divisioni profonde e irriducibili, tutto è tornato al passato, conflitti e scontri e odi, fino alla dissoluzione dell’effimera creatura. Diventa insomma sempre più difficile pronosticare per il centrodestra italiano l’esito felice che consentì al gollismo di sopravvivere al ritiro del suo fondatore; e sempre più probabile uno scenario di guerra civile interna, di stampo per l’appunto jugoslavo.

La ragione è facile da capire: in tutti questi anni non si è mai lavorato a costruire una cultura comune del centrodestra, un set di valori indipendenti dalle persone che di volta in volta li incarnavano. I dirigenti dei partiti di quell’area politica, da Forza Italia a Ncd, dalla Lega a Fratelli d’Italia, all’Udc, non sono d’accordo sull’essenziale. Che si tratti della fecondazione eterologa o della riforma del Senato, hanno opinioni diverse. Alcuni sono europeisti altri euroscettici, ci sono i putiniani e gli amerikani . Per due decenni queste culture politiche sono state sommate, non fuse. Oggi si vede. Ormai lottano l’una contro l’altra per sopravvivere.

Un tale vuoto è stato finora dissimulato e nascosto dalla forza primordiale dell’unico istinto comune al centrodestra e maggioritario nel Paese: la rivolta anti-tasse. Cosicché anche quando i governi Berlusconi non sono stati in grado di ridurle, sono pur sempre apparsi all’elettorato il più efficace baluardo contro chi le tasse le avrebbe certamente aumentate: il centrosinistra. Ma oggi questo collante, questo moltiplicatore automatico di voti, non è più utilizzabile; perché la sinistra ha rotto il tabù fiscale, e sulle tasse dice ormai - e vedremo se Renzi manterrà le promesse, i dubbi sono legittimi - le stesse cose della destra. Alla quale, dunque, tocca trovare un nuovo senso, oltre che un nuovo leader.

Senza questo sforzo sarà difficile ricomporre l’unità politica del centrodestra, rotta dalla sciagurata decisione di Berlusconi di mollare il governo Letta. Oggi, come ha detto Paolo Romani, «il centrodestra è debolissimo al governo e debolissimo all’opposizione». Berlusconi ha buttato a mare una maggioranza di cui deteneva la golden share ; e per riconquistare poi un minimo di influenza ha dovuto portare a Palazzo Chigi il suo più formidabile avversario, e consegnargli le chiavi del suo elettorato.

Non c’è più molto tempo. Se i vari tronconi del centrodestra arriveranno divisi e in funzione di ascari all’appuntamento fatale con un nuovo patto costituzionale, rischiano di scomparire dalla geografia della Terza Repubblica, dopo aver inventato e dominato la Seconda.
14 aprile 2014 | 07:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_14/c-eravamo-tanto-uniti-6806f126-c394-11e3-a057-b6a9966718ba.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Aprile 28, 2014, 12:09:11 pm »

Dietro la svolta di Berlusconi
La tentazione elettorale

di ANTONIO POLITO

Come se fosse uscito da un lungo letargo esistenzial-giudiziario, Silvio Berlusconi è tornato ieri a ruggire all’antica maniera. Con l’eccezione dei magistrati, verso i quali sono evidenti toni più evasivi, dovuti alla sua nuova condizione di condannato in prova ai servizi sociali, non ha risparmiato nessuno. Nemmeno il capo dello Stato, contro il quale ha scagliato vecchie accuse condite di nuove maldicenze, sempre nel tentativo di attribuire a oscuri «complotti» i guai che alla luce del sole costrinsero alle dimissioni il suo ultimo governo.

Ma il piatto forte della rentrée a Porta a Porta è stato senza dubbio il passaggio di Berlusconi all’opposizione di Renzi. Non solo e non tanto sui provvedimenti economici (gli 80 euro in busta paga li ha definiti una «mancia elettorale» che a lui non sarebbe stata mai permessa); quanto piuttosto sull’intero processo delle riforme. Pur senza dichiarare morto il suo patto con il premier, e anzi ribadendo che lui intende restarvi fedele, il leader di Forza Italia ne ha fatto a brandelli i prodotti legislativi. La riforma del Senato così com’è per lui non è votabile, e per quanto lo riguarda nemmeno sul mandato non più elettivo dei senatori c’è accordo. Ma Berlusconi ha aggiunto di aver scoperto all’improvviso, parlando con alcuni costituzionalisti, che l’Italicum stesso, la riforma elettorale che era il punto centrale dell’intesa del Nazareno, potrebbe essere incostituzionale. Dunque urge ulteriore riflessione. Dunque entro il 25 maggio, data delle Europee, non se ne farà niente.

