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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 75335 volte)
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« inserito:: Giugno 15, 2011, 06:48:08 pm »

REFERENDUM / 1

Una lunga stagione al tramonto

Se il voto delle Amministrative era stata una sberla, questo è un Ko per il centrodestra. Non solo per i numeri. I quali, però, sono imponenti. A Milano e a Napoli, vittoria e sconfitta si giocarono su poche decine di migliaia di voti. Qui si tratta di quasi ventisette milioni di italiani che sono andati alle urne o nel deliberato intento di colpire Berlusconi, oppure mettendo tranquillamente nel conto questo effetto politico (compresi Maroni e Zaia, Polverini e Alemanno). Ma c'è di più. Se alle Amministrative il centrodestra aveva perso per la diserzione di tanti suoi elettori che si erano astenuti, stavolta ha perso per la partecipazione attiva di milioni di suoi elettori in dissenso.

Curiosamente, ancora una volta tocca a un referendum suonare la campana finale di un'era politica. Quello sul divorzio del '74 chiuse l'epoca d'oro della Dc e ne avviò la lunga crisi; quello sulla preferenza unica nel '91 annunciò l'esplosione del regno di Craxi; questo del 2011 sarà molto probabilmente ricordato come il punto più basso dell'epopea berlusconiana.
Prima o poi, doveva accadere. Si compie oggi il decennio di governo del Cavaliere: se si esclude la breve parentesi del '94, è dal 2001 che Berlusconi governa l'Italia, per otto anni su dieci.

La Thatcher ha retto undici anni. Tony Blair dieci. Gli elettorati democratici sono pazienti e tolleranti, ma ogni tanto si alzano in piedi come giganti e si scrollano dalle spalle il passato. Il verdetto elettorale della primavera italiana è così inaspettatamente netto che non vale neanche più la pena di discettare sulle cause di questa crisi di rigetto, se sia più etica o estetica, politica o economica. Fosse il Pdl un partito vero come i Tories o il Labour inglese, oggi inviterebbe il suo leader storico a sacrificare se stesso per salvare la ditta. Ma qui non sembra esserci in giro un Major che possa prendere in corsa il testimone e magari resistere un'altra legislatura. La transizione dunque non sarà né ordinata né rapida. Ci aspettano mesi convulsi. Berlusconi proverà di certo a succedere a se stesso, ma ormai la Lega ha fretta di slegarsi, e l'opposizione sente l'odore del sangue, penserà solo a sfruttare il magic moment elettorale.

A differenza degli altri referendum «epocali», che modernizzarono l'Italia, in questo caso però il gorgo del berlusconismo trascina con sé anche quelle poche velleità di riforma che avevano percorso il governo. La valanga travolge certamente una delle cose peggiori del centrodestra, la legge ad personam per antonomasia; ma cancella anche due decisioni lungimiranti, e cioè la riapertura dell'opzione nucleare e l'introduzione di un po' di concorrenza nel settore dei servizi pubblici. Ogni volta che ci lamenteremo per la mancata crescita (0,25% di Pil all'anno per dieci anni, secondo l'impietoso calcolo dell'Economist) dovremo ricordarci che in Italia non solo non si possono abbassare le tasse, ma non si può nemmeno tagliare la bolletta dell'energia o ridurre i deficit delle municipalizzate. E così è davvero difficile crescere.

Bisogna dunque ammettere che il vero trionfatore di questa tornata elettorale è Antonio Di Pietro. È stato lui che ha avuto l'ardire di raccogliere le firme sul legittimo impedimento alle feste dell'Unità, scommettendo sulla spallata elettorale a Berlusconi quando il Pd temeva le urne come i bambini temono l'uomo nero. È stato lui ad avere la furbizia di «spoliticizzare» l'iniziativa quando il disastro di Fukushima gli ha dato la spinta insperata verso il quorum. Ed è stato lui a trascinarsi così dietro Bersani, in rincorsa per far dimenticare il suo passato da liberalizzatore scritto sull'acqua.
Così, se da una parte il referendum segna senza dubbio una sconfitta storica di Berlusconi, come Bossi apertamente schierato per l'astensione, rivelando una perdita di sintonia con il Paese che per un grande comunicatore è già una sentenza; dall'altra parte non si può davvero dire che la coalizione arcobaleno che lo ha stravinto rappresenti un'alternativa pronta e spendibile, gonfia com'è di sospetto anti mercato e di rifiuto del privato e della concorrenza. Come i radicali potrebbero testimoniare, una cosa è vincere i referendum e un'altra è vincere le elezioni per il governo del Paese.

Antonio Polito

14 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_14/
« Ultima modifica: Gennaio 11, 2012, 11:52:27 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 14, 2011, 11:07:50 am »

Tartassati

I Soliti Noti del Ceto Medio sotto torchio


Il dito medio di Bossi è arrivato a segno: sul ceto medio. Una volta era Cipputi, l'operaio di Altan, la vittima predestinata del mitico trattamento con l'ombrello. Ma ormai gli operai sono pochi, e già molto spremuti. Quando si tratta di stangare non restano che loro, quelli della middle class , né troppo poveri da meritarsi l'esenzione né troppo ricchi da garantirsi l'evasione. Gente che è facile trovare, perché sai dove abita e quanto guadagna, e lo sai per una ragione molto semplice: perché paga le tasse.

Prendete il cosiddetto contributo di solidarietà: è stato concepito come una tassa sui benestanti, e per questo è puntato sul segmento medio-alto dei contribuenti italiani: chi dichiara da 90 mila euro in su. E però questi fortunati, che poi guadagnano meno di 4000 euro netti al mese e tanto ricchi dunque non sembrano, sono appena mezzo milione di persone: solo l'1,2% di tutti coloro che pagano l'Irpef, ma il 19,6% dell'intero gettito. Sono cioè, tecnicamente parlando, i «soliti noti». Gente che hai già nel mirino, quindi non ti costa nulla premere il grilletto. Gente che non ha tempo di fare una scappatina in Svizzera a comprarsi una cassetta di sicurezza prima della manovra o che non ha la barca intestata alla società perché la società non ce l'ha proprio.

Quando si tratta di far soldi e di farli in fretta, è essenziale colpire chi è indifeso. Ciò che conta non è il reddito vero di chi si vuole spremere, ma la sua rintracciabilità. Prova ne sia il mezzo pasticcio che è successo con il contributo di solidarietà per gli autonomi. Il consiglio dei ministri aveva deciso che per loro sarebbe partito da una soglia più bassa, 55 mila euro, perché la differenza doveva «incorporare» l'evasione. I 55 mila di un autonomo, insomma, in Italia corrispondono ai 90 mila di un dipendente. Ma la norma è saltata perché la disparità di trattamento sarebbe incostituzionale, con il risultato che nella rete di autonomi ne resteranno davvero pochini. Siamo alle solite: questa storia spiega bene come l'ingiustizia all'origine del male sociale italiano, quella fiscale, si riproduca e si amplifichi all'infinito: chi paga più tasse ordinarie pagherà anche più tasse straordinarie, più addizionali, più una tantum, due tantum, tre tantum, in una catena di «progressività» che ha portato questa fascia di ceto medio a una tassazione oscillante tra il 48% e il 53%, senza paragoni in Europa. E pensare che si tratta esattamente degli italiani ai quali nel 2001, in una storica puntata di Porta a Porta, Berlusconi aveva promesso un'aliquota del 33%.

I giornali vicini al centrodestra sono allibiti. Arrivano a rimpiangere la «patrimoniale», che al ceto medio avrebbe fatto certamente meno male. Oppure se la prendono con Bossi, per quel dito medio che ha chiuso ogni discorso sui risparmi ben più cospicui, e soprattutto duraturi, che sarebbero potuti derivare da una riforma delle pensioni di anzianità, scrivendo così l'ultimo capitolo di una parabola che cominciò quasi vent'anni fa con Cofferati che urlava «le pensioni non si toccano» a un Berlusconi astro nascente, e si conclude oggi con Bossi che urla la stessa cosa a un Berlusconi sul viale del tramonto. Oppure chiedono la testa del commercialista Tremonti, che un contributo di solidarietà poteva chiederlo, come suggerisce il Pd, anche agli evasori, visto che sa di chi sono i capitali rimpatriati con lo scudo.

