LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 75254 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 06, 2012, 04:49:56 pm »

IL ROMPICAPO DELLA SOVRANITÀ

Una domanda senza risposta


Si fatica a tener dietro al valzer di vertici e incontri, piani segreti e intese pubbliche, fughe in avanti e fughe di notizie, che ogni giorno si balla in Europa. Le ultime spiagge si succedono l'una all'altra. Fino a ieri era prioritario salvare gli Stati (la Grecia). Ora bisogna salvare le banche (spagnole). Lo schema di gioco è sempre lo stesso: tutti vogliono che si tamponi la falla con i soldi tedeschi, tranne i tedeschi. La situazione si è incartata al punto tale che la Spagna rifiuta gli aiuti del fondo europeo con cui potrebbe salvare i suoi istituti di credito per non accrescere il proprio deficit pubblico. Il serpente si morde la coda. E, qui e là, cova il suo uovo, pronto a schiudersi in movimenti estremisti o fascisti.

Il senso di affanno è testimoniato dal susseguirsi di grand plan , mirabolanti ipotesi di architetture istituzionali che rischiano di arrivare quando l'edificio sarà già bruciato al fuoco dei mercati. Così, mentre la Francia, l'Italia e perfino la Germania tardano a ratificare quel Fiscal Compact che era stato indicato come la panacea, già si immaginano a Bruxelles disegni - fatti filtrare e subito smentiti - per trasformare questa claudicante Unione di 27 Stati in una sorta di Superstato sul modello degli Usa.

Eppure i termini del problema sono ormai chiari. I Paesi che hanno goduto per dieci anni di crediti con bassi tassi di interesse come se fossero la Germania, e che li hanno sperperati al contrario della Germania, non reggono più. A questo punto o saltano, e con essi salta l'euro; oppure la Germania, per salvare l'euro e se stessa, salva loro. A questo alludono tutti i tentativi di introdurre qualche forma di condivisione del debito, cioè strumenti che obblighino Berlino a garantire il debito degli altri.

Però questa strada, oggi preclusa, è percorribile solo se si comprende che nemmeno alla Germania si può imporre una deroga al principio cardine della democrazia: no taxation without representation . Lo ha notato Giancarlo Perasso su lavoce.info , e ha ragione: è impossibile chiedere ai contribuenti tedeschi di essere pronti a rimborsare gli eurobond senza che essi abbiano la possibilità di scegliere chi spende quei soldi.

È questo il rompicapo europeo. Finora è risultato inutile il tentativo di convincere i tedeschi con il ricatto o con l'appello alla solidarietà. Ma oggi, sotto la pressione perfino di Obama, si ha l'impressione che la Cancelliera Merkel stia lanciando segnali in questo senso: «Il mondo - ha detto ieri - vuole sapere come noi immaginiamo l'unione politica che va insieme all'unione monetaria». Parole analoghe aveva pronunciato qualche giorno fa Mario Draghi. Il punto è: tutti coloro che accusano la Germania di egoismo e miopia, compresa la nostra spendacciona classe politica, hanno ben chiaro che significa fare questo passo? Sono pronti a cedere cruciali poteri sovrani sul bilancio, sul welfare, sulle tasse?

Prima o poi, a questa domanda bisognerà dare risposta. E in quel momento scopriremo che non è affatto una risposta scontata, soprattutto in Francia, da sempre vero cronografo e limite del processo di integrazione. Non c'è bisogno di ricordare che fu il «sovranista» popolo francese ad affondare in un referendum la Costituzione europea. Un tempo si diceva che l'Europa è nata per nascondere la potenza tedesca e la debolezza francese. Per continuare a vivere, deve oggi riconoscerle entrambe.

Antonio Polito

5 giugno 2012 | 7:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_05/polito_abf3326e-aece-11e1-8a11-a0e309a9fded.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 17, 2012, 09:56:22 am »

LEMANOVRE PER IL VOTO ANTICIPATO

I disfattisti in agguato

Mentre Sagunto brucia, a Roma si succedono riunioni di congiurati per decidere come buttare giù il governo prima dell’estate e provocare così le elezioni anticipate a ottobre.La voglia di far saltare tutto, si sa, serpeggia da tempo in entrambi i maggiori partiti. Ma se nel Pd Bersani ha l’autorità per zittire un Fassina, nel Pdl pare che Alfano non ne abbia abbastanza per mettere a tacere una folta schiera di sediziosi, ex ministri berlusconiani ed ex colonnelli finiani. Come dice sconfortato uno dei dirigenti più vicini alla segreteria, «qui è rimasto un piccolo gruppo di partigiani che rischia di finire appeso a testa in giù, questa volta dai fascisti».

I congiurati propongono di usare il vertice europeo di fine mese come un ultimatum per Monti: se da Bruxelles il premier non tornasse con una valigia carica di eurobond o con altre misure in grado di salvare miracolosamente l’Italia, allora verrebbe il momento di farlo cadere. Come? Sfruttando il casus belli preparato da Di Pietro e dalla Lega con la mozione di sfiducia contro Elsa Fornero. Così la destra silurerebbe il ministro più inviso alla sinistra, in una sorta di grande coalizione antieuropea che sembra un preludio perfetto del caos greco. Ma del resto ogni occasione è buona: luglio, si dice in Transatlantico, sarà il mese dei cecchini.

La tensione politica è dunque alta, anche se il piano è scombiccherato. Il vantaggio di andare alle urne per il Pdl infatti non è chiaro, visti i sondaggi. Ma lo svantaggio per il Paese è chiarissimo. Sarebbe come dire che se l’Europa non ci soccorre, ci lasciamo affogare. Ai guai della nostra economia aggiungeremmo lo sfacelo politico. I due argomenti che i congiurati usano per coprirsi col manto dell’interesse nazionale sono infatti entrambi infondati. Il primo, secondo il quale per fronteggiare l’emergenza è meglio eleggere un nuovo governo, è smentito dal caso della Spagna, Paese che con un premier nuovo di zecca sta già peggio di prima delle elezioni. Il secondo argomento, secondo il quale Monti non sbatterebbe abbastanza il pugno sul tavolo europeo come invece faceva Berlusconi, ha un che di onirico: da mesi Berlusconi in Europa non sbatteva proprio niente e le norme sulle banche che svalutarono i nostri titoli di Stato furono varate nell’ultimo vertice cui abbia partecipato.

Piuttosto, se c’è stata una parabola discendente della fiducia dei mercati nella capacità del governo Monti di affrontare i mali strutturali dell’Italia, essa è dipesa proprio dal condizionamento politico che ha mostrato di subire, per esempio sul mercato del lavoro. Né giova riparare infilando le dita negli occhi dei partiti, a sinistra con gli esodati e a destra con le norme sulla corruzione. Ma il binario morto su cui sembra essere finito il Parlamento è originato proprio dalla campagna elettorale strisciante di chi vorrebbe andare subito alle urne. È il clima politico a indebolire il governo, non il contrario; e a rendere più difficile che anche i provvedimenti sullo sviluppo possano dispiegare il loro effetto positivo sulla scena europea.

D’altra parte, se gli italiani pensassero che qualche nuovo leader politico farebbe oggi meglio di Monti, i sondaggi ce lo direbbero: invece dicono Grillo. Le elezioni a ottobre provocherebbero sullo spread lo stesso effetto thriller che stanno avendo quelle greche. Senza contare che i congiurati hanno già segnato sul calendario una data di pessimo auspicio per andare alle urne: quella del 28 ottobre, novantesimo anniversario della Marcia su Roma.

