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Autore Discussione: SINISTRA DEMOCRATICA -  (Letto 66390 volte)
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« inserito:: Giugno 11, 2007, 10:21:44 pm »

Che fine farà la sinistra smarrita?

Bruno Gravagnuolo


Che fine ha fatto la sinistra? Esiste ancora come campo attivo di valori, oppure è andata smarrita senza che ce ne accorgessimo?

Inevitabile porsi queste domande dopo la sconfitta del centrosinistra alle elezioni amministrative, dopo il caso «Visco-Speciale» e le fibrillazioni della maggioranza che abbiamo visto. Tutte cose che ribadiscono un dato ormai inconfutabile, di là della fragilità di questo governo, frutto di elezioni vinte a metà e pressato da una destra montante.

E il dato è questo: il deficit di egemonia del centrosinistra. Vale a dire, una mancanza di capacità persuasiva verso le forze produttive del paese. In ordine alla necessità e all’utilità delle ricette adottate.

Le quali appaiono al più inevitabili, dure e «razionali», ma altresì inadeguate a rilanciare lo sviluppo e ad alleviare le condizioni di vita del lavoro dipendente, gravato nell’ultimo quindicennio da perdita del potere d’acquisto, peggioramento del quotidiano e da regresso della mobilità sociale verso l’alto.

Non intendiamo entrare nel merito delle scelte tecniche adottate negli ultimi quindici anni, a partire dai governi Amato e Ciampi e proseguite con qualche continuità dagli esecutivi di centrosinistra fino ad oggi. Scelte segnate dall’emergenza dei conti e dal peso del vincolo internazionale, con gli obblighi dell’Euro in primo piano. E che hanno contribuito a salvare il paese dalla deriva.

Ma è chiaro che la cultura virtuosa dell’emergenza di bilancio non basta. A superare l’ingovernabiltà del paese e il suo bipolarismo selvatico. E ad aiutare questo governo a uscire dalla secche della precarietà, evitando le tante tagliole di cui è disseminata la sua strada. Non basta se la sinistra è smarrita. Se è divenuta ininfluente sul senso comune degli italiani. Incapace di progettualità e visione. Sgretolata e scarsamente radicata. Impotente a costruire consenso attorno a un alfabeto di valori, priva di soggettività di massa e forza propria, debole nel prospettare emancipazione generale e utilità collettiva (non il teologico «Bene comune»). Ebbene, su tutto ciò è giunta l’ora di aprire una discussione seria, senza infingimenti ed eufemismi. Alla quale l’Unità intende riservare ampio spazio, invitando a intervenire chiunque riconosca almeno l’urgenza del tema. Compresi ovviamente coloro che non condividono le considerazioni che stiamo per esporre.

Dunque «sinistra smarrita». Che significa? Significa innanzitutto la fine di un insediamento storico, cementato nel dopoguerra in prevalenza dal Pci. E che gli eredi del Pci sono stati incapaci di rinnovare e aggiornare, senza buttare il bambino e l’acqua sporca. Sicché sull’onda di trasformazioni dirompenti e non governate - che hanno inciso sul suo Dna di massa - la sinistra è approdata via via a un rovesciamento di valori profondo. Che ne ha alterato profilo e vocazione, rendendola subalterna ad altri valori e ad altri paradigmi. Cioè irriconoscibile o insostenibilmente «light», intimamente depotenziata. Proviamo allora a delineare alcuni punti d’approdo di questa «mutazione». Punti che assumiamo in negativo come emblemi di ciò che ai nostri occhi non è sinistra, e né può esserlo.

Primo: «il leaderismo». Ovvero la politica di massa incentrata sul leader carismatico come risolutore e «chiave di volta» del bipolarismo. Una tendenza particolarmente esasperata in Italia, inaugurata simbolicamente da Craxi e scissa per lo più dal contrafforte partitico, programmatico e parlamentare. E proprio la particolare versione italica del leaderismo - connessa alle assurdità sul cosiddetto e inesistente «premierato» - ha avuto un ruolo determinante nello «squagliare» la partecipazione quotidiana e di massa nel segno di appartenenze vissute e responsabili. Le quali poi non sono affatto in contrasto con la cittadinanza, ma anzi la potenziano. Come l’esperienza del 900 dimostra. E i risultati sono stati, personalismo, microleaderismo notabilare (in periferia) e infine il «leaderismo senza leader», da cui è affetta l’attuale discussione sul leader del Partito democratico, sorta di cantiere sull’abisso dove di tutto si parla fuorché di politiche per l’Italia. Dunque il leaderismo all’italiana non è di sinistra.

Secondo: «Legge elettorale e mito della governabilità». Non sono di sinistra. Perché quel che conta non è il maggioritrario in sé come panacea. Poiché anche un maggioritario secco - specie nella versione insensata dell’attuale referendum - può confermare e complicare le divisioni di uno schieramento. Può restituire tutta la frammentazione del territorio, rafforzando i capicordata locali, come abbiam visto ad abundantiam. E può moltiplicare i ricatti nei singoli collegi, stante l’utilità marginale anche di poche centinaia di voti. Al contrario, ciò che assicura un minimo di stabilità sono «partiti a baricentro culturale forte», modernamente identitari e laici, e in grado di arginare il sempre risorgente trasformismo.

Terzo: «Monetarismo e politiche di bilancio ermetiche». Non sono di sinistra. Né sotto forma di alti tassi di interesse e bassi salari. Né in termini di blocco della spesa pubblica legata a investimenti, formazione e infrastrutture. Non per caso Jacques Delors propose anni fa di defalcare quelle spese dal calcolo dei parametri di Maastricht. Bene, che ne è stato di quelle raccomandazioni, in una con quelle di Prodi di non impiccarsi a «parametri stupidi»? Perché Berlusconi ha goduto di tante franchigie nel rientro (mancato) dal deficit, e invece Prodi è così «sotto tutela»? Altro invece è il discorso sulle spese improduttive, come quelle di una politica sopradimensionata. E altro gli sprechi, l’assenteismo, e i diritti senza doveri. È qui che occorre intervenire a sanare e a far cessare privilegi scandalosi del ceto politico. Che nulla hanno a che fare con la dignità della politica e delle istituzioni. Inammissibile ad esempio che una legislatura, o due anni di essa, diano diritto a una pensione e non a contributi da sommare. E insostenibile che un assessore di una media città costi allo stato, portaborse inclusi, 20mila euro netti al mese! E sono cose che si conoscevano ben prima del best seller La casta. Queste le vere riforme istituzionali, «di sinistra».