Man mano che l’anziano leader parlava, e le forze di un tempo sembravano rianimarlo, abbiamo visto in azione una legge ferrea della politica: Berlusconi non può fare una campagna elettorale con un minimo di chance di successo tirando da un lato la volata a Renzi e pagandone dall’altro il prezzo a Grillo. I sondaggi si sono incaricati di confermare ciò che Toti sussurrava sottovoce e fuori onda alla Gelmini: l’abbraccio col giovane fiorentino può davvero rivelarsi mortale per Forza Italia. Stupisce piuttosto che qualcun altro possa aver sperato di condurre una vecchia volpe come Berlusconi in pellicceria senza che lui se ne accorgesse, e alla vigilia di un turno elettorale.

Intendiamoci: il tavolo delle riforme non è affatto saltato. E Berlusconi è stato attento a non farlo saltare. È ibernato. Semplicemente il leader di Forza Italia non intende concedere a Renzi di presentarsi alle urne come il salvatore della patria. Il futuro dell’accordo dipenderà ora dai risultati elettorali, e sarà sottoposto a nuove e imprevedibili condizioni, perché può intrecciarsi con la lotta interna al Pd e con l’opposizione sempre più manovriera dei grillini.

La lunga luna di miele di Renzi sembra finita ieri, e le riforme non sono più un pranzo di gala. Per salvarle, perché vanno salvate, perché l’Italia le aspetta, ci sarà bisogno di molta più pazienza, prudenza e trasparenza di quanta finora ne sia stata messa in campo, e di un risultato elettorale che consenta di rilanciarle. Renzi deve ora sperare non solo in un suo successo, ma anche in una tenuta di Forza Italia. Se Grillo la scavalcherà, infatti, nessuno può dire come andrà a finire.

25 aprile 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_25/tentazione-elettorale-a99b85fa-cc42-11e3-bd55-1293c86c2534.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Maggio 06, 2014, 04:48:21 pm »

L’errore (non lieve) del Premier polemista

Di ANTONIO POLITO

Per molti italiani, e non da oggi, il sindacato è effettivamente un fattore di conservazione sociale e di freno al cambiamento. Solo per pochissimi italiani, invece, il signor Piero Pelù merita di essere preso sul serio quando si abbandona alle sue elucubrazioni storico-politiche, soprattutto quando ha un libro in uscita. Eppure, nonostante ciò, a nessuno dovrebbe piacere il modo in cui il presidente del Consiglio e i suoi infaticabili ventriloqui hanno di recente zittito l’uno e l’altro. C’è infatti nello stile polemico di Renzi qualcosa che inquieta perché travalica la questione di stile: un ricorso troppo frequente alla denigrazione. Fateci caso: chiunque muova critiche al governo viene additato come portatore di un interesse personale e poco nobile che spiegherebbe la vera ragione del suo dissenso. La Cgil parla contro il decreto sul lavoro perché gli è stato tagliato il monte ore dei permessi sindacali; il cantante dal palco del Primo Maggio rompe perché ha perso un incarico retribuito a Firenze; i funzionari del Senato, che per dovere d’ufficio devono dare un parere sui decreti, dichiarano i loro dubbi sul bonus di 80 euro solo per vendicarsi della imminente riforma del Senato. E via dicendo. A tutti viene di solito rinfacciato che per il loro lavoro ricevono un compenso, come se fosse un’aggravante.

C’è un’infinità di critiche politiche motivate e spesso giuste che possono essere rivolte ai critici di Renzi (basti pensare ai danni prodotti dal conservatorismo costituzionale). Ma invece di impegnarsi sul terreno della discussione trasparente e nel merito, che accetta la buona fede dell’avversario, sempre più spesso si ricorre a quella che gli americani chiamano character assassination , la denigrazione pubblica: in pratica una forma di gogna mediatica che offre a una piazza sempre più incattivita un capro espiatorio con cui prendersela.