Antonio Polito

16 giugno 2012 | 9:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_16/polito-i-disfatti-in-agguato_0ee343d6-b772-11e1-a264-b99bbdd148d8.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 20, 2012, 11:18:49 pm »

LO SPIRITO NAZIONALE CHE MANCA

I sotterranei della politica

Non solo agli Europei di calcio, ma anche nell'Europa della moneta e della politica siamo entrati nella fase a eliminazione diretta. Chi perde è fuori. Errori, egoismi, autogol, non sono più consentiti.

E invece in Parlamento continua la melina. Sono passati già quattro mesi, non quattro settimane, da quando Monti annunciò in conferenza stampa il varo della riforma del mercato del lavoro. E dopo quattro mesi il premier è ancora costretto a chiedere che sia trasformata in legge prima del vertice europeo del 28 e 29 giugno. Ma il Pd ha condizionato il suo sì a un conto più generoso degli aspiranti «esodati», e nel Pdl c'è chi dirà comunque no come l'ex ministro Brunetta, che non voterà nemmeno la fiducia. Non è l'unico indizio di un sistema-Paese che sembra incapace di reggere all'emergenza. Giace in Senato la ratifica del Fiscal Compact, il patto europeo sui bilanci. Si era pensato di farne l'atto simbolico con cui l'Italia lasciava l'inferno dei reprobi, approvandolo in contemporanea con la Germania. Non sarà così. La cancelliera Merkel otterrà anche il voto della Spd - che qualche illuso in Italia sperava pronta a far saltare la politica del rigore - e lo ratificherà con uno spettacolare blitz: la sera del 29, di ritorno dal vertice europeo, prima al Bundestag e poi al Bundesrat. Tutto in una notte.

Da noi, invece, questa coesione nazionale, sperimentata per un breve periodo nell'inverno dello spread, è solo un pallido ricordo. I partiti sono già in campagna elettorale. Il Pd lavora alla nuova coalizione, per sostituire Di Pietro con una lista di «società civile» (le prove generali si stanno facendo con il Cda Rai); il Pdl è in preda al panico per sondaggi che sembrano un conto alla rovescia verso la dissoluzione, in piena sindrome Pasok. La tentazione dell'atto di arditismo che porta alle urne, nata nei settori più estremisti, sta ormai contagiando anche il corpaccione moderato del partito: centinaia di parlamentari che sono sicuri di perdere il seggio e che dunque non hanno più niente da perdere.

Anche le riforme istituzionali, promesse dai partiti come occasione di riscatto e di responsabilità, rischiano di essere usate invece come occasione di rottura. Sta per arrivare al Senato la proposta di semipresidenzialismo del Pdl. La Lega dovrebbe votarla, ma l'approvazione potrebbe essere interpretata dal Pd come il casus belli che mette fine alla «strana maggioranza».
C'è chi dice che perfino Luigi Lusi possa essere usato come un'arma dai congiurati a caccia di elezioni. Se il voto di oggi al Senato sull'arresto del tesoriere fosse segreto, molti sarebbero tentati di salvare l'imputato al solo fine di condannare il governo. Così come accadde per Craxi, lo choc politico che ne deriverebbe potrebbe essere il canto del cigno della legislatura.
Chi ne ha il potere e la responsabilità deve mettere fine a questo clima. Un grande Paese si vede anche dalla tenuta, dalla disciplina, perfino dalla capacità di sorvegliare il linguaggio della sua classe dirigente. Quando il presidente di Confindustria cita Fantozzi e definisce la riforma del lavoro una «boiata», si capisce che la situazione italiana, pur rimanendo grave, può smettere di essere seria.

Troppi in Italia chiedono ogni giorno di essere salvati dalla Germania ma non si chiedono mai che cosa possano fare loro per salvare l'Italia. Pretendono miracoli da Monti al prossimo summit, ma vorrebbero mandarcelo a spalle scoperte. Giocano per se stessi, senza capire che se ci fanno perdere questa partita il campionato è finito per tutti.

Antonio Polito

20 giugno 2012 | 9:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_20/sotterranei-politica-Polito_5e8ebbb2-ba98-11e1-9945-4e6ccb7afcb5.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 05, 2012, 11:52:50 am »

DOPO BRUXELLES PRIMA DEL 2013

Domande scomode di un investitore

A un certo punto dell'euro-notte, la premier danese ha chiesto a Monti se doveva considerarsi un ostaggio, insieme con gli altri capi di governo: il nostro presidente del Consiglio non li lasciava uscire se prima non si trovava una soluzione per l'Italia. Da domani ostaggi di Monti saranno anche tutti quei politici nostrani che avevano scommesso sul tanto peggio tanto meglio: dopo il voto di fiducia ottenuto dal governo a Bruxelles, la congiura per anticipare le elezioni può considerarsi fallita.
La legislatura dunque continua. Ma per fare che? Al governo spetta di tagliare la spesa dello Stato, dopo averla rincorsa con le tasse; e soprattutto di scalare la montagna del debito, valorizzando il patrimonio dello Stato. Ai partiti e al Parlamento, però, non si può chiedere solo di lasciare in pace il conducente: tocca a loro usare il dividendo staccato nel fine settimana da Monti.

Lo dimostra proprio il braccio di ferro di Bruxelles. L'Italia chiedeva un meccanismo per far scattare l'acquisto di titoli da parte del Fondo salva Stati a ogni impennata dello spread . Ma la Germania si opponeva all'automatismo, pur riconoscendo che l'Italia sta facendo i compiti a casa. Perché? L'ha confessato il ministro finlandese Alex Stubb, un pretoriano del rigore: l'intervento deve essere soggetto a precise condizioni - ha detto - per garantirci che le riforme in Italia continueranno una volta che Monti avrà lasciato il governo l'anno prossimo.

Ciò che allarma i governi è ciò che allarma anche i mercati. È bene infatti non sopravvalutare la giornata di euforia di venerdì: è già successo che un vertice europeo sorprendesse per un po' le Borse, e il regalo alla Spagna è stata una bella sorpresa. Per quanto ci riguarda, dobbiamo sperare che basti la minaccia di un intervento del Fondo europeo perché gli interessi sui nostri titoli calino drasticamente. I mercati adesso sanno quando si voterà; però non sanno ancora come, non sanno ancora per chi, e soprattutto non sanno che cosa intenda fare il vincitore.

Compito dei partiti è diradare in fretta queste nebbie. Dovrebbero innanzitutto varare una seria riforma elettorale (per quelle costituzionali il tempo della serietà è purtroppo già scaduto); dovrebbero indicare le alleanze, visto che al momento sembrano intercambiabili, e il Pd potrebbe andare con Casini o con Di Pietro come se fosse la stessa cosa; e dovrebbero chiarire i loro piani per il governo, visto che il Pdl oscilla tra la voglia di uscire dall'euro con la Lega e l'ipotesi di una Grande Coalizione per restarci. Chi comprerà alla prossima asta un Buono del Tesoro a un anno, a cinque anni, o a dieci anni, starà investendo i suoi soldi sull'Italia che verrà: meno ne saprà, e più cara ce la farà pagare.