Quarto: «Lavoro e flessibilità». Così come mediamente vengono «declinati» dalla sinistra riformista essi non rispondono a criteri di sinistra. Il lavoro infatti dovrebbe essere il caposaldo e la prima ragione sociale della sinistra, quella da cui nasce e di cui si alimenta. Non già dunque un «fattore» tra gli altri, ma un diritto primario e un orizzonte di valore. Quale? L’emancipazione stessa del lavoro, la sua «auto-padronanza». La sua priorità gerarchica dentro le trasformazioni dell’economia, che non possono ruotare attorno al predominio dell’azienda privata, i cui fini non sono di per sè «interesse generale». Né in linea di fatto né in linea di principio. Quanto alla «flessibilità», è l’economia che deve rendersi flessibile alle esigenze del lavoro, e non il contrario. Legittimandosi la prima - e in termini costituzionali- solo se assicura sviluppo e occupazione, nel rispetto dei vincoli ambientali e dei diritti della comunità. La competizione globale? Un vincolo, certo non aggirabile. Ma un vincolo appunto, e non un obiettivo, una finalità. Vincolo da rispettare facendo crescere insieme impresa e lavoro, nella prospettiva di estendere regole e diritti universali anche ai paesi che non li rispettano. Ed è esattamente questa «l’esportazione della democrazia» che compete alla sinistra. Il resto? È liberismo, magari con la copertura di politiche imperiali e di guerra.

Quinto: «Laicità». Non è di sinistra una laicità intesa come «dialogo» puro e semplice, o come «sana laicità» che assuma al suo interno le «radici cristiane» da privilegiare comunque. Laicità viceversa è la «neutralità attiva» dello stato tra le fedi. Promozione di regole che sono anche valori civici di libertà, solidarietà, criticità della cultura, autonomia della ricerca. Ben venga l’apporto della «sfida religiosa» sui grandi problemi, ma non al punto da comprimere e compromettere quei valori, avanzando la pretesa di penalizzare giuridicamente gli «stili di vita» dei singoli difformi dalla tradizione.

Sesto: «Privatizzazioni». Bene quelle volte all’interesse dei consumatori, e contro privilegi corporativi. Male quelle che annullano il ruolo propulsivo del pubblico nelle alte energie, nei trasporti di massa, nella scuola, nella sanità. E anche nei settori tecnologici avanzati. Nessuno stato nazione - di sinistra o di destra - rinuncia al suo ruolo in molti di questi campi, specie nell’ultimo. Laddove da noi molte privatizzazioni sono state un vero assalto alla diligenza da parte di concentrazioni finanziarie che hanno riversato il debito sugli utenti, e non hanno investito né innovato. Un’amara vicenda, dettata dall’emergenza dei conti, ma che non può essere assunta a stella polare della sinistra. Tutt’altro: molte di queste privatizzazioni erano agli antipodi di un orizzonte di sinistra. Erano «destra». E in più, proprio nel corso di tali processi di privatizzazione, sono emerse a sinistra tendenze a favore dei nuovi contendenti, per ridefinire la geografia del potere economico, e al fine illusorio di tracciare la mappa di un «nuovo capitalismo» (ma era vecchissimo!)

Infine, il «Partito democratico». Nelle intenzioni dei promotori doveva essere un’occasione straordinaria, una «fusione di riformismi» per dare stabilità e forza al centrosinistra. E invece rischia di apparire come un «errore di sistema»: destabilizzante e non aggregante. Una ricaduta fatale nel vecchio schema dei partiti parlamentari, notabilari e leaderistici dell’Italia post-unitaria. Si compendiano infatti nella «forma» di questo partito tutte le tendenze neoliberali e mercatistiche imposte dal ciclo neoliberista di fine anni ottanta ed esplose fragorosamente nell’Italia dei primi anni novanta. Vuol dire: fine della politica organizzata sul territorio. Della capacità di costruire un blocco sociale democratico attorno al lavoro dipendente, da contrapporre al nuovo blocco dell’individualismo proprietario di destra e al suo «neo-sovversivismo». Fine della selezione dei quadri dirigenti e della trasmissione della memoria tra le generazioni. Fine della sinistra con testa, braccia e gambe, come organismo pensante dotato di autonoma personalità e ideali. Della sinistra intesa come emancipazione delle classi subalterne: tutto a favore di una sinistra della mera inclusione liberale al banchetto dell’economia. Una sinistra «light» e di opinione. Ovvero: cittadinanza e consumi rescissi dal lavoro e dal potere. Non solo quindi si è liquefatto il cattolicesimo democratico e laico, assieme alla tradizione organizzata della sinistra storica. Ma si sono accresciute le divisioni in seno al nuovo aggregato in costruzione. Cantiere sull’abisso e «Azione parallela» generica, i cui conflitti interni si ribaltano sull’esile tenuta dell’esecutivo. Con il risultato acclarato di aver ristretto il potenziale del cosiddetto «timone riformista» dentro la coalizione. A vantaggio di disincanto, astensioni e scissioni, e del rafforzamento del versante più radicale del centrosinistra. Dubitiamo che il lancio delle primarie - dimidiate e frenate dalla leadership in carica - possa far lievitare il «cantiere sull’abisso». Fatto sta che al momento tutto si concentra su giochi procedurali chiusi, e rivalità personalistiche. Mentre intanto la destra lavora alla spallata contro il «governo delle tasse e dei tagli» («lavoro sporco» di cui si gioverà). Governo inviso all’impresa, e che non sfonda tra il popolo. Sinistra smarrita: eccolo il vero «riformismo senza popolo». Al quale non s’è posto rimedio, dopo il tanto parlarne. Eppure è tempo di trovarlo quel rimedio e ripensare tutto quel che non funziona, anche a costo di clamorose conversioni ad U. Di questo è urgente parlare, di questo vogliamo discutere. Su l’Unità, adesso.

Pubblicato il: 11.06.07
Modificato il: 11.06.07 alle ore 8.42   
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 12, 2007, 10:19:41 pm »

Tiene la sinistra estrema, l’Ulivo mostra debolezza 



Gli esiti del secondo turno avvalorano diverse tendenze già emerse quindici giorni fa. 1) il calo ulteriore di partecipazione, di circa il 13%. In parte, ciò è dovuto alla normale assenza di una quota di elettori al secondo turno. Ma, anche in questo caso, il trend dipende dalla disaffezione nei confronti dei partiti. Non a caso, l’affluenza è diminuita in misura maggiore là dove una parte dell’elettorato stentava a riconoscersi nel candidato proposto dalla coalizione cui tendeva a riferirsi. 2) L’importanza della figura del leader. Nella gran parte dei contesti, il candidato (sindaco o presidente) ha ottenuto più voti di quelli riportati dal complesso dei partiti che lo sosteneva. Il leader riesce a coinvolgere in misura maggiore di quanto, ormai, non riescano a fare i partiti.

Anzi, in certi casi è proprio la figura del candidato a frenare la tendenza alla disaffezione e, di conseguenza, all’astensione. Ciò avviene però in misura maggiore al Nord. Nel Centro- Sud, specie nel centrodestra, sono talvolta i partiti ad ottenere più voti dei candidati. Dipende sia dalle differenti logiche che presiedono la vita politica al Sud, sia, talvolta, dalla minore popolarità (o, in certi casi, addirittura dall’impopolarità) dei candidati stessi. 3) Il dato politicamente piu significativo: la debolezza dell’Ulivo. Solo lievemente temperata dalla tenuta della Provincia di Genova. Qui sono stati gli elettori del capoluogo a «salvare » il centrosinistra. Diversamente da quanto accadde nel 2002, infatti, la provincia genovese si è schierata ancor più con il centrodestra, «compensata» in ciò dal comportamento opposto del capoluogo. Nel complesso, il centrosinistra ha perso più tra Ds eMargherita che tra la sinistra estrema.