E non è solo una questione di bon ton: il dilagare di questo stile, che a dire il vero non ha inventato Renzi ma che Renzi sta sublimando, rischia infatti di restringere quella che Habermas ha chiamato la «sfera pubblica», e cioè l’ambito in cui gli individui possono esercitare la loro critica contro il potere dello Stato. In un’epoca in cui i Parlamenti non contano più molto, e l’unico vero dibattito pubblico si svolge sui media, l’esito è un impoverimento della qualità della democrazia, che per essere tale ha bisogno di una cittadinanza attiva, informata e vociferante.

Se infatti chiunque dica la sua, magari anche in nome di interessi corporativi o di categoria (come è spesso nel caso dei sindacati, compresi quelli dei giudici e dei prefetti), viene dichiarato non attendibile perché sta solo difendendo un privilegio personale, il nuovo potere è legittimato a non ascoltare più il dissenso, ergendosi a unico e infastidito interprete della «volontà generale».

Non è proprio il modo in cui funzionano le società aperte e liberali. È piuttosto un corto circuito che abbiamo visto spesso all’opera nelle rivoluzioni. Ci auguriamo che non sia a questo che si riferisce il premier quando dice che sta facendo «una rivoluzione».

6 maggio 2014 | 07:54
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_06/errore-non-lieve-premier-polemista-16fc5186-d4e2-11e3-b55e-35440997414c.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Maggio 10, 2014, 07:03:17 pm »

La ragnatela degli affaristi

Di ANTONIO POLITO

Puoi sciogliere il Pci, il Pds, i Ds, ma non puoi sciogliere Primo Greganti. Puoi sciogliere la Dc, ma non Gianstefano Frigerio. La lezione dell’inchiesta di Milano, anche se finisse con una raffica di assoluzioni, è che non basta abbattere i partiti o cambiargli nome per risanare la politica. Anzi: la malapolitica senza partiti può essere perfino peggio. I faccendieri, gli intrallazzatori e i tangentari esisteranno finché ce ne sarà richiesta sul mercato, cioè finché saranno necessari per fare incontrare «imprenditori a caccia di appalti e manager pubblici a caccia di carriere», come ha scritto ieri Luigi Ferrarella sul Corriere. E questo accadrà fin quando sarà la politica a distribuire appalti e carriere, gare e presidenze di enti.


Per moralismo, per non imitare gli americani, non abbiamo portato alla luce del sole il lavoro di lobbying, inevitabile quando più privati competono per ottenere commesse pubbliche. E dunque ci teniamo l’immoralità di scambi che avvengono al buio tra chi può e chi paga, intermediati da chi conosce. Non è cambiato infatti l’essenziale. Nascosta sotto una foresta di norme astruse e inefficaci che dovrebbero garantire la trasparenza, è rimasta intatta la discrezionalità del potere politico; il prezzo con cui ci si aggiudica una gara non conta niente perché tanto poi lo si può rialzare; imprese finte e imprese vere sono messe sullo stesso piano in un’economia di relazione dove conta non quello che sai fare, ma a chi sai arrivare.


C’è una differenza con vent’anni fa, ed è che allora i grandi partiti prendevano il 5%, e oggi al circolo Tommaso Moro di Milano, secondo l’accusa, bastava lo 0,80%. Ma attenzione a credere che Greganti e Frigerio siano due vecchi giapponesi rimasti a combattere da soli nella giungla di Tangentopoli: rappresentano tuttora la commistione tra affari e politica. Il Signor G, scrive il Gip, è ancora «persona legata al mondo delle società cooperative di area Pd», e nelle intercettazioni ne spuntano molte di coop rosse per cui si prodigava. E Frigerio poteva ancora promettere incontri ad Arcore e biglietti di raccomandazione a un ministro.


Per questo sembra un po’ semplicistico liquidare la questione, come ha fatto ieri Renzi, auspicando che «la politica non metta becco». Perché se la politica non cambia il modo in cui gestisce il denaro pubblico, a metterci il becco rimarrà di nuovo e soltanto l’opera di repressione dei magistrati, e tra vent’anni saremo ancora qui. C’è poi una seconda grande differenza con Tangentopoli: ed è che stavolta la Procura di Milano è divisa. Il coordinatore del pool per i reati contro la pubblica amministrazione, Alfredo Robledo, non ha firmato i provvedimenti. Il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, ha spiegato che il suo collaboratore «non condivideva l’impostazione dell’inchiesta».

