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Autore Discussione: SINISTRA DEMOCRATICA -  (Letto 66434 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 07, 2007, 11:54:04 am »

7/10/2007 - ANALISI
 
La sinistra e i 5 autogol in diretta
 
Errori a ripetizione
 
PAOLO MARTINI

 
Tanto per onor di battuta, è nel protomartire SanToro che l’autolesionismo mediatico del centrosinistra trova sempre una sorta di santo protettore all’incontrario. Come se fosse il patrono della pulsione tele-suicidale di un’intera classe dirigente. Come dimostra anche quest’ultima vicenda di Anno Zero.

1 Il presidente del consiglio che la sera deve specificare: «Qualcuno ha scambiato una semplice critica ad una trasmissione televisiva con un attentato alla libertà», la mattina lamentava «la scarsa professionalità» di Michele Santoro. Forse non aveva visto che straordinario teatro Quel «qualcuno» nella smentita ricorda tanto il celebre «Michele chi?» pronunciato dal povero Enzo Siciliano appena piazzato presidente della Rai da Veltroni. Correva l’anno 1996, il primo tempo del lontano primo governo Prodi. Sono passati più di dieci anni ma non sembra cambiato niente: la sinistra Frankenstein alle prese con i suoi «mostri» televisivi...

2 L’altro giorno c’è stato persino il giallo delle critiche contro Anno Zero sul sito barricadero anti-censura Articolo 21. Un occhiuto osservatore che si firma prima Salamandra e poi Gianni Rossi, lamenta: «il conduttore si sente una sorta di “proconsole civile”, più sensibile al vento dell’antipolitica che ai dettami della corretta informazione». E prosegue mettendo sotto accusa persino Giovanni Floris, che invero è noto per lo stile nient’affatto santoriano: «I conduttori, talvolta, sembrano utilizzare quegli spazi come mezzi privati per poter influenzare il pubblico, più che essere dei “mediatori” con il compito di spiegare gli eventi». Aiuto! Manca solo l’aggettivo «criminoso», ma questa è addirittura la più classica delle argomentazioni bulgare di Berlusconi. Passano poche ore e per fortuna interviene Beppe Giulietti, che rimette le cose a posto: giù le mani da Santoro. 3 Ma è possibile che caschi così anche un personaggio figlio della tv e navigato come Walter Veltroni? Alla vigilia della proclamazione, il leader del nuovo Partito Democratico si mette lì a scegliere tra Clemente e Clementina. E con la critica all’esordio in tv della Forleo, «Veronico» Veltroni ha sbagliato bersaglio. E dire che il Gip di Milano aveva appena bucato così bene il video santoriano, affermandosi come nuova icona della donna forte del Sud bella, autentica e coraggiosa. Ma, quel che è peggio ancora, per l’opinione pubblica più avvertita la Forleo resta pur sempre la bestia nera di D’Alema e dei Ds.

4 A forza di lamentarsi dell’antipolitica, ci si dimentica che riempie le piazze. Per non dire di quanto domina sulle piazze virtuali di Internet. Anche Santoro in fondo ha riconquistato il centro della scena mediatica proprio ripartendo dalle piazze, dai ragazzi di Catanzaro, dalla gente di Potenza, dalla più classica versione elettronica dell’agorà che ha imparato a fare nella tv di Angelo Guglielmi con Samarcanda. Non è stata una semplice trasmissione televisiva, ma una messa in scena da teatro civile, un Brecht postmoderno, e ad autenticarne la forza non c’erano i Borsellino e le Alfano, ma tante facce di ragazzi veri del Sud.

5 C’è una grande e singolare somiglianza tra i volti generosi e battaglieri genere movimento «Ammazzateci tutti» e i due simboli che rinnovano il mito dell’eroismo del giudice, così come sono apparsi sulla scena santoriana. E certo non c’è gara tra l’impatto visivo al telegiornale di un Mastella stressato con tanto di relativo contorno d’improbabili giacche blu della nomenklatura Udeur al fianco. Al confronto de Magistris e la Forleo lontani, solitari e fieri sembrano persino discendenti dei Bronzi di Riace. Per non parlare dell’autogol mastelliano dell’ante-antipuntata di Porta a Porta, che ha tirato la volata ad Anno Zero. Tra l’altro sono sempre le bianche poltrone di Vespa ad accogliere i leader del centrosinistra quando hanno problemi e devono comunicare. Prodi ci si è seduto persino per replicare al Vaffa-Day. Dal contratto con gli italiani di re Silvio alla resa mediatica dell’Unione.

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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 15, 2007, 10:04:51 am »

“Non si può non tenere conto del voto di 5 milioni di lavoratori” intervista a Fabio Mussi, ministro dell’Università e ricerca e Coordinatore nazionale di Sd, pubblicata da Il Sole 20 ore il 13 ottobre 2007

Il Corteo del 20? Meglio non farlo

di Emilia Patta


“Non si può non tener conto del voto di 5 milioni di lavoratori. Fina dall’inizio abbiamo detto che la manifestazione del 20 ottobre contro il precariato non ci sembrava giusta nella forma e nella piattaforma. Dopo il referendum e il si dei lavoratori al Protocollo di intesa sul welfare ci sembra ancora meno opportuna”. Fabio Mussi, leader di Sinistra Democratica e ministro della Ricerca del Governo Prodi, prende nettamente le distanze dal corteo di protesta organizzato dal Prc e dal Pdci. “Io non ci sarò, noi non ci saremo, il nostro movimento non aderisce”. Insomma, “la manifestazione sarebbe meglio non farla”.

Divisi sul corto, e divisi anche in Consiglio dei Ministri. Il 12 ottobre non è la tomba della “cosa rossa”?
“il si con riserva mo e di Pecorario Scanio e l’astensione di Ferrero e Bianchi sono posizioni molto più vicine di quello che appaiono. Le nostre critiche sugli usuranti e sui contratti a termine sono simili. Credo che sul voto di oggi in Consiglio abbia pesato soprattutto la manifestazione del 20: fra otto giorni, passato lo scoglio, le posizioni si ricomporranno. Insomma deve passare il 20 ottobre. Io credo ancora nel progetto di riunione tutta la Gauche fuori dal Partito democratico. insieme abbiamo già ottenuto risultati, con la finanziaria e con le modifiche al Protocollo, in favore della parte più debole e più povera della popolazione. Proprio il Sole 24 ore ha titolato “la sinistra strappa 2 miliardi sul welfare”. Continueremo su questa strada. D’altra parte ci sarà concessa qualche piccola divisione nel momento in cui una candidata alle primarie dei Pd accusa gli altri di brogli e un altro candidato dichiara di tenere il fucile sotto il cuscino.

Perché la riserva in Consiglio? Non le sembra una anomalia?
Sono soddisfatto delle modifiche sui contratti a termine e considero il Protocollo un buon punto di compromesso sulle pensioni, sui giovani e sulle donne.la mia perplessità, e da qui la mia riserva, , è sugli usuranti: non c’è più il numero massimo di pensionamenti anticipati c’è però il tetto di spesa. Dubito che possano indicare gli eventi diritto e poi dire, a un certo punto, che i soldi sono finiti. Se non lo si farà in Parlamento sarà il primo degli esclusi per mancanza di fondi a cambiare la norma rivolgendosi alla Corte Costituzionale.

Cofindustria ha giudicato le modifiche sui contratti a termine “non lievi e peggiorative” dell'intesa di luglio. Questo può creare problemi alla validità del Protocollo?
La formulazione del Protocollo sui contratti a termine era ambigua: nel Ddl ci siamo limitati a sostituire “eventuali reiterazioni” con “reiterazione”. L’obiettivo di limitare l’uso dei contratti a termine a termine per contrastare la precarietà del lavoro, che nella maggior parte dei casi passa proprio attraverso questo strumento, era nel Programma dell’Unione. Così come era nel programma dell’Unione l’eliminazione dello staff leasing, che invece è rimasto. È anche il Programma dell’Unione, mi permetterei di ricordarlo, era un buon protocollo votato da alcuni milioni di persone. Quanto poi all’ “assistenza di un rappresentante di un sindacato comparativamente più rappresentativo a livello nazionale” per ottenere la proroga del contratto a termine dopo i tre anni credo che Confindustria stessa non abbia interesse alla proliferazione dei sindacati “gialli”.

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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 18, 2007, 06:18:30 pm »

I compagni di provenienza socialista e Sinistra Democratica (17 ottobre 2007)

Scomporre e ricomporre. Per unire e rinnovare

di Ernesto Fedi*


I compagni di Sinistra Democratica di provenienza socialista, per la massima parte, non hanno seguito Angius e Spini ed hanno deciso di continuare il loro impegno nel movimento, non ravvisando, ora ed in questo modo, le condizioni per una fuoriuscita ed un’adesione alla Costituente ed al nuovo Partito Socialista, che sarà varato all’inizio dell’anno prossimo.