Non si tratta, tuttavia, di una critica dell’elettorato dell’Unione per una politica troppo poco «di sinistra», dato che i consensi per le forze dell’area radicale sono rimasti sostanzialmente stabili, cio che indica come gli elettori più orientati verso il centrosinistra (o il centro tout-court) si siano astenuti per esprimere la loro delusione, senza però voler rafforzare la sinistra estrema. Un fenomeno analogo aveva coinvolto a suo tempo Berlusconi. Anche in quel caso le Amministrative punirono l’esecutivo in carica. Le motivazioni di allora e di oggi appaiono per certi versi simili, anche se messe in atto da segmenti diversi di elettorato. In entrambi i casi, i cittadini hanno voluto significare il loro disappunto per la mancata attuazione di gran parte dei provvedimenti promessi nel corso della campagna elettorale.

E in ambedue le occasioni, il governo motivava la carenza di produttività con l’azione di ostacolo delle sue componenti più estreme. In definitiva, da molti anni gli elettori si lamentano perché il governo, sia esso di centrodestra o di centrosinistra, non governa veramente. E passa da un annuncio a un proclama a una recriminazione. Dal punto di vista del consenso elettorale (e non solo da quello), a Prodi è toccata sin qui la stessa sorte di Berlusconi.

Renato Mannheimer
12 giugno 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 12, 2007, 10:21:07 pm »

Le partite da giocare

di Massimo Franco
 

La sindrome del tracollo è stata tamponata a Genova. La vittoria del centrosinistra nel ballottaggio alla provincia non è stata trionfale. Ma simbolicamente addolcisce le sconfitte collezionate dall’Unione alle amministrative, sebbene non le compensi. Se il berlusconismo avesse prevalso anche lì, era già pronta la resa dei conti a Roma. E dal punto di vista psicologico, la maggioranza di governo avrebbe rischiato il «si salvi chi può».

La prospettiva, adesso, appare un po’ meno disperata. La stessa visita che Silvio Berlusconi vuole fare a Giorgio Napolitano, per additare al Quirinale un’Italia condannata al voto anticipato, assume un segno diverso. Rimane da vedere se per l’Unione sia l’interruzione di una crisi politica e d’identità, o soltanto il suo prolungamento. I numeri dicono che la coalizione prodiana ha vinto i ballottaggi alla provincia di Genova, e a Piacenza, Pistoia e Taranto; e il centrodestra a Parma, Lucca, Latina, Matera e Oristano.

Fra province e capoluoghi, 13 a 25 per la ex Cdl: nel 2002 era finita 16 a 22. L’impressione prevalente è che il governo di Romano Prodi rimanga appeso a un filo. Non c’è solo la frustrazione vistosa dell’estrema sinistra, bruciata dal divorzio con la «sua» piazza nelle manifestazioni contro la visita di George Bush. La novità è che sembra consolidarsi una tenaglia, minoritaria ma insidiosa, fra tutti gli alleati esclusi dal Partito democratico. L’obiettivo è di imputare l’instabilità e le sconfitte al progetto voluto da Ds, Margherita e premier; e di lavorare ai fianchi le due principali forze di governo, per impedire una riforma elettorale nel segno del maggioritario. Si tratta di una manovra che risulterebbe di retroguardia e inutile, se la coalizione andasse bene e i soci fondatori del Pd si mostrassero concordi. Ma di fronte alle voci di crisi, alimentate da un centrosinistra bocciato nel nord del Paese, le critiche diventano colpi dolorosi.

L’offensiva fa leva sui timori che serpeggiano fra gli stessi diessini dopo la scissione a sinistra; e in una Margherita preoccupata dalla possibile erosione di elettorato cattolico. Il martellamento di Rifondazione e Comunisti italiani contro il ministro Tommaso Padoa-Schioppa si sta intensificando, secondo le previsioni. E il fallimento dell’iniziativa anti-Bush di sabato a piazza del Popolo sembra condannare il radicalismo antagonista ad inseguire il suo elettorato più irriducibile: un magma ostile a qualsiasi compromesso di governo. L’obiettivo minimo è quello di piegare Palazzo Chigi ad una politica economica più «di sinistra». Con quale determinazione, si capirà presto.

La decisione sulla Tav (treno ad alta velocità Torino-Lione) e la riforma delle pensioni sono ostacoli sui quali Prodi si gioca la sopravvivenza. E dire che Palazzo Chigi è ottimista sarebbe una bugia. L’irrigidimento dell’estrema sinistra è dato per scontato. Ma è soprattutto il contorno di precarietà a rabbuiare le prospettive. Ci sono le intercettazioni dei vertici diessini sul caso Unipol-Bnl; la scia imbarazzante del caso Visco-Guardia di finanza, con la Corte dei conti che certifica il proprio scetticismo; ed i sondaggi impietosi sul governo. Per questo, ogni indizio in controtendenza è accolto come un balsamo: anche se è forte il sospetto che si tratti di palliativi.

12 giugno 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 13, 2007, 06:46:45 pm »

Sinistra senza piazza

Michele Ciliberto


Non c’è da rallegrarsi sul fatto che le manifestazioni organizzate dalle sinistre radicali a Roma siano state un sostanziale insuccesso nonostante i vari tentativi che vengono fatti per offuscarne l’effettivo fallimento.

Una sinistra radicale forte e bene organizzata sarebbe un bene anche per il consolidamento dello schieramento di centrosinistra; e più in generale, per uno sviluppo equilibrato di tutto il nostro Paese.

Tanto più c’è da preoccuparsi perché il sostanziale fallimento delle manifestazioni di Piazza Navona e di Piazza del Popolo viene dopo una significativa flessione elettorale causata, per quanto riguarda le forze del centro-sinistra, da un forte astensionismo. Se si riflette sull’insieme degli eventi di queste ultime settimane è precisamente questo il punto che appare più in rilievo e che preoccupa maggiormente anche per la tenuta democratica del nostro Paese: c’è una tendenza sempre più forte a ritirarsi dalla partecipazione politica anche quando si tratti di importanti scadenze elettorali. Non si arriva a cambiare campo ma ci si mette fuori dal gioco manifestando il proprio disinteresse per come viene giocata la partita. È un gesto politico anche questo che bisogna saper cogliere in tutta la sua profondità senza cullarsi in illusioni che sono alla fine di breve respiro.