Ma non è solo l'Irpef. Tutto nella manovra sembra congiurare contro quel ceto che è così «medio» da non avere nessuna rappresentanza, nessuna «Conf» che lo protegga: né una Confindustria se è un padrone che non vuole la patrimoniale, né una Confederazione sindacale se è un operaio che non vuole perdere la pensione di anzianità, né una Confcommercio se è un commerciante che non vuole l'aumento dell'Iva. Gente senza nome e senza volto come gli statali, che per decenni si sono goduti lo Stato come datore di lavoro e ora ne pagano il fio, e perdono il Tfr per due anni e forse anche la tredicesima. E perdono pure i «ponti», vera grande riforma di questa manovra se mai sopravviverà all'ira popolare e all'iter parlamentare: perché i veri poveri i ponti li fanno a casa, i veri ricchi li fanno quando vogliono, ma è il ministeriale che vive sui ponti.

Nelle moderne società dei due terzi, i due terzi sono loro, il ceto medio. Sembra inevitabile che a pagare siano loro, ogni volta che c'è da pagare. Del resto succedeva anche con Amato e con Prodi. Però la nuova destra berlusconiana era nata proprio per capovolgere questo assioma, tagliando le mani dello Stato invece che le tasche del suo elettorato. Per questo la manovra d'agosto segna l'inizio di un'era nuova nella politica italiana. Ora che è stato tradito, che cosa farà il ceto medio?

Antonio Polito

14 agosto 2011 09:46© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_14/Soliti-Noti-Ceto-Medio-sotto-torchio-polito_f0e7ad9e-c646-11e0-a5f4-4ef1b4babb4e.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 04, 2011, 02:24:45 pm »

LE INCOGNITE DEL DOPO CAVALIERE

Una terra sconosciuta

Se anche Papandreou fosse costretto a lasciare, l'Italia resterebbe l'unico tra i Paesi a rischio a conservare il primo ministro di prima: Portogallo e Irlanda hanno infatti già cambiato governo e la Spagna sta per farlo. Sembra però ogni ora più impossibile che questa anomalia italiana sopravviva. Il premier ha assicurato ieri al G20 che il nostro debito pubblico è coperto dalla ricchezza privata. Ma i governi possono esaurire il loro capitale politico ben prima di esaurire i capitali e i patrimoni da tassare.

L'era Berlusconi sta dunque chiudendosi nel peggiore dei modi. Per un governo di centrodestra, infatti, perdere la fiducia dei mercati finanziari è il colmo, la misura di un fallimento. Resta da vedere chi saprà riconquistarla. L'impressione è che quegli stessi mercati se lo stiano già chiedendo; e, a giudicare dallo spread, senza risposta.

Tutto ruota intorno alla sinistra, intendendo per essa l'alleanza di Vasto, con il Pd al centro e Di Pietro e Vendola alle ali. Questa coalizione oggi dispone, secondo i sondaggi, del maggior numero di consensi in caso di elezioni. E la sua forza parlamentare sarebbe decisiva anche in caso di un governo d'emergenza. La domanda è: ci si può contare per un programma da lacrime e sangue, del genere che ci viene richiesto?

Già porsi questo interrogativo, che non a caso ha rivolto anche il capo dello Stato a Bersani, segnala l'esistenza di un problema. Se infatti il centrodestra italiano è così anomalo da aver spaventato i mercati, il centrosinistra, fin dai tempi del primo Prodi e del suo professore Andreatta, è stato sempre anomalo nel senso opposto, avendo privilegiato il rigore e l'austerità. Oggi non è più così. Quando Di Pietro definisce la lettera della Bce «macelleria sociale» e i «giovani turchi» della segreteria Bersani vorrebbero restituirla al mittente, c'è da dubitare del sostegno reale che questi partiti potrebbero dare a un governo di salute pubblica, quand'anche il nome del suo premier fosse da solo un programma. Ma c'è di più: un sentimento nuovo, che s'è diffuso nella cultura di questa parte politica, e che è ormai espresso con sempre maggior chiarezza dai suoi polemisti e maître à penser.

Questo nuovo senso comune, forse eccitato dal riapparire di un movimento di protesta anticapitalista globale, pretende di mettere in opposizione democrazia e mercato. Sostiene che se si obbedisce al mercato si disobbedisce inevitabilmente al popolo. Dimenticando che ogni democrazia, persino quella greca, può liberamente mandare a quel paese anche l'euro, purché ne accetti le conseguenze. I cosiddetti mercati non impongono nulla all'Italia: è l'Italia che con una certa frequenza va a chiedere loro i soldi per tenere in piedi lo Stato, compreso quello sociale. Il nuovo mood «indignato» che seduce la sinistra applaude i mercati se bocciano Berlusconi, ma li demonizza se ci chiedono sacrifici. Intima anzi di rinnegare le esperienze sprezzantemente definite «riformiste» di Clinton e Blair, perché troppo cedevoli ai mercati.

La crisi, insomma, ha cambiato anche la sinistra. Altre volte, nel corso di questa tormentata seconda repubblica, si sapeva con che cosa si sostituiva Berlusconi. Stavolta si ha l'impressione di avventurarsi in una terra sconosciuta. E anche se il cammino è obbligato, perché dietro di noi è rimasto solo il deserto, ciò non di meno bisogna riconoscere che, per ora, stiamo camminando al buio.

Antonio Polito

04 novembre 2011 08:27© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_04/polito-terra-sconosciuta_c011ed5e-06ad-11e1-b2db-bf661a45e1f2.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 15, 2011, 11:48:55 am »

LE SCELTE DEL PROFESSORE E I PARTITI

Tirare dritto badare al sodo

Le notizie secondo le quali il governo Monti equivarrebbe a una sospensione della politica democratica sono grandemente esagerate, come disse quel tale di cui era stata annunciata la morte mentre era vivo e vegeto. Sarà infatti la politica democratica, liberamente, a dargli o non dargli la vita nel solo modo che essa conosce: con il voto del Parlamento. Altrettanto esagerata, anche se più vicina al vero, è l'affermazione che il governo nasce per volere dei mercati. I quali, se così si può dire, hanno certamente votato la sfiducia a Berlusconi, anche se gli hanno dato tre mesi di tempo per salvarsi e quel tempo non è stato sfruttato. Però non votano loro la fiducia a Monti. Anzi, la giornata di ieri dimostra che la strada sarà lunga, la fatica sarà tanta, e che nemmeno Mario Monti è come il confetto Falqui di una celebre pubblicità, quel medicinale al quale per fare il suo effetto bastava che se ne pronunciasse il nome.

Più che della politica e dei mercati, il governo Monti, se e quando nascerà, sarà invece l'effetto di un vasto moto di opinione pubblica. Composto, per la prima volta insieme dopo tanti anni, da chi non ha mai votato Berlusconi e da tanti che l'hanno sempre votato ma ora chiedono a qualcun altro di tirarci fuori dai guai, perché il loro beniamino se n'è dimostrato incapace. Questo consenso non partisan, registrato dai sondaggi e non certo attribuibile né alla popolarità di Monti né al suo appeal mediatico, è un fatto nuovo e altamente positivo, anche se condizionato e a tempo. È una prova di maturità del Paese che offre una provvidenziale finestra di opportunità per fare le cose difficili e impopolari che vanno fatte. Il premier incaricato, nel comporre il suo dicastero, deve esserne consapevole e deve farsene forza. Oggi quella opinione pubblica gli chiede di non accettare veti dai partiti, e di fare così in fretta da non autorizzare neanche il sospetto che li stia accettando.

Qualsiasi governo in democrazia deve ricercare il sostegno popolare. Perfino un governo non generato dal lieto evento delle elezioni, bensì dall'infausto caso di un'emergenza nazionale. Ma è da dimostrare che oggi quel consenso sia rappresentato dagli stati maggiori di partiti esausti come la Lega, che si sottrae perfino ai doveri istituzionali e diserta l'incontro con il presidente incaricato pur di non rinunciare alla sua propaganda.

Monti può trovare lo strumento che gli serve nella Costituzione, in quell'articolo 92 che non è caduto in prescrizione solo perché nessuno lo usa mai. Si scelga i suoi ministri senza contrattarne i nomi. Chi non li gradirà potrà respingerli assumendosene la responsabilità in Parlamento. Il futuro premier deve permettersi, almeno adesso, di non comportarsi da politico pur senza diventare impolitico. Due esempi di veti incrociati cui ha tutte le ragioni di resistere: il Pdl non ha un diritto naturale a scegliere il ministro di Giustizia; e il Pd non ha il diritto di definire la eventuale nomina di un suo senatore, Pietro Ichino, come una «provocazione».