Antonio Polito

1 luglio 2012 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_01/domande-scomode-investitore-antonio-polito_dc55bd56-c345-11e1-9a40-3a8342915771.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 11, 2012, 11:18:35 pm »

GLI SCENARI E LE SCELTE DEL PD

Italia che verrà, terra incognita

Sotto la frusta implacabile dei mercati, sta venendo allo scoperto il vero nodo della politica italiana: che faranno quelli che andranno al governo dopo Monti? Proseguiranno le sue riforme o invertiranno la marcia? Dalla risposta dipende, tra le tante cose, anche lo spread. Eppure di come sarà governato il nostro Paese dalla prossima primavera in poi nessuno oggi sa niente. Nelle carte geografiche che orientano gli investitori stranieri, sull'Italia post 2013 c'è la scritta «hic sunt leones».

La verità è che dobbiamo dare garanzie anche sul futuro. Lo ha riconosciuto per la prima volta il premier, lo ha detto ieri esplicitamente Napolitano, ed è il cuore della lotta politica non solo nel Pdl ma anche nel Pd, soprattutto dopo che quindici esponenti di quel partito hanno apertamente chiesto, nella lettera pubblicata ieri dal Corriere , un impegno a proseguire nell'agenda Monti anche dopo il voto dell'anno prossimo.

Che questa discussione cominci nel Pd è particolarmente importante: perché si tratta del partito cui i sondaggi attribuiscono le maggiori probabilità di vittoria, e perché finora si è mosso su una linea di doppiezza togliattiana. Il Pd appoggia infatti il governo per senso di responsabilità (e gliene va dato atto, visto che avrebbe anche potuto cercare la pericolosa scorciatoia delle elezioni anticipate); però non sostiene veramente quasi nessuno dei suoi provvedimenti, li vota perché deve ma li critica appena può, mugugna e spesso annunzia che una volta al governo li cambierà. Non è solo Fassina, che pure è il ministro-ombra dell'Economia; né sono solo i titoli dell'Unità, che s'entusiasma perfino per il presidente di Confindustria purché attacchi Monti. E non è neanche solo il Pd. Non bisogna sottovalutare infatti la forza di condizionamento che una sinistra intellettuale e sindacale da sempre refrattaria alle responsabilità del governo ancora esercita su un partito dalle convinzioni programmatiche incerte, e che lo spinge a farla finita con Monti, con il rigore, con la Merkel e magari anche con il vincolo europeo, fino a giocare con il fuoco del default contrattato. Questo piccolo mondo antico eserciterà tutta la sua capacità di ricatto politico in caso di primarie, quando i candidati alla leadership del Pd avranno bisogno di voti. È per questo, credo, che i quindici «montiani» del Pd sono venuti allo scoperto proprio ora, temendo una deriva elettorale.

Naturalmente iniziative del genere portano con sé il sospetto di voler spianare la strada a un Monti bis o a una Grande Coalizione, e di sbarrarla dunque a un governo Bersani. È probabile che tra i firmatari ci sia chi lavori per questa prospettiva. In effetti, fare propria l'agenda Monti risolverebbe nel Pd anche il dilemma delle alleanze: sarebbe infatti impossibile realizzare quel programma con Vendola o con Di Pietro, e i compagni di strada andrebbero cercati altrove. Ma anche chi vuole un rapido ritorno a una normale fisiologia bipolare del nostro sistema politico deve sapere che non potrà in ogni caso trattarsi di un bipolarismo fatto di due opposizioni, e cioè composto da una destra e una sinistra entrambe contrarie alle politiche necessarie per salvare l'Italia dal baratro. L'illusione che si possa restare in Europa infischiandosene dell'Europa si è rivelata tale anche in Grecia. Se le forze politiche responsabili non saranno in grado di garantire loro, dopo il 2013, ciò che il governo Monti sta facendo, allora sì che il governo Monti potrebbe dimostrarsi l'unica proposta politica seria rimasta agli italiani.

Antonio Polito

11 luglio 2012 | 17:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_11/italia-che-verra-polito_bec8d3e0-cb1a-11e1-8cce-dd4226d6abe6.shtml
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 19, 2012, 09:59:59 pm »

IL DIBATTITO SULLA CRESCITA

Le risorse immaginarie


Quanti medici pietosi si affollano intorno al capezzale dell'Italia. La vedono emaciata, e se la prendono con le cure troppo aggressive. La trovano pallida, e vorrebbero ovviare con un po' di belletto. La scoprono sofferente, e propongono un forte analgesico. Sembrano tutti far finta di non sapere che la paziente sta lottando per la vita o per la morte: dopo il grave infarto di otto mesi fa non si è ripresa, e la prognosi resta riservata. Certo che le cure la debilitano, certo che è spossata e soffre, e fa male a tutti vederla così; ma interrompere la terapia può provocare un nuovo e fatale infarto. Non a caso i più pietosi suggeriscono una dolce morte: staccare la macchina che ci tiene legati all'euro e consegnarsi all'oblio.

Fuor di metafora, è diventato di moda condannare l'austerità e suggerire alternative keynesiane: iniezioni di denaro pubblico per battere la recessione. Ma mentre da noi le si invoca, in Germania sono convinti che l'Italia di oggi sia proprio il frutto di un lungo ciclo di politiche keynesiane. E in effetti è legittimo pensarlo di un Paese che ha accumulato la bellezza di duemila miliardi di euro di debiti. Si è trattato, a dire il vero, di una versione più casereccia del tax and spending dei socialismi scandinavi. Anche perché, duemila miliardi di debiti dopo, noi abbiamo ancora otto milioni di poveri e crescenti ineguaglianze. Alte tasse e alta spesa pubblica non hanno prodotto da noi la coesione sociale svedese o il tasso di occupazione danese. E, se è per questo, nemmeno l'innovazione tecnologica finlandese, l'assistenza sanitaria francese o l'industria tedesca. Quei duemila miliardi sono stati solo la risposta affannosa di una classe politica provinciale all'emergere della globalizzazione: altri risolsero con una Thatcher, noi indebitandoci.

Eppure i medici pietosi accusano il «neoliberismo selvaggio» per questi disastrosi vent'anni. Non è chiaro a quali selvaggi si riferiscano. Ai governi di Ciampi e di Prodi, al colbertista Tremonti? A un centrodestra che, caso unico in Europa, è riuscito a far crescere spesa pubblica e tassazione? Ma ammettiamo per un attimo che abbiano ragione, e che dai vizi conclamati del mercato si debba passare alle virtù della mano pubblica: con quali soldi? Dove intendono attingere le ingenti risorse che servono (perché uno stimolo keynesiano o è ingente o non è)?

Poiché in cassa non c'è un euro, e poiché non possiamo battere moneta per inflazionare il nostro debito, si presume che i keynesiani di ritorno pensino a un ricorso ai mercati. Vorrebbero cioè curare il debito con altro debito. Ai tassi di interesse attuali? Consegnando ai vituperati mercati una sovranità ancora maggiore sulle nostre scelte economiche? Perfino per fare una politica keynesiana bisognerebbe prima convincere i mercati che si possono fidare di noi, e prestarci soldi a bassi tassi. L'austerità di oggi è dunque la precondizione di qualsiasi politica di domani, anche di quella più illusoriamente espansiva.

I nostri medici pietosi, che si commuovono come coccodrilli davanti al capezzale dove hanno portato l'Italia, erano convinti di avercela fatta a scaricare i loro debiti sui nostri figli. Si capisce che ce l'abbiano con la Germania, che non glielo consente.