È vero: il governo Prodi esce rafforzato dalla visita del presidente Bush anche per la mirabile prova di capacità e di correttezza data dalle forze dell’ordine della quale bisogna tener conto. Ma se si esce dalla logica politica strettamente intesa appare evidente, a mio giudizio, che il governo Prodi continua a essere legato a un filo e che in qualunque momento un refolo di vento può trascinarlo via. Come è stato rilevato molte volte - e anche in questi giorni - paradossalmente la sua forza consiste proprio nella sua debolezza, nell’essere dunque un ossimoro politico. Un governo che voglia però avere ambizioni strategiche - come dovrebbe essere quello di Prodi - non può reggersi su condizioni politiche di questo genere. E qui il problema diventa complicato e merita di essere analizzato in tutta la sua complessità.

Un politico assai autorevole ha sottolineato in questi giorni che il problema essenziale per il nostro Paese è di assecondarne la crescita e «di tarare l’azione del centro-sinistra su un’idea di una e vera e propria “ripartenza”. Questo serve - ha detto Massimo D’Alema - mentre non servono nuovi conflitti. La gente vuole che il Paese sia governato. La gente è stufa dei casini...». Non sono d’accordo; anzi, credo che porre le questioni in questo modo non ci aiuti ad uscire dalle difficoltà in cui ci troviamo. I conflitti, quando sono ordinati e disciplinati, sono sempre positivi per lo sviluppo di una democrazie e, in generale, di un Paese. Non è dunque auspicando la riduzione o la fine dei conflitti che si fa la scelta politicamente giusta.

Il problema di fondo che si esprime nel fallimento delle iniziative contro Bush e nell’astensionismo che ha segnato anche il secondo turno elettorale - due eventi, lo ribadisco, che a mio giudizio vanno considerati insieme - concerne anzitutto la fondamentale crisi di rappresentanza politica che il nostro Paese continua a vivere e che si accentua giorno dopo giorno con una separazione sempre più grave ed evidente di governanti e governati. In Italia è questo il problema che è aperto ormai da qualche decennio, ed esso riguarda direttamente la questione delle fonti e delle forme della sovranità nel nostro Paese; riguarda dunque il problema della nostra democrazia. Ed è nel quadro di questo problema che a mio giudizio va collocata la questione della sinistra in Italia, della sua funzione nazionale, e dello stesso Partito democratico.

Questo partito ha un senso nazionale profondo se ristabilisce su basi nuove il nesso tra “politica” e “società” (per usare due termini classici) costituendo un circuito virtuoso tra governanti e governati; ha un senso cioè se riesce a porre e risolvere in modi nuovi il problema della rappresentanza nel nostro Paese scendendo coraggiosamente anche sul terreno del federalismo. È questa la vera sfida che abbiamo di fronte; ed è proprio su questo terreno che si sono prodotti i danni più gravi. Molte di queste speranze si sono infrante infatti contro le dure repliche di una realtà sorda immobile e incapace di rimettersi in discussione. Le piazze che si erano riempite di gente desiderosa di partecipare si stanno svuotando e cominciano ad essere abbandonate. Se si pensa all’esperienza delle primarie e al valore che avevano assunto le piazze come incontro di partecipazione e di vita democratica sembra che siano passati alcuni secoli invece di pochi mesi. La velocità del cambiamento non può e non deve però sorprendere: sappiamo tutti che i tempi della politica contemporanea sono velocissimi e che non è facile saperli controllare.

Bisogna sempre stare attenti a non stabilire rapporti meccanici tra avvenimenti diversi: una cosa naturalmente è la partecipazione alle primarie per l’elezione dei sindaci; un’altra la partecipazione a una manifestazione contro Bush. Sono ovviamente eventi diversissimi da non confondere. Ciò non toglie che la campana dell’astensionismo abbia suonato in questi giorni anche per il Partito democratico. Come sempre la storia sa essere paradossale: nato per incrementare le speranze di un cambiamento, il Partito democratico, proprio per la fiducia che aveva acceso, rischia di diventare un elemento di distacco e di vero e proprio disincanto che precipita nella crisi della partecipazione politica. Ma anche qui bisogna saper sollevare l’occhio dalla parte e guardare all’intero, cioè al destino di tutta la sinistra italiana.

Sarebbe infatti certamente sbagliato concentrare la propria attenzione solo sulle difficoltà del Partito democratico e non tener conto che il quadro della sinistra va considerato unitariamente, senza dimenticare, naturalmente le differenze profonde che pur ci sono e che vanno dichiarate a viso aperto. Non è però interesse del Partito democratico la frantumazione della sinistra radicale; né è interesse della sinistra radicale il fallimento del Partito democratico.

Bisogna imparare a ragionare in termini sistemici. Se il Partito democratico riesce a crescere in modi positivi esso avrà effetti benefici sull’insieme della sinistra italiana e del nostro Paese, mentre una sua crisi precoce contribuirebbe a un’ulteriore frantumazione del quadro politico italiano nella sua complessità. Allo stesso modo se la sinistra radicale riesce a “ordinarsi” può svolgere una funzione positiva per l’insieme del movimento riformatore italiano. Entrambi, Partito democratico e sinistra radicale, possono e devono dare un contributo alla soluzione al problema centrale della società italiana, quello di una nuova rappresentanza politica - e di nuove forme e modelli di sovranità - che il Paese sta chiedendo con forza e che ancora non riesce ad avere con le conseguenze che sono in questi giorni sotto gli occhi di tutti. È su questo terreno che si gioca la partita decisiva, come dimostrano anche i risultati elettorali e specialmente i colpi che il centro-sinistra ha subito nell’Italia settentrionale. Non è molto, però, il tempo che resta a nostra disposizione.

Pubblicato il: 13.06.07
Modificato il: 13.06.07 alle ore 9.34   
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 16, 2007, 06:17:37 pm »

intervista a Fabio Mussi pubblicata da Il Manifesto
venerdì 15 giugno 2007

USCIAMO DALLE TRINCEE
di Loris Campetti


"Scudo spaziale: D'Alema, Italia non è contraria". Quando gli viene consegnato l'ultimo lancio dell'Ansa, datato 14 giugno ore 12,31, il ministro Fabio Mussi sbotta: "E invece io sì che sono contrario". E ne spiega le ragioni: "Hai voglia a parlare di sistema di sicurezza, ma sicurezza contro chi? E perché in Polonia e in Repubblica Ceca? In realtà è soltanto uno strumento di accelerazione della corsa al riarmo. Oggi nel mondo si bruciano in armamenti molte più risorse di quante non se ne spendessero negli anni della guerra fredda". Ma non è di politica estera che parliamo con Mussi, se non a commento delle agenzie di stampa che gli vengono recapitate nel corso dell'intervista ("In Palestina c'è il primo colpo di stato senza stato"). Parliamo della sinistra e della sua multiforme crisi, parliamo del progetto del suo "movimento" di ricostruire un soggetto di sinistra senza aggettivi. Gli aggettivi non servono, dal momento che il nascente partito democratico neanche pretende di essere di sinistra. Insieme a Valentino Parlato incontriamo Mussi nel suo ufficio all'Eur, al ministero dell'Università e della Ricerca.