Quando nacque Sinistra Democratica tutti fummo d’accordo nel rifiuto del Partito Democratico, che nasceva sostanzialmente come partito di centro a tendenziale vocazione cattolica e non si collocava nel contesto del socialismo europeo.

Tutti convenimmo sulla necessità di realizzare una grande sinistra unita e plurale, capace di contribuire fortemente alla semplificazione del quadro politico, superando l’attuale frammentazione.

Tutti concordammo che il nostro referente europeo restava il PSE.

E’ lecito domandarsi ora che cosa è cambiato di sostanziale rispetto ad allora. Poco. E comunque non a sufficienza per rimettere tutto in discussione.

Se escludiamo, come escludiamo, la formazione nel breve periodo di un partito unico della sinistra sotto l’egemonia di Rifondazione e dei Comunisti Italiani, collocato nella Sinistra Europea anziché nel PSE, la scelta della Costituente, per chi milita in Sinistra Democratica, appare senza costrutto e, quel che è peggio, rischia di spostare a sinistra il baricentro del movimento, privandolo sul fianco destro di una componente di primaria importanza.

La Costituente segna un passo avanti sulla strada della semplificazione. Ha senza dubbio il grande merito di aver ridotto la diaspora socialista. Vi sono confluite personalità  come Formica. Ha aderito, con Turci, l’insieme dei circoli che si sono ritrovati nei convegni di Montecatini, Bertinoro e Chianciano. Ma l’ingresso dei Socialisti Italiani di Bobo Craxi e Zavettieri e del Nuovo PSI di De Michelis e Del Bue, che nella passata legislatura si erano collocati nel centro destra, qualche problema lo pone.

Ho detto ridotto e non ricomposto la diaspora, perché non sono entrati a far parte della Costituente socialisti come Amato, Ruffolo, Benvenuto, Del Turco, Carniti, Signorile e tanti altri.

E’ dunque un quadro interessante, ma è ancora un microcosmo. Siamo ben lontani da quel socialismo largo caro a Formica.
 Per avere anche in Italia un grande partito socialista che, per dimensioni, almeno si avvicini agli altri partiti europei, bisogna andare oltre. Bisogna lavorare ad aggregazioni più vaste.

E se intendiamo partire dai contenuti, è doveroso far chiarezza.

Il socialismo non è solo un contenitore o un’etichetta. Deve soprattutto essere, nel contesto della sinistra, un comune campo di valori, un comune progetto, una stessa rappresentanza sociale.

La Costituente si è nettamente distinta dal Partito Democratico soprattutto per quanto riguarda la laicità e i diritti civili. E non è poca cosa. Non possiamo sottovalutarla.

Ma in merito alla politica economica ha dato finora la sensazione di stare sulla stessa lunghezza d’onda del Partito Democratico.
Soprattutto nella difesa delle conquiste dello Stato sociale contro l’assalto degli interessi privati, nella lotta al precariato che sta mortificando un’intera generazione ed ha reso precaria la stessa società, le differenze con noi e gli altri partiti della sinistra rimangono non irrilevanti.
E poi deve essere sciolto l’equivoco della Rosa nel Pugno. Non sono stati pochi gli esponenti della Costituente che hanno rilanciato, nella recente conferenza programmatica, il valore strategico dell’alleanza con i radicali, che socialisti non sono, né intendono diventarlo e che in molti casi si collocano addirittura a destra dello stesso Partito Democratico.

Per procedere con successo, dobbiamo tutti far strame di equivoci, incertezze ed ambiguità. E, anziché polemizzare tra di noi, dobbiamo ricercare convergenze consistenti verso obiettivi comuni, se vogliamo realizzare in Italia un grande partito del socialismo europeo in una forte e coesa sinistra. Altrimenti c’è il rischio di dar vita ad un partito modesto, magari anche fuori dalla sinistra.
D’altra parte il PSE, che negli altri paesi europei viaggia livelli che mediamente superano il 30%, in Italia non può essere rappresentato da un partito di minuscole dimensioni.
La strada da percorrere, per noi, è quella di lavorare alla costruzione di una grande sinistra unita che pesi sugli equilibri politici italiani, in sintonia con le altre formazioni della sinistra di governo europea, raccolte in quel PSE di cui già fanno parte tutti gli eurodeputati di Sinistra Democratica.
In Italia la sinistra, che per la prima volta è tutta al governo, non è solo socialista.

Pertanto bisogna far convergere su un comune obiettivo anche movimenti, associazioni e partiti di matrice comunista, ambientalista e pacifista, con lo scopo non solo di unirci, ma di rinnovarci tutti per stare al passo con le sfide degli anni 2000.
Qualcuno penserà che si tratti di una missione impossibile. Comunque va tentata, senza riserve e senza pregiudizi.

Mantenere a sinistra del Partito Democratico una miriade di partitini, in competizione tra di loro,  sarebbe un errore imperdonabile.
Bisogna saper andar oltre l’esistente. Scomporre per ricomporre. Unire per rinnovare. E non basta neanche federare. Federando si unisce, ma non si rinnova. Si garantisce la sopravvivenza, ma si cristallizza l’esistente e si finisce per dare ai problemi del paese una risposta insufficiente e perdente.

Dobbiamo tutti insieme lavorare ad un progetto politico di alto profilo, forte, affascinante,che dia il segno di un cambiamento profondo e che sappia guardare con successo al futuro. Tutto il resto è riduttivo e insufficiente. Non rassegniamoci a   dare per fallito quello che fallito non è. Lavoriamo per l’unità.
Questo vale per tutti, anche per i compagni della Costituente.   

*Componente il Direttivo di Sinistra Democratica

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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 23, 2007, 12:27:34 am »

Una riflessione sull'esito della manifestazione del 20 ottobre

Pubblicata da Aprileonile.info (22 ottobre 2007)

Sinistra, il giorno dopo
di Titti Di Salvo


Siamo arrivati al 21 ottobre.
E una riflessione è d’obbligo, accantonando per un momento una situazione politica confusa ed instabile. Infatti gli appuntamenti che precedevano il 21, pur molto diversi tra loro, avevano in comune l’essere una  verifica  del grado di rappresentanza sociale e politica, come antidoto o risposta alla crisi di consenso che attraversa il paese. Il successo di quei singoli eventi rende oggi la democrazia italiana più salda.
Naturalmente ciascuno di quegli appuntamenti ha delle conseguenze. Il referendum dei lavoratori e dei pensionati rassicura il sindacato sul gradimento della mediazione raggiunta con il protocollo sul welfare. Il voto di Walter Veltroni rafforza quella leadership dandogli una investitura che può essere solo limitata dall’autocensura.
Anche la manifestazione del 20 ottobre, molto partecipata, rassicura i promotori della esistenza di un seguito importante alle parole d’ordine con le quali la manifestazione era convocata.
Da lì in avanti, dal 21 in avanti, lungo la strada dell’unità a sinistra, una sinistra larga e rinnovata, si ripropongono gli stessi problemi. Due in particolare: quale rapporto tra la sinistra e il sindacato confederale; il rinnovamento della sinistra.
In primo luogo il rapporto con il sindacato confederale. E’ perfino pleonastico sottolineare come la sinistra politica che ambisce a rappresentare politicamente il lavoro, non possa prescindere dal definire ambito e qualità del rapporto con il sindacato che il lavoro lo rappresenta socialmente, lasciando al passato collateralismi e cinghie di trasmissione.
Il termine “autonomia” qualifica quel rapporto. Ma appunto autonomia non è estraneità, non è competizione. Per definizione l’autonomia intanto è possibile solo sulla base di idee proprie da mettere in relazione ad altre idee.
Dalla astrazione alla concretezza: nella frizione che si è manifestata tra parte della sinistra e  sindacato confederale sul protocollo, il punto a me non chiaro è stato il metro di misura scelto per misurare l’accordo.
Se il metro di misura fosse la distanza tra quel protocollo e il programma di governo dell’Unione, la polemica andrebbe rivolta verso chi si è discostato dal programma.
E’ evidente che sta e stava al governo e alla sua maggioranza l’onere del rispetto del programma.
Se a non essere condiviso fosse il metodo della concertazione (propria delle socialdemocrazie europee più avanzate e che impegna governo e sindacati a comportamenti virtuosi sulla base di obiettivi condivisi) allora la polemica sarebbe sul privilegio della relazione: perché se si è scelta la concertazione, allora i firmatari dell’accordo siglato sono impegnati a tener fede a quell’accordo, pena svuotamento della stessa modalità di relazione.
Il referendum promosso dal sindacato sul protocollo, poi, ne ha approvato i contenuti e anche della legittimità del sindacato stesso.
Rimuovere quell’esito, vedendo solo il valore del referendum in quanto prova democratica, non aiuta a costruire un rapporto positivo e quindi autonomo tra sinistra politica e sindacato.
Peraltro sarebbe miope non vedere come nella consultazione si sia espresso, nei sì e nei no, il malessere di una condizione di lavoro valorizzata socialmente.  La mia opinione è che il protocollo sia stato un terreno di aspra battaglia all’interno della maggioranza perché sui temi da esso affrontati si confrontano due idee di sviluppo; il sindacato ne è stato il parafulmine. Si è trattato di un aspro confronto che il programma pre-elettorale aveva composto e il risultato elettorale ha poi scomposto in modo molto evidente.
D’altra parte stupisce e comunque a me ha stupito l’isolamento culturale delle ragioni del lavoro a quel tavolo di trattative. Liquidare quell’isolamento con un giudizio sul moderatismo sindacale a mio avviso non solo è falso, ma comunque non spiegherebbe il problema. Tentare di rompere quell’isolamento rimuovendo il risultato del referendum, altrettanto: servono alleanze.
Così come le ragioni del lavoro non hanno chance né possibilità di segnare in prospettiva lo sviluppo del paese senza che la politica assuma quelle ragioni come ragioni fondative.
E questo ci riporta all’unità a sinistra e, soprattutto, ci riporta al tema del rinnovamento della sinistra.
Una sinistra larga, femminista, pacifista, ecologista e di governo.
Una sinistra che deve avere l’ambizione di immaginare una prospettiva nazionale e generale per il paese. Rinnovata, perché conosce i propri limiti interpretativi e di rappresentanza. Limpida, coerente, credibile: che sceglie la politica come ascolto e prende le distanza dalla politica mediatica profondamente berlusconiana, anche quando cambiano i protagonisti. Ci vorrebbe il coraggio di uscire dalle trincee della propria identità: ci vorrebbe tempo.
Ma di sicuro due cose non ci servono: identità orgogliose contrapposte in una campagna elettorale permanente, tutta giocata all’interno della sinistra; denominazione di origini controllate, “cose rosse” o scelte analoghe brandite come perimetri.
L’unità a sinistra è ciò di cui ha bisogno il paese; non nascondere i problemi che esistono lungo quella strada o rimuovere i nodi fondamentali, lungi dall’essere un ostacolo verso questa prospettiva, è l’unica condizione per garantirle successo.