L'altro parametro con cui non i partiti né i mercati, ma gli elettori giudicheranno il governo, sta in quanto sarà diverso dai precedenti, e quanto invece assomiglierà all'Italia reale, quella che studia, lavora, produce. Questa Italia è fatta anche di donne e di giovani, non solo di maschi sopra i sessantacinque con una cattedra universitaria. Per un premier che ha come programma quello di battersi contro i «privilegi», il primo segnale da dare è di essere consapevole del privilegio dell'età e del sesso che vige in questo Paese. E ieri ha annunciato che ne terrà conto aprendo le consultazioni anche a giovani e donne. Da tifosi del suo tentativo, ci auguriamo dunque che il professor Monti sarà capace di stupirci nella scelta dei ministri. Per quanto questa sia probabilmente la prima volta nella sua vita in cui si debba preoccupare anche del consenso popolare, è necessario farlo. La durata e il successo del suo tentativo dipenderanno innanzitutto da quanto gli italiani sentiranno il suo governo come il loro governo. Oggi, dopo tanti nani e ballerine, sono pronti ad accettarne uno serio e sobrio. Ma, proprio perché quel governo dovrà chiedere loro tanti sacrifici, è meglio che non sia anche grigio e novecentesco, o che appaia lontano e remoto dal volto della nazione che si propone di guidare fuori dal baratro.

Antonio Polito
15 novembre 2011 09:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_15/polito_tirare-dritto_0dd76356-0f51-11e1-a19b-d568c0d63dd6.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 09, 2011, 10:57:48 pm »

Il nodo da tagliare

Esattamente vent'anni fa, in un altro weekend di dicembre, l'Europa della moneta nasceva a Maastricht. Può morire oggi a Bruxelles.
Gli esperti dicono che l'ora più nera nei vertici dell'Unione è sempre un attimo prima dell'alba: i politici accettano compromessi solo sul ciglio del burrone. Speriamo che anche stavolta la luce del sole dissolva l'incubo. Ma a Maastricht c'erano solo 12 Paesi, adesso se ne contano 27. E stamattina, se l'edificio non sarà crollato prima, si dovrebbe solennemente aggiungere il ventottesimo, la Croazia. Solo per fare un giro di tavolo, ci si mette un paio d'ore. E i mercati asiatici riaprono prima dell'alba.

In questi vent'anni l'Europa è cresciuta di peso e di altezza, ma lo scheletro e la testa sono rimasti quelli di allora: lo imponeva l'ambiguità di fondo del progetto, nato per nascondere la forza della Germania e la debolezza della Francia. Ciò che è cambiato è l'euro: dotandosi di una moneta unica, l'Europa ha voluto giocare la sua partita tra i pesi massimi del mondo, e c'è riuscita. Però per combattere a quel livello bisogna avere riflessi pronti, movimenti agili, unità d'intenti. L'Europa di oggi non ce l'ha. Per questo traballa sotto i colpi del mercato, e non riesce a reagire.

Cosicché nel drammatico vertice apertosi ieri e destinato a finire chissà quando, il nodo è arrivato al pettine: per salvare l'euro potrebbe essere necessario sacrificare l'Europa, o viceversa. Germania e Francia dicono infatti di sapere che fare per spegnere l'incendio dell'Acropoli e i focolai del Colosseo: centralizzare il comando. Ma non sanno come imporlo agli altri. In particolare a Cameron, il premier inglese, che ieri sera ha detto chiaro e tondo di essere disposto a cambiare i Trattati secondo il volere franco-tedesco solo se in cambio gli ridanno il suo potere di veto sui regolamenti finanziari che danneggiano la City. Nordici e scandinavi, dal canto loro, farebbero volentieri a meno del tallone teutonico.

Berlino e Parigi hanno il loro piano B: lasciare il tavolo dell'Europa a 27 e riunirsi da soli con i 17 dell'euro. Riscrivere così le regole che possono estendere la disciplina di bilancio tedesca a tutta l'area e alzare i necessari muri anti-incendio che possono salvare la moneta. Ma sanno anche che così seppellirebbero, insieme al sogno dei padri fondatori, le istituzioni europee (Parlamento e Commissione) e numerosi elementi del mercato unico. Non sarebbe più un'Europa a due velocità, che nei fatti già c'è. Sarebbero due Europe. Cioè nessuna, perché non esiste il plurale di Europa.

Che fare? Scegliere la borsa, cioè l'euro, o la vita, cioè l'Europa? Si può star certi che i leader europei estenueranno la trattativa alla ricerca di una terza via. È sconsigliabile. Non c'è più trucco che possa convincere né i mercati in tempesta né gli elettori terrorizzati. Meglio tagliare finalmente il nodo. Qualunque sia la soluzione, due cose devono essere chiare entro lunedì: chi è al comando e di quanti soldi dispone.

Antonio Polito

9 dicembre 2011 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_09/polito-nodo-da-tagliare_0b46d622-2229-11e1-90ea-cfb435819ac4.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 14, 2011, 06:56:15 pm »

Echi dalla Palude

Bentornati in Italia. Se per un attimo vi siete illusi che sarebbe bastato un manipolo di tecnici a scacciare i mercanti dal tempio di Montecitorio, ricredetevi. Non è così. La manovra, concepita come un blitz anti -spread , ha già assunto le più classiche movenze da palombaro della politica italiana, immergendosi in una trattativa talmente caotica che perfino un governo con una schiacciante maggioranza parlamentare dovrà forse ricorrere al voto di fiducia.

Sintomatica la battaglia che è infuriata sulle misure di liberalizzazione. Prima rinviate tutte di un anno, evidentemente nella convinzione che la crescita potesse attendere fino al primo gennaio del 2013. Poi, in extremis , il ripescaggio. Per i taxi, invece, nessun rinvio, ma addirittura l'esenzione totale. E sulla vendita libera dei farmaci di fascia C una vera e propria lotta di classe tra farmacisti e parafarmacisti; con i primi, molto ascoltati in Parlamento, pronti alla serrata pur di non perdere il sacro monopolio del collirio.

L'Italia delle corporazioni ha mostrato ieri i muscoli anche a uno come Monti, che pure su libero mercato e concorrenza ha costruito il suo prestigio in Europa. Come al solito, ha tentato di usare i partiti, che saranno pure in panchina ma quando si tratta di approvare le leggi giocano eccome. Si sa come funziona: tassisti e farmacisti non telefonano né a Monti né a Passera, ma ai politici protettori. I quali, a loro volta, telefonano a Monti e a Passera, che hanno bisogno dei loro voti. Eppure, a ben vedere, è proprio questa sottomissione al particulare la debolezza che ha portato la nostra politica, unica in Europa, a dover cedere lo scettro a un governo di professori. Affidata ora ai tecnici la missione del bene comune, è paradossalmente cresciuto il rischio che i partiti si trasformino sempre più in sindacati dei loro elettori o in comitati d'affari della borghesia delle professioni.

Ma anche per il governo la giornata di ieri suona la campana. Si dice che ogni manovra in Parlamento è come una lucertola, disposta a perdere un po' di coda pur di salvare la testa. Dove la testa sarebbero i saldi, conservati finora grazie all'unanimità che si registra sempre quando si tratta di aumentare la pressione fiscale inventando nuovi balzelli (notevole la tassa su immobili e attività finanziarie all'estero: non c'era il mercato unico in Europa?). Si vede che il ceto medio non ha protettori né in Parlamento né nelle piazze. Eppure la metafora della lucertola si adatta male al gabinetto Monti. Perché in questo strano animale la testa è la sua credibilità. Il sostegno di cui ancora gode nell'opinione pubblica, nonostante i sacrifici imposti, è basato sulla presunzione che i tecnici non faranno favoritismi per motivi di consenso. Ieri le forze politiche hanno festeggiato quel poco che sono riuscite a strappare ciascuna per la propria constituency . Ma se la gente si dovesse convincere che chi è protetto da un partito o da un sindacato continua a vincere anche con i tecnici al governo, allora a che servirebbero più i tecnici?

