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Autore Discussione: Bruno MANFELLOTTO.  (Letto 47517 volte)
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« inserito:: Febbraio 28, 2011, 03:21:51 pm »

L'Italietta formato WikiLeaks

di Bruno Manfellotto

I ministri litigano e fanno la spia, il premier s'inchina a Gheddafi, ma il governo non riesce ad arginare l'immigrazione.

Così si legge nei durissimi dispacci dell'ambasciata Usa a Roma. Mentre il Maghreb bruciava...

(25 febbraio 2011)

Il problema non è tanto e non solo chiedersi fin dove si possa arrivare in nome della realpolitik, che pure è questione non secondaria. Piuttosto sarebbe opportuno interrogarsi sull'autorevolezza di un governo incapace di ripensare, e se necessario DIGNitosamente rivedere, accordi sottoscritti in ben altro contesto politico ed economico. E che ora sa solo far finta di niente. Quando il 30 agosto 2008, dopo quindici anni di trattative e cinque governi impegnatisi allo spasimo per l'obiettivo si arrivò, in nome appunto della realpolitik, al trattato con la Libia di Gheddafi, si chiuse una lunga stagione di tensioni durante la quale non si era riusciti a disfarsi né del complesso colonialista né dei debiti che avevamo con il regime. ma se ne aprì un'altra fatta di ammiccamenti e umiliazioni.

Su tutto, come disse con grande chiarezza Massimo D'Alema annunciando alla Camera il sì del Pd al trattato fra i due governi, prevalsero i gasdotti e i pozzi dell'Eni in Cirenaica; contarono gli impegni assunti dal comandante della Jamahiriya per controllare insieme a noi il flusso dei clandestini verso l'Italia, anche se già allora era facile immaginare che questo sarebbe avvenuto nel sangue, nei barconi affondati e nella cancellazione dei più elementari diritti dell'uomo; pesarono infine i ricchi affari promessi alle aziende italiane per la costruzione di importanti infrastrutture.

Pensando a tutto questo, insomma per realpolitik, si chiuse un occhio su una democrazia cancellata, si sorvolò sui ricatti di un dittatore, si smentirono politica e alleanze europee. Anche perché si era convinti che un tè nel deserto, un abbraccio sotto la tenda e uno show davanti alle telecamere sarebbero risultati vincenti, così come si era pensato in altre stagioni che lo sarebbero stati il freddo cinismo andreottiano, il razionale realismo dalemiano o la bonaria concretezza prodiana.
E però verrebbe da chiedersi come mai sorrisi e intimità, oltre ai servizi segreti amici, non siano poi valsi né a fermare l'immigrazione dalla Libia né a capire che cosa stesse succedendo laggiù. E come sia stato possibile che un rispetto guardingo e dignitoso sia diventato negli anni connivenza divertita, se non omertà. Ora la domanda è se cinici si debba restare anche davanti ai morti e alle bombe sui manifestanti; o meglio, se sia opportuno essere soli in Europa a sostenere il dittatore e i suoi cari.

Insomma, anche da questa tragica vicenda la povera Italietta esce devastata, ininfluente e periferica. Noi ce ne rendiamo conto solo adesso, come se uscissimo da un lungo torpore, e presto sarà apocalisse appena le coste della Sicilia e della Puglia saranno invase dai popoli in fuga dal Maghreb, come ai tempi dell'esodo dall'Albania. Ma chi per mestiere faceva le pulci alla Farnesina già lo sapeva, eccome se lo sapeva.

Basta scorrere i dispacci dell'ambasciata Usa nelle mani di WikiLeaks e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva . Ne risultano un'azione diplomatica scioccamente al servizio degli Usa e ai danni dell'Ue; uno spettegolare di ministri in carica disposti perfino a farsi la spia l'un l'altro pur di farsi belli con l'amico americano; il fallimento di ogni politica per regolare i flussi di immigrazione; i rapporti con i dittatori africani del Mediterraneo ridotti ad affari personali. Nessuna traccia di discussione sulle politiche da adottare. Mai uno sprazzo di autorevole iniziativa.

E non è tutto. Mentre il sangue scorre nelle strade di Tripoli e di Bengasi, a Palazzo Chigi e a Palazzo Grazioli si ciacola di immunità parlamentare, di giusto processo, di conflitti di attribuzione, insomma dei modi opportuni per evitare che Silvio Berlusconi venga giudicato da un qualunque tribunale della repubblica. Eppure basterebbe questa triste miscela di miopia sul futuro nostro e di pervicacia sull'interesse suo da salvaguardare a tutti i costi a farsi un'idea del premier. Altro che bunga bunga.

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« Ultima modifica: Aprile 26, 2011, 05:27:50 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:47:13 pm »

Le prediche del governatore

Bruno Manfellotto

Ecco perché il discorso di Draghi contiene molte verità. Sulle banche, sull'Italia, sui giovani

(04 marzo 2011)

Luigi Einaudi le chiamava, assai realisticamente, "prediche inutili". Sono passati più di sessant'anni da quella lontana stagione, ma ancora oggi le considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia alla fine di maggio e i suoi sparuti interventi, due-tre durante l'anno, conservano pur sempre un vago sapore di inutilità. Nel senso che intendeva Einaudi, cioè di restare spesso prediche inascoltate, disattese, sottovalutate. Forse perché quasi sempre fastidiose, dissonanti, sgradite agli orecchi di ministri e potentati. del resto, com'è successo anche pochi giorni fa, è proprio dalle parole del governatore che è possibile capire come davvero vanno le cose.

Il perché è presto detto. L'Italia, come si sa, è percorsa da anni da una guerra sorda che agita partiti, cacicchi e lobby, più o meno gli stessi protagonisti che un altro banchiere centrale, Guido Carli, ribattezzò molti anni fa "le arciconfraternite del potere". Con un aggravante, oggi: venuto meno l'ultimo filtro costituito dai grandi partiti di massa, il potere si è trasferito sotto il controllo di un partito-azienda al quale un'opposizione divisa in mille rivoli fatica a presentarsi come alternativa concreta e immediata.

Non aiuta l'invincibile tensione tra i due fronti, che provano a mimare una parvenza di bipolarismo che però non riesce ad affermarsi. Ragion per cui è assai difficile ascoltare una voce che si distingua dalla polemichetta quotidiana e provi a rappresentare solo l'interesse generale, quello del Paese.

Così, se si tratta del necessario equilibrio tra i diversi poteri istituzionali contro ogni deriva, l'ultima garanzia è offerta dal presidente della Repubblica: e dunque non è un caso che Berlusconi perda le staffe tutte le volte che Napolitano lo richiami al rispetto delle regole del gioco; se è in ballo la verità sui conti pubblici e sulla salute dell'economia, il compito spetta invece al governatore della Banca d'Italia: e guarda un po', sulle sue parole cade presto il silenzio. Stavolta, per esempio cosa ha detto di così "inutile" Mario Draghi? Qualche verità.

La prima riguarda le banche italiane che - ce lo siamo sentito dire mille volte - hanno retto allo tsunami della finanza meglio di quelle straniere. Vero, verissimo. Ma, ha aggiunto il governatore, ciò è stato possibile soprattutto in virtù dei loro stessi vizi e ritardi. Che presto sconteremo, l'uno dopo l'altro: il credito è ancora troppo burocratico e costoso, e se non si lancia in spericolati azzardi finanziari, ama poco la scommessa imprenditoriale preferendo concentrarsi sulla massa dei piccoli clienti.

Non rischiando, il sistema s'è salvato. Ma finendo per creare profitto soprattutto dai tassi di interesse su conti, prestiti e mutui, le banche hanno visto ridursi al lumicino la loro redditività. Ora dovrebbero cercare di fare ciò che non hanno fatto finora: non aumentare le spese a carico dei cittadini e delle imprese, ma tagliare i costi eccessivi e migliorare i servizi. Sarebbe una rivoluzione. Si farà?
Seconda verità. Lo sviluppo economico è frenato da quindici anni e un 1,3 per cento in più invece di un 1 o di un 1,2 certo non cambia le cose. Si stenta. Per l'eccesso di burocrazia che frena le imprese, per l'inefficienza del sistema, una scuola poco competitiva e la continua umiliazione del merito (si legga Alessandro Penati a pag. 150). Lo choc petrolifero che deriverà dalla crisi libica costituirà un ulteriore freno alla crescita che il governatore calcola in mezzo punto di pil.