Partiamo dalla crisi della politica e dei suoi linguaggi. Girando come una trottola l'Italia per incontrare i militanti di Sinistra democratica, aprire sedi, dibattere con le altre forze della sinistra, hai ripetuto che non andrai a "Porta a Porta", sottintendendo che non è quella la forma della politica che ti interessa.
E' dal '98 che non ci vado e penso che dovremmo tutti ridurre le apparizioni televisive che sembrano gratificanti perché la gente ti ferma per strada per dirti che ti ha visto, ma mentre fanno crescere il leaderismo abbassano la qualità della politica. I leader sono ridotti a telepredicatori e i militanti a spettatori. Non esiste un altro paese al mondo in cui i leader politici accettino di essere ridotti ad attori di uno spettacolo circense, sempre con la stessa compagnia di giro. Non è spettacolo - e non penso soltanto a "Porta a Porta" - è avanspettacolo.

Nostalgia delle rarissime conferenze stampa di Togliatti in abito scuro e stile sobrio?
Di Togliatti e anche di Berlinguer. Nostalgia degli articoli di Giorgio Amendola. La politica deve avere solennità, mistero, carisma, altro che questo circolo mediatico. Qualche decennio fa fece scandalo a sinistra Milovan Gilas che, parlando del socialismo reale e della Jugoslavia, denunciò la nascita di una "nuova classe" dei politici. Anche qui è nata una nuova classe che va ben oltre la ovvia necessità, nel tempo in cui viviamo, di una professionalità della politica. Qui siamo alla politica come moltiplicatore di posti di lavoro. Una volta chiesi a un giovane ricercatore che cosa avrebbe voluto fare nella vita, mi ha risposto "il consigliere di circoscrizione". E sai perché? Perché un consigliere di circostrizione guadagna più di un ricercatore. Quando gli ho chiesto per quale partito avrebbe voluto farlo mi ha guardato con aria interrogativa e ha risposto "per chi mi prende".

Al tempo della svolta della Bolognina ti rivolgesti a chi difendeva le ragioni del Pci parlando di attaccamento all'orsacchiotto di peluche. Ora, alle riunioni di Sinistra democratica non mancano i nostalgici del Pci.
Avevo parlato della paura di perdere il bambolotto di pezza. Ciò di cui oggi si sente la mancanza è la scuola politica di allora, la sua qualità. Nessuna nostalgia invece per i vecchi riti. Il Pci era un luogo di democrazia, persino il vituperato centralismo democratico era migliore dei metodi attuali di formazione delle decisioni politiche.

La nascita di Sd si vuole finalizzata alla ricostruzione di una sinistra, unendo in un processo i frammenti esistenti. Come pensi di riuscirci?
Lo so che è un'impresa difficilissima, ma vedo il bisogno diffuso, ascolto le domande di tantissime persone: abbiamo il dovere politico di tentare una risposta positiva. Se alla fine della fiera, dopo 15 anni di stallo, l'edificio politico dovesse essere costituito da un Partito democratico al 20-25%, più un arcipelago alla sua sinistra fatto di forze dell'1-2 o magari 6% e tutti insieme 20 punti sotto la destra, avremmo fatto una bella frittata. E penso a Gramsci e alla tragedia della democrazia liberale: è possibile che da una bilancia che da troppo tempo non pende da una parte escano soluzioni autoritarie, bonapartiste. Vogliamo provare a non farla, questa frittata? Penso non a un partito ma a un'aggregazione politica pesante, di massa, per tornare dentro la società. Ci rendiamo conto che ormai anche a sinistra si parla degli operai come fanno gli antropologi con le tribù amazzoniche?

Ma gli operai esistono ancora? Forse volevi dire i precari...
Non c'è soltanto il precariato, il nodo centrale è la svalorizzazione del lavoro, pagato a prezzi orientali e rivenduto a prezzi occidentali. Mai come oggi sono stati tanto numerosi i lavoratori salariati classici, milioni in Italia, miliardi nel mondo. E' in atto poi un processo - avremmo detto un tempo - di proletarizzazione, con i ricercatori che guadagnano meno di 1000 euro. La scommessa è come rimettere insieme queste figure. Come, se non con un'idea politica forte e semplice? Dobbiamo muoverci in fretta...

Anche perché il degrado della politica e il suo sradicamento dalla società produce anche degrado sociale.
Un operaio di Piombino, già dirigente della Fiom, mi ha scritto una lettera che mi ha tolto il fiato: non vi seguo più, dice, ormai vi occupate solo di carcerati, di finocchi e di negri. Il radicamento sociale, però, non lo ricostruisci con una risposta economico-corporativa ma ridandoci un progetto. Si è straparlato di fine delle ideologie, ma solo la nostra è introvabile, sono fallite le macroideologie. Ma in un mondo che si vuole secolarizzato trionfa la potenza delle idee, per quanto misere e di seconda mano possano essere. Berlusconi non ha vinto soprattutto grazie ai mezzi di comunicazione ma grazie alle idee. Idee medievali, se lui è ricco può far diventare ricchi anche noi, hanno pensato in tanti. E' attualissima la lezione di Adorno sulle semi-ideologie di seconda mano. Si vince con le idee semplici.

Ti aspettavi la rapidità con cui si stanno liquefacendo i Ds?
Mi colpisce ma, purtroppo, non mi sorprende. Quando c'è un cedimento strutturale viene giù tutto. I centri veri di potere che detengono banche, imprese, gruppi editoriali, dove c'è gente che ancora studia Gramsci e il concetto di egomonia, hanno costruito un arco di trionfo allo scioglimento dei Ds. Come hanno ottenuto il risultato voluto, scomparso il maggior partito della sinistra, è arrivata la stangata, persino il dileggio. Ciò aumenta le nostre responsabilità. Noi abbiamo fatto un movimento, non siamo interessati al ventitreesimo partitino. Stiamo raccogliendo un insperato consenso, moltissimi giovani si avvicinano, moltissime donne. Arrivano anche molti eletti nelle istituzioni, e sanno di fare una scelta a loro rischio e pericolo. Oggi Sd è il terzo gruppo dell'Unione e ovunque ci siamo presentati è andata molto bene. Pur in un contesto politico ed elettorale preoccupantissimo.

I tempi sono stretti, dici, ma smantellare strutture, partiti, persino rendite di posizione non è la cosa più semplice del mondo. Come vanno i rapporti con Prc, Pdci e Verdi?
Per costruire un nuovo soggetto della sinistra ciascuno di noi deve cambiare profondamente, rimettersi in discussione, abbandonando nicchie e trincee combattendo in campo aperto. Se resti sempre in trincea, prima o poi chi combatti viene a prenderti. Attenzione però, la sinistra è in crisi in tutt'Europa, bisogna cercarne le cause.