Antonio Polito

14 dicembre 2011 | 8:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_14/polito-echi-palude_46922226-261c-11e1-97ba-d937a4e61a87.shtml
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 03:40:05 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 29, 2011, 03:40:48 pm »

TROPPI EQUIVOCI SULLA CRESCITA

Non è un gioco a somma zero

È stato un anno di grande angoscia. Non solo perché abbiamo visto in faccia due potenziali apocalissi, ma anche perché sembrano in rotta di collisione l'una con l'altra. L'ha notato la scrittrice Sarah Dunant su Bbc News : ci è stato detto che lo sviluppo si deve fermare per salvare il pianeta, esausto dal suo sfruttamento; e ci è stato detto che solo lo sviluppo può salvare il nostro benessere, oberato dai debiti. La contraddizione è bruciante, e qualcuno ci perde la testa. I media che fino a ieri ospitavano moralistiche giaculatorie contro il consumismo, moderno oppio dei popoli, ora denunciano inorriditi il calo dello shopping natalizio e chiedono al governo di fare qualcosa. Tra lo tsunami in Giappone di marzo e quello nei mercati di ottobre, abbiamo visto in faccia il dilemma della crescita economica che accompagna fin dalla sua nascita l' homo capitalisticus.

Qualche luogo comune, intanto, è bene che crolli. Solo la crescita economica può migliorare la vita materiale degli esseri umani. Se guardiamo il mondo dalla Cina, per esempio, vedremo centinaia di milioni di uomini che in questi anni sono usciti dal medioevo dei loro villaggi, e hanno conquistato un lavoro e una speranza. Processo storico, e altamente positivo; che molto probabilmente ha però contribuito a causare migliaia di cassintegrati qui da noi, cosa tutt'altro che piacevole. È così che funziona il capitalismo: distrugge, per creare. Naturalmente il potere pubblico in Europa può e deve agire perché, distruggendo ciò che va distrutto, non si distrugga anche la vita delle persone. Ma pure per garantire l'equità sociale c'è bisogno di risorse economiche, e pure quelle vengono dalla crescita. Non c'è scampo: senza crescita, non vince nessuno e perdiamo tutti.

Invece, quanti sospetti intorno a questa parola, se perfino i metalmeccanici della Fiom hanno preso a manifestare contro lo sviluppo. L' Economist ha notato che, tecnologia a parte, le tre industrie di maggior successo degli ultimi cinquant'anni sono state la finanza, la farmaceutica e l'energia. Ma, guarda caso, tutte e tre sono estremamente impopolari, e vengono normalmente additate, dai film di Hollywood ai cortei no global , come la causa principale delle diseguaglianze, del cinismo e dell'inquinamento. Il fatto è che nella nostra cultura troppi ancora concepiscono la crescita come un gioco a somma zero, dove, se qualcuno ci guadagna, sicuramente c'è chi ci perde. E invece sono bastati due salti tecnologici come il computer e l' information technology a ribaltare il pessimismo che prese la classe colta dell'Occidente alla fine degli anni Settanta, quando anche allora sembrava che l'energia fosse in esaurimento, i mercati saturi, i consumatori esausti e lo sviluppo finito. Da allora, che cavalcata ha fatto il mondo! Così inebriante da spingere i più ottimisti a credere che il tempo dei cicli economici fosse definitivamente concluso e che «recessione» fosse una parola destinata a non essere mai più pronunciata. Troppa hybris , cioè troppa tracotanza verso il destino, e troppi debiti. E la recessione, ovviamente, è tornata. Purché sia chiaro che ogni crisi non è la fine: è anzi un'opportunità perché, come è scritto in un appello di Comunione e liberazione, chiama al cambiamento, frutto di una libertà in azione: e «la libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi , «nella speranza siamo stati salvati», dice San Paolo ai Romani).

Ai catastrofisti e ai teorici della decrescita andrebbe ricordata la scommessa che nel 1980 fecero l'economista Julian Simon e il biologo Paul Ehrlich. Quest'ultimo, assumendo un punto di vista malthusiano, predisse che a causa della crescita industriale e demografica nel corso dei dieci anni seguenti il prezzo di cinque metalli fondamentali non poteva che aumentare e diventare insostenibile. Perse la sua scommessa perché accadde esattamente il contrario. Oggi che è nato il bambino numero sette miliardi, c'è di nuovo chi scommette che con l'aumento dei prezzi dei beni alimentari e con il degrado crescente dell'ambiente non ce la faremo. È probabile, ma solo se smetteremo di crescere, di innovare, di inventare nuovi modi di produrre, nuovi prodotti, nuove risorse da sfruttare, magari rinnovabili. Il telefonino, che ai fustigatori del consumismo è apparso come una delle più futili infatuazioni dell'Occidente, ha consentito all'Africa di recuperare il suo divario di reti telefoniche fisse, rappresentando così un formidabile fattore di sviluppo, di comunicazione, di informazione.

Vale lo stesso per la finanza, buona se ci presta i soldi per pagare stipendi e pensioni ogni volta che ci servono, ma cattiva se ogni tanto si permette di fare domande sulla loro restituzione. Fu in Italia che nacque il mestiere di prestare danaro, e fu in Italia che subito si scontrò con la condanna della Chiesa. Essa era basata sul principio che chi commercia in denaro commercia in tempo, il tempo intercorrente tra prestito e riscossione durante il quale matura l'interesse. E il tempo, per definizione, appartiene a Dio, come racconta una bella mostra a Firenze sul rapporto tra arte e denaro. Ma che appartenga al Creatore o al Mercato, è proprio il tempo la materia prima che serve disperatamente a noi italiani del 2012. Perché se tra dieci anni i nostri figli dovranno pagare gli interessi che stiamo sottoscrivendo oggi, state pur sicuri che avremo smesso di crescere.

Antonio Polito

29 dicembre 2011 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_29/non-e-un-gioco-a-somma-zero-antonio-polito_82dba750-31e5-11e1-848c-416f55ac0aa7.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:53:59 am »

A PROPOSITO DI LIBERALIZZAZIONI

La pagliuzza e la trave

Come Fiorello, che ne ricava un divertente video quotidiano su Twitter , ognuno di noi alla mattina va dal giornalaio, scambia due chiacchiere col benzinaio, saluta la farmacista, salta su un taxi. Sono giornate di grandi discussioni. Noi consumatori sosteniamo che se questi mestieri si aprissero a un po' di concorrenza, spenderemmo qualche euro in meno e avremmo qualche occupato in più. Loro ci mostrano i volti di gente modesta e lavoratrice, che di certo non ha passato le vacanze a Cortina, e che comincia a soffrire di una sindrome da accerchiamento. Su un punto hanno ragione: non meritano di portare da soli la croce dei ritardi italiani in materia di libero mercato, né di essere additati come l'ostacolo principale alla crescita.


L'altra sera in tv Antonio Catricalà ha detto che il governo sarà «senza pietà» con chi evade, e analoga inflessibilità ha annunciato nei confronti delle categorie cosiddette protette. Ma lo stesso sottosegretario, a una domanda sui vantaggi che porterebbe la separazione proprietaria tra Eni e Snam rete gas, ha invece risposto che «non è una priorità» del governo. Ora, poiché noi italiani paghiamo il gas fino al 50% in più del Paese più liberalizzato d'Europa, la Gran Bretagna (fonte Istituto Bruno Leoni), e poiché negli ultimi dieci anni abbiamo pagato il gas il 43,3% in più (fonte Cgia di Mestre), e poiché una famiglia tipo pagava 1.050 euro nel 2010 e ora ne paga 1.209 (fonte senatore Morando e onorevole Testa), ci domandiamo perché mai non sia una priorità intervenire in questo settore. Quanti giornalai e tassisti e farmacisti liberalizzati ci vogliono per fare un mercato del gas liberalizzato?