Anche i salari dei più giovani sono fermi dal 2000 al di sotto dei livelli degli anni Ottanta. Intanto la disoccupazione giovanile sfiora il trenta per cento e la dipendenza di tanti giovani dal reddito dei genitori, avverte Draghi, si trasforma inevitabilmente in una "forte iniquità sociale" alla quale contribuisce anche un mercato del lavoro dove a "un minimo di mobilità a un estremo" corrisponde "il massimo di precarietà all'altro". È la fotografia di un Paese vecchio, ingessato, fermo. L'impietosa fotografia dell'Italia 2011. Che però nessuno vuole vedere.

   
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:28:21 pm »

Editoriale

Tutto cominciò quando Geronzi...

di Bruno Manfellotto

Un giorno d'estate il banchiere disse: non possiamo lasciar fare a Maranghi.

Da allora sono passati undici anni e intorno a Mediobanca s'è consumata una lunga battaglia. Che forse non è ancora finita

(15 aprile 2011)


Non dare a Maranghi ciò che era di Cuccia. Era l'estate del 2000 e Cesare Geronzi spiegava al cronista che - scomparso l'uomo che per mezzo secolo era stato anima e mente di Mediobanca e da lì regista della finanza italiana - era arrivato il momento di un altro equilibrio: insomma, non era possibile consentire ad altri ciò che era stato permesso solo a Cuccia, sentenziò. Ci vorranno poi tre anni e l'occasione giusta - l'alleanza disperata di Vincenzo Maranghi con i francesi per difendere il fortino di via Filodrammatici e, in nome dell'italianità a rischio, la corrispondenza d'amorose convenienze tra Geronzi, il governatore Antonio Fazio e l'Unicredit del rampante Alessandro Profumo - per scalzare definitivamente il delfino di Enrico Cuccia.

Un vulnus. Che nel tempo si dimostrerà profondissimo, insopportabile. Occorreranno però altri otto anni per rimarginare l'antica ferita e ristabilire lo status quo ante che ora vede di nuovo Mediobanca e Generali al centro della galassia dell'economia e della finanza. Cioè del potere, dei soldi, delle nomine, delle alleanze. Proprio l'asse che Geronzi fin da allora aveva provato a spezzare: prima insediandosi alla presidenza di Mediobanca, poi saltando un anno fa sulla tolda delle Generali dalle quali avrebbe voluto fare ciò che non gli era riuscito per cinque anni da piazzetta Cuccia: dettare legge su Mediobanca e sulle sue partecipazioni (Telecom, Generali, Rcs). Invano, come s'è visto ora.

In effetti, in quel lontano inizio di secolo già moltissimo era cambiato. Non c'era più la Mediobanca di Cuccia, regista privato della finanza italiana con i soldi pubblici di Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma, le tre banche di interesse nazionale di proprietà dell'Iri che ne foraggiavano alleanze, scalate, investimenti. Intanto la riforma Amato del credito e la nuova legge bancaria avevano stabilito principi inediti: come l'accesso delle banche al credito a medio termine, prima appannaggio esclusivo di Mediobanca; e la divisione in due del credito: di qua le aziende bancarie ormai privatizzate, di là le fondazioni pubbliche che avrebbero continuato a detenerne le leve di comando.

Tutto dunque era mutato, ma è in quella frase sussurrata tanti anni fa che forse va ricercata la chiave di quello che succederà dopo. Insomma Geronzi inseguiva un disegno esplicito, ma ha commesso due errori. Il primo di strategia: presumere che fosse possibile fare da Generali ciò che non era stato possibile da Mediobanca, cioè cercare nuovi equilibri tra gli azionisti, rovesciare i rapporti di forza e portare Milano sotto l'ala di Trieste (o di Roma, come sospettavano molti); il secondo di sensibilità politica: sottovalutare la diversità di intenti tra Berlusconi e Tremonti.

Così è successo ciò che molti ritenevano impossibile. Il tappo è saltato. Ma è ora che comincia la partita più difficile. Mediobanca ha ottenuto lo scopo che si prefiggeva: vinta la battaglia, mandato in pensione "l'arzillo vecchietto", cancellati gli ultimi alibi, i "giovani anziani" devono provare adesso a navigare da soli in mare aperto e a marcare la loro autonomia; Generali riconquista Trieste sperando che Mediobanca sia meno invadente di quanto sia stata finora; Diego Della Valle, stratega dell'assalto mediatico contro Geronzi e alleato importante della battaglia in consiglio, sogna di fare il socio forte della Rizzoli-Corriere della Sera; Unicredit punta infine a diventare, una volta fatti fuori i francesi, il nuovo punto di riferimento di Mediobanca e quindi di tutta la galassia. Naturalmente con l'aiuto delle Fondazioni pubbliche e legate ai territori.

Proprio così. E' come se, dieci anni dopo Cuccia, venisse rispolverata proprio la sua formula aurea: Mediobanca campione dei privati con i soldi pubblici, oggi non delle tre bin, ma delle Fondazioni. Ciò che Geronzi non voleva lasciar fare a Maranghi finirà forse per farlo Fabrizio Palenzona. Sapremo presto se è questo che vuole Mediobanca.

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« Risposta #3 inserito:: Maggio 13, 2011, 10:24:44 pm »

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Ricomincio da Napolitano

di Bruno Manfellotto

Il capo dello Stato si commuove ricordando i magistrati uccisi dal terrorismo; il premier chiama i pm di Milano "cancro della democrazia".

Sono due facce dello stesso Paese. Inconciliabili. Ora c'è l'occasione per scegliere quella giusta

(13 maggio 2011)

Colpisce che nel giro di pochi giorni, e per iniziativa di testimoni diversi della vita italiana, siano state promosse a Roma e a Milano più occasioni per riflettere su come vadano le cose al tempo di Berlusconi. Cadendo poi alla vigilia di un appuntamento elettorale che per volontà dello stesso premier è stato presentato come decisivo - specie a Milano dove Letizia Moratti ha visto messa in discussione la possibilità del secondo mandato a sindaco - esse acquistano un sapore speciale. Soprattutto per un dettaglio: in tutte e tre le occasioni si è parlato non di oggi ma di ieri, di un passato che non c'è più e che non potrà tornare, ma che in sé conteneva qualcosa - forse molto - di cui oggi si sente maledettamente la mancanza.

A Roma, per esempio, Giuliano Amato ha chiesto a Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari di commemorare Antonio Giolitti, che nel 1956 aveva lasciato il Pci per il Psi appena saputo che la rivolta del popolo ungherese era stata schiacciata dal tallone di ferro sovietico. Il presidente della Repubblica ha voluto ricordare che Giolitti implorava la sinistra di essere credibile e concreta, capace di soddisfare i bisogni e le speranze dei cittadini. Era il 1992, ma le stesse parole potrebbero essere pronunciate oggi.
Pochi giorni dopo, a Milano, una sala gremita e attenta ascoltava Carlo Tognoli parlare della sua città, quella che aveva guidato come sindaco dal 1976 per dieci anni. Prima che esplodesse la Milano da bere e, con essa, il craxismo rampante, e che debuttasse sulla scena il berlusconismo nascente. Stagione lontana. Nelle stesse ore a Montecitorio, un deputato dell'Udc, Enzo Carra, invitava molti capi della Dc che fu - De Mita, Forlani, Pisanu, Rognoni, Bodrato - a parlare di Aldo Moro trentatre anni dopo la sua morte. E a riflettere sulle regole di ieri che oggi non ci sono più: il gioco rispettoso tra maggioranza e opposizione, la centralità del Parlamento e le opinioni che lì si rappresentano, la politica della solidarietà per superare la crisi economica e preparare l'alternativa. Padroni di casa Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, in prima fila Gianni Letta.


E' come se si fosse tornati indietro di qualche decennio. Già, ma perché? Nei momenti più difficili - e questo davvero lo è, tra crisi economica e declino politico del berlusconismo - è naturale e perfino utile ripensare a ciò che è stato per capire radici e genesi di ciò che è. Insomma, si può anche decidere di rottamare leader e dirigenti, e l'operazione può risultare salutare assai, ma almeno bisogna fare lo sforzo di capire da dove si viene e dove si vuole andare.

L'altra ragione è più profonda. Proprio con la fine degli anni Settanta, con la tragica uccisione di Aldo Moro, la Prima Repubblica si è andata sfarinando. Ma la Seconda che doveva nascere dalle sue ceneri non è mai sbocciata. Da allora si è avviata invece una lunga transizione di cui si fatica a vedere l'esito. La destra ha cercato nuove strade, ma ha trovato solo un leader-padrone, uscito di scena il quale tutto tornerà Babele; la sinistra ha provato a fondere esperienze e culture diverse, ma non ha raccolto l'appello di Giolitti. A poco è servita insomma la lunga stagione berlusconiana; questa, anzi, ha congelato il Paese rinviando le riforme, tralasciando la modernizzazione, contrapponendo lo scontro frontale a una naturale alternanza. Sono stati anni di paralisi caratterizzati solo dal continuo corpo a corpo di Berlusconi con le istituzioni, magistratura e Quirinale sopra tutte.