Antonio Polito

18 luglio 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_18/risorse-immaginarie-polito-editoriali_971b2f02-d095-11e1-bab4-ef0963e166ba.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 28, 2012, 03:32:53 pm »

I PARTITI E LA LEGGE ELETTORALE

Forza, liberateci dal porcellum

C'è una sola cosa peggiore che tenersi il Porcellum : farne un altro. Fare cioè un'altra legge elettorale a furia di colpi di maggioranza, ritagliata sui bisogni del momento di chi la fa, considerata una truffa da chi la subisce, capace dunque di avvelenare per anni la lotta politica spingendo gli schieramenti alla reciproca delegittimazione. Cioè esattamente quanto è avvenuto dal 2006 a oggi col Porcellum .

Eppure il fantasma di un Porcellum bis ha ripreso a girare nel Palazzo. È bastato ad evocarlo il ritorno sulla scena del delitto di Calderoli, reo confesso della «porcata» e riciclato come esperto della Lega. Raccontano i bene informati che Berlusconi e Maroni stiano considerando di sacrificare anche la riforma elettorale, dopo quella costituzionale, sull'altare di una rinata Alleanza del Nord. L'idea sarebbe di sfruttare la maggioranza di cui ancora i due partiti dispongono al Senato per far approvare almeno in quel ramo del Parlamento una legge ad personas , gradita cioè solo a loro.

Il progetto, a dire il vero, sembra così suicida da far sperare che verrà abbandonato: rompere sulla riforma elettorale vorrebbe dire fornire un alibi formidabile a Bersani per mettere fine alla legislatura e tornare a votare con il Porcellum . Il Pd vuole cambiarlo, ed è sincero; però con la vecchia legge vincerebbe le elezioni in carrozza, e se proprio la destra gliene dà il destro, la tentazione di approfittarne diventerebbe irresistibile. Ma poiché tutti dicono che Berlusconi, fino a ieri accusato di puntare alle elezioni anticipate, ora le veda come il fumo negli occhi perché perderebbe malamente, almeno l'interesse di parte dovrebbe sconsigliare un disastro comune.

Sarebbe infatti bene ricordare ai partiti che toccare le leggi elettorali è la cosa più delicata che esista, e questa è la ragione per cui nelle democrazie mature lo si fa molto raramente. È infatti il momento in cui i giocatori della partita democratica se ne fanno arbitri, fissandone le regole, disponendo dunque del potere di danneggiare gli outsider . Per esempio: qualsiasi nuovo sistema deve oggi sottrarsi al sospetto di essere costruito contro il movimento di Grillo o quello di Vendola, entrambi non rappresentati in Parlamento. L'ideale sarebbe agire sotto il velo dell'ignoranza, cioè così tanto tempo prima del voto e così indipendentemente dai sondaggi da non potersi cucire la legge addosso come un abito su misura, al contrario di quanto avvenne col Porcellum.

E invece, paradossalmente, la ragione per cui i partiti oggi stanno facendo melina rinviando il più possibile la legge è proprio il velo dell'ignoranza in cui sono immersi: non sanno con che alleanze, con che proposte, e con quali candidati premier andranno al voto. Vogliono decidere dunque prima quello, e poi vedere quale sistema conviene di più.
In secondo luogo una legge elettorale deve scegliere il punto di equilibrio tra le esigenze di rappresentatività e quelle di governabilità. Per esempio: la legge tedesca garantisce di più la rappresentatività, quella francese di più la governabilità. La nostra legge attuale, unica in Europa, premia invece le coalizioni. Ma ora che le coalizioni non ci sono più non si può premiarle, se non per indurle a formarsi in modo fittizio e poi sciogliersi dopo il voto.

Infine, non in ordine di importanza, una nuova legge dovrebbe garantire la più elementare delle esigenze: la scelta degli eletti da parte degli elettori. Si può fare con le preferenze o con i collegi uninominali o con le liste bloccate su piccole circoscrizioni. O con un misto di tutti questi sistemi.

Voglio dire che è assolutamente impossibile, con il vasto repertorio di modelli che le democrazie di tutto il mondo offrono, non trovare quello giusto per l'Italia, o almeno quello meno sbagliato. E che dunque le titubanze, i giochetti e i ritardi finora messi in scena si spiegano esclusivamente con la ricerca esasperata del vantaggio di parte. Questa purtroppo è una delle cause per cui la nostra democrazia è oggi così debole e fragile. Mentre Monti si occupa dello spread dei Btp, sarebbe ora che i partiti si occupassero dello spread democratico che si sta accumulando.

Antonio Polito

28 luglio 2012 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_28/editoriale-liberateci-dal-porcellum_c2743494-d871-11e1-8473-092e303a3cd5.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 03, 2012, 07:23:24 am »

TATTICHE E INCERTEZZE A SINISTRA

Un’alleanza sottovoce

La «narrazione» di Nichi Vendola è sempre complessa, ma ieri lo è stata di più. Non era nemmeno uscito da un incontro con Bersani per concordare un’alleanza col Pd chiusa a Di Pietro e aperta all’Udc, che già convocava una conferenza stampa per smentire di aver aperto all’Udc e chiuso a Di Pietro. Nel mezzo, la rivolta in Rete dei suoi militanti, che di Casini non vogliono sentire nemmeno parlare. Ma la sinistra ha i suoi riti, e quella cui stiamo assistendo è un’elaborata danza di corteggiamento: Vendola non può fare a meno di Bersani, ma non può neanche fare a meno dei suoi elettori, regalandoli a Grillo o a Di Pietro. Così si tenta un avvicinamento graduale e progressivo, fatto di un’allusione e di una smentita, di un passo avanti e uno indietro.

Affabulazioni a parte, sembra però ormai chiaro quale è lo schema di gioco di questa parte politica che ormai apertamente, e incurante dell’infausto precedente del ’94, si definisce «progressista»: mettere insieme la più forte minoranza del Paese, profittando del vuoto che c’è a destra, e allearsi con i moderati dell’Udc dopo il voto, per fare una maggioranza parlamentare. Questo modulo a due punte dei progressisti ha il vantaggio non indifferente di introdurre un elemento di chiarezza: la terza punta, che appariva nella foto di Vasto, è stata tagliata via.
Di Pietro non farà parte della squadra perché di fatto ne ha già scelta un’altra, quella dell’opposizione antisistema. Gli interessano più i proclami di Grillo che i programmi di governo. Comparando Napolitano e Monti a Berlusconi ha tagliato definitivamente i ponti col Pd, e se Vendola vuole stare con il Pd non può stare con Di Pietro. La speranza comune è di sostituirlo con la terza ruota di una «lista arancione », capitanata dai sindaci- pm de Magistris ed Emiliano, nel tentativo di attrarre i voti «puritani» della cosiddetta società civile e dare una copertura «morale» alla rottura con Tonino.

Ma la manovra cominciata ieri a sinistra presenta anche lo svantaggio di dover far ricorso a una dose di ambiguità molto elevata, potenzialmente esplosiva. Vendola, per esempio, ha dovuto condire la svolta con la sua candidatura ufficiale alle primarie del centrosinistra, per dimostrare che entra dalla porta principale e non per annessione. Così facendo ha però creato qualche problema non da poco a Bersani, che con Renzi competitore a destra e Nichi competitore a sinistra forse uscirà comunque vincitore, ma difficilmente trionfatore da quella che doveva essere l’investitura alla leadership e dunque la candidatura a Palazzo Chigi.