Da dove ripartite in questa ricerca?
Rispondo con le frasi pronunciate alla nostra assemblea del 5 maggio da Massimo Salvadori: 1) non nasce una sinistra nuova senza una critica del comunismo novecentesco; 2) ciò che però sopravvive del Novecento è l'idea socialista; 3) non si esce dalla crisi senza una critica puntuale al capitalismo contemporaneo. Un capitalismo diventato incompatibile con il pianeta Terra.

Ci sono le idee e ci sono le azioni. A che punto siete nella costruzione di pratiche unitarie a sinistra?
Ci siamo incontrati con tutti. Anche con lo Sdi, con cui condividiamo le battaglie per i diritti civili ma abbiamo differenze sulla politica internazionale e sull'economia. Abbiamo stretto rapporti con Prc, Pdci e Verdi - ma non c'è solo questo a sinistra, ci sono i movimenti, ci sono tanti uomini e donne impegnate nell'associazionismo e nel volontariato verso cui dobbiamo avere uno sguardo largo - e abbiamo incontrato le confederazioni sindacali. Infine, abbiamo riunito i 150 parlamentari che si collocano a sinistra del Partito democratico e andiamo verso una collegialità delle decisioni. Oggi (ieri, ndr) portiamo un punto di vista condiviso all'incontro sul Dpef. Non siamo pentiti dei sacrifici chiesti con la Finanziaria per avviare il risanamento dei conti, cosicché oggi è possibile e doveroso ridefinire un'agenda forte e credibile per garantire un risarcimento sociale: le batterie del governo si possono ricaricare puntando su riforme sociali ed economiche efficaci.

Ma la destra dello schieramento si mette di traverso. Percorrerete questa strada anche a rischio di una crisi di governo?
Il rischio di una crisi, con i numeri che abbiamo al Senato, esiste fin dal primo giorno di governo. Il rischio di morire è connesso alla nascita. Abbiamo un governo che si regge su una coalizione molto ampia e ogni volta va trovato un punto di equilibrio. Sapendo che se salta questo governo non c'è all'orizzonte qualcosa di meglio.

Quale risarcimento, quali riforme sociali?
Bisogna guardare in giù, verso il basso, e in su, verso l'alto. In giù, nella sofferenza di ampi strati della popolazione, lavoratori precari, lavoratori dipendenti, pensionati. In su, alla scuola, alla formazione, alla ricerca, all'innovazione. L'Europa è il fanalino di coda rispetto agli Usa e all'Oriente sugli investimenti verso l'alto, e l'Italia in Europa non è certo messa bene. L'Italia è l'unico paese con gli Stati uniti in cui cresce la disuguaglianza, crescono i poveri e crescono i ricchi. In Italia i redditi si sono ulteriormente spostati dai salari ai profitti. Se si avvia questo cammino, se sapremo guardare verso il basso e verso l'alto, sarà anche meno complicato un ritorno nella società, tra gli operai che votano Lega.

Nel vostro incontro prima del Dpef, come forze di sinistra avete detto che sulle pensioni sosterrete un eventuale accordo sindacale. Non sarebbe meglio garantirvi un'atonomia politica e di giudizio?
Se si arriverà a un accordo tra le parti sociali non cavalcheremo la logica del più uno, non scavalcheremo i sindacati. Ma finalmente, usciamo dall'ossessione pensionistica. Pensiamo alla ricerca scientifica. La sinistra deve lavorare sui contenuti, sulle politiche e sui valori fondativi.

Quali sono i tempi della nascita del nuovo soggetto di sinistra?
Avremo bisogno di qualche prova elettorale, già in autunno e nella prossima primavera quando andrà al voto metà del corpo elettorale.

Sempre che non cada il governo. Quali sono i passaggi più pericolosi?
Il rischio, lo ripeto, è quotidiano. Ma le alternative - governi tecnici, governi istituzionali - sono peggiori del presente. Per questo bisogna difendere il governo Prodi. Per difenderlo, però, bisogna correggerlo.

15 Giu 2007
da sinistra-democratica.it
« Ultima modifica: Ottobre 18, 2007, 06:19:00 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 17, 2007, 11:45:06 am »

Dall'intervento della Capogruppo di Sd alla Assemblea di Sinistra Europea

Sinistra Democratica è nata per riunificare la Sinistra

di Titti di Salvo

S.E.
INTERVENENDO ALL'ASSEMBLEA DI NASCITA DI SINISTRA EUROPEA TITTI DI SALVO, CAPO GRUPPO DI SINISTRA DEMOCRATICA LLA CAMERA, HA TRA L'ALTRO DETTO:

"Sinistra democratica nasce  per contribuire con altri a unire la sinistra: un obiettivo difficile in sè  e per l'ambizione attraverso di esso di cambiare l'italia per renderla più libera, più giusta, più ospitale.

Bisogna farlo presto, perchè l'Italia frantumata ne ha bisogno. Bisogna farlo pensando che la somma delle formazioni politiche che a sinistra oggi esistononon risolve, e bisogna farlo parlando alla sinistra diffusa:alle persone che si sono allontanate dalla politica, che  nella politica non hanno più investito tempo e intelligenza, nemmeno per votare.Dando rappresentanza e voce a chi non ne ha, donne e uomini,  e in questo modo rinnovando la politica e rafforzando la democrazia.

Bisogna farlo senza ignorare le differenze, nel solco a nostro avviso del socialismo europeo, di cui non nascondiamo limiti e segni di difficoltà, ma che ci  appare oggi l'unica cultura politica capace di aprirsi ad altre culture: al femminismo al pacifismo, all'ambientalismo per questo capace di rinnovarsi, interpretare e rispondere ai bisogni di una società globale in movimento.

Per questa ragione sostengo che chi parla di "cosa rossa "intende sminuire  l'ampiezza di un progetto e la sua ambizione, esorcizzandone la capacità di attrazione.

La nascita del partito democratico per le sue scelte annunciate, quell'oltre  il socialismo europeo, l'equidistanza nella rappresenza tra imprese e lavoro, la  rinuncia ad una visione laica della politica con tutte le conseguenze di caduta di autonomia anche dalle gerarchie ecclesiatstiche, lascia a sinistra un vuoto evidente e molto ampio: vale la pena di riempire quel vuoto, un passo alla volta e partendo dalle cose concrete, quelle che riguardano la vita delle persone, le scelte di valore.

Così abbiamo fatto insieme allo Sdi, al Pdci, ai verdi e a Rc comunicando che avremo disertato la conferenza sulla famiglia di Firenze per la discriminazione che aveva alle spalle; cosi ancora insieme ma senza lo Sdi per chiedere al Governo  giustizia sociale nella destinazione dell'extragettito fiscale e poi  ancora Sinistra Democratica ha scelto una propria posizione diversa dalle altre rispetto alla visita di Bush in Italia: un passo alla volta senza nascondere le differenze, ma contemporaneamente guardando avanti verso l'unità della sinistra necessaria per cambiare l'Italia".