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« Risposta #34 inserito:: Novembre 05, 2007, 03:44:33 pm »

5/11/2007
 
La guerra delle due sinistre
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Gli amanti del genere sappiano che è quasi tutto pronto. Se ne hanno voglia e tempo - dunque - comincino a documentarsi, catalogando per benino la nuova ondata di ultimatum e di minacce, e preparandosi - magari - alla solita diretta tv in arrivo dal Senato: sarà un’altra corrida, è quasi garantito, con urla, strepiti e tumulti in aula. Perché insomma sì, si replica «sinistre contro», pellicola di gran successo in questi primi diciotto mesi di governo dell’Unione. Del resto, essendo state «contro» fino ad ora quasi su tutto, non si sarebbe capito perché non avrebbero dovuto esserlo anche in materia di sicurezza e sull’ultimo decreto varato dal governo.

Dunque, sinistra riformista contro sinistra radicale: che - tradotto - ormai vuol dire Partito democratico contro «Cosa rossa». Con il nemico vero, cioè l’opposizione di Silvio Berlusconi, come sempre seduto lì, in attesa sulla più classica sponda del fiume...

Gli esperti del genere, però, assicurano che il finale dell’ennesimo episodio della saga sia praticamente già scritto, e che la conclusione dovrebbe essere assai simile (e se così fosse, simile fino alla noia) all’epilogo delle grandi battaglie che le due sinistre hanno ingaggiato, per esempio, intorno al rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero.

Insomma, poiché si postula come sicuro che almeno un paio di partiti dell’opposizione (Udc e Forza Italia) finiranno per votare il decreto sui rimpatri coatti, le due sinistre si daranno battaglia ma poi sigleranno la solita traballante tregua: la sinistra riformista provvederà magari a qualche impalpabile modifica del decreto, la sinistra radicale dirà che il tutto resta poco convincente e che qualche dissenso nelle proprie file sarà inevitabile (tanto a fare maggioranza in aula ci penseranno i senatori del centrodestra...).

Si assisterà, dunque, a una nuova grande battaglia virtuale, al centro della quale ci sarà - più che il merito del decreto sulle espulsioni - l’«immagine» delle due sinistre, il loro profilo, il loro futuro, il loro appeal elettorale. La sinistra radicale già accusa quella riformista di xenofobia, razzismo e cedimento alla destra; la sinistra riformista risponde puntando l’indice contro «posizioni ideologiche» e sbandierando il vessillo - ormai fatto proprio - innalzato tempo fa tra mille polemiche dai grandi sindaci dell’Unione (da Cofferati a Chiamparino, da Veltroni e Domenici): legalità e sicurezza sono valori di sinistra. «Attenti a non inficiare il principio della sicurezza come garanzia fondamentale di tutti i cittadini - spiegava ieri Luciano Violante -. La sicurezza è la prima garanzia, soprattutto per i più deboli».

Del resto, alle obiezioni della sinistra radicale (vere o di comodo che siano) risponderebbe già la dettagliata circolare di spiegazione e accompagno al decreto fatta giungere dal Viminale a Prefetti e Questori. Spiega Fabrizio Forquet, portavoce del ministro Amato. «I Prefetti sanno che le espulsioni vanno valutate caso per caso, e disposte con singoli provvedimenti. E i Prefetti possono, a seconda delle esigenze, adottare sia la procedura d’urgenza che quella ordinaria. Quello che è da escludere, insomma, è che l’Italia proceda a espulsioni di massa. E del resto il numero dei provvedimenti adottati dall’entrata in vigore del decreto lo testimonia a sufficienza». Ciò nonostante, poiché il copione reclama la sua parte, lo scontro tra le due sinistre si protrarrà fino al giorno del voto in Senato (per altro, tutt’altro che imminente). E la sinistra radicale lo combatterà al grido «il Pd cerca accordi con la destra piuttosto che con noi».

Due voci per tutte, entrambe in arrivo da Rifondazione. Due voci singolarmente identiche. Il ministro Ferrero: «Risulta per lo meno inquietante la proposta di un voto bipartisan sul decreto espulsioni». Russo Spena, capogruppo al Senato: «Trovo inquietante che il ministro Amato cerchi il dialogo con Fini, e che provi addirittura di rassicurarlo, invece di tentare di dialogare con la sua maggioranza». Salvo colpi di scena sarà questo il Leitmotiv della battaglia della sinistra radicale (che, per altro, si svolgerà nel pieno dell’altro scontro già aperto sulla Finanziaria, a proposito della quale due senatori di Rifondazione, Turigliatto e Rossi, hanno già assicurato che voteranno no, salvo assai congrue modifiche...). Come finirà? Probabilmente, come si diceva all’inizio: i partiti della sinistra radicale saranno recuperati a un voto non negativo sul decreto, salvo libertà di dissenso per i singoli senatori. E chi procederà al recupero della «Cosa rossa»? Probabilmente Romano Prodi, forte di un feeling tutto particolare con Giordano e Bertinotti. In fondo, è come se il premier si fosse un po’ diviso i compiti con Walter Veltroni: come nella storia dei due carabinieri, nei confronti della sinistra radicale uno fa il buono e l’altro cattivo. Magari funziona, non è detto. Ma quanto potrà durare, questo davvero non si sa...
 
da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 07, 2007, 08:17:47 am »

POLITICA

Il segretario del Pdci è a Mosca per i 90 anni della Rivoluzione d'ottobre

Poi precisa: "Era solo una battuta". Volontè: "Se la porti a casa sua"

Diliberto: "La mummia di Lenin a Roma"

Gasparri: "Ok, ma lui vada a Mosca"


 MOSCA - "La mummia di Lenin? Se la Russia non la vuole potremmo portarla a Roma". Il segretario del Pdci Oliviero Diliberto ha appena finito di visitare il mausoleo di Lenin a Mosca. Ha deposto fiori e ha sostato per alcuni istanti ai piedi del corpo mummificato del padre della Rivoluzione. Poi, in attesa di commemorare, domani, i 90 anni della Rivoluzione d'ottobre, lancia una provocazione. "Se non la vuole, la porto in Italia". E lo fa sapendo che Vladimir Putin sembra deciso a voler sfrattare il sarcofago di Lenin e chiudere il mausoleo. Una proposta che, immediatemente, Diliberto definisce solo una battuta, ma che scatena reazioni, serie, in Italia.

Il più seccato sembra essere il capogruppo dell'Udc alla Camera, Luca Volontè: "La porti a casa sua, l'Italia non può certo permettersi di diventare un ricettacolo di emuli dei genocidi comunisti d'europa". Insinuando che l'uscita del segretario comunista possa essere legata all'ottima vodka che si beve a Mosca. Diliberto viene avvertito e replica: "Un vizio sicuramente più innocenti di quelli che si consumano all'hotel Flora pagando donne e stupefacenti". Con evidente riferimento ad uno scandalo che ha visto protagonista un deputato dell'Udc.