L'equità, stella polare dichiarata di questo governo, deve valere anche per i lavoratori autonomi e i professionisti. Prima di cercare la pagliuzza nell'occhio dei «piccoli» e dei «privati», bisogna rimuovere la trave in quello dei «grandi» e dei «pubblici». Sono infatti i mercati in cui il soggetto dominante è pubblico quelli dove c'è più grasso da raschiare. Negli ultimi quattro anni l'impennata maggiore l'hanno registrata le bollette dell'acqua (+25,5%) e i biglietti dei trasporti ferroviari (+23,6%), a fronte di un'inflazione del 4,9%. Si parla tanto di concorrenza nell'Alta velocità, ma pochi sanno che un recente decreto legge del governo Berlusconi proibisce ai concorrenti delle Fs sulle tratte regionali di effettuare fermate tra una regione e un'altra, con l'esplicita finalità di... evitare la concorrenza alle Fs, i cui treni locali sono sussidiati con i soldi dei contribuenti.
Quanto ci costa tutto ciò? E quanto ci costa spostare un conto corrente da una banca a un'altra? E quanto pesa sulle nostre bollette il grande business degli incentivi che paghiamo non solo alle energie «rinnovabili» ma anche a quelle cosiddette «assimilate», al punto che in Italia in nome dell'ambiente diamo soldi perfino ai petrolieri? E perché le tariffe della raccolta dei rifiuti urbani sono cresciute del 60% in dieci anni, e quelle delle assicurazioni auto quattro volte più dell'inflazione dal '94 a oggi?
Di barriere da rimuovere per liberare la crescita il governo ne ha dunque a sufficienza. Siccome è tecnico, non può avere timore di cominciare da quelle che proteggono i santuari più ricchi e più inaccessibili.

Antonio Polito

11 gennaio 2012 | 9:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_11/polito-pagliuzza-trave_237254e2-3c1e-11e1-9394-8a7170c83e07.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 21, 2012, 12:13:42 pm »

LIBERALIZZAZIONI

Più che i partiti va convinto il Paese

Sarà pur vero che «si poteva fare di più e meglio», come dice Bersani, o che «il governo tecnico non sta dando frutti», come dice Berlusconi; ma vien da chiedere ad entrambi perché più e meglio non sia stato fatto in questi quindici anni, e quali frutti i governi dell’uno e dell’altro abbiano dato in materia di crescita economica. Il maxi-decreto contiene certamente prudenze e rinvii. Per esempio: in materia di professioni e mestieri non si è eliminato nessun monopolio, al massimo si è allargato il numero dei monopolisti. Ma certamente appare come il primo tentativo organico di trasformare l’Italia da Paese in cui dettano legge i fornitori dei servizi, organizzati e ben collegati alla classe politica, a Paese in cui contano anche gli interessi dei fruitori dei servizi, che non hanno né sindacati né associazioni a proteggerli.

Se questo tentativo riuscirà è tutto da vedere. A cominciare da ciò che accadrà in Parlamento quando queste misure, per avere il voto dei partiti, dovranno scendere a patti con i loro emendamenti. Ma a decidere davvero sarà l’atteggiamento del Paese: sosterrà il cambiamento? Si ribellerà? O starà alla finestra ad aspettare l’esito dello scontro tra il governo dei tecnici e le corporazioni? Dovunque in Europa cambiare è difficile. Il «buon professore» Monti, come lo chiama l’Economist, ha però un indubbio vantaggio. Un celebre aneddoto di Bruxelles racconta che, alla fine di un difficile vertice, il premier lussemburghese Juncker confessò ai giornalisti: «Il guaio è che tutti sappiamo quali riforme servono ai nostri Paesi, ma nessuno di noi sa come vincere le elezioni dopo averle fatte».

Monti questo problema non ce l’ha, e non solo perché alle prossime elezioni dice che non ci sarà. Ma anche perché, almeno finora, gli elettori sembrano concordare sulla necessità delle riforme che sta facendo, anche quando non le gradiscono. Le categorie protestano, praticamente tutte; l’opinione pubblica, che non è mai la somma delle categorie, approva. Pur nel pieno di decine di mini- rivolte sociali (quella dei tassisti è al limite del codice penale), i sondaggi dicono ancora sì a Monti; ma ancor più dicono sì alle liberalizzazioni. Anzi: il partito che più è apparso frenarle, il Pdl, cala nei consensi; mentre il partito che più le invoca, il Pd, cresce. Sembra essersi creata una bolla di riformismo, se così si può dire, nell’opinione pubblica. Un tedesco direbbe che questo è il bello della frusta dei mercati, perché solo sotto minaccia di fallimento un Paese come l’Italia si dà il coraggio di cambiare.

Un italiano potrebbe invece vederci la convenienza, la speranza cioè che le liberalizzazioni diano alle famiglie un risparmio se non equivalente quanto meno risarcitorio dell’aumento delle tasse e della riduzione delle pensioni. Anche perché in tempi di crisi come questi non ci sono molti altri modi di incrementare il reddito. Essendo una bolla, questo stato d’animo va però maneggiato con un’intelligenza che si dovrebbe definire «politica», se a praticarla non fosse un governo «tecnico». Innanzitutto perché l’esperimento non avviene in vitro, ma nella carne di un corpo sociale già sotto i ferri di una durissima recessione. Bisogna dunque ricordare sempre che se si mettono in crisi categorie, professioni e settori che già sono in crisi, senza produrre vantaggi economici evidenti, si commette un errore di arroganza intellettuale. Il secondo punto cruciale è l’equità.

I «grandi» e i «pubblici» non devono ricevere un trattamento di favore rispetto ai «piccoli» e ai «privati». Anche per spuntare questa critica il governo ha deciso di avviare finalmente quella separazione proprietaria tra Eni e Snam rete gas che nessun governo politico ha mai avuto il fegato di fare. Ma è anche vero che la stessa cosa non è stata fatta per le Fs e la rete ferroviaria, rinviando ogni decisione a una mega-Authority che assomiglia sempre più a un ministero. C’è poi un’altra prova di equità da dare. Comincia lunedì la trattativa per la liberalizzazione del mercato del lavoro, che vale almeno quanto l’aumento del numero delle farmacie. In quella sede il governo deve dimostrare che i poteri forti non hanno diritti di precedenza nemmeno se si chiamano sindacati e Confindustria.

Antonio Polito

21 gennaio 2012 | 7:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_21/ma-piu-che-i-partiti-va-convinto-il-paese-antonio-polito_c1fb3696-43f9-11e1-8141-fee37ca7fb8c.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 28, 2012, 05:34:24 pm »

COALIZIONE PIÙ DEBOLE PER MERKEL

Il male greco è anche tedesco

Per la prima volta da quando è cominciata la crisi dell'euro, Angela Merkel ha perso la sua maggioranza politica al Bundestag. Dei 330 voti di cui dispone il centrodestra, solo 304 hanno votato sì al secondo salvataggio della Grecia, sette in meno dei 311 seggi che fanno la maggioranza assoluta. Solo grazie al voto favorevole, ma molto critico, dell'opposizione socialdemocratica, il Bundestag ha autorizzato comunque con un amplissimo margine il nuovo piano da 130 miliardi per Atene. Ma l'indebolimento politico della Merkel è evidente. Oggi il 62 per cento dei tedeschi pensa che versare ancora soldi nel «pozzo senza fondo» della Grecia sia una follia. Lo ha gridato in prima pagina a titoli cubitali anche la Bild con un perentorio «Stop». E il ministro dell'Interno di Berlino ha rotto la disciplina di governo per dichiarare che sarebbe meglio il default, anche per i greci.

In queste condizioni è più difficile che la Merkel possa accettare nel vertice di fine settimana ciò che gli altri capi di governo dell'Europa si augurano, e cioè di portare a 750 miliardi di euro la dotazione complessiva dei fondi salva-Stati. Proprio quando sembrava che i nervi dei tedeschi si potessero rilassare insieme a quelli dei mercati (la Bce da due settimane non ha più bisogno di comprare titoli italiani e spagnoli), la doccia fredda del Bundestag ricorda a tutti che la crisi dell'euro è politica, prima ancora che finanziaria. E dunque ben lungi dall'essere risolta.

Tre lezioni si possono trarre dall'incidente di Berlino. La prima è che tutti coloro che, anche in Italia, accusano la Merkel di egoismo nazionale e di scarsa generosità nel salvare Atene, devono sapere che le cose potrebbero andare anche peggio se a prevalere fossero i sentimenti maggioritari nel popolo e nel parlamento tedesco. Del resto il primo salvataggio greco risale ormai a quasi due anni fa, e nemmeno la Merkel può escludere che ne sarà necessario un terzo. Ma il numero di volte in cui un governo può giustificare davanti ai propri contribuenti il salvataggio di un altro Paese è limitato. Forse in Germania il limite è già stato toccato.