16 Giu 2007
da sinistrademocratica.it
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 19, 2007, 06:05:09 pm »

I confini della sinistra

Paolo Leon


Se leggo bene Gualtieri su Gravagnuolo (l’Unità del 14/6), la sinistra è definita dalle condizioni materiali e storicamente determinate - classe, industrialismo, stato-nazione - realizzate pienamente nel secondo dopoguerra per (casuali?) circostanze propizie. Non ho difficoltà ad usare un’impostazione di questo tipo - da materialismo storico - salvo per il fatto che la si può allungare o restringere a piacimento, a seconda della tesi da dimostrare o dei propri pregiudizi. Infatti, Gualtieri afferma che «è venuta meno la classe» perché «il capitalismo... realizza l’estrazione del plusvalore... in gigantesche fucine», in pratica in Estremo Oriente.

Ne deriverebbe che, in Europa, negli USA, in Giappone, non si estrae più plusvalore - e, perciò, o noi siamo diventati i camerieri del capitale, oppure abbiamo già raggiunto il comunismo.

Opporrei che se in Cina si estrae plusvalore, ma la Cina è in concorrenza con l’Europa, allora si estrae inevitabilmente plusvalore anche dal lavoratore europeo - che questi sia applicato alla macchina, in cucina o allo sportello. Del resto, lo sfruttamento è palese, da noi: lo dimostrano la riduzione della quota del lavoro nel reddito nazionale, la differenziazione salariale, la divisione tra lavoratori (pubblici e privati, autonomi e dipendenti, part time e a tempo pieno, donne e uomini, immigrati e nazionali, precari precari e precari provvisori, per non continuare). Tutte forme di esercito industriale di riserva, per di più presente anche in piena occupazione.

Nessuno di questi eventi è naturale: devono molto, ma non tutto, alla tecnologia; molto, ma non tutto, alla globalizzazione, molto, ma non tutto, alla cecità della sinistra e alla sua involuzione piccolo borghese. Devono moltissimo alla feroce reazione antisindacale di Thatcher e Reagan - questa sì causa del declino della sinistra.

Insomma, credo necessario uscire dal feticismo delle macchine e dal ritenere che solo il nesso classe/ macchina fosse la base della sinistra. A ben vedere, anche con poche macchine, la classe è tornata alla grande, se non quella operaia, certo quella capitalista; e non si è trovato il modo di mobilitare i nuovi sfruttati, ancorché scolarizzati, proprietari di case e lontani dalla sussistenza, abbandonandoli alla destra. Gualtieri sembra ignorare l’onda di violenza che accompagna l’espansione universale del capitalismo: la reazione di chi è lasciato indietro si manifesta nella chiusura dei clan, nel razzismo, nel fondamentalismo delle religioni, nel ritorno a mitiche identità tradizionali. Le pulsioni avverse alla globalizzazione danno luogo a populismo, tendenze autoritarie, avversione nei confronti della sinistra. Questa, in Europa, cerca di sopravvivere pensando di adattarsi alla globalizzazione, accettando la riduzione del ruolo dello Stato (e, per definizione, della democrazia) e facendo proprie le ideologie proprietarie dei liberali - mentre questi, come è spesso avvenuto, si acconciano ad accettare il populismo della destra, come male minore.

Gualtieri afferma che si esce dalle difficoltà della sinistra se:

- si uniscono i riformismi , ma non li definisce, perché non sono il risultato delle nuove condizioni materiali né sono storicamente determinati;

- si rilancia l’Europa con la costituzione, ma paradossalmente senza Stato, fondandola sul principio di sussidiarietà - un principio inventato per ridurre il potere fiscale degli Stati, e che si svolge secondo un processo di devoluzione senza fine, che ricorda Talete e la tartaruga;

- si supera l’identificazione della sinistra con lo Stato, per assumere «l’orizzonte dell’unità del genere umano», che o è il ritorno a «proletari di tutto il mondo unitevi» o è soltanto una classica osteria del futuro.

Piacerebbe anche a me che la democrazia post-nazionale fosse europea: ma ciò implicherebbe uno Stato europeo, un bilancio europeo, tasse europee, welfare europeo, politica industriale europea, banca centrale orientata allo sviluppo. Cosa c’entri con tutto ciò il partito democratico, Gualtieri lo lascia del tutto oscuro. Anch’egli, come il manifesto del PD, naufraga negli ossimori (universalismo selettivo, europeismo e esecutivo nazionale rafforzato, democrazia e meno Stato, individualismo solidale, proprietà ed eguaglianza), come quando si riempiono i fogli con il verbo "coniugare" - in genere, il diavolo e l’acqua santa.

PS. Come far entrare nel ragionamento di Gualtieri l’Unipol è veramente arduo: ritenere che si abbia ragione perché si è attaccati, implica essere molto sicuri di aver ragione - ma in quel caso non avevano ragione i dirigenti DS a rallegrarsi per l’OPA o le cooperative nel veder annacquata la storica diversità tra impresa cooperativa e impresa capitalistica.

Pubblicato il: 18.06.07
Modificato il: 18.06.07 alle ore 8.42
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 22, 2007, 04:26:23 pm »

Insulti al sindaco Cofferati: i Ds rompono con Rifondazione

A Bologna i no global spaccano la giunta

Al corteo anche il segretario provinciale del Prc.

L'assessore diessino Merola: non ho intenzione di restare in questa compagnia 


BOLOGNA - Una manifestazione antifascista contro il corteo di Forza Nuova, con la partecipazione di Rifondazione comunista, e con slogan pesanti sul sindaco di Bologna: «Cofferati pezzo di m...». Il risultato di questa miscela è una probabile crisi della giunta comunale e una rottura - forse irreversibile - tra Ds e Rifondazione all'ombra delle due torri.

Il motivo dell'acredine tra i due gruppi che - almeno formalmente - sostengono Sergio Cofferati in Comune è che nel corteo che insultava il sindaco c'era il segretario provinciale di Rifondazione, Tiziano Loreti: «Noi lo diciamo da tempo, c'è un segmento di questa città che non si sente più rappresentato da questa amministrazione». Abbastanza, oltre agli insulti, per provocare la reazione dell'assessore ds Virginio Merola, fra i più vicini a Cofferati. «Così ci si fa del male da soli, non ho nessuna intenzione di rimanere in questa compagnia. Sarà un loro problema spiegare ai cittadini la compatibilità tra lo stare in maggioranza e costantemente bombardarla. Mi pare non si rendano conto della profonda insoddisfazione di tutto il mondo del centrosinistra per questo modo di procedere». Alle critiche e alla crisi di consensi (il gradimento di Cofferati è sceso al 39%) Merola ha replicato: «Comincerei a preoccuparmi delle migliaia e migliaia che in piazza non ci vanno. Non capisco perché una parte della sinistra continui a considerare la sicurezza un tema di destra. Serve uno sforzo per capire i sentimenti dei bolognesi».