In secondo luogo, gli «intenti» presentati dal Pd, e ancor più quelli enunciati da Vendola, non sono credibili come la base di un patto d’azione con i moderati, e dunque andranno ricontrattati dopo il voto. Nel lungo documento presentato da Bersani le uniche due proposte chiare sono la patrimoniale e le unioni gay. E se ci sono due cose per le quali ceti medi proprietari ed elettori cattolici sono preoccupati sono proprio il patrimonio e il matrimonio. L’incubo di una riedizione dei conflitti interni alla coalizione dell’ultimo Prodi non sembra dunque per niente scongiurato.

D’altra parte, la visione del conflitto sociale ribadita ieri da Vendola è più compatibile con la Fiom che con la Commissione europea, poiché nemmeno una Germania eventualmente governata dalla Spd ci consentirebbe di avviare un esperimento di keynesismo in un Paese solo e con i soldi degli altri, abbandonando le politiche di austerità.

La mossa a sinistra di ieri è dunque solo l’apertura della lunga partita a scacchi che si concluderà nella prossima primavera e che tiene in apprensione i mercati, in attesa di capire che cosa sarà dell’Italia dopo Monti. Vendola ha proposto di chiamare questa nuova alleanza il «Polo della speranza», e la speranza, si sa, è l’ultima a morire. Ma per fare pronostici sulla sua sorte bisognerà vedere come reagirà il centrodestra, il quale al momento sembra totalmente privo di uno schema di gioco, e però se ne trova uno torna immediatamente in gioco.
E, soprattutto, bisognerà vedere come si chiuderà la partita interna all’elettorato di sinistra, e quanti all’alleanza di governo di Bersani e Vendola preferiranno quella di non governo di Grillo e Di Pietro.

ANTONIO POLITO

2 agosto 2012 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_02/polito-un-alleanza-sottovoce_5c4d3ca4-dc60-11e1-8f5d-f5976b2b4869.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 01, 2012, 11:20:40 am »

TRATTATIVA STATO-MAFIA

Illazioni e Allusioni

Dal momento in cui sono state registrate era inesorabile arrivare a questo punto


«Autentici falsi». Questo ossimoro, contenuto nel comunicato del Quirinale, è una descrizione accurata del processo kafkiano in cui è stata trascinata la più alta istituzione dello Stato, l'unica rimasta in piedi tra le macerie della Seconda Repubblica.

Dal momento in cui sono state registrate, su mandato della Procura di Palermo, le telefonate del capo dello Stato con l'ex ministro Mancino (all'epoca non indagato), era inesorabile arrivare a questo punto: formalmente segrete, esse sono diventate oggetto di illazioni e allusioni, e ormai vengono apertamente usate come strumento di lotta politica. Esattamente il rischio dal quale la Costituzione voleva mettere al riparo la Presidenza, dichiarata irresponsabile politicamente per sottrarla a ogni condizionamento o ricatto. Ed esattamente ciò che il Quirinale, con il suo ricorso alla Consulta, chiede ora che venga risparmiato ai futuri presidenti.

Se infatti è falso il contenuto di quelle telefonate definito autentico da Panorama , siamo di fronte al grave tentativo di gettare discredito sul presidente usando un gossip privo di fonti; se invece è autentico il contenuto, è falsa la garanzia di riservatezza che aveva fornito la Procura di Palermo, e siamo di fronte al grave tentativo di gettare discredito sul presidente usando atti giudiziari. E tutto questo per conversazioni che l'accusa definisce del tutto prive di utilità per l'inchiesta sulla presunta trattativa tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia.

I pm tendono ad escludere la «fuga di notizie». Secondo il procuratore capo Messineo, anche perché «il fatto che sia Panorama a pubblicare queste notizie esclude che possano essere uscite dalla Procura di Palermo»; dal che si deduce che anche le fughe di notizie «autentiche» sono politicamente selezionate. Il pm Ingroia però aggiunge che, oltre a un numero imprecisato di magistrati che le hanno ascoltate ma non trascritte, «anche gli indagati conoscono il contenuto delle telefonate»: che sia stato Mancino a parlare con Panorama ?

Come si vede la situazione, pur essendo così grave da giustificare l'appello di Napolitano «a chiunque abbia a cuore la difesa del corretto svolgimento della vita democratica», è tutt'altro che seria. Anzi, è il punto più basso raggiunto da un'agitazione politica che sta facendo strame dell'equilibrio dei poteri e del rispetto delle regole. Essa si basa sullo smercio di una concezione «trasparente» della democrazia il cui modello, nella migliore delle ipotesi, è un Grande Fratello con il telecomando in mano alle Procure; ma che nella realtà diventa uno squallido peep-show , perché qui c'è solo un buco nella parete da cui i guardoni vedono un particolare e pensano sia l'insieme.

Ancora ieri c'era chi invitava Napolitano a rendere pubblico il testo di quelle telefonate, di cui peraltro non dispone. In nome della legalità lo si invitava cioè a commettere un reato, visto che le telefonate sono secretate. Contro il capo dello Stato si leva un «discolpati» che più della democrazia è degno del «crucifige » della demagogia, così ben descritto in un suo libro da Gustavo Zagrebelsky.

Antonio Polito

31 agosto 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #24 inserito:: Settembre 08, 2012, 09:57:02 pm »

Renzi e la sfida nel Pd

Domande scomode per un candidato


Matteo Renzi va preso sul serio. Perché se lo merita, ma anche perché si è candidato a fare il presidente del Consiglio nei prossimi cinque anni. Chiedergli come intenderebbe governare, cosa che non si può ovviamente dedurre dalla sua breve esperienza alla Provincia e al Comune di Firenze, non è dunque provocatorio: è anzi il modo migliore di prenderlo sul serio. Finora infatti Renzi ci ha detto con chiarezza che farebbe del Pd: manderebbe a casa tutti i «vecchi», proposito che comprensibilmente riscuote parecchio successo. Ma non ci ha ancora detto che farebbe dell’Italia.

Le ultime proposte programmatiche, le Cento Idee della Leopolda, risalgono ormai a un anno fa. Molte sono buone, alcune sono scadute, tutte sono da precisare. Tra pochi giorni Renzi presenterà formalmente la sua candidatura. È dunque forse arrivato il momento per rivolgergli qualche domanda alla quale, se vorrà, potrà dare risposta.

1. Tra le Cento Idee non ce n’è una sull’Europa. Da capo del governo Renzi accetterà nuove cessioni di sovranità e maggiori controlli esterni sui nostri conti, in cambio di un’Unione politica e di bilancio più stretta? Sottoscriverebbe prima delle elezioni un memorandum di intese con l’Europa che vincoli anche il futuro governo, nel caso Monti sia costretto a chiedere un aiuto anti-spread?

2. Renzi si propone di «portare il rapporto debito/ Pil al 100% in tre anni». Si tratterebbe di un’impresa titanica: 400 miliardi di euro da restituire in 36 mesi, a un ritmo più che doppio rispetto a quello che ci impone il Fiscal Compact europeo. Quale parte del patrimonio dello Stato intende vendere e quale parte del patrimonio degli italiani intende tassare, per riuscirci?