Questo vuol dire che era possibile un’altra impostazione? Che dietro lo scudo dell’obbligatorietà dell’azione penale esiste invece un margine cospicuo di discrezionalità, che si può scegliere un modo o un altro di esercitarla, e tempi diversi? E se sì, meglio affrettare gli arresti prima che sia troppo tardi per salvare l’Expo, o meglio evitare di farli in piena campagna elettorale? Questi dubbi sono oggi legittimi, e non giovano alla credibilità dell’azione dei magistrati. E anche di questo la politica non dovrebbe lavarsi le mani.

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10 maggio 2014 | 09:51

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_10/ragnatela-affaristi-d2539db2-d817-11e3-8ef6-8a4c34e6c0bb.shtml
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« Risposta #70 inserito:: Maggio 18, 2014, 05:06:14 pm »

Renzi-Grillo

La Sinistra alle prese con tutti i suoi limiti
Ogni elezione fa storia a sé. Come andranno le prossime Europee? Una riflessione


Di ANTONIO POLITO

Ogni elezione fa storia a sé. Ma per capire se le prossime Europee cambieranno davvero l’equazione politica

italiana, bisognerà considerare due elementi finora abbastanza trascurati. Il primo riguarda il risultato che

andrà ai Democratici. I sondaggi, finché sono stati pubblicati, pronosticavano un ottimo esito per il partito di

Renzi. Ma comunque dentro il limite storico della sinistra italiana. Come infatti racconta Claudio Cerasa nel suo

“Le catene della sinistra”, «che ci si creda o no il suo più grande partito, alla Camera, in tutte le elezioni

politiche ha sempre preso gli stessi voti». È la regola dei dodici milioni: quelli che ottenne Veltroni nel 2008,

l’Ulivo di Prodi nel 2006, Ds e Margherita sommati nel 2001, e perfino il Pci nel 1976.

Un terzo dell’elettorato. Quando è andata male, ne ha presi anche di meno. Ma quando è andata bene, anzi

benissimo, mai più di così.
La statistica è interessante perché Renzi sta compiendo un’operazione, di cui la sinistra aveva da tempo bisogno,

per spezzare queste catene cambiando il suo elettorato. Visto che l’Italia non si adegua alla sinistra, Renzi

prova ad adeguare la sinistra all’Italia. In realtà anche Veltroni e Berlinguer allargarono temporaneamente i

confini della sinistra, ma non ne cambiarono il DNA, dunque non riuscirono a insediarsi stabilmente tra coloro che

si sentono di non-sinistra.

Sembra che Renzi stia avendo successo nel raggiungere un elettorato nuovo, ma non è chiaro se riuscirà a sommarlo

al vecchio. Nel giudicarne il risultato bisognerà dunque capire se con lui la sinistra riuscirà finalmente a

superare il suo recinto storico.

Se così non fosse, infatti, l’intera strategia renziana zoppicherebbe. Il premier ha appena fatto approvare alla

Camera una legge elettorale che fissa al 37% l’asticella per prendere tutto al primo turno proprio nella

convinzione di poterci arrivare da solo o quasi. Ove mai questo si dimostrasse irrealistico, anche per il

progressivo allontanamento da quell’altro spezzone della sinistra che tifa ormai Tsipras e Camusso, allora anche

per il Pd l’Italicum non darebbe più garanzie. Ecco perché a Renzi non basta far meglio del suo predecessore; deve

fare meglio del meglio se vuole aprire un’era nuova.

Il secondo elemento da considerare sarà il risultato di Grillo. Se infatti il Movimento 5 Stelle confermasse o

addirittura superasse le percentuali di un anno fa ci troveremmo di fronte a un vero e proprio rebus politico.

Appena quest’inverno, dopo la condanna di Berlusconi e la sua uscita dal governo Letta, sondaggisti e commentatori

davano in grave crisi il movimento grillino, peraltro squassato da polemiche e defezioni interne.

Che cosa è successo, dopo di allora, per rivitalizzarlo? Come mai proprio il governo Renzi, nato per isolarlo,

l’avrebbe galvanizzato? Il ritorno in scena di Berlusconi come padre costituente, e di Primo Greganti come

archetipo delle tangenti, hanno certamente aiutato la rimonta dell’ex comico.