In fondo, il capo dello Stato che si commuove ricordando i magistrati caduti sotto le pallottole dei terroristi e il premier che definisce i pm di Milano "cancro della democrazia" sono le due facce inconciliabili di uno stesso Paese. Ora Berlusconi, esasperando i toni e chiedendo per se stesso i poteri costituzionali che ancora fanno da argine al suo tracimare, ha chiamato gli elettori a votare proprio contro l'Italia che Napolitano difende e rappresenta. Dunque è il momento di scegliere. E di ricominciare proprio da dove ci si era fermati tanti anni fa.

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« Risposta #4 inserito:: Maggio 21, 2011, 10:25:23 am »

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Milano, dove tutto è cominciato

di Bruno Manfellotto

Il fascismo, la Prima Repubblica, la Seconda, il berlusconismo. Ogni decisiva svolta politica è nata e si è consumata all'ombra della Madunina. Bossi lo sa bene. Ma speriamo che ci riflettano su anche Bersani and friends...

(20 maggio 2011)

Gongola Pier luigi Bersani nella sua rotondità emiliana: "Una cosa è chiara: che abbiamo vinto noi e che hanno perso loro". impossibile negarlo di fronte ai risultati di Torino e di Bologna e ai ballottaggi di Napoli e Milano. E vabbè, ma tutto qui? A volte, per cogliere ciò che di nuovo si va manifestando e comprenderne il senso più profondo, è opportuno rivolgersi a un grande vecchio, meglio se fuori della mischia.

Sarà l'esperienza, il disincanto o forse il distacco dalla quotidianità incalzante, fatto sta che sono spesso questi testimoni del tempo a restituirci una lettura dei fatti più illuminante. Specie se essa riguarda Milano, odierna capitale della disfatta berlusconiana, la città del Cavaliere dimezzato. Seguiamo per esempio il ragionamento in tre punti di Piero Bassetti, 83 anni, famiglia di imprenditori tessili, nerbo del più tradizionale capitalismo lombardo, dc di lungo corso e primo presidente della Regione Lombardia, che per Giuliano Pisapia si è speso, perfino pronosticando una sua affermazione.

Primo punto. Ogni svolta della storia politica italiana è sempre maturata nella capitale del Nord operoso. Milano ha battezzato il nascente fascismo, che da qui ha marciato su Roma; e ancora Milano ha chiuso i conti con il Ventennio a piazzale Loreto. E' a Milano dunque che è nata la Prima Repubblica, ed è stata di nuovo Milano, con Tangentopoli e la "discesa in campo" di Berlusconi a celebrare l'avvento della Seconda e a chiudere nel 1993 la stagione dei partiti storici affidando Palazzo Marino a Marco Formentini, un ex socialista candidato dal nuovo movimento della Lega Nord. Dunque, lì dove nacque può anche finire il berlusconismo.

Secondo. La candidatura vincente di Pisapia, l'avvocato che si vuol far passare per estremista ma che incarna in realtà le virtù riformiste della moderazione e del garantismo giudiziario, nasce dall'investitura popolare delle primarie, e l'alleanza che lo sostiene si è formata intorno al suo nome, non viceversa. Da adesso in poi, insomma, solo chi non seguirà più le logiche di partito per seguire metodi nuovi fino a oggi a noi estranei, potrà sperare di competere e di vincere.

E infine. Anche Berlusconi, in fondo, aveva debuttato rifiutandosi di trasformare in un partito come gli altri il suo comitato elettorale-azienda. Così aveva conquistato chi, nel ceto moderato e non solo, sentiva esigenza di rinnovamento per cambiare e crescere. Poi, anno dopo anno, sposando il solo programma delle leggi ad personam, insultando i magistrati e sparando contro il Quirinale, ha trasformato la politica nel tifo che grida "arbitro venduto" e irride gli avversari, e sostituito l'immagine rassicurante di Mamma Rosa con quella bellicosa di Daniela Santanchè. La sbandierata moderazione è diventata insulto quotidiano ed estremismo programmato: nulla a che vedere con il razionale pragmatismo milanese e con l'Italia migliore che sfida la crisi economica. Basta, dunque.
Non ha forse ragione, Bassetti? Al cui ragionamento va però aggiunta una postilla importante. Nella sua smania onnivora Berlusconi ha trascinato con sé anche la Lega, che certo urla quando le sue bandiere verdi garriscono nei raduni lungo il Po, ma che ha sempre tenuto a cuore la politica concreta del giorno per giorno e i legami con la sua gente. Che ha retto finché è rimasta movimento estraneo a vizi di partito. E che ha accusato il colpo quando il prezzo pagato all'alleanza è diventato troppo alto: le leggi ad personam, il Parlamento ridotto a un esercito di yesmen, le bombe e la guerra, l'assenza di politica economica, un aumento delle tasse mascherato da federalismo. Fino a lanciare il suo avvertimento a Berlusconi: se non si vince a Milano...

Ma alla fine, Moratti o non Moratti, il centrodestra non reggerà così com'è ancora due anni, sperando che B. diventi ciò che non potrà diventare mai. Importante però è che anche la sinistra ascolti il lamento del Paese, molli gli ormeggi della conservazione e scommetta sul cambiamento. Mettendoci la faccia. Visto che B. non ce la potrà mettere più.

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« Risposta #5 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:44:16 pm »

Forza Italia, ma quella vera

di Bruno Manfellotto

Si respira un'aria nuova, come di liberazione: dai toni ossessivi, dalle bugie sulle tasse, dal governare ad personam.

Un Paese s'è svegliato, e non è quello che immaginano i partiti. Ora è un dovere ascoltarlo

(02 giugno 2011)

C'è un'immagine che riassume bene, l'aria che si respira. Martedì 31 maggio, il giorno dopo i ballottaggi choc della nuova primavera italiana, ore 19, Giardini del Quirinale. Una lunga fila composta ma confusa - gli italiani non sanno stare in fila... - attende di stringere la mano a Giorgio Napolitano, omaggio alla corona laica, all'uomo che simboleggia l'ultimo punto di equilibrio in un momento caotico e delicato del Paese.

Più in là, assistito dall'amorevole Gianni Letta, Silvio Berlusconi trascorre il suo day after in una solitudine appena temperata dal cauto avvicinarsi dei suoi cari, l'inner circle del Cavaliere. Sul suo volto, una passata eccessiva di fondotinta trascolora fino a degenerare sotto gli ultimi raggi di sole del caldo maggio romano.

Sfilano due Italie. Di là il Paese che vuole cambiare; di qua un esercito in rotta che confida nell'ennesima resurrezione, stavolta difficile se non impossibile.

E al seguito di un capo che ha perso lo smalto della travolgente discesa in campo. Qualcosa si è rotto per sempre, e sarebbe miope fare finta di niente.

Gli sconfitti, per esempio, ripetono che si è trattato pur sempre di elezioni locali, che in tempi di crisi chi governa viene punito e che dunque basta riprendere convinti la strada delle riforme per rimettere le cose a posto. I vincitori, invece, cercano di appropriarsi di una vittoria conquistata quasi a loro insaputa e inseguono ragionamenti sulle alleanze prossime venture che certo non sono state né la carta vincente né la motivazione che ha spinto gli italiani al voto contro Berlusconi.

Tanto per capirci, a Cagliari, lontano dai riflettori, la sinistra ha vinto con un certo Massimo Zedda, 35 anni, di professione precario, votato proprio perché non ha niente a che fare con le nomenklature dei partiti. Chi ci avrebbe scommesso due lire. Sorpresa che dovrebbe far riflettere un po' per la novità, l'azzardo, l'ironia. Ma anche Napoli e Milano, seppure con le diversità tipiche che distinguono la capitale della borghesia produttiva e illuminata del nord ricco dalla città del sud che si è sempre inchinata a ribellismo e capipopolo, sembrano marciare nella stessa direzione.

Qui e là, infatti, il voto ha premiato personaggi nuovi, pur se solidamente legati alla loro storia; che non si riconoscono nell'azionista di riferimento del centrosinistra, il Pd, ma nemmeno nelle forze che pure li hanno indicati: Pisapia non è certo un rifondatore comunista, e De Magistris non è un cacicco di Antonio Di Pietro. Ancora, a Napoli e a Milano i due trionfatori hanno portato ai seggi giovani e persone che altrimenti non sarebbero mai andate a votare.