Seconda lezione: non è proprio il caso di rilassarsi nemmeno in Italia. I progressi del nostro Paese ormai sono uno dei pochi argomenti efficaci in mano a chi sta provando a far ragionare i tedeschi. Se la minore pressione dei mercati si traducesse da noi in un annacquamento del programma di riforme, il danno non sarebbe solo interno. Non c'è nulla da temere di più che la mancanza di paura, chiosa l' Economist .
Terza lezione: si sta creando una tensione molto forte tra ciò che va fatto e ciò che gli elettorati sono disposti ad accettare, e questa tensione «democratica» è da sempre il pericolo maggiore per l'Unione, progetto di élite e tecnocratico per eccellenza. La Merkel è nei guai che abbiamo visto, e deve conquistarsi un terzo mandato l'anno prossimo. Ma già tra poche settimane in Francia una vittoria del socialista Hollande potrebbe portare alla richiesta francese di rinegoziare il Trattato fiscale appena varato. Senza contare che i sondaggi in Grecia pronosticano un trionfo di estremisti di ogni colore, e che in Italia nessuno sa chi governerà tra un anno, e se per vincere dovrà promettere di fermare la marcia delle riforme.

Neanche ancora scampato ai mercati, l'euro è ora nelle mani degli elettorati.

Antonio Polito

28 febbraio 2012 | 8:37© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 17, 2012, 11:40:14 am »

LA LEZIONE DI MARCO BIAGI, 10 ANNI DOPO

Il costo reale di tanti ritardi

Scusate il ritardo.

Dieci anni dopo l'assassinio di Marco Biagi, forse si riforma il sistema di ammortizzatori sociali; che poi in Europa si chiama Welfare , perché da noi serve ad ammorbidire le cadute e lì a rimettere in piedi chi cade. Dieci anni fa il governo Berlusconi non trovò i soldi per finanziare la riforma, si prese la flessibilità e buttò la protezione: rimase una « flex » senza « security ». Il governo di adesso dice che invece troverà i soldi: si vede che i tempi sono migliori. Ma non stretti però, visto che si partirà, pare, dal 2017.

Scusate il ritardo. Dieci anni dopo l'assassinio di Marco Biagi, personalmente attaccato dal segretario della Cgil del tempo, Sergio Cofferati, il segretario di oggi, Susanna Camusso, ammette: «La Cgil può avere fatto errori di personalizzazione, la personalizzazione è sempre sbagliata... credo possa aver confuso lo studioso con il governo...». Non una vera autocritica, ma sempre meglio di niente. Anzi, da parte dei nemici di allora è in corso una rivalutazione un po' truffaldina di Biagi, quasi come se fosse sempre stato un oppositore della «legge Biagi».

Scusate il ritardo. Quarantadue anni dopo lo Statuto dei lavoratori, forse si riforma un articolo di quella legge: il celebre, sacro, intoccabile 18. Pare che nel frattempo il mercato del lavoro sia infatti un po' cambiato: allora non c'erano la globalizzazione, gli immigrati, il computer, il cellulare, i voli low cost , l'euro, eccetera eccetera. Infatti Gran Bretagna e Spagna con le loro riforme hanno fatto in tempo in questi dieci anni ad avere un boom e uno sboom dell'occupazione, e la Germania addirittura un boom, uno sboom e poi un ri-boom. Noi ci stiamo pensando. C'è pure chi è in ritardo sul ritardo: quelli che stavano nel Pci si astennero anche sullo Statuto, nel '70. La legge voluta dal socialista Brodolini e scritta dal socialista Giugni parve a loro troppo moderata, non citava i diritti politici oltre quelli sindacali. Giugni rispose che leggere il giornale è un diritto politico, ma leggerlo in fabbrica durante il lavoro, forse no.

Scusate il ritardo. Il ministro dell'Ambiente Corrado Clini dice che il rifiuto italiano degli Ogm è un «grave danno perché da sempre compromette la ricerca sull'ingegneria genetica applicata all'agricoltura, alla farmaceutica e anche a importanti questioni energetiche». Giusto. Peccato che negli ultimi dieci anni tutti i ministri dell'Agricoltura che si sono succeduti, da Pecoraro Scanio ad Alemanno, abbiano deliberatamente arrecato questo danno all'Italia. E Corrado Clini, che è stato direttore generale del ministero dell'Ambiente dal 1990 - avete capito bene: da 22 anni - forse poteva segnalarcelo prima, questo grave danno.

Scusate il ritardo. Tredici anni dopo il moto no global di Seattle, e undici anni dopo il moto e il morto di Genova, tutto in nome dei poveri del mondo, la Banca Mondiale ha accertato che la globalizzazione ha ridotto la povertà assoluta (cioè chi vive con meno di 1,25 dollari al giorno) in ogni parte della Terra. È la prima volta che accade. Abbiamo raggiunto l'obiettivo dell'Onu di dimezzare la povertà cinque anni prima del previsto: oggi è infatti la metà che nel 1990. Non c'è niente da festeggiare, perché sopra 1,25 dollari ma sotto i 2 dollari al giorno c'è più di un miliardo di esseri umani. Però, forse, con più globalizzazione si raggiungerà anche loro. È dunque certo che un altro mondo è possibile; ma non si capisce perché Bertinotti e Vendola volevano tenerne fuori i contadini dell'Asia.

Intendiamoci: come dice il detto, meglio tardi che mai. Non ho dubbi, per esempio, che tra una decina d'anni si riconosceranno anche i vantaggi dell'Alta velocità, come oggi del resto già accade a chi viaggia tra Roma e Milano, anche se nel tratto Firenze-Bologna - ha calcolato Salvatore Settis - essa «ha provocato la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti». Però per allora i treni potrebbero non viaggiare più su rotaie, come già accade a Shanghai. E sono sicuro che tra dieci anni si riconoscerà anche l'utilità dei rigassificatori e forse perfino degli inceneritori di immondizia. Bisogna solo vedere nel frattempo quanto ci costeranno il gas importato dalla Russia e la monnezza spedita in Olanda. D'altra parte, arrivare in ritardo è un lusso, signori si nasce. E noi, avrebbe detto Totò, modestamente lo nacquimo .

Antonio Polito

16 marzo 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_16/costo-reale-di-tanti-svantaggi-polito_2e8f9f14-6f2d-11e1-8ee0-fb515f823613.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 17, 2012, 11:57:55 am »

Le nuove partecipazioni statali

Roberto Formigoni e Nichi Vendola sono due star della politica regionale. Sono esperti, carismatici, dotati di un proprio seguito elettorale, animati da un progetto e ansiosi di proiettarlo sulla scena nazionale. Eppure sono finiti entrambi al centro del tornado di scandali abbattutosi sul sistema Sanità, una greppia di denaro pubblico che è ormai l'equivalente delle Partecipazioni statali di un tempo.

Formigoni e Vendola sono anche due personalità che più diverse non si può: uno proviene dalla Dc e cerca la liberazione nella Comunione; l'altro viene dal Pci e l'ha sempre cercata nel Comunismo. Roberto ha spinto al massimo la presenza del «privato» nel welfare, Nichi si è fatto paladino del «pubblico» senza se e senza ma. Eppure entrambi hanno reagito agli scandali nello stesso modo: da vergini offese, alludendo a trame ordite ai danni della loro persona e del loro rivoluzionario disegno, rifiutando ogni responsabilità politica. Formigoni, non essendo indagato, ha sempre rigettato con sdegno il parallelo con gli scandali della Puglia; ma ora è un intellettuale barese, Alessandro Laterza, a dire con sdegno che la «primavera pugliese» sta finendo come la Lombardia.