Ma una sua forte affermazione alle europee significherebbe qualcosa di più profondo e duraturo. Vorrebbe cioè dire

che l’impermeabilità di una parte maggioritaria dell’elettorato italiano al messaggio della sinistra si perpetua

anche in presenza di una sinistra molto rinnovata e in assenza di una destra competitiva. Un tale risultato può

cristallizzare l’anomalia politica italiana anche oltre il ventennio berlusconiano, negandoci ancora e chissà per

quanto tempo un bipolarismo di stampo europeo, tra una destra e una sinistra entrambe moderate.

17 maggio 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_17/sinistra-prese-tutti-suoi-limiti-d43ad052-dd83-11e3-9bca-

c6f1cdc28cdd.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Maggio 24, 2014, 06:18:06 pm »

Come farsi male (e tanto) da soli
Di ANTONIO POLITO

Sarà forse una nuova macchinazione internazionale, questo ritorno dello spread tra i guai dell’Italia? Un altro «grande imbroglio», un nuovo «complotto» con il quale, complice al solito il capo dello Stato, entità straniere tentano di buttar giù anche Renzi, dopo averlo fatto con Berlusconi? In attesa di scoprirlo tra qualche anno dalle tardive memorie di un ex ministro o di un ex premier, per ora non si può dare che una spiegazione più prosaica: ci stiamo facendo male da soli, l’organismo debilitato e fiacco del nostro sistema politico sta avendo una ricaduta.

I fondamentali del Paese non sono del resto tanto cambiati. Il debito pubblico è immane come tre anni fa, anzi di più. Il segno davanti alla cifra del Pil è sempre negativo. Governo e Parlamento faticano a tenere sotto controllo la spesa più o meno come al solito. Ma a questa costante economica del caso italiano si sta di nuovo aggiungendo un rischio squisitamente politico. Gli inglesi lo chiamano «slippage », letteralmente scivolata, metaforicamente una situazione in cui un sistema non sembra più in grado di realizzare un obiettivo o di mantenere una scadenza, e quello che può accadere tra il momento in cui gli investitori comprano Italia e il momento in cui vendono diventa di nuovo incerto, imprevedibile, insicuro.

Nell’estate del 2011 esportammo, nel pieno della crisi dell’euro, ingovernabilità. L’esecutivo non aveva più maggioranza, era squassato al suo interno, il ministro del Tesoro non firmava i provvedimenti di Palazzo Chigi, le raccomandazioni della Bce restavano disattese, le promesse fatte a Bruxelles non venivano mantenute. Nessun governo dei Paesi travolti dalla crisi, dalla Spagna alla Grecia, resse alla tempesta.

Perché mai avrebbe dovuto sopravvivere il nostro, che già non c’era più?

Oggi invece, a poche ore dall’apertura delle urne europee, stiamo esportando instabilità. Non si tratta tanto del fatto che l’Italia può mandare la più numerosa pattuglia di parlamentari antieuro a Bruxelles: questa si chiama democrazia, se gli italiani sono diventati in pochi mesi i più euroscettici del Continente è nel loro diritto usare la scheda elettorale per farlo sapere, e del resto in forme e numeri più o meno analoghi accadrà anche in Francia o in Gran Bretagna (non in Germania). Se l’Europa esiste, sarà in grado di sopravvivere a un voto.

Quello che invece è anormale, perché non accade altrove, è che un tale risultato può far saltare l’intero fragilissimo equilibrio su cui si reggono come acrobati governo e Parlamento, togliendo valore e credibilità a tutti i nostri impegni, rendendoci di nuovo debitori inaffidabili.

Questa situazione è colpa di Grillo, che appicca incendi per prendere voti senza l’onere di proporre soluzioni. Ma è colpa anche di chi doveva fronteggiarlo e invece l’ha inseguito, nella speranza di contendergli quei voti. Da un’opposizione seria come quella che dice di incarnare Berlusconi, e da un governo responsabile come quello che Renzi vuole rappresentare, ci si doveva aspettare un’agenda diversa, e precisamente l’indicazione di ciò che l’Italia farà e sarà in Europa dopo il voto, qualche idea su come condividere la moneta con i tedeschi senza ridursi come i greci. Invece l’agenda l’ha fatta Grillo, da Dudù a Francantonio Genovese. Il resto d’Europa ha visto, e ha preso nota.