Entrambi, poi, non possono essere catalogati secondo le categorie tradizionali del politichese all'italiana, ma nemmeno in quelle care a Berlusconi che divide gli elettori in amici e in comunisti stupidi: non si può dare del gruppettaro a un noto avvocato milanese cresciuto alla scuola del socialismo perbene e garantista di Aldo Aniasi o Carlo Tognoli; né definire Masaniello un magistrato figlio e nipote di magistrati. Senza contare, infine, che il comunista e il capopolo hanno conquistato per sé i consensi più diversi: giovani e anziani, tradizionalisti e grillini, moderati e indignati. E comunque è stato qualcosa di più di una corsa a sindaco se lo stesso vento ha soffiato a Mantova e a Torino, a Trieste e a Bologna, a Novara, a Varese, ad Arcore.

Ovunque si respira un'aria nuova, come di liberazione: dai toni ossessivi di un governo ad personam, dalle bugie urlate, dalle inconcludenze di una maggioranza che nacque gridando meno tasse per tutti, e ora lancia un federalismo fiscale che rischia di tradursi - avverte Mario Draghi - nella beffarda sommatoria tra nuove tasse locali e vecchie nazionali. Insomma, un'Italia s'è svegliata, convinta che sia possibile chiudere una lunga, pesante stagione di ansie e paure, di strepiti e risse, di minacce e di esagerazioni, di liti senza costrutto tra Berlusconi e Tremonti. Bisognerebbe capirla e ascoltarla. Forza Italia. Quella vera.

     
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:36:17 am »

Che sfizio prenderli a sberle

di Bruno Manfellotto

Domenica 12 giugno l'Italia si apprestava a cambiare. Lui no. Domenica 12 giugno l'Italia correva alle urne. Lui a Villa Certosa a occuparsi d'altro. Ancora una volta il Paese reale si è dimostrato migliore di chi lo rappresenta

(17 giugno 2011)

Tutti al mare, aveva ordinato Silvio Berlusconi alla vigilia del referendum. A cominciare da se stesso che domenica 12 giugno, a urne ancora calde, si è ritirato nella quiete di Villa Certosa, in Sardegna, per dedicarsi alle prove generali di una nuova estate da Papi. Naturalmente in compagnia, come mostrano la foto di copertina e il servizio nelle pagine seguenti, che sembrerebbero confermare le preoccupazioni di Daniela Santanchè e Flavio Briatore: insomma, dopo le botte che ha preso e le prove tecniche di regicidio in corso tra i suoi stessi alleati (il servizio di Marco Damilano è a pag. 36) non gli restano che le sue ville. E relativi passatempi. L'Italia cambia, lui no. E la lontananza tra l'una e l'altro si accentua.

Mentre il povero Silvio passeggiava nei viali profumati di mirto cingendo ora l'una ora l'altra ragazza, infatti, 27 milioni di italiani gli voltavano le spalle correndo a votare sì. Con il sottile sfizio di prenderlo finalmente a sberle. Proprio com'era avvenuto nel 1991 con Bettino Craxi. Con i referendum è così: ti svegli una mattina, guardi i risultati e d'improvviso tutto ti appare vecchio, consunto, fuori del tempo. Anche stavolta dalle urne è uscita un'altra Italia, più fresca, più pulita, non rappresentata dalla politica ufficiale, felice di tornare a credere in se stessa. Definitivamente deideologizzata, più affezionata al Web che alle sedi di partito, capace di unirsi sui grandi problemi al di là delle facili etichette. Decisa a mettere dei punti fermi.
Innanzitutto: gli italiani si sono riappropriati del referendum, istituto che per anni è stato di volta in volta annacquato, svuotato, negato. E di questo bisogna ringraziare Antonio Di Pietro che ha avuto fiuto, fiducia, tenacia organizzativa e ora, come i saggi vincitori, non si esalta per la vittoria. A votare, poi, gli italiani sono andati in massa, alla faccia di chi pensava che la politica fosse stata sepolta per sempre dagli urli e dalla demagogia: è invece il trionfo della buona politica esprimere un'opinione su argomenti che toccano la nostra vita quotidiana (nucleare, acqua) o riguardano valori di fondo che tengono insieme una comunità (no al legittimo impedimento perché la legge è uguale per tutti).

I numeri dimostrano poi che 7-10 milioni di elettori di centrodestra, leghisti compresi, hanno bocciato leggi approvate da un governo per il quale pure avevano votato solo due anni fa. Insomma basta a una concezione autoreferenziale, padronale della politica; a una maggioranza arrogante che non spiega nemmeno perché fa e disfa leggi e provvedimenti (a cominciare da quelli oggetto di referendum); a un governo che per anni ha scambiato l'attività legislativa per la cura del premier. E basta alle alchimìe di palazzo, ai cacicchi cooptati in Parlamento, alle deleghe in bianco.
Ancora due cose. L'esplosione di partecipazione e di gioia di queste ore esalta ancor più drammaticamente l'immobilismo di un Paese che in diciassette anni non ha conosciuto una sola vera riforma e non ha visto realizzata nessuna delle promesse per le quali aveva dato credito a Berlusconi. Tutto fermo, congelato, e ogni risorsa spesa solo per tenere il cavaliere al riparo dai tribunali. Finché milioni di sì hanno rotto l'incantesimo, e due settimane dopo che Milano, Napoli, Cagliari avevano deciso che il loro sindaco fosse un outsider osteggiato dai partiti della tradizione.

La seconda. Ancora una volta il Paese reale si è dimostrato molto più avanti dei politici che lo rappresentano, e i suoi interpreti lontani dalla verità, incapaci di prevedere non solo la conquista del quorum ma anche che cosa stesse succedendo (a molti è parso azzardato perfino il "Perché sì" che campeggiava la settimana scorsa sulla copertina de "l'Espresso"). E' come se il Paese ufficiale si fosse rifiutato per anni di accettare ciò che pure era sotto gli occhi di tutti e che alcuni pochi - come questo giornale - andavano tenacemente testimoniando e raccontando. Un ritardo colpevole. Che milioni di italiani si sono affrettati a denunciare.

 
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 25, 2011, 06:40:21 pm »

Due o tre cose che so di Bisi

di Bruno Manfellotto

Tutto cominciò molti anni fa al ministero del Tesoro e alla Banca d'Italia.

Ma poi è continuato per trentacinque anni... Storia di un'anomalia: la lobby all'italiana.

Con la regìa di Luigi Bisignani

(23 giugno 2011)

Il primo ricordo, molto lontano, rimanda ai vasti corridoi del ministero del Tesoro in via XX Settembre, a Roma. All'epoca Luigi Bisignani, detto Bisi, 23 anni, si divideva tra il poco invidiabile turno di notte all'agenzia Ansa e l'influente incarico di portavoce di Gaetano Stammati, ministro del Tesoro nel terzo gabinetto Andreotti (1976-'78), monocolore dc passato alla storia come "governo della non sfiducia".
Tra marmi, vetri e specchi stile "L'anno scorso a Marienbad", quel ragazzo ironico e intelligentissimo si muoveva saltellando come un grillo; vederlo sussurrare all'orecchio del settantenne Stammati lo faceva apparire a suo agio più del canuto ministro, che pure vantava un passato di navigato grand commis, presidente della Banca commerciale e prima ancora Ragioniere generale dello Stato.

Si raccontava allora che ogni mattina Bisignani andasse a trovare prima Giulio Andreotti nello studio di piazza in Lucina e poi uno dei capi della massoneria, Licio Gelli, nel suo appartamento all'Excelsior: dava informazioni, ne riceveva in cambio, a sua volta le distribuiva altrove. E' sempre stato questo il suo mestiere, il suo potere. Un tesoro gestito con accortezza, furbizia e buona memoria. Nella Roma dei misteri e dei mille poteri, del Papa e della massoneria, degli apparati e delle aziende pubbliche, tanta abilità e tanto sotterraneo sgomitare venivano visti con stupore e ammirazione, ma anche con l'ironico, cinico disincanto che pervade la città eterna come il rosso dei suoi tramonti. Tutti sapevano cosa Bisi facesse, ma nessuno sapeva cosa facesse precisamente.
Il secondo ricordo è di pochi anni dopo e riguarda la nomina di Lamberto Dini a direttore generale della Banca d'Italia: buon amico di Andreotti, Lambertow arrivava a Roma da Washington, dal Fondo monetario, e da subito si cominciò a dire che presto avrebbe preso il posto di Carlo Azeglio Ciampi, che pure era stato appena nominato governatore...