E in effetti la situazione politica alla Regione lombarda sembra al collasso. Quando hai dieci consiglieri indagati, tra i quali quattro membri su cinque dell'ufficio di presidenza del Consiglio, due assessori arrestati, altri due dimessi, e una Nicole Minetti eletta nel tuo listino personale, è difficile cavarsela come fa Formigoni, dicendo che dei reati rispondono le persone e lui risponde solo del buon governo. Perché una tale diffusione del malaffare o è frutto di un'impressionante serie di errori giudiziari o chiama in causa un sistema politico al cui vertice c'è lui. Qui non si tratta di responsabilità penali: anche se, per gli standard del Nord Europa che a Milano dovrebbero valere, andare in vacanza insieme a chi fa affari con la Regione, in un settore che assomma il 75% della spesa totale e vale 17 miliardi di euro, basterebbe per una condanna politica. Qui si tratta piuttosto della responsabilità oggettiva di chi da 17 anni è il leader incontrastato di un esperimento di governo indicato come esempio al Paese. Le falle che vi si sono aperte, la sua vulnerabilità alla corruzione, meriterebbero ben altra umiltà autocritica. L'ostinazione a minimizzare autorizza invece il sospetto che il «Celeste» abbia esaurito la sua spinta propulsiva, e punti ormai solo a sopravvivere.

La sanità lombarda ha scelto un modello di forte sussidiarietà e di ampio intervento del «privato», sia profit che non profit. Bisogna dire che non è questa la causa dei suoi guai attuali. Anzi, ha garantito alta qualità del servizio, efficienza ed equilibrio finanziario, certo più che in tante altre regioni, Puglia compresa, dove la retorica del «pubblico» copre sperperi e clientele. Però è proprio in un sistema misto che la neutralità del regolatore assume un'importanza decisiva. E invece anche l'ultima inchiesta sta portando alla luce un sistema di potere che condivide troppo col Governatore, a partire dalla comune militanza in Comunione e Liberazione. Vuol dire che l'amministrazione non è abbastanza separata dagli affari. Questa è la responsabilità politica di Formigoni. E di questa non può evitare di rispondere.

Antonio Polito

17 aprile 2012 | 8:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_17/nuove-partecipazioni-statali-editoriale-polito_084fada4-884a-11e1-989c-fd70877d52ac.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 26, 2012, 06:20:36 pm »

SCENARI POLITICI E PRESSIONI SU BERLINO

L'isolamento dei più forti


Sarà di nuovo maggio il mese fatale dell'Europa? Diremo anche dell'euro che «ei fu, siccome immobile/ dato il mortal sospiro»? La sera del sei maggio le urne potrebbero sancire che la maggioranza dei greci non vuole più restare nella moneta unica, premiando la galassia di partiti che sperano di liberarsi dei sacrifici mandando a quel paese la troika, la Bce e la Merkel. E nella stessa sera dovremo prendere atto che anche la maggioranza dei francesi non vuole più stare nell'Europa così come è oggi. Se vincerà Hollande, la sfida è chiara: rinegoziare il patto fiscale appena sottoscritto con la Germania. Ma anche se vincesse Sarkozy, ad ascoltare i suoi ultimi comizi a caccia di voti lepenisti, il futuro non sembra meno tempestoso: «Ora basta, cambiamo o non ci sarà più l'Europa».

Se si aggiunge che a maggio votano anche due Länder tedeschi in un turno che potrebbe affondare la coalizione tra la Merkel e i liberali; e che è in crisi di governo pure l'Olanda, fino a ieri il più arcigno guardiano del rigore teutonico, si capisce l'allarme, ma anche l'ansia e il senso di impotenza, che si sta impadronendo delle élite europee e italiane. Nessuna cura sembra funzionare. I mercati hanno prima punito il poco rigore dei Paesi debitori, poi hanno punito l'eccesso di rigore imposto ai Paesi debitori, e ora sembrano temere che gli elettori fermino la politica del rigore. In Italia stiamo facendo, più o meno bene, tutti i compiti a casa che ci sono stati richiesti, eppure lo spread resta sotto la sufficienza. Lo stesso spirito di salvezza nazionale che aveva spinto Monti al governo sembra smarrirsi: i partiti pensano ai loro nomi e ai loro soldi, i giornali pensano di nuovo a Ruby, e i sindacati pensano a far chiudere i supermercati il 25 Aprile.

Tutti si chiedono che fare. E tutti chiedono alla Merkel di fare qualcosa. È un coro che va da Washington a Madrid, dal Manzanarre al Reno.
Il governo tedesco sente la pressione e cerca l'azione. Si spiega così l'annuncio dato ieri dell'incontro svoltosi la settimana scorsa tra il consigliere europeo della Cancelliera e il nostro ministro Moavero. La Germania propone di scrivere un nuovo Patto, con vincoli e sanzioni, dopo quello sul rigore dei bilanci: un altro «Compact», che stavolta dovrebbe riguardare le riforme strutturali (non a caso rilanciate ieri da Draghi) e la competitività. Berlino vorrebbe cioè legare tutti i Paesi dell'area a una maggiore convergenza non solo delle finanze pubbliche ma anche delle economie, nella speranza che questo favorisca la crescita. L'Italia di Monti è ovviamente d'accordo, ma ha ripetuto a Berlino che non basta. Roma vuole due cose, e ora sa che le vuole anche Hollande: bond europei per finanziare grandi progetti (da non confondere con gli eurobond, cioè titoli comuni del debito, sui quali nessuno si illude di convincere oggi Berlino) e nuovi capitali per la Banca europea degli investimenti.

Anche se il governo italiano preferirebbe evitare scossoni politici in Francia, e dunque sui mercati, è evidente che ha già un piano per giocare la carta Hollande. Palazzo Chigi sa bene che non basterà cambiare presidente a Parigi per cambiare politica a Berlino: oggi la Francia non è in condizioni di dettare legge.

Perciò qualcuno dovrà per forza rimettere insieme le due ruote dell'asse carolingio, e quel qualcuno non può che essere Monti.
La strategia è: aiutare la Merkel a tenere a freno le bizze di Hollande sul rigore, in cambio di una seria apertura sulla crescita.
Cominciando con il chiedere a Berlino di non respingere al prossimo G8 un'interpretazione «dinamica» del rigore. Ne abbiamo bisogno: il nostro pareggio di bilancio nel 2013 sarà «strutturale», ma non «nominale»: verrà cioè corretto al rialzo in ragione del ciclo economico negativo.
 
D'altra parte la Germania, che pure lamenta gli squilibri dell'euro-zona, è essa stessa protagonista di uno squilibrio formidabile quando attrae ingenti capitali pagandoli con tassi di interesse negativi, cioè inferiori all'inflazione. Userà almeno una parte di queste risorse a basso costo per stimolare la sua domanda interna, e così anche le nostre esportazioni?

Finora l'Italia di Monti si è mossa per rendere la vita facile alla Merkel, nella convinzione che ciò la rendesse più facile anche a noi.
Ma se così non è, e se Sarkozy ne sarà la prima vittima, Roma dovrà chiedere qualcosa in cambio di una nuova alleanza.

Antonio Polito

26 aprile 2012 | 7:50
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da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_26/isolamento-dei-piu-forti-antonio-polito_894d52ee-8f61-11e1-b563-5183986f349a.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 29, 2012, 03:42:09 pm »

Sacerdoti della legalità

I tanti pesci in barile del caso Emiliano


Bisogna capire che Michele Emiliano era il Sol dell'Avvenire. L'altra gamba della lista civica nazionale che il collega de Magistris già pronosticava al 20%, una sorta di Ppm, Partito dei Procuratori Meridionali fattisi sindaci. L'uomo che Marco Travaglio aveva suggerito come potenziale candidato per Palazzo Chigi, e che Vendola aveva già scelto come suo successore alla Regione. Società civile allo stato più puro, un eroe delle mani pulite prestato alla politica, uno che si definisce così nel suo profilo su Twitter: «Magistrato antimafia in aspetta- tiva e casualmente sindaco di Bari da sette anni». Emiliano poteva guidare la rivolta contro la vecchia politica corrotta, e vincere.

Solo così si spiega ora il silenzio, l'imbarazzo, il fischiettare distratto di quel milieu politico-mediatico che avrebbe crocefisso qualsiasi altro uomo pubblico nelle condizioni di Emiliano. In fin dei conti, una vasca da bagno ricolma di pesce fresco non deve costare molto meno di una vacanza all'Argentario dell'ex sottosegretario Malinconico. Stavolta, invece, neanche un'imitazione della Guzzanti, nemmeno un docu-drama con le intercettazioni da Santoro, nemmeno una citazione tra i fatti quotidiani di cui bisognerebbe vergognarsi. E però, meglio dirlo subito, è un bene che da quel mondo non si levi il solito grido «dimissioni, dimissioni». È un bene perché un sindaco eletto direttamente dal popolo non può lasciare il suo incarico per un rapporto della Guardia di Finanza, senza nemmeno essere indagato, per un'indagine su fatti di cui i pm sapevano dal 2006 e che, se la Procura avesse agito a tempo debito, certamente avrebbero indotto il sindaco a scansare i fratelli Degennaro et dona ferentes .