Chi invece la butta sul ridere è Maurizio Gasparri di An che propone uno scambio tra la mummia di Lenin e Diliberto: "Comunque è davvero triste avere personaggi così squalificanti per il nostro paese che girano nel mondo". Ma anche a sinistra la battuta di Diliberto non suscita consensi. "Noi siamo qui a parlare dei problemi e del rilancio della sinistra ma c'è qualcuno che pensa a dove collocare la salma di Lenin..." taglia corto il segretario di Rifondazione Franco Giordano. Di tutt'altro avviso il capogruppo del Pdci alla Camera Pino Sgobio: "A novant'anni dalla rivoluzione d'ottobre, Lenin evidentemente fa ancora paura sia agli anticomunisti. Tutto questo è la dimostrazione che il comunismo è ancora il futuro".

E visto che si parla di rientri e sepolture, Sergio Boschiero, segretario dell'Unione monarchica italiana, rilancia: "Altro che Lenin, in Italia dovrebbero invece trovare la loro storica sepoltura i nostri re e le nostre regine, tuttora sepolti in terra straniera".

(6 novembre 2007)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Novembre 07, 2007, 08:19:57 am da Admin » Registrato
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« Risposta #36 inserito:: Novembre 10, 2007, 10:58:01 pm »

Cosa Rossa, alle amministrative Prc-Pdci e Sd corrono insieme


Primi passi della Cosa Rossa. Alle prossime elezioni amministrative, Rifondazione, Comunisti Italiani e Sinistra Democratica si presenteranno sotto lo stesso simbolo. Ancora non si sa quale, ma la scelta è in via di «rapida definizione». I responsabili dei dipartimenti Enti Locali dei tre partiti della sinistra hanno evidenziato venerdì «l'auspicio di giungere rapidamente, già a partire dall'assemblea dell'8 e del 9 dicembre, alla definizione, attraverso la partecipazione delle cittadine e dei cittadini, del sindacato e delle associazioni, di elementi programmatici comuni in previsione delle elezioni amministrative del 2008». E lanciano l’alleanza competitiva con il Pd: Unione sì, ma con «pari dignità» tra le forze che la compongono.

Pubblicato il: 09.11.07
Modificato il: 09.11.07 alle ore 20.54   
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 17, 2007, 07:39:18 pm »

Vendola: io leader della Sinistra?

 Macché, troppo vecchio

Simone Collini


Sull’unità a sinistra si vedono dei passi avanti e però la strada non sembra tutta in discesa.

Lei che dice presidente Vendola?


«Intanto - dice il governatore della Puglia ed esponente del Prc - è importante che il percorso sia avviato, che i gruppi parlamentari di Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica abbiano mostrato una progressiva omogeneizzazione dei comportamenti fino alla dichiarazione di voto unitaria, e anche che ci sia una consapevolezza che travalica gli ambiti dei gruppi dirigenti coinvolgendo un popolo molto largo».

Di che tipo di consapevolezza parla?

«Della necessità di una nuova sinistra, di un soggetto unitario e plurale che affronti le sfide che abbiamo di fronte. La manifestazione del 20 ottobre è stato un grande fatto di massa che spinge in questa direzione. E che a dispetto di troppe previsioni affrettate ha dimostrato la maturità politica di questo popolo e di questo processo, liberando le forze della sinistra da quella ipotetica collocazione, per certi versi auspicata dai poteri forti, nell’ambito di una sorta di estremismo testimoniale».

Però la discussione sul simbolo di questo nuovo soggetto ha già segnalato qualche difficoltà, visto che non tutti sono pronti ad archiviare falce e martello.

«La sinistra è fatta di tanti simboli e di tante divisioni anche. È giunto il momento di costruire una casa comune. Ciascuno può tenere nell’articolazione delle esperienze e anche nel cuore il proprio simbolo. Però quando c’è una casa comune servono un nome e un simbolo che rappresentino non un passo indietro per nessuno ma un passo in avanti per tutti. Serve un punto più alto di unità, che abbia in sé quell’elemento di fascinazione progettuale in grado di parlare alle giovani generazioni».

A qualcuno verrà il sospetto che difende in questo modo il progetto di unificazione perché lei potrebbe esserne il futuro leader.

«Non sono candidato perché sono già stato eletto e intendo onorare il mandato ricevuto e completare l’esperienza di governo in Puglia. Secondo, mentre nelle questioni del governo sento l’obbligo morale di esercitare fino in fondo il dovere della mediazione, nella lotta politica e culturale ho sempre espresso con grande autonomia i miei pensieri. Prima di diventare comunista sono stato antistalinista, sono incapace di giustificazionismi ogniqualvolta c’è la lesione di un diritto civile».

E questo le impedirebbe di assumere la guida della sinistra unita?

«Non sarei adeguato. E penso anche di essere vecchio. Nel senso che probabilmente i miei occhi non sono in grado di vedere tante cose nuove e buone che ci sono, perché sono completamente segnato dalla storia del 900. E infine penso che se questo processo cercasse un proprio abbrivio nella questione del leader partirebbe col piede sbagliato. Un leader può essere una bella scorciatoia rispetto ai problemi legati alla rimessa in campo di strumenti analitici, concettuali, di categorie, di idee strategiche, insomma di cultura politica. Qui non si tratta di costruire un compromesso al ribasso tra gli apparati ideologico-programmatici dei diversi attori, ma di capire se sia possibile ragionare di una carta dei valori e del profilo della sinistra del futuro, a partire da un’analisi di questa globalizzazione, di questo capitalismo e da un approfondimento dei dilemmi della nostra epoca, dalla guerra permanente alla mutazione climatica».

Per Pdci e Verdi oltre la federazione non si può andare, Sd ritiene invece il soggetto unico la meta finale. Lei che dice?

«Quando si apre un processo e tutti si mettono in gioco, non si può indicare preventivamente l’esito del processo. Il problema che abbiamo di fronte è molto più grande di quanto non siano le questioni identitarie o le legittime rivendicazioni di appartenenza».

Perché, che cosa c’è in gioco?

«La ragione sociale della sinistra in questa fase della storia. Anche in rapporto alla nascita del Partito democratico con un profilo neomoderato. Qui non c’è una legge fisica da rispettare, non possiamo immaginare che se il Pd lascia un grande vuoto a sinistra ci sarà un automatismo politico-psicologico che consentirà a noi, così come siamo, di colmarlo. Si tratta invece di ricostruire fino in fondo l’immagine precisa non solo della crisi della politica, ma della crisi della società, di guardare nel profondo di quella deriva corporativa e persino di quella mutazione antropologica che ha spezzato corpi sociali organizzati e messo in crisi la democrazia dei partiti di massa».

Come deve far fronte la sinistra a questa crisi della società?

«Non con una politica di riduzione del danno. La destra risponde proponendo un binomio secco, precarietà e deriva securitaria, alimentando una vera e propria società della paura. La sinistra non può pensare di fare una buona precarietà e una buona sicurezza fondata sulla fobia. Deve capovolgere il paradigma, intervenire sulle grandi fratture: quella tra l’individuo e il mercato del lavoro, e quindi deve fare battaglia per un lavoro stabile e competente; quella relativa alla condizione urbana, e quindi serve una grande battaglia per la riqualificazione delle periferie, per la sicurezza sociale, per l’esercizio pieno dei diritti di cittadinanza».

Sulla sicurezza e i diritti di cittadinanza si è mosso bene il governo, secondo lei?

«C’è stata qualche oscillazione emotiva, e questioni strutturali non possono essere affrontate con logiche di emergenza. Tanto più se presuppongono per talune categorie di cittadini la sospensione di diritti costituzionalmente protetti. Avremmo dovuto ricordarci che per un quinquennio le politiche dell’immigrazione sono state quasi esclusivamente un capitolo delle politiche dell’ordine pubblico, quando gli stranieri sono potenzialmente una risorsa piuttosto che un problema. Non abbiamo visto con sufficiente chiarezza che quando le politiche di inclusione funzionano, gli stranieri che delinquono sono percentualmente meno degli italiani che delinquono. E che quindi tutti gli stereotipi fondati sulla criminalizzazione etnica sono non solo un vecchio retaggio parafascista, ma una clamorosa bestialità».

Quindi, la sua opinione sul decreto sicurezza?

«Credo che nella conversione in legge si possano correggere gli aspetti a rischio di costituzionalità e sottolineare invece alcuni passi in avanti, per esempio dal punto di vista della lotta ai poteri mafiosi. Perché francamente si fa fatica a immaginare qualunque politica della sicurezza che non parta dalla strategia di sradicamento delle grandi organizzazione criminali».

A Genova ci sarà una manifestazione per chiedere verità su quanto avvenuto al G8 del 2001.

«È importante che si faccia questa manifestazione, ed è importante che si dia una risposta di decenza a quello che è stato un buco nero nella storia d’Italia. Non si chiede una condanna preventiva di nessuno. Si chiede una commissione d’indagine. Ed è incredibile che in un Paese che ha partorito grottesche commissioni parlamentari, come quelle della scorsa legislatura alimentate dai falsi dossier di personaggi torbidi, oggi non si abbia il coraggio di aprire uno squarcio su una storia che ha visto per 48 ore sospese le regole dello stato di diritto».