Si capì subito che non se ne sarebbe stato chiuso a studiare grafici e tabelle. Ma di questa città e dei suoi segreti non sapeva niente, e così si affidò a due ragazzotti di buone speranze che da subito presero ad assisterlo, informarlo, curargli le relazioni esterne: uno era Bisignani, l'altro un giovane funzionario della Banca d'Italia, Mauro Masi (che poi seguirà Dini a Palazzo Chigi, e vi resterà con vari incarichi anche con D'Alema, Prodi, Berlusconi...).
Così tutto cominciò, e come si vede dura tutt'ora. Ciò che Bisignani diventerà dopo, risorgendo pure dalle macerie della maxitangente Enimont, è cronaca di questi giorni e oggetto delle clamorose indagini del pm Woodcock (i servizi, da pag. 36); ma ancora non possiamo dire se la vicenda debba essere letta con il codice penale alla mano o se rientri in quella terra di mezzo della politica che è il lobbying alla romana, reso ancora più indispensabile da quando l'intero ceto politico della Prima Repubblica è stato spazzato via da una corte padronale senza classe dirigente né memoria, spinta ad aprire il suo ufficio risorse umane in piazza Mignanelli.

Reati a parte - sui quali si pronunceranno Procure e Tribunali - sappiamo però fin d'ora che il sistema Bisignani nasconde un'anomalia, una magagna assai pericolosa. Certo, non c'è paese al mondo in cui le lobby non siano legalizzate e lo spoil system, insomma la lottizzazione, istituzionalizzato. Ma allo scadere di un'amministrazione, alla successiva tornata elettorale vanno a casa tutti, premier e ministri, leader di partito e capi azienda, giudici e grand commis. Via, si ricomincia, si cambia il motore, a garanzia (democratica) del buon funzionamento della macchina. In Italia, no.
In Italia - come dimostrano quei due episodietti di 35 anni fa - lobbisti e clienti non cambiano, si riciclano, mutano pelle e casacca, ma sono sempre gli stessi, garanti di un sistema che si vorrebbe perenne e immutabile. E che invece si va sfarinando. Più che le manette, dovrebbero scattare indignazione e voglia di cambiamento. Basta. Comunque vada a finire questa storia, certi nomi non vorremmo più sentirli, certe facce non più vederle.

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« Risposta #8 inserito:: Luglio 01, 2011, 06:37:13 pm »

Da Tremonti a Bini Smaghi

di Bruno Manfellotto


Alla fine tanto tuonò che piovve: la manovra ci sarà ma a rate, tagli e sacrifici rinviati al 2014, al governo che verrà.

Ma la guerra tra Silvio e Giulio non è finita, anzi.

Attenti però a non coinvolgere  la Banca d'Italia

(01 luglio 2011)

Non sono mai stati così tesi e difficili i rapporti tra Tremonti e Berlusconi come nell'ultimo mese, nelle ultime ore. L'Italietta è fatta così. Altrove, quando si parla di economia, gli esecutivi prendono forza e più intenso si fa il dialogo con le opposizioni; DA NOI, invece, ogni occasione è buona per sistemare i rapporti di forza. Si è arrivati talmente divisi al vertice che doveva trovare i 47 miliardi di tagli necessari a riequilibrare conti pubblici disastrati, che il ministro dell'Economia ha minacciato le dimissioni e il premier ha fatto intendere di avere già in tasca il nome del successore, ANZI UN PAIO: Lorenzo Bini Smaghi, che non voleva lasciare la Bce, o CORRADO PASSERA, che lascerebbe BANCA INTESA.

Così la guerra è rientrata (ma non è finita), e il piano Tremonti si è annacquato. E mentre la Grecia paventa il default e il "Financial Times" avverte che la finanza italiana è a rischio, i veri tagli di spesa sono stati rinviati al 2014, al governo che verrà. Altro che Responsabili!

Tremonti era sotto tiro da settimane. Aveva in mente una manovra che non piaceva al popolo delle partite Iva e a sindaci e assessori nerbo della Lega, ieri suoi grandi sostenitori, oggi freddi vicini di banco. Né lo ha aiutato lo strapotere costruito negli anni governando le entrate (fisco), le uscite (spesa pubblica) e, come lui stesso si vantò una volta, cinquemila nomine in enti, aziende, amministrazioni, poltrone. Strapotere che si è saldato con velleità politiche mai annunciate, forse coltivate in silenzio, certamente a lui attribuite da amici e nemici. Specie ora che Berlusconi volge al tramonto e la Lega cerca il leader di domani.

Ma nell'ansia di blindarsi, il prudente Tremonti ha commesso due errori, o come direbbe Bossi, ha tirato troppo la corda. Il primo passo falso è stato imporre alla Consob - un'authority che si vorrebbe estranea a logiche di palazzo - l'onorevole Giuseppe Vegas: economista competente, per carità, ma prima parlamentare di Forza Italia-Pdl e poi pure numero due di Tremonti all'Economia.

Il secondo errore, svelato da "Repubblica", è stato impuntarsi sul nome di Vittorio Grilli come successore di Mario Draghi alla Banca d'Italia, facendo filtrare addirittura l'esistenza di un accordo di ferro con Berlusconi per una nomina di lì a poche ore. Niente da dire sulle qualità del direttore generale del Tesoro: giovane, preparato, eccellente grand commis. Ma come non cogliere lo strappo rappresentato dall'ascesa di un alto funzionario di governo al vertice di un'autorità di garanzia? E l'arrogante disinteresse per le regole di nomina che tutelano la Banca d'Italia?

Non è dunque un caso che Draghi abbia suggerito la soluzione interna, il direttore generale Fabrizio Saccomanni. E non è un caso che Giorgio Napolitano abbia invitato Berlusconi al rispetto rigoroso delle procedure. Che sono chiare, pur se in apparenza macchinose: la nomina del governatore porta la firma del presidente della Repubblica, a proporla è il presidente del Consiglio, sentito il Consiglio superiore della Banca d'Italia al quale viene presentata una rosa di nomi in una riunione convocata ad hoc. Niente colpi di mano, dunque, ma accordo fra i diversi protagonisti della partita; non un atto imperioso, ma condiviso; non diritto di veto della Banca d'Italia, ma di scelta tra più candidati.

Tutto a garanzia di un organismo che deve essere non braccio del governo, ma "potere altro", autonomo e indipendente. Il perché è presto detto. Nessuno tra i grandi del mondo è gravato come l'Italia da un debito pubblico che supera di gran lunga la ricchezza prodotta e dunque condiziona ogni scelta di politica economica; e non c'è Paese al mondo in cui il sistema bancario sia sottoposto, come accade qui da noi, alle pressioni della politica, delle lobby, delle logge. All'organismo che vigila sul credito e dà la pagella all'economia vanno garantite autorevolezza e indipendenza. Salviamo dunque quest'ultima isola di professionalità e autonomia. A tutela del Paese.

   
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:24:09 am »

Dottor Debito e Mister Crack

Bruno Manfellotto

Mercati e governi non considerano credibile Berlusconi. Tanto che la speculazione ha rallentato la presa solo quando sono intervenuti Angela Merkel, Napolitano e la Bce. Quanto ancora possiamo durare così?

(14 luglio 2011)

Gli speculatori finanziari, si sa, annusano l'aria e colpiscono sfruttando le paure diffuse. A volte basta un minimo segnale. Quello còlto la mattina di venerdì 8 luglio era clamoroso: uno sfogo di Silvio Berlusconi a Claudio Tito di "Repubblica", devastante nella sua sincerità, inquietante nei contenuti, quasi l'annuncio di una resa incondizionata alla speculazione. Ma forse, per capirne fino in fondo le implicazioni, è necessario un passo indietro. Solo poche ore prima Giulio Tremonti era riuscito a far approvare la manovra finanziaria dal Consiglio dei ministri. A fatica, dopo polemiche, distinguo e perfino minacce di dimissioni. Senonché...

Senonché, nell'illustrare il documento in conferenza stampa, Tremonti dava del cretino a Renato Brunetta in diretta tv, e per una ragione precisa: il ministro della Pubblica amministrazione stava spiegando ai giornalisti che la manovra non sarebbe poi stata così dolorosa per gli italiani. Insomma, lanciava un messaggio di rassicurazione ai suoi elettori, non certo ai mercati. Per Tremonti, sale sulle ferite; per la speculazione, un primo pretesto.