22 maggio 2014 | 09:37
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_22/come-farsi-male-tanto-soli-82a293ea-e172-11e3-8be9-3eb4fd26c19b.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 01, 2014, 04:51:54 pm »

Il commento

Fini, la politica come dipendenza
Quelli che non vogliono smettere
L’ex leader di An pensa a un nuovo movimento, ma non è il solo a volerci riprovare

Di ANTONIO POLITO

Più che esecrarli, dovremmo provare a capirli, e imparare a compiangerli, i politici che non vogliono mai smettere. In un Paese dove tutte le persone normali sognano di andare al più presto in pensione, loro in pensione non vorrebbero andarci mai. È una condanna, non una scelta. Come tossicodipendenti all’ultimo stadio, non riescono a porre fine al loro vizio, e se le inventano tutte pur di continuare.

C’è chi fonda un movimento, in mancanza di meglio, per «tornare a essere presente nel dibattito politico», come Gianfranco Fini ha annunciato appena qualche giorno fa. C’è chi non disdegna la carica di sindaco del suo paesino natale, come l’ultraottantenne Ciriaco De Mita, che pure è stato presidente del Consiglio, e segretario di partito, e pluriministro. C’è chi si infuria perché non è stato eletto alle Europee e se la prende non con gli elettori, ma con i capi bastone del suo partito che l’avrebbero tradito: è il caso di Clemente Mastella. E c’è chi, come Massimo D’Alema, sarebbe pronto perfino a trascurare il suo buen ritiro agreste nella campagna umbra, i suoi exploit enologici e il suo giuggiolo da 1.500 euro, pur di aver dall’ex odiato Renzi un qualche incarico in Europa.

Bisogna compatirli perché non tutti lo fanno per soldi o per sete di potere. Oddio, qualcuno sì. L’ineffabile Scajola, per esempio, raccontava alla sua amata amica monegasca che se avesse avuto la ricandidatura da Berlusconi, e con essa uno stipendio da europarlamentare, certe cosucce e certe casucce si sarebbero potute sistemare meglio e in fretta. E l’Italia in effetti pullula di ex politici di rango nazionale che, come la risacca, si ritirano in provincia ad occupare poltrone di presidente e consigliere di amministrazione di questo o di quello, nella proliferazione di società pubbliche inutili che non chiudono mai, e sopravvivono perfino alle Province.

Ma, nel complesso, si tratta di una malattia, più che di una bramosia.
L’ex politico finito avverte in maniera cocente l’umiliazione di non essere più ascoltato, soffre di non poter più indicare la via ai suoi seguaci, langue in un ozio non più vitalisticamente interrotto da telefonate, messaggi, richieste di aiuto, segnalazioni di problemi. È dunque disposto anche a una platea ridotta, di periferia, di seconda fila, pur di riavere l’ebbrezza di una leadership. Oppure tenta di ovviare alla mancanza di azione fingendo un pensiero, e giù libri, fondazioni, convegni, riviste.

In qualche caso, più semplicemente, non sa riadattarsi alla vita civile, come capitava ai soldati che tornavano dalla guerra, magari ha sempre girato senza uno spicciolo in tasca, chaperonato da una scorta o da una segretaria, non è neanche capace di sfogliare i giornali perché li ha sempre letti nella rassegna stampa della Camera, e non sa dove lasciare il cappotto e la borsa se non ha un’auto e un autista che lo aspetta.

È insomma un disadattato, ci vorrebbero degli ospedali appositi, per la riabilitazione psico-motoria. In Gran Bretagna ne hanno davvero inventato uno. Si chiama Camera dei Lord, ed è il luogo dove vanno a passare l’inverno della loro vita i politici che non contano più nulla. Renzi ci potrebbe pensare: un Senato così gli dovrebbe piacere.

1 giugno 2014 | 10:21
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_01/fini-politica-come-dipendenza-quelli-che-non-vogliono-smettere-f7a55ade-e964-11e3-b53f-76c921903500.shtml
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« Risposta #73 inserito:: Giugno 10, 2014, 11:30:32 am »