3. Sull’articolo 18 Renzi dichiarò: «Non me ne può fregare di meno». Vuol dire che una volta al governo non cambierà la riforma Fornero o che la cambierà? Lascerebbe intatta anche la riforma delle pensioni o la modificherebbe, come propone il suo partito, a favore dei cosiddetti «esodati»?

4. Conferma la proposta di dare un bonus di 4.000 euro l’anno per due anni a tutte le famiglie che abbiano un secondo o un terzo figlio e un bonus di 2.000 euro a tutti i laureati con 110 e lode? Con quale copertura finanziaria?

5. Renzi promette di rivedere il piano delle infrastrutture «scegliendo le grandi opere che servono davvero». Vi è compresa la Tav Torino-Lione?

6. Mantiene la sua proposta di un’«amnistia condizionata » per i politici corrotti?

7. Da presidente del Consiglio Renzi favorirà una legge che limiti il ricorso alle intercettazioni e ne proibisca la pubblicazione quando riguardino soggetti non indagati?

8. Renzi si è dichiarato a favore di una «regolamentazione delle unioni civili». Più di recente ha parlato di «civil partnership» per gli omosessuali. Vuol dire che è contrario al matrimonio gay e alle adozioni?

9. Una domanda di «vecchia politica»: se vincerà le primarie, proporrà a Udc e Sel un governo comune, come fa Bersani, o ha altre idee?

Infine, dopo nove domande rivolte all’aspirante premier, una mezza domanda finale nell’ipotesi che invece Renzi non vinca le primarie: darà vita anche lui a un’altra «componente» del Pd, come hanno finora fatto tutti i candidati sconfitti, da Franceschini a Letta, da Bindi a Marino?

Antonio Polito

8 settembre 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_08/domande-scomode-candidato-polito_d8758880-f97b-11e1-adf4-7366ac4f39ca.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 01, 2012, 03:02:12 pm »

IL DISTACCO TRA IL PD E MONTI

Il sostenitore riluttante

Il problema del Monti bis è il Pd. Di quella ipotesi, per cui spingono fortemente tutti i nostri partner internazionali, il partito di Bersani è insieme la causa e l'impedimento. Essa nasce infatti da una diffusa sfiducia nella capacità del vincitore delle elezioni di proseguire il risanamento; ma il maggior ostacolo alla sua realizzazione sta proprio nella resistenza del probabile vincitore delle elezioni, cioè il Pd.

Se sulla fede di Casini non si possono infatti aver dubbi, è facilmente prevedibile che anche un Berlusconi sconfitto alle elezioni aderirebbe senza esitare a un Monti bis pur di restare in gioco. È solo ipocrita agitazione, dunque, quella di oggi contro la Germania, Paese di cui il Cavaliere minaccia l'espulsione dall'euro con la stessa credibilità con cui Woody Allen si vantava di aver preso a nasate il ginocchio del rivale in una rissa.

Resta quindi il Pd. Nessuno ovviamente pretende che il candidato vincente alle primarie firmi oggi un atto di abdicazione a favore di Mario Monti: sia Bersani sia Renzi si rifiutano. Ma un netto e credibile impegno di continuità sì che si può pretendere, e non arriva. La promessa di Bersani di non fare passi indietro rispetto alla serietà e alla sobrietà del governo attuale davvero non basta. Nessuno infatti dubita della serietà e sobrietà di Bersani. Ciò di cui si dubita è che un governo da lui guidato abbia la forza e la volontà di andare nella stessa direzione del governo Monti. Per tre ragioni.

La prima è politica, e macroscopica: Bersani propone un'alleanza con Vendola, il quale si propone di ribaltare l'agenda Monti. La seconda ragione è programmatica: i responsabili Economia e Lavoro, Fassina e Damiano, assicurano che il Pd cambierà la riforma delle pensioni e quella del mercato del lavoro, una volta al governo, cioè il cuore dell'agenda Monti. E non sono chiacchiere: alla Camera c'è già un disegno di legge che reintroduce l'istituto della pensione di anzianità. D'altra parte, se il Pd dichiara di voler tornare indietro sull'articolo 18 per via legislativa, Vendola fa più uno e propone di cambiarlo per via referendaria. La terza ragione è sindacale: la Cgil ha appena bocciato, sconfessando il suo stesso leader di categoria, l'intesa innovativa che era stata raggiunta sul contratto dei chimici, orientata proprio a quel recupero di produttività su cui l'agenda Monti punta per curare il male italiano della bassa crescita.

È il riflesso quasi pavloviano di queste rincorse a sinistra, peraltro ben note ai governi Prodi, a far temere che un governo Bersani non si limiterà a correggere l'agenda Monti «mettendoci un po' di equità in più», ma possa smarrirla presto: per esempio nella primavera del 2014, quando dopo un solo anno di legislatura dovrà schierarsi sul referendum firmato dal ministro Vendola.

Se il Pd volesse davvero scongiurare un Monti bis, dovrebbe paradossalmente fare proprio il programma del Monti bis, proporsi esso stesso come il bis. E infatti c'è un'ala consistente di quel partito che lo chiede. Per risolvere un tale scontro di linea politica servirebbe un congresso. Nel Pd si faranno invece le primarie. Ma dietro la gara di personalità tra Bersani e Renzi si intravede il profilo del convitato di pietra. È su Mario Monti e sulla sua eredità che il Pd è in realtà chiamato a decidere.

Antonio Polito

29 settembre 2012 | 10:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_29/il-sostenitore-riluttante-polito_31957860-09f5-11e2-a442-48fbd27c0e44.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 06, 2012, 11:52:37 am »

IL PD E IL DILEMMA PRIMARIE

Psicodramma democratico


Al Pd non potrebbe andar meglio. È costantemente in testa nei sondaggi da un anno; il suo principale avversario è a pezzi; è l'unico partito ad avere non uno ma due potenziali candidati premier. Tutto fa presumere che possa vincere le prossime elezioni. Eppure i democratici sembrano in preda a una crisi di nervi. Le correnti sono in guerra; l'assemblea nazionale che si riunisce oggi è così temuta che già Rosy Bindi emana circolari disciplinari; si aggira addirittura lo spettro della scissione, evocato da Walter Veltroni. Perché?

La causa scatenante di questo psicodramma sono le primarie. Stavolta sono vere, nel senso che c'è uno sfidante indisciplinato che non si accontenta di arrivare secondo e passare all'incasso. La reazione degli oligarchi, quelli che perdono il loro status se la lotta politica esce dalle stanze fumose per andare all'aperto, è stata furibonda. Da loro viene la spinta per imporre un regolamento che faccia fuori Renzi. Ma l'unico modo sarebbe fissare norme che rendano più difficile la partecipazione popolare al voto, inventando filtri, check-point, preregistrazioni, divieti. Un vero controsenso per un partito che fa le primarie innanzitutto per incontrare i suoi elettori; quelli di sempre e, si spera, quelli che vuole conquistare. Secondo alcuni analisti, infatti, la sfida di Renzi sta allargando il bacino di voti potenziali, avvicinando cittadini che fino a ieri non consideravano il Pd un'opzione.

Vedremo oggi se Bersani fermerà la mano di chi preferirebbe buttare il bambino fiorentino e tenersi l'acqua sporca, e se firmerà un compromesso accettabile anche per lo sfidante. D'altra parte è già singolare che le regole siano decise a partita cominciata da tempo. Senza contare che andranno poi sottoposte al placet di Vendola, il concorrente esterno. E senza contare che tutto questo ambaradan potrebbe rivelarsi puramente virtuale se, come è probabile, la prossima legge elettorale svuoterà di senso la candidatura alla premiership, restituendo al Parlamento la scelta dopo il voto.