Non c'era infatti bisogno di questa inchiesta per sapere che cosa non va in Emiliano e nell'emilianismo. Basterebbe pensare che la figlia del capofamiglia Degennaro era stata fatta da lui assessore, e neanche la dinastia Matarrese, quando pure comandava a Bari, si era mai sognata di mettere un familiare in giunta. Basterebbe dire che in un'intervista Emiliano aveva definito quel gruppo «un'impresa vicina all'amministrazione», senza falsi pudori. Ma soprattutto, per negare a Emiliano la patente di sacerdote del «controllo di legalità» che sempre più spesso, e senza alcun appiglio nel codice, viene regalata ai pm d'assalto, basterebbe dire che lui la legalità la viola dal 2009. Da quando una sentenza della Corte Costituzionale ha chiarito senza ombra di dubbio che un magistrato non può essere un dirigente di partito nemmeno se è fuori ruolo. Ed Emiliano, che non si è mai dimesso dalla magistratura, è stato segretario del Pd pugliese, ha partecipato alle primarie, le ha perse, ed è stato ricompensato con l'attuale carica di presidente regionale del partito.

Ma davvero c'era bisogno dei molluschi di Degennaro per capire quanto pericoloso sia questo leaderismo alle cozze? Appena pochi giorni fa il nuovo Petruzzelli è stato commissariato per un buco di sette milioni di euro, ed Emiliano è il presidente della fondazione. È volata una mosca? No, perché la voga di questi anni stabilisce che il pm che va in politica assolve, purifica e beatifica tutti quelli che gli si accompagnano; e invece gli interessi, gli affari, i soldi, gli appalti continuano ovviamente ad esistere, ed è tutto da dimostrare che il leader solitario sappia dominarli meglio. Così si fonda un «potere senza critica», che sfugge al principio liberale della trasparenza, cioè non se ne risponde all'opinione pubblica. Così può accadere che il pm che a Bari faceva le inchieste sulla sanità pugliese, Lorenzo Nicastro, venga nominato da Vendola assessore regionale nel bel mezzo dell'indagine, dopo essersi candidato con l'Idv. Così succede che la Regione finanzi lautamente un convegno del Procuratore che sta indagando il Governatore. Che cosa è più la politica democratica in una città in cui, da quando c'è l'elezione diretta del sindaco, la carica è sempre andata o a un immobiliarista o a un procuratore? Una città in cui Emiliano si presentò candidato dicendo: «Il programma sono io»; proprio come Berlusconi nelle elezioni del 2001, solo che a Berlusconi lo rinfacciò persino il New York Times , e a Emiliano arrivarono gli applausi del nuovismo che finalmente si disfaceva dei partiti.

Ps : non si può deplorare Emiliano senza dir niente del presidente leghista del consiglio della Lombardia, Davide Boni, lui sì indagato per corruzione e non per una polenta omaggio ma per tangenti, il quale ieri ha avuto la sfrontatezza di presiedere il dibattito sulla mozione di sfiducia contro di lui pur di non mollare la poltrona. Milano vicina all'Europa, cantava Lucio Dalla. Oggi più vicina a Bari.

Antonio Polito

21 marzo 2012 | 12:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_marzo_21/i-tanti-pesci-in-barile-del-caso-emiliano-antonio-polito_382ad118-7321-11e1-85e3-e872b0baf870.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 16, 2012, 04:59:22 pm »

Illusioni e ambiguità

Quando un presidente francese affretta la cerimonia dell’insediamento per correre a Berlino, come accadrà oggi a Hollande, c’è poco da discutere su dove sia il centro del potere europeo anche dopo la vittoria socialista in Francia. La Merkel è certamente ferita dalle urne, ma gli elettori del Nord Reno- Westfalia non hanno votato contro l’austerità in Grecia o in Italia. Semmai hanno votato contro l’austerità nel loro Land, di gran lunga il più indebitato di Germania, preferendo restare nelle più generose mani della governatrice socialdemocratica Kraft.

L’incontro di oggi a Berlino non dovrebbe dunque suscitare troppe aspettative di una svolta nella crisi europea. Bisognerà fare attenzione alle ambiguità lessicali. Merkel ha ammorbidito il suo linguaggio, è pronta a dare a Hollande ciò che aveva già deciso di concedere presentandolo come un «protocollo per la crescita »; Hollande è pronto a incassare e a venderlo ai francesi come la riscrittura del «patto fiscale». Per lei la crescita sono le riforme strutturali di cui parla Draghi, per lui innanzitutto iniezioni di spesa pubblica. Troveranno un compromesso, magari sui project bond, usando i soldi già stanziati dei fondi strutturali e del bilancio della Ue, e lo chiameranno «patto per la crescita ». Ma quello che dovrebbe essere chiaro fin d’ora, soprattutto a noi italiani, è che più spinta alla crescita non vorrà dire meno rigore. Anzi: per poter investire, si dovrà risparmiare.

Nuove risorse pubbliche potrebbero infatti venire oggi soltanto da più tasse o da più debiti. Forse alla fine la Germania ci concederà, una tantum, di pagare i fornitori della Pubblica amministrazione senza che la spesa venga calcolata come nuovo debito; ma è molto improbabile che arrivi a breve la golden rule, e cioè la possibilità di mettere tutta la spesa per investimenti produttivi fuori dal calcolo del deficit. Al prossimo vertice europeo se ne comincerà al massimo a parlare, perché prima va deciso quali sono investimenti produttivi e quali invece sono spese travestite. La Germania non vuole aprire scorciatoie per i furbi nel patto appena scritto. E va notato che tra le proposte di Hollande mancano proprio quelle più radicali come la golden rule o gli «eurobond ». Il nuovo presidente francese è in realtà partito molto basso, e, come sempre avviene al suk europeo, rischia di avere anche meno di quanto chiede. E una ragione c’è: la crisi greca.

La tragedia nazionale in corso ad Atene può infatti aprire un gorgo capace di risucchiare molti altri Paesi. Se per Spagna e Italia il contagio rischia di venire da una crisi di fiducia sul debito, come dimostra l’impennata degli spread, per la Francia può avvenire attraverso il sistema bancario, molto esposto con la Grecia. Hollande scoprirà che c’è un solo modo per proteggersi dai mercati: stare attaccato alla Germania.

Come ha scritto ieri Franco Venturini, il voto tedesco non autorizza dunque a credere in una svolta keynesiana. In Germania non esiste un «partito della spesa». Anzi, si potrebbe aggiungere che l’ennesima batosta della sinistra radicale di Linke, nostalgica dell’assistenzialismo dell’Est, e la sorprendente tenuta dei liberali, alleati del cancelliere, dimostrano piuttosto il contrario. In Germania non è nato nessun partito anti-euro o anti-austerità, come nel resto d’Europa. I sondaggi dicono che il 70% dei tedeschi non darebbe un soldo ai greci se prima non eleggono un governo che rispetta i patti. E la Spd non è certo un partito sbarazzino. Nel 2005 Schröder perse le elezioni, a causa del successo della sinistra estrema, proprio perché aveva portato a compimento un duro programma di riforme del welfare che trasformarono la Germania da «malato d’Europa» in Paese del «secondo miracolo economico». Dopo di lui fu un ministro delle Finanze socialdemocratico, Steinbrück, a inserire il vincolo del pareggio di bilancio nella Grande Coalizione guidata dalla Merkel. I partiti popolari tedeschi sanno essere impopolari, quando serve. Se qualcuno si è dunque convinto che stia per tornare l’epoca dei pasti gratis, si sbaglia. Alexis Tsipras, il leader della nuova sinistra greca, li propone letteralmente per gli studenti e metaforicamente per tutti i concittadini. Ma la sua idea che si possa restare nell’euro senza rispettare le regole europee è il contagio greco che la Germania teme più di ogni cosa. E farà di tutto per impedirlo.

Antonio Polito

15 maggio 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_15/polito-illusioni-e-ambiguita_c5e7a6e6-9e4d-11e1-b8e5-2081876c6256.shtml
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