L'indomani avremmo letto quelle clamorose confessioni del Cavaliere. Che provava fastidio per un Tremonti "che si crede un genio" e diceva di sentirsi più dalla parte di Brunetta perché - testuale - "in politica il fatturato è composto dal consenso e dai voti. A Tremonti il consenso non interessa, a noi sì". Altro che mercati. Per concludere, improvvido: "Noi la manovra la cambieremo in Parlamento". Amen. Quel giorno Piazza Affari perdeva il 3,47 per cento e i titoli delle principali banche dal 5 al 7. Un venerdì nero. E nei giorni successivi sarebbe andata peggio.

Il Paese non è mai stato così a rischio, e il paragone con il terribile biennio '92-'93 è legittimo, ma forse destinato a dimostrare che oggi stiamo peggio di allora. I problemi di fondo non sono stati aggrediti, a cominciare dal debito pubblico, che è il 20 per cento in più della ricchezza prodotta ogni anno dal Paese, e da una crescita vicina allo zero. Mali storici che si sono aggravati e ai quali si è aggiunto negli anni l'inarrestabile declino della politica.

Il Paese è affidato a un premier di cui i tribunali hanno accertato il più osceno dei reati, la corruzione di un giudice per conquistare un'azienda, la Mondadori, da cui sarebbe partita la sua "discesa in campo". Il ministero dell'Economia è guidato da un uomo che ai giudici confessa la paura di essere pedinato e di finire maciullato dal trattamento Boffo dopo che si sono scoperti vizi e Ferrari, case e barche, tic e mazzette del più stretto dei suoi collaboratori. Di cui era ospite in un appartamento da 8.500 euro al mese.

Ancora. Il governatore della Banca d'Italia è in partenza per la Bce di Francoforte, ma non è stato scelto il suo successore. Le inchieste giudiziarie rivelano un'Italia del malaffare a fronte della quale fa tenerezza l'appello alla "questione morale" lanciato da Enrico Berlinguer trent'anni fa; e mentre la maggioranza si sfilaccia pensando al dopo Cav, l'opposizione si dilania sul destino del Porcellum e la resurrezione del Mattarellum...

Se non ci fosse stata la pazienza tenace di Giorgio Napolitano, il Paese sarebbe da tempo alla deriva. La verità è che mercati e cancellerie non considerano credibile Berlusconi, lo vedono come il primo responsabile della debolezza del Paese, un pericoloso Mister Crack. Di conseguenza non si fidano più nemmeno di Tremonti. Prova ne sia che un primo freno alla speculazione c'è stato solo quando il capo dello Stato ha convinto all'accordo maggioranza e opposizione, quando Angela Merkel ha pubblicamente sostenuto la manovra economica del governo e soprattutto quando dalla Banca centrale europea sono trapelate voci di ingenti acquisti di titoli pubblici italiani.

Si temeva da tempo che alla fine del berlusconismo si potesse arrivare nel peggiore dei modi, cioè sull'onda della crisi economica. Speriamo solo che ora il buonsenso prevalga sull'emotività, che l'agonia duri poco e che la responsabilità nazionale contribuisca a chiudere una stagione che si è prolungata troppo.

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« Risposta #10 inserito:: Luglio 25, 2011, 11:40:45 am »


Editoriale

Non è tempo di privilegi

di Bruno Manfellotto

I cacicchi del Cavaliere ci hanno accusato di "disfattismo" per la copertina su Mister Crack. Ma l'hanno vista la stampa straniera?

In realtà l'unica loro preoccupazione è difendere la casta

(21 luglio 2011)

L'Espresso con l'inequivocabile copertina dedicata a Silvio Berlusconi - "Mister Crack" era in edicola da poche ore e già le truppe cammellate del Cavaliere facevano a gara nel Transatlantico di Montecitorio a difendere il Capo, ancora una volta preoccupati non di guardare la luna - economia e finanza in bilico e tanta cattiva politica - ma il dito che la indica raffigurandola con il volto dell'uomo che da diciassette anni condiziona ogni momento della nostra vita. Si sono sentite risuonare perfino parole che credevo uscite per sempre dal dizionario dopo la caduta del fascismo, come "disfattismo". Altro paravento assai utile a nascondere la realtà. Chissà cosa diranno questa settimana...

Evidentemente i cacicchi del Cav., abituati a scambiare il proprio Paese per il mondo, non avevano dato un'occhiata ai giornali stranieri, esperienza utile. L'"Economist", per esempio, che coltiva da tempo una passione malsana per Berlusconi, lo ha giudicato "unfit", inadatto a governare l'Italia (2001); dieci anni dopo lo ha chiamato "L'uomo che ha fottuto un intero Paese"; per poi concludere la settimana scorsa disegnando quello stesso Paese, il nostro, sull'orlo di un precipizio. I soliti inglesi, si dirà, perfida Albione.

Ecco allora lo "Spiegel", settimanale di punta nella Germania di Angela Merkel. Copertina con lo Stivale e Silvio con un paio di ragazzotte; testo fin troppo esplicito in uno speciale di 11 pagine che ripete un titolo recente - "Basta!" - del più snob dei settimanali americani, il "New Yorker", e descrive così "il declino del Paese più bello del mondo": "I mercati finanziari internazionali hanno perso la fiducia nell'Italia. Dopo 17 anni di Berlusconi, il Paese è pesantemente indebitato e maturo per un cambio di governo. Uno dei Paesi fondatori dell'Unione europea appare paralizzato dall'incapacità del suo premier, che è occupato innanzitutto dai suoi affari personali". Chiaro, no?

E si potrebbe continuare con il "Financial Times", il "Wall Street Journal", il "Guardian", o ascoltare le parole di Nouriel Roubini a "Repubblica": "Il governo italiano è assolutamente inadeguato alla gravità della situazione. Non potete scherzare con il fuoco: è impensabile che così si arrivi al 2013. Non siete ridotti come la Grecia o il Portogallo. Ma le vostre serissime vulnerabilità si combinano con l'inadeguatezza del governo. A parte i comportamenti privati e i conflitti d'interessi del presidente del Consiglio, che sono inaccettabili, le misure pubbliche in economia sono inefficaci". Insomma, il mondo si augura un'uscita di scena di Berlusconi come segno della svolta. Poi dicono che "l'Espresso" esagera...

Del resto, il quadro è chiaro anche a un bambino. Le liti tra un premier condizionato dalla Lega e un Tremonti visto con sospetto hanno paralizzato il governo. Solo l'appello di Napolitano ha convinto l'opposizione a una "prova di responsabilità", in sostanza a chiudere gli occhi e ad approvare la manovra finanziaria in tempi miracolosi. E' la conferma che il premier non c'è più e - ha ragione Tremonti - che il vuoto politico aggrava il quadro generale assai più, che so?, della bassa capitalizzazione delle banche italiane. E però Berlusconi non demorde, non è disposto a fare un passo indietro e intanto l'idea di un governo incerto, instabile e inefficiente imbriglia i listini tra crolli e rimbalzi: le Borse sono incerte, dubitano che B. ce la possa fare a governare la crisi.

Càpita, quando una stagione politica volge al termine, che i suoi protagonisti non se ne rendano conto: immaginano un futuro che non ci sarà, si tengono stretto il presente che hanno, progettano cose che non faranno. Per un Berlusconi che non se ne vuole andare, ecco mille parlamentari e decine di migliaia di professionisti della politica che si rifiutano di ridurre costi, stipendi, privilegi della loro casta, si sentono insomma estranei perfino a una manovra da ultima spiaggia. Intoccabili: metafora di una politica che cerca di conservarsi mentre il Paese che l'ha prodotta sprofonda. E' la copertina di questa settimana, ideale seguito di "Mister Crack": chissà che diranno nel Transatlantico...

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« Risposta #11 inserito:: Agosto 02, 2011, 06:35:15 pm »

La chiamavano questione morale

di Bruno Manfellotto

Al di là delle vicende giudiziarie è su una questione che la sinistra deve interrogarsi: se non sia stato sbagliato qualcosa nei rapporti tra partiti, affari e istituzioni. E di conseguenza cambiare profondamente

(28 luglio 2011)

Come sembra lontana l'Italia di Enrico Berlinguer e della questione morale, di Tangentopoli e delle mazzette, della diversità che i comunisti rivendicavano orgogliosamente a simbolo della loro estraneità a un sistema e che i loro nemici negavano per dimostrare invece che nella notte buia della commistione consociativa tra affari e politica tutti i gatti sono bigi.