Pubblicato il: 16.11.07
Modificato il: 16.11.07 alle ore 9.54   
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« Risposta #38 inserito:: Novembre 17, 2007, 07:46:16 pm »

Mussi incontra Veltroni: prove tecniche di dialogo


Amicizia e rispetto, ma parole chiare in politica.

Fabio Mussi e Walter Veltroni, inseparabili ai tempi della Fgci, si ritrovano di buon mattino al Campidoglio (una consuetudine per il segretario del Partito Democratico) per una colazione che termina con una promessa («ci vedremo di frequente con rapporti regolari») e una constatazione: «Sulla legge elettorale le distanze rimangono intatte».
Il ministro della Ricerca - nel faccia a faccia con il segretario - boccia la proposta Vassallo-Ceccanti che introduce, dice, «un sistema italo-tedesco-israelo-spagnolo» nella discussione sul nuovo sistema di voto. «Non ci siamo ancora - dice Mussi - e in particolare sul sistema "delle mani libere"» che rende possibili coalizioni dopo il voto.

«Qualunque sistema elettorale - spiega - deve dire non solo quale programma si immagina, ma anche quale sistema di alleanze. Bisogna dire prima dove si sta. Lo spazio del bipolarismo va tutelato politicamente, prendendo in parola quel che si dice: temo che l'autosufficienza di Veltroni nasconda le mani libere. Una cosa che per il centrosinistra sarebbe un errore strategico».

Mussi ha infatti riconfermato al segretario del Partito Democratico il suo impegno nella costruzione di un'aggregazione a sinistra. «È importante per tutti quelli che credono ad una prospettiva di centrosinistra - ha detto Mussi - e non credono invece a confuse nuove fasi». Ogni riferimento, come si dice, è casuale.

Senza contare, ha spiegato Fabio Nussi a Walter Veltroni nell'incontro di sabato mattina, che la nuova legge elettorale «è cucita con perizia sartoriale sui soggetti proponenti. la correzione del modello tedesco non può prevedere uno sbarramento all'8 per cento e penalizzare le formazioni nazionali a discapito di quelle con forte insediamento localistico». Su questo terreno, Mussi trova un alleato, all'interno del PD, piuttosto in Massimo D'Alema, anche lui amico di "infanzia politica". «Vedo - dice il ministro in riferimento al convegno di ieri promosso da italianieuropei- che nel pd non mancano critiche anche molto forti...», alcune delle quali vengono appunto dal ministro degli esteri.

Altro punto nodale delle riforme, che piacciono a Veltroni e non piacciono invece a Mussi, è l'indicazione diretta del premier. Su questo Veltroni è stato sempre molto chiaro. Altrettanto esplicito è Mussi: «Così si passa al modello italo-tedesco-israelo-spagnolo. Capisco - spiega - che introdurre il vincolo di coalizione con il sistema proporzionale è difficile, ma bisogna fare attenzione a introdurre mix esagerati e macchine che non funzionano. Serve una riflessione critica».

In realtà il leader di Sinistra Democratica è scettico su tutto l'impianto delle correzioni al modello tedesco. Su questo, dice, occorre una posizione comune nella maggioranza. «Ho detto a Walter che serve una discussione collettiva. La convocazione di un vertice non c'è ancora, ma è chiaro che prima di aprire il dialogo con l'opposizione dobbiamo trovare una convergenza all'interno dell'Unione».

Al termine dell'incontro con Veltroni, è lo stesso Mussi a sottolineare che «le distanze restano» anche se, spiega, «io sono interessato ad un avanzamento a sinistra ma in un quadro di alleanze future con il Partito Democratico». Si lasciano da buoni amici, dunque, e quando Veltroni propone «di stabilire degli incontri sistematici» con SD, Mussi accetta.

Non accoglie invece l'invito pressante, che anche questa volta il segretario del PD gli ha rivolto, affinché i due si ritrovino uniti sotto lo stesso tetto politico. «Sono lusingato - dice Mussi - ma si possono prendere percorsi diversi pur mantenendo rispetto e amicizia. Rivendico questo come una cosa normale anche se so che molti concepiscono la politica come il campo degli hostess, dei nemici» dunque Mussi e Veltroni non torneranno a lavorare insieme?

«Io - risponde Mussi - non ho ragione di cambiare natura. la mia amicizia con Veltroni resta. Abbiamo lavorato a stretto contatto in passato, nel '96, nella costruzione dell'Ulivo. Ma ora l'Ulivo non c'è più e il primo a dirlo è lui, che ha tolto il simbolo dall'insegna del PD. Una cosa legittima, ma ora siamo in un'altra fase, totalmente cambiata».

Pubblicato il: 17.11.07
Modificato il: 17.11.07 alle ore 16.44   
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« Risposta #39 inserito:: Novembre 19, 2007, 07:09:34 pm »

Giordano: «Welfare da cambiare Dini non potrà fermarci»

Simone Collini


«Il protocollo sul welfare va migliorato». Franco Giordano ne è convinto. Il segretario di Rifondazione comunista vede delle modifiche «assolutamente necessarie» da apportare tanto sul fronte welfare che su quello pensioni, ed è sicuro che la battaglia parlamentare sarà combattuta in modo unitario dall’ala sinistra dell’Unione. Da quelle forze cioè, dice il leader del Prc, che daranno vita a un soggetto «unitario e plurale che vada oltre la mera federazione» e che dovrà presentarsi con «un simbolo nuovo, perché nuovo è il percorso che abbiamo avviato».

Dice Bersani che per il governo il testo del protocollo resta così com’è. È così anche per il Prc, onorevole Giordano?
«Il protocollo deve essere migliorato. E sono convinto che la possibilità per farlo ci sia, anche con il coinvolgimento e il consenso delle organizzazioni sindacali».

Dov’è che sarebbero necessari i miglioramenti?
«Sugli effetti dello scalone dilazionato, innanzitutto. E poi serve un intervento serio sui lavori usuranti, va definitivamente superato il vincolo del tetto. L’ultima formulazione del testo avvantaggia in maniera smaccata Confindustria. Noi dobbiamo evitare che un giovane possa entrare nel percorso lavorativo e magari fare tre anni di contratti a termine, poi altri anni di lavoro interinale, magari sperimentare qualche altra diavoleria precaria e non trovare mai neanche l’avvio di un qualche principio di stabilizzazione».

Il protocollo è stato però siglato dalle parti sociali e approvato col referendum a stragrande maggioranza. Sinistra democratica non ha partecipato alla manifestazione del 20 ottobre sottolineando il rischio di una forma di contrapposizione al sindacato.
«Non c’è nessuna contrapposizione. E ripeto, le modifiche possono esserci con il consenso del movimento sindacale».

E quanto a Sd?
«Abbiamo lavorato unitariamente come forze della sinistra, anche laddove inizialmente c’erano diversità. Oggi tutti stiamo verificando le possibilità di miglioramento. E ora è più concreta la capacità di incidere. Fattore che ci spinge a guardare oltre».

Che cosa intende dire?
«Che chiusa la fase della Finanziaria e del protocollo si deve aprire un confronto. La manovra è stata migliorata grazie all’intervento attivo delle forze di sinistra, e lo stesso sarà per il protocollo. Ma poi va avviata una fase politica nuova, che deve essere segnata da una nuova dialettica tra le forze della sinistra e il Partito democratico. Perché l’agenda politica non può essere dettata dal Pd. Vanno ridefinite le priorità. Solo così si può ridare efficacia al governo».

Chiusa questa fase, diceva. Questo significa che dà per scontato che il governo passerà indenne tra le vostre richieste di modifica e gli altolà di Dini?
«Se il confronto su protocollo e anche sul prosieguo dell’iter della Finanziaria avvengono nella dialettica tra noi e il Pd, con il consenso dei sindacati, e in un confronto che coinvolge la vita materiale di tanti lavoratori e di tanti precari, dubito che Dini possa avere la forza di modificare questo percorso».

Secondo lei sarebbe opportuno o no scorporare pensioni e welfare, oggi contenute in un unico testo?
«Sarebbe opportuno e persino più pulito dal punto di vista della forma. E poi dobbiamo convertire rapidamente, entro il 31 dicembre, il decreto sulle pensioni se vogliamo evitare che entri in vigore l’inaccettabile scalone Maroni».

Avete convocato per l’8 e 9 dicembre gli stati generali della sinistra: l’obiettivo?
«Mostrare che ci sono tutte le condizioni per un soggetto unitario e plurale in grado di aprire una sfida strategica con il Pd sul terreno dell’idea di società».

Unitario e plurale, dice. Non ci aggiunge federato, come fanno Pdci e Verdi.
«Quello che nasce deve essere un soggetto aperto e che non sia la semplice sommatoria delle singole forze politiche, che sarebbe sì un passo importante, ma in definitiva ben poca cosa. Anche nella fase di preparazione dell’8 e 9 bisogna coinvolgere realtà associative, movimenti, esperienze, perché solo così la sinistra acquista dimensione di massa e può contendere al Pd la sfida sul governo della società italiana».