LO SCARICABARILE DELLA POLITICA
Troppa ipocrisia sulle inchieste

Di ANTONIO POLITO

Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, «non è un iscritto al Pd». Del resto anche Walter Veltroni non era mai stato comunista e Primo Greganti era solo una mela marcia. La tentazione di rimuovere, vizio antico a sinistra, non ha però retto a lungo. Ieri Renzi ha dovuto smentire i suoi che avevano cominciato il giochino dello scaricabarile tra chi c’era prima e chi c’è adesso, e mettere in capo al suo partito le responsabilità che ha nel sistema delle tangenti, trasversale come poche altre cose in Italia. Del resto, la favoletta che il meccanismo della corruzione si interrompa automaticamente mettendo i nuovi al posto dei vecchi è la stessa che ci raccontammo dopo Tangentopoli. Sciogliemmo tre o quattro partiti, ne fondammo di nuovi, cambiammo tre quarti del Parlamento, e dopo vent’anni siamo di nuovo lì, anzi peggio. All’epoca, tanto per dire, Galan era uno dei nuovi, arrivati dalla società civile a ripulire il sistema dei politici di professione e per questo corrotti.

Ma il presidente del Consiglio ha fatto ieri anche un’altra importante virata. Dopo lo scandalo Mose aveva detto che «il problema sono i ladri, non le regole». Ieri, forse per giustificare le difficoltà che sta incontrando nel riscrivere le regole e definire i poteri del commissario Cantone, ha ammesso che «il problema non riguarda solo i ladri, ma anche le guardie». Sembra quest’ultimo l’approccio giusto.

Bisogna infatti uscire dall’ipocrisia cui stiamo assistendo anche di fronte a questa nuova, clamorosa conferma che l’Italia è una repubblica fondata sulla corruzione, seconda nel mondo sviluppato solo al Messico e alla Grecia: un Paese che pur avendo più di duemila miliardi di debito pubblico ne riesce a buttare 60 all’anno in mazzette. È l’ipocrisia di chi convive giorno e notte con la corruzione e la vede solo quando un procuratore la svela. L’ipocrisia di organizzazioni, dai partiti alla Lega Coop alla Confindustria, che potrebbero fare meno convegni sulla legalità e più verifiche interne sullo standard etico dei propri iscritti.

Prendiamo il caso della Mantovani, il cui ex presidente ha svelato ai giudici il sistema Mose. Ebbene, la stessa impresa dello scandalo di Venezia aveva vinto un mega appalto per l’Expo di Milano con il sistema del massimo ribasso, offrendo uno sconto, scandaloso perché fece scandalo, di 107 milioni su 272. Salvo poi chiedere proprio in questi giorni 120 milioni di aggiornamento perché i costi dell’opera sono cresciuti. Diritto penale a parte, è ancora in Confindustria, nonostante Squinzi si sia detto «un talebano» in materia ed abbia annunciato espulsioni. E anche per quella azienda vale il principio ribadito dal direttore generale di Confindustria, secondo il quale un’impresa non può essere commissariata? La verità - come ha scritto chi studia il fenomeno - è che «oggi sul mercato delle opere pubbliche se non sei corrotto o corruttibile o corruttore non sei competitivo». E questo fatto è accettato anche dagli onesti. Ma la novità e la gravità dello scandalo Mose sta nel fatto che il consorzio che corrompeva i politici non aveva neanche concorrenti; pagava dunque solo per tenere in funzione il sistema idraulico dei finanziamenti, ormai produceva tangenti più che dighe, e per questo i lavori non dovevano finire mai. E se i corrotti davvero intascavano milioni, vuol dire che il margine di profitto dei corruttori era enorme.

Il numero di persone che ha detto in questi giorni «qualcosa a Venezia si sapeva» è sorprendente. Nessuno però ha spifferato quello che «si sapeva» finché non è finito in manette; perché nel mondo anglosassone il wistle-blower, colui che dall’interno di un sistema canta, diventa un eroe; mentre qui la corruzione, in fin dei conti, non ha la stessa sanzione reputazionale. Altrimenti Greganti non avrebbe avuto accesso al Senato, e Frigerio non avrebbe presieduto una fondazione intitolata a San Tommaso Moro.

Anche nei proclami di lotta (futura) alla corruzione si avverte una nota falsa. L’altro giorno il presidente dei giovani industriali ha detto: «Fuori da Confindustria chi corrompe, ma anche chi abbandona l’Italia». Ecco, mettere sullo stesso piano un comportamento economico come delocalizzare e un comportamento illegale come rubare è la prova che il secondo è considerato più come un espediente che come un reato. Il patriottismo è una scelta, l’etica dovrebbe essere un obbligo.