Oggi che i sospetti si abbattono di nuovo sui post comunisti e sul Pd e le inchieste toccano non solo qualche cacicco di periferia - i Pronzato, i Morichini, le Katiuscia Marini - e un parlamentare di peso come Tedesco, ma anche un pezzo da novanta come Filippo Penati, ras del milanese ed ex braccio destro del segretario, Pier Luigi Bersani sbandiera ancora una diversità ("Corriere della Sera", martedì 26 luglio), ma è costretto ad aggiungerci un aggettivo: diversità sì, ma "politica". Del resto, chi se la sentirebbe ora di giurare sull'estraneità di uomini del Pd ad affari, impicci, pastette? Nemmeno il leader, che infatti s'impegna a tenere aperti quattro occhi sulle possibili zone grigie dell'apparato.

Potrebbe essere l'occasione per una svolta. Vera. All'insegna del "tutto ciò che non è vietato è legittimo", l'Italia di Berlusconi ci ha assuefatti a tollerare comportamenti altrimenti inammissibili. Sotto i nostri occhi sono sfilati cricche, escort, conflitti d'interessi, leggi ad personam, parlamentari comprati e venduti, giudici corrotti, logge segrete. Siamo venuti a sapere perfino di generali della Finanza che fanno pedinare il ministro dell'Economia, il loro ministro, e comunque lo braccano, lo controllano, ne fanno oggetto di pressione per la vittoria di questa o quella lobby interna al Corpo. Altro che tintinnar di sciabole: Finanza corrotta, Nazione infetta, verrebbe da dire citando i padri fondatori.

In questo mare di corruzione evidente o strisciante, siamo stati indotti a pensare che si possa parlare di questione morale solo in presenza di reati e codice penale, e che dunque sia già qualcosa schivare gli strali della magistratura. E sì, ma non basta, e qui non ci si riferisce solo al fatto che per chi si candidi a governare domani in alternativa a chi governa oggi, i comandamenti dovrebbero essere rigore, efficienza e severità in ogni atto, in ogni gesto: piuttosto, evocare oggi la questione morale dovrebbe significare una profonda riflessione sul rapporto che si è consolidato in questi anni tra partiti, economia, istituzioni e che ha scandito, nel peggiore dei modi, la trasformazione della società italiana.

Gli anni Novanta furono quelli delle privatizzazioni imposte dall'incoercibile deficit di bilancio: passavano di mano banche, aziende, holding pubbliche. I Duemila hanno visto completare lo smantellamento di interi settori industriali e la vendita di immensi patrimoni immobiliari. Nell'uno e nell'altro caso, c'è stato chi a sinistra ha pensato che la politica - dall'opposizione o dal governo - volesse dire partecipare da protagonisti alla distribuzione dei pani e dei pesci.

Intorno a proprietà da conquistare e poteri da riequilibrare si è raffinato un sistema che ha visto in azione imprenditori vogliosi di vendere o di comprare; politici pronti a studiare leggi, varare piani regolatori e sponsorizzare cordate; istituti bancari, appena privatizzati e fusi, pronti a finanziare operazioni o a raccoglierne poi le spoglie sotto forma di partecipazione. Non è dunque un caso che a sinistra quella prima stagione abbia coinciso con l'affare Bnl-Unipol ("Abbiamo una banca"); e la seconda porti il nome di Filippo Penati e lo leghi alla dismissione dell'area degli ex stabilimenti Falck di Sesto San Giovanni.

Al di là delle vicende giudiziarie, dunque, è su una questione che dovrebbe comunque misurarsi oggi tutta la sinistra: se certificare la propria esistenza in vita (politica) significhi solo essere invitati al gran ballo della partecipazione al potere, rischiando di assumere vizi e tic che non le dovrebbero appartenere, e non piuttosto immaginare e preparare - finalmente - un Paese diverso.

 
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:31:36 pm »

Ah, le belle crisi di governo...

di Bruno Manfellotto

Stabilità e durata dell'esecutivo non si traducono automaticamente in efficienza.

E poi ci sono momenti in cui è salutare disfarsi di un capo che ha perso ogni credibilità. Come il caso Berlusconi insegna

(04 agosto 2011)

Alle 10 di mattina di lunedì 1 agosto, digerita la notizia dell'accordo sul debito americano, Piazza Affari marciava con il segno più. Un'illusione. Intorno alle 13 il vento già cambiava: giù le banche, su il differenziale tra titoli pubblici italiani e tedeschi verso un nuovo record. Pochi minuti prima le agenzie avevano battuto la notizia che, messo da parte l'ingombrante Tremonti, sarebbe stato Berlusconi in persona a parlare alla Camera sullo stato della finanza e dell'economia. C'è bisogno d'altro ancora per convincersi che il Cav, come dice Enrico Letta, è stato sfiduciato anche dai mercati, oltre che dagli elettori, e da banchieri, sindacati e imprenditori che invocano una "discontinuità" nella politica economica?

In effetti, il governo fino all'intervento di Berlusconi in Parlamento, era parso indeciso a tutto, inadatto a sostenere il peso della crisi. E mentre il ministro dell'Economia confessava a "Repubblica" il timore di essere spiato dalla Guardia di Finanza (perché? per conto di chi?), e sul capo del suo più fidato collaboratore si abbatteva una richiesta d'arresto da parte della magistratura, la debole manovra finanziaria di luglio che avrebbe avuto qualche effetto sostanziale solo nel 2013-14, veniva bruciata in pochi giorni dagli stessi mercati che avrebbe dovuto tranquillizzare: costretti ad aumentare i tassi d'interesse su Bot e Btp per renderli appetibili, ci già siamo mangiati i primi 4 miliardi di maggiori entrate. Insomma, operatori e cittadini si disfano dei titoli pubblici italiani in portafoglio. Così è stato perso un mese. E ora si teme che si faccia avanti anche la speculazione. Quella vera.

In altri tempi, e per molto meno, il presidente del Consiglio sarebbe stato costretto dal suo stesso partito (do you remember la Dc?) a un passo indietro, si sarebbe aperta una crisi che avrebbe eliminato l'ostacolo e dato vita a un altro governo. I mercati finanziari avrebbero apprezzato la novità confidando nel fatto che il nuovo esecutivo sarebbe riuscito a fare ciò che non aveva potuto il precedente (magari una svalutazione della lira...). Da quando, invece, si evoca l'inesistente Seconda Repubblica, si è fatto strada un malinteso presidenzialismo che scambia la durata di un governo e del suo premier con la sua efficienza. Berlusconi, anzi, ha costruito il suo consenso denunciando il male dell'instabilità incarnato da quei cinquanta e più governi che hanno scandito i primi cinquanta e più anni di vita repubblicana.

Eppure quei governi, nonostante il ripetersi delle crisi, hanno costruito l'Italia, portato a termine fondamentali infrastrutture (basta leggere "La strada dritta" di Francesco Pinto, storia dell'Autostrada del Sole, per capire quanto sia lontana la temperie di quegli anni), favorito lo sviluppo di una grande industria. I deprecati governi balneari aiutavano a preparare la ripresa d'autunno o le elezioni e impostavano il bilancio dello Stato. Cose che Berlusconi, forte per anni di una vasta maggioranza, non è riuscito a fare. Nemmeno - lui, imprenditore lanciatosi in politica - ad aiutare l'Ikea ad aprire uno stabilimento a qualche chilometro da Pisa. E oggi, governo balneare che attende di sapere che cosa succederà in autunno, rischia di vanificare un credibile pacchetto di misure anti crisi.

Non c'è alcuna nostalgia per quegli anni; solo la constatazione che quando un'esperienza politica si va spegnendo bisogna avere il coraggio di troncarla per evitare che danneggi il Paese, specie se imperversa la tempesta perfetta della finanza. Ammantato poi del sogno di impossibili riforme, è cresciuto anche il mito dell'imamovibilità del premier. E così, tutte le volte che il governo Berlusconi inciampava - ieri i casi Ruggiero, Mancuso, Siniscalco, Fini, Scajola; domani Tremonti - tutto si è risolto sostituendo il ministro dissidente o impresentabile e confermando il premier. E invece ci sono momenti in cui è necessario disfarsi di un Capo incapace o inaffidabile. O, come nel nostro caso, ormai privo di ogni credibilità. In Italia e non solo.

 
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:12:20 pm »

Pagare non è bello eppur si deve

di Bruno Manfellotto

Tra i regali del berlusconismo c'è un patto non scritto con gli evasori.

Ma finché non si dichiara guerra al sommerso il Paese non ha speranze

(19 agosto 2011)

L'idea "che Visco diventi ministro delle Finanze equivale a quella di fare Dracula presidente dell'Avis...". Copyright Giulio Tremonti, la data è quella dell'8 settembre 1995, fine del primo gabinetto Berlusconi, una vita fa. E ancora, 7 agosto 2002, Tremonti è di nuovo Super Giulio, ma non dimentica i nemici e il linguaggio di sempre: "Visco-Dracula non è in pensione e continua a succhiare il sangue delle piccole e medie imprese e dei lavoratori". Evidentemente la fatwa aveva funzionato fino a convincere gli italiani a riprendersi il Cav.