Ma la federazione a cui state per dar vita è il traguardo finale, come dicono Verdi e Pdci, o una tappa intermedia come dice Sd?
«Dobbiamo andare oltre l’idea classica dei partiti. In questo senso io critico sia la pura sommatoria dei partiti sia l’idea di un partito unico. Dopo aver discusso per trent’anni sulla crisi della forma partito non possiamo riproporre quel vecchio modello. Per questo immagino un soggetto che vada oltre la mera federazione dei quattro partiti e in grado di coinvolgere nelle forme partecipative una pluralità di soggettività. Un soggetto radicalmente nuovo, persino nella forma».

Leggendo le lettere a Liberazione, non tutti nel Prc sono contenti di votare la prossima volta un simbolo senza falce e martello.
«Questa è una banalità, non è il centro della nostra discussione. L’8 e 9 dicembre ci sarà una presenza di massa di realtà anche esterne alle forze politiche, verrà varata una carta di intenti e poi verrà anche presentato un segno grafico comune. Come è ovvio che sia. Perché se ci presentiamo ovunque unitariamente ognuno avrà i propri simboli, che non sono in discussione, ma è ovvio che il segno grafico comune deve essere nuovo, perché nuovo è il percorso che abbiamo avviato».


Pubblicato il: 19.11.07
Modificato il: 19.11.07 alle ore 8.52   
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 21, 2007, 03:25:36 pm »

L’alternativa mediterranea

Franco Giordano


Sono affascinato, oserei dire professionalmente oltre che intellettualmente, dalla parola alternativa. E ho vissuto in un milieu di cultura mediterranea. Poche volte, dunque, ho potuto condividere la lettura di un libro che, a mio avviso, è così importante da risultare decisivo al fine di ricostruire i fondamenti di una cultura politica. E persino delle forme della convivenza democratica. L’alternativa mediterranea, a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo, Milano, 2007, Feltrinelli, pp. 660, euro 40, è insieme saggio e antologia del pensiero di una civiltà bisognosa di rinnovamento.

Questi sono infatti i tempi in cui un leader della destra europea, Gianfranco Fini, può impunemente e quasi naturalmente dire che «i rom non sono compatibili con le nostre società», immemore - almeno mi auguro - che gli zingari sono finiti assieme agli ebrei nelle camere a gas naziste. Tanto da far giustamente constatare a Predrag Matvejevic che noi abbiamo un debito irrisolto con il popolo rom e che il virus della demonizzazione dell’altro rispetto a sé può solo introdurre veleni nell’opera di ricostruzione di un cultura della convivenza.

Torna quindi utile la definizione, riportata nell’introduzione di Danilo Zolo, in cui Gabriel Audisio descrive «una razza mediterranea impura, felicemente contaminata da un molteplice, secolare meticciato». Mentre Franco Cassano indaga nel suo saggio introduttivo una via alternativa tra gli erodiani e gli zeloti: un tempo Umberto Eco avrebbe detto né apocalittici né integrati.

Io penso in effetti che la ricostruzione di una cultura politica di una soggettività di sinistra o è mediterranea o non è. E che per combattere l’etnocentrismo imperante e lo scontro di civiltà si debba dar forza e valore globale alle culture che si affacciano sulle due sponde del mare nostrum; contrastando le politiche securitarie, fondate sulla costruzione sistematica del nemico, che accompagnano il processo di valorizzazione del capitale.

Proprio a tal riguardo Zolo, citando Fernand Braudel, rileva come le civiltà mediterranee siano sopravvissute all’atlantismo americano precisamente in virtù di una sorta di «pluriverso culturale», vale a dire una forma irriducibile di resistenza al modello omologante. Persino la trasmissione della cultura cosiddetta «occidentale» è in effetti rimbalzata da una sponda all’altra del Mediterraneo.

La stessa identità dell’Europa si gioca dunque in questa scommessa culturale. Qui si gioca infatti la partita tra il vecchio pensiero economico separatista e segregazionista e una nuova cultura: diversa, pluriversa appunto, in cui donne e uomini rimangono padroni del proprio tempo, del proprio spazio geografico e sociale, della propria esistenza. D’altronde, Europa era una dea della fenicia rapita da Zeus.

Solo se riscopre le proprie radici mediterranee, e ne risolve i conflitti, l’Europa può avere una prospettiva e vantare un’autonomia dal modello americano per ritornare ad affermare una soggettività politica nel mondo.

Anche l’ultima guerra irachena ha finito col destabilizzare tutta l’area: rendendo più esplosive le contraddizioni all’interno di quel paese, inasprendo le tensioni in un Libano invaso dallo stato israeliano, portando il conflitto israelo-palestinese ai livelli più acuti mai conosciuti, favorendo l’affermazione di potenze aggressive e connotate di un fondamentalismo religioso senza eguali come sono l’Iran e la Siria attuali. Senza autonomia dagli atteggiamenti egemonici statunitensi l’Europa non potrà avere voce in capitolo su questi focolai e rischierà di importare rapidamente un drammatico scontro di civiltà.

Ecco dunque che la dimensione pacifista può proporsi come la chiave interpretativa nelle relazioni politiche tra due sponde interne al Mediterraneo, che decidano di non competere ma di cooperare sul terreno economico. Perché un’alternativa economica è decisiva per prosciugare le sacche di povertà ed equilibrare le profonde disparità sociali. Ma questa alternativa non può inseguire modelli perequativi e imitativi: l’ambizione dei popoli che si affacciano sulla sponda meridionale non può essere quella di inseguire il fallimento dei modelli di sviluppo del continente settentrionale. Qui si può giocare una partita che riguarda una modifica degli stili di vita, la riduzione dei consumi, l’investimenti su produzioni non energivore e su energie alternative. Qui si può giocare la partita della sottrazione al mercato di beni comuni indivisibili. Qui il tema della valorizzazione ambientale può rappresentare non una forma di bricolage marginale, ma la chiave di volta di una alternativa economica.

D’altronde il Mediterraneo, coi suoi 46 mila chilometri di coste, 5 mila isole, 23 stati, 500 milioni di donne e uomini, vede affacciarsi sulle proprie rive il 50 per cento di costiera cementificata, 600 città, 700 porti turistici, 286 porti commerciali, 13 impianti di produzione di gas, 55 raffinerie, 180 centrali termoelettriche, mentre 300 petroliere al giorno ne solcano le acque. Eppure la «fabbrica della paura» si alimenta dei pochi barconi di disperati che affrontano un drammatico viaggio della speranza e non delle 150 mila tonnellate di greggio scaricate illegalmente ogni anno in acque che vengono così private di ogni forma di vita.

La ricostruzione della cultura mediterranea è la fondazione di uno spazio critico: non frontiera, non confine, non luogo di separazione. I processi di globalizzazione hanno ovviamente avviato forme di ibridazione culturale, ma che non possono perciò essere ritenute una «cura» rispetto alle differenze. Rischiano, anzi, di stemperare i conflitti in modo solo superficiale, alimentando invece profondi rancori di natura identitaria. Può capitare, infatti, che giovani discendenti di migranti stabilmente integrati in Gran Bretagna decidano di far esplodere se stessi e il proprio odio nutrito di fondamentalismo religioso pur essendo figli della modernizzazione. E qui si va al cuore della riflessione di Franco Cassano, che parla per la prima volta di un problema decisivo qual è «il differenziale di potere delle culture». Questo è il cuore dell’asimmetria: è infatti questo differenziale che alimenta i serbatoi in cui crescono gli zeloti e gli erodiani. A questo proposito Emanuele Severino mette in giustamente guardia: guai se dalla faglia sempre più marcata tra ricchi e poveri, alimentata dal fondamentalismo del mercato, apparisse che il difensore dei poveri sia il fondamentalismo religioso.

Le attuali forme di globalizzazione sono dunque parte del problema, non la soluzione. E allora Cassano propone tre ipotesi di lavoro per superare quel «differenziale di potere». Primo: il riconoscimento culturale dell’altro. Secondo: la rimozione delle asimmetrie. Terzo: una nuova sintesi tra terra e mare, ovverosia tra la sicurezza antica dell’identità e la libertà individuale dei singoli. Cassano propone insomma un procedimento dialettico di definizione di una nuova cultura politica teso a costruire figure inedite. Ed è questa la sfida che sento più forte per una nuova soggettività di sinistra. Come scrive Pietro Barcellona nel suo Critica della ragion laica (Roma, Città aperta, 2006), «la cultura mediterranea è una cultura della contraddizione, del conflitto, dove i diversi elementi, però, arrivano a coesistere in una sorta di gestione produttiva del conflitto. Che ci fa vedere la tragedia greca? Un pensiero non lineare, che si muove con le stesse fluttuazioni manifestate dall’inconscio. Essere contemporaneamente più cose: essere figlio e al tempo stesso essere padre. La logica scientifica ci impone che A non può essere B e B non può essere A. Qui invece siamo di fronte a una logica assolutamente paradossale propria delle associazioni che si fanno in psicanalisi: A e B sono C».