Neanche la retorica del governo è rassicurante. È tutto un fiorire di paragoni col calcio, come se il pallone in Italia potesse essere portato a esempio di efficienza e onestà. Renzi vuole applicare una sorta di Daspo (il divieto di ingresso agli stadi) ai politici condannati in via definitiva. Ma non l’aveva già stabilito la legge Severino? Senza considerare che l’ultrà romanista che ha quasi ammazzato il tifoso napoletano il pomeriggio della finale di Coppa Italia il Daspo già ce l’aveva, e ciò nonostante girava armato nei pressi dello stadio.

8 giugno 2014 | 08:37
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_08/troppa-ipocrisia-inchieste-ebbf0a60-eed4-11e3-9927-6b692159cfdc.shtml
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« Risposta #74 inserito:: Giugno 23, 2014, 10:40:32 pm »

LO SCANDALOSO BLOCCO SINDACALE
Pompei, Italia ultima vergogna

Di ANTONIO POLITO

Ieri mattina erano «solo» cinquecento i turisti che, dopo aver solcato cieli e varcato mari, si sono trovati sbarrati gli Scavi di Pompei: «Chiusi per assemblea sindacale». Qualche giorno fa, quando «assemblea selvaggia» aveva colpito la prima volta, il sabotaggio a sorpresa era riuscito meglio, lasciando derelitti e sotto il sole migliaia di aspiranti visitatori provenienti da tutto il mondo. Fu proprio in seguito a quel «successo» che i sindacalisti di Cisl e Uil decisero di cavalcare l’onda, convocando le cinque assemblee consecutive, una alla mattina, che sono cominciate ieri. Per un’intricata vertenza di arretrati, incentivi e orari di lavoro, centocinquanta custodi tengono in ostaggio il sito archeologico più importante del mondo. Ciò che in qualsiasi azienda potrebbe essere risolto con un paio di incontri sindacali, si è trasformato qui in una serrata.

Eppure tra quelle rovine dell’Impero romano si sta combattendo una battaglia emblematica dell’Italia di oggi, in bilico tra decadenza e voglia di cambiare. Da un lato c’è il Grande Progetto, che con più di cento milioni finanziati dalla tanto bistrattata Unione Europea punta a un intervento straordinario per creare la Pompei di domani, all’altezza della sua bellezza. Dall’altro lato c’è il Grande Caos, l’ordinaria incuria, l’ignoranza, il corporativismo, il sindacalese, la burocrazia romana, le confusioni dei ruoli e dei poteri, tutti i tratti distintivi della nostra Pubblica amministrazione, che tentano di conservare la Pompei di oggi: un mondo in cui non si può assumere e non si può licenziare, non si può spostare o sostituire il personale che va in pensione, in cui non esistono più i giardinieri, i mosaicisti, i muratori, e le Domus vengono giù come case dirupate.

Il nuovo sovrintendente, che è lì da tre mesi, ci sta provando a rilanciare un’impresa che fa due milioni e mezzo di visitatori all’anno e 22 milioni di incassi. Proprio oggi annuncerà la riapertura agli spettacoli del Teatro Grande, la cui inagibilità è stata una delle vergogne di Pompei.

Ma è proprio quando le cose cominciano a muoversi che cresce la pressione per lasciarle come sono. E se uno insegue i grandi progetti senza cambiare i piccoli fatti, invece di andare avanti rischia di tornare indietro. È ciò che accade a Pompei. Finché la legge consente di sfruttare assemblee retribuite in orario di lavoro come armi di ricatto contro gli utenti, nessun grande progetto sarà mai realizzabile. E se i sindacati le coprono, e il ministero le subisce, chi potrà mai credere nella palingenesi della Pubblica amministrazione che il governo annuncia?

Agli occhi di un inglese o di un tedesco non c’è differenza tra Pompei e l’Italia. Questa è l’immagine che diamo di noi nei luoghi dove gli altri ci guardano. Per questo, perché Pompei è davvero una metafora dell’Italia, gli Scavi non possono restare ancora chiusi. C’è bisogno di gesti clamorosi, come quello annunciato ieri da Raffaele Bonanni, che vuole commissariare la Cisl del luogo. C’è bisogno che il ministro, che ne ha i poteri, metta fine a questa vertenza. Come molte altre cose, anche la partita di Pompei si decide a Roma.

23 giugno 2014 | 06:50
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_23/pompei-italia-ultima-vergogna-b14dc20e-fa91-11e3-a232-b010502f9865.shtml
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