C'è però una ragione più profonda, e più politica, dietro tanta tensione. E la ragione è che, di nuovo, il Pd sembra un partito in fuga dal suo passato. La festa per la nascita del governo Monti, che mandava a casa l'avversario di sempre e portava i democratici nella maggioranza, sembra ormai lontana anni luce. Da tempo il Pd si sta preparando in tutti i modi a una campagna elettorale di opposizione. Si moltiplicano i dirigenti che cercano fortuna sparando contro il governo che sostengono. L'Unità tenta una mobilitazione a sinistra con il più astruso dei pretesti, quella Tobin Tax che, se realizzata solo in una parte del continente, allontanerebbe ancor più i capitali dal nostro Paese.

Ma fare una campagna elettorale di opposizione dopo un anno in maggioranza è schizofrenico, dunque pericoloso per sé e per gli altri. Il Pd, che potrebbe rivendicare con orgoglio di aver partecipato da protagonista allo sforzo per salvare l'Italia, sembra vergognarsene. Invece di prendersi il merito della popolarità di Monti in Europa, si accredita come chi lo manderà a casa dopo il voto. Rischiando così, nella migliore delle ipotesi, di consegnarsi alla contraddizione di sempre: dover poi agire, una volta al governo, a dispetto dei propri elettori, illusi e subito delusi, e dunque ben presto smarriti.

Antonio Polito

6 ottobre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_06/psicodramma-democratico-polito_64c1b96e-0f73-11e2-8a30-964199cb16b3.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 20, 2012, 03:59:29 pm »

IL RINNOVAMENTO DEI PARTITI

Rottamatori e agitatori

Le primarie e gli ingredienti di un romanzo popolare che appassionano il grande pubblico


Lo psicodramma democratico delle primarie ha raggiunto l’acme, ma non la fine, con l’uscita di scena di D’Alema e Veltroni. Come in un romanzo popolare, ci sono tutti gli ingredienti che appassionano il grande pubblico: amicizia e odio, dolori e vendette, i figli che si ribellano ai padri, i tradimenti, le scenate di gelosia. È infatti uno show politico di grande successo: sarà un caso ma, da quando è cominciato, il Pd è perfino cresciuto nei sondaggi.

Si conferma il carattere dirompente che può avere la sfida delle primarie, se vere e aperte: del resto la democrazia è stata inventata proprio per cambiare periodicamente le classi dirigenti senza spargimenti di sangue. Ma chi l’avrebbe mai detto che a mandare in pensione i due eredi del comunismo berlingueriano sarebbe stato un ragazzino democristiano? Per quanto a entrambi vada reso l’onore delle armi, è infatti evidente che nessuno dei due si sarebbe fatto da parte se non ci fosse stato il ciclone Renzi. Il quale, a sua volta, non ci sarebbe mai stato se insieme con Berlusconi non fosse caduto il Muro della Seconda Repubblica, rendendo obsoleti tutti i suoi protagonisti, vincitori e vinti.

È dunque un fatto a suo modo storico ciò che sta accadendo nel Pd. Se ne uscirà un partito migliore, più attrezzato per il governo del Paese, è ancora presto per dirlo. Paradossalmente proprio il successo ottenuto può ora togliere a Renzi la sua arma migliore, secondo molti l’unica. Certo, restano altri mattoncini di quel Muro da buttar giù ma, con tutto il rispetto per Bindi o Finocchiaro, la loro sorte non è così politicamente rilevante. Il giochino della «deroga» è ormai segnato: chi la vuole non la chiede, chi la chiede non l’avrà. Cosa resta dunque a Renzi ora che Bersani, con mossa astuta, è saltato in groppa allo stesso cavallo, impugnando lo stesso articolo dello statuto che fissa il limite dei tre mandati e accompagnando alla porta finanche il suo mentore politico?

Non è un caso che il sindaco di Firenze, un attimo dopo il ritiro di D’Alema, abbia precipitosamente iniziato a rottamare la rottamazione, spiegando che è stato un espediente, anche un po’ «volgare», per conquistare credibilità, ma che ora basta, bisogna chiuderla lì e passare al confronto sui contenuti. Se questo avvenisse sarebbe certamente un bene, perché ciò che gli elettori meritano di sapere è dove i due intendano portare l’Italia, visto che sembrano entrambi credere, come ha detto di recente Renzi, che «l’incendio è finito » ed è ora dunque di disfarsi del «pompiere» Monti, per passare la mano a non meglio identificati «architetti».

Ma l’effetto della scossa che sta cambiando la faccia del Pd è destinato a riverberarsi su tutta la politica italiana, a cominciare dal Pdl. Anche in quel partito, infatti, infuria la lotta; ma essa non ha ancora trovato un canale come le primarie con il quale trasformare il calore della battaglia interna in carburante politico, e rischia dunque di implodere.

Prova ne sia che i rottamatori, e più ancora le rottamatrici, esistono anche nel Pdl, ma curiosamente si battono non per promuovere homines novi, bensì per resuscitare la leadership di Berlusconi, che sarà anche meno antica delle carriere parlamentari degli oligarchi democratici ma non è certo meno datata. Difficilmente lo «spirito del ’94», continuamente evocato come in una seduta spiritica, potrà risolvere i problemi del 2013. Mentre invece può eliminare, ad uno ad uno, tutti i potenziali eredi del berlusconismo. Invece del «parricidio» cui stiamo assistendo tra i democratici, un gigantesco «fratricidio». Del resto, come nel Ritratto di Dorian Gray, la lacerazione avvenuta nel Pd ha fatto d’improvviso invecchiare le facce di tanti altri politici della Seconda Repubblica. Sarà davvero difficile in campagna elettorale ascoltare ancora un Tremonti, o un Fini, o un Casini senza pensare a D’Alema e a Veltroni, e senza chiedersi dov’è la differenza.

Antonio Polito

19 ottobre 2012 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_19/polito-rottamatori-agitatori_7ff7d172-19ab-11e2-86bd-001bc48b3328.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 29, 2012, 10:54:06 pm »

LA TENTAZIONE POPULISTA DEL CAVALIERE

Chi ci guarda e chi ci teme

Con l’adesione di Silvio Berlusconi al No Monti Day, il Pdl si è virtualmente dimesso dal Partito popolare europeo. Vi potrà un giorno rientrare; ma, ormai è chiaro, dovrà farlo senza e forse anche contro il suo fondatore, che indica nei leader di quella famiglia politica i carnefici dell’Italia. Subisce così un altro duro colpo la speranza, esplicitata a settembre da Giorgio Napolitano, che la nostra politica possa trovare nella sua «europeizzazione » la via per risorgere dalle ceneri e risollevarsi dal fango. Al contrario, l’anomalia italiana si sta radicalizzando. Dei protagonisti delle prossime elezioni ben cinque ormai, Berlusconi, Maroni, Grillo, Vendola e Di Pietro, si propongono di spezzare le reni alla Germania e di rottamare l’agenda Monti. Che ci faccia il Pdl in tale compagnia, dopo un anno di sostegno al governo, se lo chiede anche lo stato maggiore di quel partito, che per la prima volta sta apertamente resistendo al suo leader.