Una nuova cultura a sinistra in grado di produrre «figure inedite» passa per la ricostruzione del legame tra uguaglianza e libertà. E prima ancora del rapporto dialettico tra uguaglianza e differenza, a cominciare dalla differenza di genere. A questo proposito sono brillanti quanto illuminanti le parole della femminista Fatema Mernissi, la quale critica apertamente la cultura dell’harem e le forme di misoginia presenti nella cultura islamica, ma non per questo ritiene che la cultura occidentale sia il modello da perseguire, tanto da contestare di quella cultura ciò che chiama «la tirannia della taglia 42», tutta interna alla logica di mercato e che disvela il dominio dello sguardo concupiscente del maschio sulla donna.

Ma lo stesso concetto di libertà, come quello di uguaglianza, ha bisogno di una rifondazione a fronte di un capitalismo totalizzante che fa della precarietà lavorativa e esistenziale l’elemento dominante, che riduce la dimensione del tempo a un istante freddo, separandolo dallo scorrere dialettico tra passato e futuro. Al ché la parola libertà può assumere il significato di liberazione da tutte le forme di asservimento psicofisico, nel lavoro come nella vita. E dallo spazio mediterraneo può riproporsi un’idea di comunità aperta, non contrappositiva, in cui si ricostruisce un legame sociale. Uno spazio in cui disegnare una geografia delle felicità possibili, come dice Jean Claude Izzo: «Il mio Mediterraneo non è quello delle cartoline - scrive Izzo in Aglio, menta e basilico, Roma, edizioni e/o, 2006 - La felicità non ti viene mai regalata, te la devi inventare. I viaggiatori non possono avere tutti gli stessi gusti. C’è chi viaggia per vedere, chi per godere e chi per entrambi. Ma basta aver preso almeno una volta un pullman per raggiungere un’oasi lontana, nelle sabbie, e sai che qui nel mediterraneo ti verrà sempre dato tutto, a condizione di volerlo e di protendere lo sguardo e le mani».

Pubblicato il: 21.11.07
Modificato il: 21.11.07 alle ore 9.16   
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« Risposta #41 inserito:: Novembre 22, 2007, 11:11:01 pm »

La "Cosa Rossa" nasce con gli Stati Generali


La prima tappa costitutiva verso un partito unico della Sinistra sarà l'8 e 9 dicembre a Roma, con gli Stati Generali. Per quella data dovrà essere pronto il simbolo a cui sta lavorando un gruppo di "tecnici" che ha compiuto un altro passo verso la bozza definitiva. Si sono visti e l'attenzione - a quanto si è appreso - si sta ora concentrando sul bozzetto che reca la scritta «La Sinistra» (si sta ragionando se mantenere solo «Sinistra», ndr) su sfondo rosso per metà con l'altra occupata dall'arcobaleno del movimento pacifista. Diliberto, intervistato da La7, ha fatto capire di essere pronto a rinunciare alla falce e al martello: sembra proprio, dunque, che alla fine sarà questo il nuovo simbolo della Sinistra unita. «Attenti a non fare saltare il banco», avverte il leader del Pdci. Ma i Verdi tengono duro su un altro "dettaglio": il leader del Sole che ride, Alfonso Pecoraro Scanio, insiste e continua ad avanzare la richiesta che nel simbolo ci sia un richiamo all'ecologismo.


Gli Stati Generali sono un'idea cara a Franco Giordano, che immagina questo evento sul modello dei Forum Sociali con i loro temi e le loro idee di democrazia partecipativa. Dopo la svolta «azzardata ma molto pericolosa» di Berlusconi, la sinistra deve «accelerare» sulla nascita della Cosa Rossa, dice il segretario di Rifondazione comunista in un'intervista apparsa sul quotidiano del partito, "Liberazione".

«Il rischio della marginalizzazione è reale», è l'analisi che il segretario del Prc Giordano fa in vista degli Stati Generali della sinistra. «È urgente un soggetto nuovo alternativo al populismo di Berlusconi e al conservatorismo del Partito Democratico», dice. Per questo - continua - serve un nuovo soggetto politico «che sappia indicare una alternativa non solo strategica, ma sociale e persino emotiva... e ridare una casa al popolo della sinistra».

È stata costruita una rete di singoli e associazioni «per una sinistra partecipativa e democratica» che ha messo in piedi il sito web Uniti a Sinistra. Intanto, nei giorni scorsi si è tenuta la prima riunione, presso l'ufficio del leader di Sd Fabio Mussi al ministero dell'Università, con Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Alfonso Pecoraro Scanio e lo stesso Mussi. In sintesi, le decisioni prese sono state che i quattro leader hanno deciso di proporre ai gruppi parlamentari di federarsi e fare un lavoro comune, come è accaduto nelle dichiarazioni di voto finali in Senato sulla Finanziaria, dove per tutti ha parlato il portavoce del gruppo della sinistra Natale Ripamonti (Verdi). Ma se i Comunisti italiani sembrano intenzionati a rinunciare alla falce e martello e i Verdi probabilmente al richiamo di qualche icona ambientalista, le conclusioni spetteranno alla fine ai segretari.

Il percorso verso gli Stati Generali. Si parte - come detto - sabato 8 dicembre con la certificazione del patto federativo e con l'avvio di un'assemblea, condotta da quattro testimonial, due di partito e due esterni, sulle grandi questioni tematiche. Quindi domenica 9 dicembre la presentazione del nuovo simbolo e i discorsi dei leader. Per Bertinotti la questione decisiva sarà quella di «affrontare la questione della formazione della coscienza, cioè dell'organizzazione della politica, capace di porre il tema dell'egemonia di porre il tema dell'egemonia, cioè della determinazione di quei sensi comuni, di quelle culture entro i quali il conflitto possa ritrovare una capacità riformatrice, propositiva di organizzazione, di fuoruscita dall'assedio in cui, invece, siamo oggi».


Pubblicato il: 22.11.07
Modificato il: 22.11.07 alle ore 20.10   
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« Risposta #42 inserito:: Novembre 30, 2007, 06:12:44 pm »

Sul welfare va in scena la «Cosa Rotta»

Simone Collini


Sul welfare il governo non cade ma la «Cosa rossa» inciampa pericolosamente.

Tanto che Fausto Bertinotti deve intervenire con un richiamo all’unità della sinistra, che il presidente della Camera definisce «una necessità esistenziale in questa fase».

Succede che il giorno dopo la fiducia, quando si tratta di votare il testo del disegno di legge, il Pdci si sfila: votano a favore soltanto Oliviero Diliberto e il capogruppo Pino Sgobio, mentre tutti gli altri deputati del gruppo lasciano l’aula. Ma se Palazzo Chigi non si preoccupa della mossa dei Comunisti italiani («singoli aspetti non prioritari»), Rifondazione comunista, Verdi e Sinistra democratica assistono con un misto di stupore e rabbia alla scena. Di lì a poco è fissato in agenda un incontro per preparare gli stati generali della Sinistra dell’8 e 9 dicembre, e attorno al tavolo si ritrovano Franco Giordano, Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi. Diliberto arriva con un po’ di ritardo e gli sguardi che lo accolgono nella stanza di Montecitorio vanno dal gelido al furibondo.

La porta che si chiude alle spalle viene riaperta una manciata di minuti dopo. Cos’è successo? «È stata una discussione breve», dice Diliberto andandosene. Il fatto è che quei pochi minuti sono bastati per far salire la tensione alle stelle. «Questo è un modo scorretto di comportarsi», attacca Giordano, «la vostra è stata una decisione puramente strumentale», dice Mussi, «una mossa incomprensibile che ora ci devi chiarire», incalza Pecoraro Scanio. Diliberto si alza e se ne va. Poco dopo viene diffusa una nota congiunta siglata dai tre sul non voto del Pdci: «È una scelta sleale verso il processo unitario in corso e la collaborazione in atto tra i gruppi parlamentari della sinistra. È stata una iniziativa propagandistica, assunta sapendo che comunque non avrebbe avuto effetti sulla coalizione e sul governo».

Nelle ore che seguono le voci si rincorrono, si ipotizza anche che saltino gli stati generali di dicembre, poi che si faranno senza il Pdci. L’unico segnale di distensione arriva per bocca di Bertinotti, per il quale «l’unità è per tutte le forze di sinistra una necessità esistenziale di questa fase storica, per cui non può subire alcuna alterazione dalle contingenze o da qualsiasi elemento di turbativa piccola o grande che sia». È necessario un incontro in serata per far tornare la situazione come era prima del voto della mattina, ma solo per quanto riguarda l’appuntamento dell’8 e 9: si farà e parteciperanno tutte e quattro le forze.