Ora però la legge del contrappasso redistribuisce pesi e misure e si abbatte stavolta sul governo Berlusconi, di cui Tremonti è di nuovo super ministro - pur se sotto tutela e pro tempore - dell'economia, costretto dalla tempesta finanziaria e da un debito pubblico incontrollabile a una manovra lacrime e sangue. Dove il sangue è quello succhiato agli stessi italiani di sempre. Riecco Dracula, stavolta con le sembianze del premier. Il cui cuore, parole sue, "sanguina" all'idea di spremere i cittadini. Poverino.

Nessuno può dire oggi che cosa resterà della manovra frettolosamente varata venerdì 12 agosto, prontamente corretta e smentita dagli stessi boss della maggioranza che l'hanno approvata; ma certo essa mostra fin dall'impianto tutta la sua pervicace iniquità, la sua debolezza, la tenacia di chi si ostina a colpire solo alcuni e a lasciare indenni gli altri. Anno dopo anno il memorabile "meno tasse per tutti" si è trasformato in un più prosaico "più tasse per alcuni".

Dove nel caso specifico gli alcuni sono il mezzo milione di italiani, poco più dell'un per cento dei contribuenti totali, costretti dal cedolino della pensione o dalla busta paga dell'azienda a dichiarare almeno 90mila euro lordi l'anno. Sono quelli che, anche volendo, non possono evadere e quindi brillano in testa alle statistiche come i più ricchi di tutti. Più di commercianti, imprenditori, dentisti, gioiellieri. In altre parole, chi già paga, pagherà più tasse ordinarie, straordinarie, una tantum, di emergenza, stavolta un contributo di solidarietà... E soprattutto pagherà anche per chi non paga.

Forse vale la pena ricordarlo ancora, ma il 90,2 per cento dei contribuenti Irpef dichiara meno di 35 mila euro lordi l'anno e mezza Italia meno di 15 mila. Insomma, fatti due conti, venti milioni di italiani vivono più o meno con 700 euro netti al mese: possibile? Non solo. Presto, possiamo starne certi, tornerà sotto altro nome l'Ici frettolosamente e demagogicamente cancellata; poi toccherà alle tasse locali, se Comuni e Regioni non vogliono chiudere baracca e burattini; e poi la sanità e l'università, il blocco del tfr e della tredicesima. Colpendo dove si è sempre colpito.

Intendiamoci, tutti vorrebbero meno tasse; ma su un punto si dovrebbe concordare: che l'evasione va comunque combattuta, contenuta, ridotta. Ogni coalizione politica premierà poi il blocco sociale che l'ha portata al governo, ma senza smentire quel principio fondante della democrazia.

E invece qui, dove solo la lotta all'evasione potrebbe salvarci da un debito pubblico che sta mangiando noi e i nostri figli, non è così. Negli ultimi quindici anni, nell'Italia che rinuncia a circa 120 miliardi che gli evasori ci negano ogni anno - come tre manovre d'emergenza - il berlusconismo ha operato la più massiccia redistribuzione del reddito del dopoguerra, affondando i denti nella carne dei lavoratori dipendenti pubblici e privati e firmando di fatto un armistizio con i piccoli e grandi evasori.

L'ultima prova? Alla fine il governo ha pensato di mettere le mani anche sui capitali indebitamente esportati e riportati in Italia nel 2009 con una mini multa del 5 per cento. Ma ha ipotizzato un prelievo minimo, quasi simbolico, un 1-2 per cento. Poco conta che sugli interessi maturati sui bot si paghi il 12,5 per cento e sui fondi di investimento, secondo le proposte, l'imposta sia stata aumentata al 20. L'Italia è sempre divisa in due. Anche quella fiscale.

 
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 26, 2011, 06:37:42 pm »

Libera Casta in libero Stato

di Bruno Manfellotto

D'improvviso ci siamo ricordati che il Vaticano non paga l'Ici sul suo patrimonio immobiliare: grida, polemiche, accuse di lesa Santità.

E però qui non si parla di religione, ma di equità. E di un'altra solidarietà

(25 agosto 2011)

Il diavolo a volte ci mette la coda, e pure lo sterco. E così accade che la supertassa sui redditi oltre i 90mila euro sia chiamata "contributo di solidarietà", che sa di chiesa più che di fisco; e succede pure che si scateni sui giornali e in rete una dura polemica contro il Vaticano che la sua "solidarietà" alla manovra potrebbe anche darla, magari accettando finalmente di pagare l'Ici almeno su una parte dell'ingentissimo patrimonio immobiliare di vescovadi e ordini religiosi, pii sodalizi e congregazioni, comunità e arciconfraternite.
Tanto più che venerdì 19 agosto, dai microfoni di "Radio Anch'io", il numero uno dei vescovi Angelo Bagnasco, predicava con grande efficacia mediatica contro l'evasione fiscale ("cifre impressionanti"), e anzi s'augurava che "il dovere di pagare le tasse possa essere assolto da tutti per la propria giusta parte". Bravo. Ma l'invito dovrebbe valere pure per l'elusione, in cui la Santa Sede storicamente (e legalmente) brilla: se tutti hanno da fare la loro parte...

Scavando nella memoria, poi, ci si è ricordati anche di altri aiuti, sconti e agevolazioni di cui gode la Chiesa, e di tutte le volte che il tentativo di modificare in Parlamento qualche regalìa, concordataria e non, si sia infranto contro un solido muro di "no" rigorosamente bipartisan. E Dio ci perdoni se questo rosario di piccoli e grandi privilegi ci ha dettato l'irriverente copertina "La santa evasione" e il titolo qui sopra che rimanda a un'altra casta ben più celebre e processata.

La verità è che anche in questo caso, come in tanti altri della vicenda italica, concessioni sacrosante e limitate sono divenute quando non arbitrio, certo altro da sé. Si pensi all'8 per mille, introdotto nel 1985 dal governo Craxi con l'impegno che se ne sarebbe via via valutata l'entità: è passato un quarto di secolo, il gettito si è moltiplicato, ma di quella correzione non s'è più parlato. E certo pesa che l'istituto sostituisca l'assegno di congrua, lo stipendio che lo Stato pagava ai sacerdoti a mo' di risarcimento dopo la breccia di Porta Pia e la caduta del Papa re. Il Tevere non è più largo di centoquaranta anni fa.

Si pensi poi agli immobili vaticani, esclusi da tassazione o per ragioni di extraterritorialità o perché destinati al culto, all'assistenza, al volontariato. Giusto. Ma negli anni, dal primo al secondo Concordato a oggi, quel patrimonio immobiliare è cresciuto a dismisura e spesso la destinazione è cambiata: ville trasformate in case di cura; appartamenti nei centri storici delle città ieri destinati alle famiglie bisognose e oggi ambìti da manager, politici, ministri; immobili diventati asili e scuole a pagamento; negozi e botteghe, garage e capannoni.

La beneficenza, è vero, nasce sovente dallo sterco del diavolo. Ma che c'entrano queste attività imprenditoriali con il culto e l'assistenza? E a quanto ammonta questo patrimonio parcheggiato in un'indefinibile zona grigia? Basterebbe un'operazione trasparenza, avviare almeno un censimento di beni e proprietà, se non altro per capire come davvero stanno le cose. Facile a dirsi, impossibile finora a farsi: non ne ha sentito l'esigenza il Parlamento, figuriamoci il Vaticano. E così si preferisce urlare e blaterare di cose di cui si sa poco o nulla.

Forse all'origine di tutto c'è un patto non scritto tra Stato e Chiesa in virtù del quale le mille braccia del mondo cattolico provvedono lì dove lo Stato non può arrivare: sanità, assistenza, istruzione. Prestazioni in qualche modo ripagate con vaste regalìe di elusione (e di evasione). Se così stanno le cose, forse è arrivato il momento di chiedersi, complice la straordinaria e inedita crisi che viviamo, se un equilibrio di tal fatta sia ancora equo e sostenibile. E se non sia opportuno cominciare a vivere la solidarietà in forme nuove. Parlando al meeting di Cl, il socialista Giuliano Amato si è chiesto come mai "abbiamo perduto la fiducia in un futuro comune". Noi più modestamente ci chiediamo perché questa fiducia mostri di averla persa perfino la Chiesa di Pietro.


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