Non è un caso che la legge contro cui i falchi stanno tentando la spallata si chiami «di Stabilità». È bastato che i mercati mettessero giù per un attimo la frusta dello spread perché ricominciasse la danza degli irresponsabili. Accadde anche nell’autunno del 2011: appena la Bce spense l’incendio comprando i nos t r i t i t o l i , Roma s i rimangiò le promesse. Diventò tristemente noto in Europa come the Berlusconi trick, il trucco di Berlusconi. Fu questa la causa della umiliante sghignazzata con cui Merkel e Sarkozy buttarono giù il governo italiano. Non si trattò di un «tentativo di assassinio della mia credibilità internazionale », come protesta un anno dopo l’ex premier, per la semplice ragione che quella credibilità era già esaurita fino all’ultima goccia. Fu piuttosto un tentativo di evitare che la crisi di credibilità dell’Italia trascinasse con sé l’euro.

Ma il contagio italiano può tornare ora a spaventare l’Europa e i mercati. Non perché qualcuno pensi che Berlusconi riesca davvero a vincere le elezioni e, insieme con Maroni, a staccare l’Italia dalle Alpi. Ma perché la sua ri-ri-discesa in campo può contribuire a fare della nostra campagna elettorale una specie di Halloween di tutti gli spettri antieuropei e xenofobi che si aggirano nel continente: un esperimento in grande stile, in una grande nazione fondatrice, di ripudio dell’Unione. Il significato delle prossime elezioni è dunque segnato: sarà una conta tra chi pensa che l’Europa sia la causa e chi pensa che l’Europa sia la soluzione dei nostri problemi. Da che parte starà il Pdl? Dove porterà i milioni di elettori moderati e conservatori che ancora rappresenta?

Dicono che intorno a Berlusconi agisca una specie di cordone sanitario composto da Letta, Confalonieri, Doris e Ferrara: il gruppo che l’aveva convinto al passo indietro riconoscendo al governo Monti, appena quattro giorni fa, «una direzione riformatrice e liberale». Sarebbero loro ad aver scongiurato in extremis l’apertura di una crisi per vendicarsi di una sentenza. Ma il partito? Alfano, chiuso in un silenzio che si spera siculo, e cioè in attesa del risultato del voto regionale, si lascerà rottamare a quarant’anni? O impugnerà le primarie già depotenziate per condurre un’aperta battaglia politica contro il partito di Villa Gernetto? Un deputato del Pdl ha detto ieri che «Berlusconi è in minoranza nel partito». Sarà il caso che si contino.

Antonio Polito

29 ottobre 2012 | 8:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_29/polito-chi-ci-guarda-e-chi-ci-teme_718842b6-218f-11e2-867a-35e5030cc1c9.shtml
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« Risposta #29 inserito:: Novembre 10, 2012, 05:57:28 pm »

LEZIONI AMERICANE

L'estremismo che non paga


Nel suo meritorio tentativo di far sopravvivere il Pdl alla fine del berlusconismo, Alfano potrebbe segnalare al riluttante Cavaliere qualche lezione americana, appena appresa dalla sconfitta di Romney. Berlusconi, che ha costruito prima le sue tv e poi la sua politica sul modello americano, dovrebbe capire.
La prima lezione è che l'estremismo non rende più. Per questo l'establishment del Partito repubblicano aveva scelto un candidato centrista.
Ma per vincere le primarie Romney ha dovuto prendersi sulle spalle tutti i radicalismi della destra; e questo è stato il suo più forte handicap, che gli è rimasto appiccicato addosso nonostante una tardiva svolta moderata. La riforma dell'assistenza sanitaria di Medicare, proposta dal suo vice Paul Ryan, ha spaventato gli elettori anziani; la faccia feroce sull'immigrazione ha spaventato gli elettori ispanici; l'impegno a licenziare Ben Bernanke, il Presidente della Fed, ha spaventato tutti. Quattro anni fa vinse la «speranza» di Obama, stavolta ha vinto la «paura» della Destra. «I Repubblicani sono diventati un partito di Torquemada», ha scritto l' Economist . E se l'ondata dei «Tea Party» ha perso la sua spinta propulsiva intellettuale e politica in America, è difficile che un «partito delle amazzoni» possa resuscitarla in Italia.
La seconda lezione è che la crisi economica si è inghiottita tutte le culture war e i conflitti etici che sembravano essere diventati il contenuto stesso della battaglia politica moderna. La conversione anti-abortista di Romney, che da governatore del Massachusetts era invece pro-choice , non ha portato voti. L'azzardo di Obama, che si è dichiarato favorevole alle nozze gay, non gli ha tolto voti. Nel generale disincanto, i vescovi cattolici si sono trovati schierati con un mormone, ma gli elettori hanno votato pensando al portafoglio. Il bipolarismo etico sembra in declino perfino nella sua terra d'origine.
La terza lezione è che non basta rinfacciare al governo un'economia stagnante per vincere le elezioni. Dalla Grande Depressione in poi mai nessun presidente era sopravvissuto a un primo mandato concluso con una disoccupazione così alta e una crescita così anemica.
Se Obama c'è riuscito, nonostante i modesti risultati e la grande delusione, è perché gli americani gli hanno riconosciuto di aver fermato il Paese sull'orlo del baratro e gli hanno concesso una seconda chance. È probabile che chi volesse condurre da noi un'analoga battaglia elettorale contro Monti, attribuendo a lui la recessione, risulterebbe altrettanto poco credibile presso gli elettori moderati, soprattutto se faceva il premier o il ministro del Tesoro fino a un anno fa.
La quarta lezione è che l'irresponsabilità fiscale non paga. Perfino in America, dove c'è una Banca centrale che può stampare moneta come piace a Berlusconi e lanciare banconote dagli elicotteri, si avvicina il baratro del fiscal cliff . Il debito non può crescere ad libitum per sempre, nel mondo reale nessuno ti rimette i debiti (questa lezione vale anche per i neo-keynesiani del Pd). Si deve dunque ridurre il deficit; non si può farlo solo con più tasse sui ricchi, ma non si può farlo nemmeno solo con tagli alla spesa sociale per i poveri. La Destra non è stata considerata credibile su questo punto in America, dove pure ha una tradizione di successo in economia; meglio non provarci in Italia dove questa tradizione, per usare un eufemismo, non c'è.
Se Alfano snocciolasse davvero queste 4 lezioni americane a un Berlusconi ancora convinto che basti un suo clone per risolvere il problema, potrebbe sentirsi rispondere più o meno così: ma Romney ha perso proprio perché non aveva il carisma e la personalità di un capo; dunque, caro Alfano, cura te ipsum . È un'obiezione efficace, con un forte contenuto di verità. Alla quale il segretario del Pdl potrebbe però replicare con la quinta lezione americana: la sconfitta di Romney dimostra anche che i miliardari non vanno più di moda, soprattutto se cambiano idea ogni giorno. Con i tempi che corrono, i capitani d'industria possono al massimo aiutare a vincere le elezioni, come Marchionne con Obama, se fanno bene il loro lavoro e danno lavoro. Ma è altamente improbabile che un altro Berlusconi, giovane gelataio o attempato billionaire che sia, possa ripetere il suo miracolo politico.

ANTONIO POLITO

10 novembre 2012 | 8:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_10/estremosmo-non-paga-polito_bea7a4ea-2b00-11e2-9d1b-8a6df7db52f7.shtml
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