Per quanto riguarda i sospetti e le reciproche accuse, invece, il colpo di spugna non riesce. La risposta di Diliberto arriva tramite una nota della segreteria in cui si dice che l’obiettivo era «mandare un segnale politico di grave disagio al governo» e che il Pdci «non polemizza con la sinistra». Ma nel partito il malumore per il Prc è forte: «Per caso loro ci hanno consultato prima di chiedere la verifica?», è uno dei tanti sfoghi. E l’umore dentro Rifondazione non è migliore. Giordano è furibondo. Il leader del Prc si trova a gestire un partito in sofferenza, in cui a chiedere di uscire dal governo non sono più soltanto le minoranze ma anche consistenti fette della maggioranza, come dimostra la proposta di votare no alla fiducia presentata da Ramon Mantovani, che ha incassato il parere favorevole di quasi un terzo dei deputati. E una spinta a distinguersi come quella di Diliberto sembra fatta apposta per creare una più profonda spaccatura nel Prc. Che arriva proprio nel momento in cui Salvatore Cannavò si prepara a lasciare il partito e lancia la proposta di una costituente a sinistra della “Cosa rossa”.

Pubblicato il: 30.11.07
Modificato il: 30.11.07 alle ore 9.47   
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 01, 2007, 10:58:03 pm »

Diliberto: «Falce e martello. E non si chiami Cosa rossa»

Federica Fantozzi


Mossa «sleale», iniziativa «propagandistica». A sinistra sono ancora tutti furibondi per lo strappo del Pdci sul welfare, onorevole Diliberto?



«Io francamente non ho compreso la fibrillazione. Noi abbiamo mandato un messaggio al governo, non certo ai nostri alleati. Del resto avevamo annunciato che sui provvedimenti avremmo valutato singolarmente».



A giudicare dalle reazioni, Rc, Sd e Verdi non sembravano aspettarselo.



«Con le ripicche non si va da nessuna parte. Io avrei potuto protestare per l’abbandono della Commissione Lavoro, che ho trovato sui giornali e non era stato concordato. Ma Rifondazione è un partito e decide da sola. Non siamo ancora nella fase in cui c’è un vincolo di alleanza tra noi».



Messa così, sembra una ripicca per la mancata difesa del presidente Pagliarini che appartiene al suo partito...



«No, no. Ripeto: era un messaggio al governo che mi pare sia stato recepito».



Quindi incidente chiuso?



«Ieri sera (giovedì, ndr) alla riunione dei segretari c’era un clima assai disteso».



Non ci saranno conseguenze sul cammino della Cosa Rossa?



«La Cosa Rossa è un brutto nome: mi richiama infauste memorie. Porta jella: la Cosa Uno, Due, Tre... Mai una che sia andata bene. Cambiamo nome subito».



Come la chiamiamo?



«L’unità della sinistra».



A che punto siete sul simbolo?



«Avremo un simbolo comune alle principali elezioni amministrative per avviare una sperimentazione. È un fatto politico molto importante».



E come sarà il nuovo simbolo?



«È ancora in corso la discussione. Io continuo a sostenere che debba trattarsi di un simbolo nuovo e visibile che però contenga anche i riferimenti ai simboli dei partiti che fanno parte della “confederazione”. Per due motivi: identitario ed elettorale».



È un po’ il dilemma veltroniano tra ulivismo e discontinuità.



«Un simbolo per affermarsi ci mette molto tempo. Se lo immaginiamo totalmente nuovo e poi prende pochi voti, finisce che l’intero progetto di unità della sinistra va a farsi benedire».



Insomma, terrebbe la falce e il martello?



«Sì, è la mia opinione. Ma anche il Sole che Ride. I simboli di tutti i 4 partiti«.



Non c’è il rischio caleidoscopio?



«Ci sono mille soluzioni grafiche adatte».



Conferma che sul welfare al Senato non ci saranno incidenti?



«Lì si vota solo la fiducia. Noi siamo persone serie».



Qual è il messaggio che ha voluto mandare al governo? Cosa si aspetta il Pdci dalla verifica?



«Ci aspettiamo fatti. Supponiamo che la verifica si faccia, perché da qui a gennaio c’è un sacco di tempo, la verifica è una riunione. Bene: sul welfare gli emendamenti erano stati concordati in una riunione e poi il governo se ne è fottuto, i lettori perdonino l’espressione, e li ha cassati».



Fatti concreti, dunque. Quali?



«Cosa aspettano a dare un segnale sui precari? Il governo presenti un ddl su questo tema angosciante che comprende gli interinali, così disperati da aspirare a diventare precari. Persino Draghi ha scoperto che i salari sono troppo bassi».



Un ddl da presentare prima della verifica? Sotto Natale?



«Anche come regalo della Befana...».



Come valuta l’ipotesi di un rimpasto?



«Se si tratta di tagliare il numero dei ministri sono d’accordissimo. Poi ripeto: il governo vari un’agenda a favore dei ceti più deboli e la attui. Per ora, siamo rimasti scottati».



Come è andato l’incontro con Veltroni?



«È stata una bella discussione politica, come non mi riusciva da un po’ di tempo con esponenti del Pd. Un incontro che giudico molto positivo».

Pubblicato il: 01.12.07
Modificato il: 01.12.07 alle ore 9.04   
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 02, 2007, 12:28:16 pm »

(1 dicembre 2007)

Verso l'Assemblea dell' 8 e 9 Dicembre

Consigli e riflessioni per l’unità a sinistra

di Alfiero Grandi*


L’unità a sinistra si farà, ne sono convinto. La necessità di arrivare a uno sbocco in tal senso è una esigenza che tutti noi sentiamo e viviamo con forza.
Non posiamo, però, nasconderci che abbiamo di fronte anche alcuni problemi, che dobbiamo affrontare facendo tutto il possibile per risolverli positivamente, senza cedere alla tentazione di sottovalutarli. Il processo unitario è indispensabile ed è urgente, altrimenti la sinistra si candida al ricoprire un ruolo marginale, quello cioè dei sette nani, mentre, come sappiamo, nella favola, il protagonista principale era un altro.

Accanto a una esigenza che si potrebbe definire, senza esagerare, epocale, tuttavia, vanno indicate, con chiarezza, perfino crudamente, le difficoltà da affrontare per la creazione di un unico soggetto a sinistra.

Se tutto fosse ovvio e scontato ci saremmo già arrivati e, invece, assistiamo a continui episodi che non aiutano e che, in ogni caso, sarebbe un errore sottovalutare. Il primo problema, mi sembra sia l’ansia di caratterizzazione e di visibilità ad ogni costo e, in questa direzione, purtroppo, indicativamente può essere letto il voto finale sul Welfare.

Discutere a fondo è fondamentale, le diversità non sono certo un problema, al contrario, ma i comportamenti finali debbono essere univoci, altrimenti il rischio concreto è che qualcosa si possa rompere.

Anche non fare drammi è ragionevole, ma non deve e non può succedere a ogni appuntamento futuro, qualora si ripresentasse una diversificazione. Poiché la prima sfida che abbiamo davanti sarà come registrare scelte e passo della maggioranza e del Governo, sicuramente un passaggio cruciale, occorre, già a partire dall’Assemblea della Sinistra e degli Ecologisti dell’8 e il 9 dicembre a Roma, chiarire che federarsi vuol dire che, su alcune materie decisive come Welfare, Governo, ecc., è la federazione a decidere e non i singoli soggetti federandi.

Ci sono materie su cui ciascuno conserverà, in questa fase, piena libertà, ma quelle messe a “disposizione” dalla costituenda federazione, quali la politica economica e quella ambientale, debbono vedere decisioni prese in comune.

Così, occorre introdurre rilevanti elementi di novità politica. La sinistra futura, senza aggettivi come radicale, alternativa, ecc. che altro non fanno se non togliere, anziché aggiungere, deve porsi il problema di non limitarsi a descrivere o a criticare il modello di sviluppo, di società, ecc., ma deve indicare con chiarezza i passi in avanti, le modifiche, anche radicali, sia dal Governo che dall’opposizione che ritiene concretamente possibili. Del resto anche la sinistra, in futuro, dovrà stabilire alleanze per poter realizzare obiettivi che altrimenti da sola non realizzerebbe.
In sostanza, vorrei dire con grande chiarezza che la sinistra di cui c’è bisogno, non può essere solo la somma di ciò che esiste, ma dovrà essere una forza matura, colta e consapevole e che il rinnovamento deve iniziare, anzitutto dalle idee e dai parametri interpretativi della sinistra stessa, con l’ambizione di delineare una società diversa, molto diversa, più giusta e solidale, capace di fondere pace, ambiente e giustizia sociale.

In ultimo, ma non per questo meno importante, una forza di sinistra che è per la difesa della pace e dell’ambiente e che si caratterizza come “lavorista” deve, necessariamente, avere un rapporto positivo con il sindacato e rispettarne l’autonomia e non avere rapporti privilegiati. Il sindacato, a sua volta, dovrà tenere conto della sinistra come un interlocutore credibile,evitando di entrare nell’orbita del Partito democratico con il rischio di diventarne subalterno. Quindi, una sfida formidabile, a fronte della quale le piccole convenienze del momento sono veramente poca cosa.

*Sottosegretario all'Economia, componente il Direttivo di Sd


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