Il rischio, ormai più di una semplice eventualità, è che a Bologna la tensione tra riformisti e radicali dell'Unione sfoci nella crisi della giunta. Nel corteo tra l’altro i momenti imbarazzanti per l’amministrazione comunale sino stati molteplici: a un certo punto una ragazza al microfono ha fatto un lungo elenco di tutto ciò che è «fascismo»; tra le altre cose c’era anche «l'amministrazione pubblica che se ne fotte di chi vive questa città» e «i poliziotti davanti e dietro di noi». Poco dopo, un altro ragazzo ha gridato slogan contro «lo sceriffo Cofferati», colpevole insieme alla questura di aver autorizzato il corteo di Forza nuova.

22 giugno 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Dicembre 08, 2007, 04:27:06 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Giugno 25, 2007, 10:08:14 pm »

Intervista a Fabio Mussi pubblicata da L'Unità il 24 giugno 2007

Non siamo ministri estremisti
di Simone Colini

Mussi rivendica toni e contenuti della lettera a Prodi.

Veltroni candidato al Pd? Una buona notizia


«È IMPRESSIONANTE che si definiscano estremisti quattro ministri che chiedono al proprio governo di rispettare il programma». Fabio Mussi giudica «a dir poco sorprendenti» le reazioni alla lettera che insieme ai ministri Ferrero, Pecoraro Scanio e Bianchi
ha inviato venerdì al presidente del Consiglio. «Qualche commentatore ci ha definito irriducibili, termine utilizzato per le Br», scuote la testa il ministro per l’Università e la Ricerca. «E questo perché chiediamo di conoscere il Dpef prima di votarlo? Perché richiamiamo l’attenzione su punti essenziali di una piattaforma costruita non nel covo dei soviet ma nella Fabbrica del programma di Prodi?».

La lettera inviata al premier ha suscitato diverse reazioni critiche. Se l’aspettava, ministro Mussi?
«E perché avrei dovuto? Abbiamo richiamato il governo alla coerenza con il suo programma. A cominciare dall’abolizione dello scalone e dal superamento della legge trenta. La lettera ha contenuti chiari. Parte dall’ennesimo intoppo che c’è stato nella trattativa sulle pensioni tra governo e parti sociali. Una trattativa che ha prodotto risultati, ma che ora sta andando avanti con cifre che ballano e con il metodo delle docce scozzesi. Servono cifre chiare e la determinazione del governo a raggiungere l’accordo».

C’è però chi vi ha definito “irriducibili”.
«Sì, termine usato per le Br. E il fatto che siano giornali diciamo democratici a farlo è sorprendente. Se abbiamo sentito l’esigenza di scrivere questa lettera è perché siamo preoccupati che in una situazione politica difficile come quella attuale la trattativa con le parti sociali possa andare in fumo. E questo sarebbe un guaio grandissimo per il governo, che è di fronte all’esigenza di un rilancio».


Nella lettera si parla anche di Dpef, e il portavoce del governo Sircana ha richiamato al “rispetto delle prerogative di ciascun ministro”.
«Bene. Ma a parte che la Costituzione prevede il principio di collegialità nel governo, cioè che siamo tutti responsabili di ogni provvedimento dell’esecutivo, è proprio per quello che dice Sircana che voglio sapere cosa prevede il Dpef su ricerca e università. Siccome ho una responsabilità, devo essere messo in grado di esercitarla. E quindi devo sapere qual è il documento fondamentale su cui il governo orienterà le sue politiche economiche. Siccome siamo a cinque giorni dal Consiglio dei ministri che si occuperà del Dpef, vorremmo vederlo prima per poterlo valutare, discuterlo e poi approvarlo. Non si può fare il bis dell’anno scorso, quando il testo ci venne dato a poche ore dall’inizio del Cdm».


Il ministro Turco vi obietta che simili discussioni si devono affrontare appunto nel Consiglio dei ministri, non con lettere pubbliche.
«Ma qualcuno crede che queste questioni non siano state sollevate nei precedenti Cdm? Crede che non abbiamo già discusso del livello di informazione con cui a volte passiamo alle decisioni? La questione è stata sollevata, più volte direttamente col presidente del Consiglio. Questa volta abbiamo compiuto un atto politico per vedere se la situazione migliora»


Così però si dà un colpo all’immagine del governo, si rischia di indebolirlo.
«Non capisco perché. Noi vogliamo rafforzarlo. Penso che non ci siano alternative a questo governo. Che sia il punto di equilibrio politico più avanzato. Ma bisogna farlo funzionare. Dobbiamo chiamare a raccolta le forze, coinvolgere, lavorare sulle idee. C’è un problema di rilancio, lo vedono tutti. Le amministrative sono state non un campanello ma un campanone d’allarme. Un certo malumore nei nostri confronti può essere connesso al fatto di governare, però forse ora ha superato la misura. C’era chi diceva “molti nemici molto onore”. Ma “tutti nemici” non si può, scontentare tutti non si può».


Epifani ha detto all’Unità che sente aria da 1919, che vede gli industriali come novelli agrari di allora, che guarda con preoccupazione alla sollecitazione degli istinti più bassi.
«È un allarme forte quello di Epifani. È una persona riflessiva e attenta a ciò che dice. Non ha sparato a caso. Il suo è un allarme che coglie un punto. E che condivido. L’ultima uscita di Montezemolo è inquietante. Non può essergli scappata. E se gli è scappata è freudiano. La sua è stata una doppia battuta. La prima, tremenda e intollerabile, è che i sindacati rappresentano i fannulloni. Un insulto ai lavoratori italiani, una cosa che il presidente di Confindustria non può né dire né pensare. L’altra battuta è che rappresenta più lui i lavoratori dei sindacati, quando è uno degli elementi della vita democratica la capacità dei grandi sindacati confederali di rappresentare il lavoro. Anche questa battuta ha un sapore politico. È l’idea di un blocco proprietario che attrae i consensi popolari. Oggi c’è una sommossa dei ricchi e il disincanto dei poveri. E Montezemolo suona la carica».

Come giudica la candidatura di Veltroni a segretario del Pd?
«Una buona notizia. Il Pd stava andando a infrangersi fragorosamente. Con Veltroni c’è la possibilità di un esito più solido. Dopodiché, non è che cambia il mio giudizio su carattere e natura dell’operazione Pd. Il dissenso resta».


E allora perché una buona notizia?
«Un Pd che galleggia al 20% e una sinistra frammentata sarebbe un disastro. Ho concluso il mio intervento al congresso dei Ds dicendo buona fortuna, speriamo che tutti e due i progetti, quello del Pd e quello dell’unificazione della sinistra, abbiano successo, perché in questo modo è ragionevole immaginare le coalizioni del futuro in un quadro bipolare e non trasformistico. Continuo a pensarla così, e penso che Veltroni sia un interlocutore migliore di altri».

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« Risposta #9 inserito:: Giugno 26, 2007, 09:43:24 pm »

Vademecum critico per la «sinistra smarrita»

Adriano Guerra


«Il leaderismo non è sinistra», ha scritto Bruno Gravagnuolo aprendo, finalmente!, una discussione sulla sinistra - sulla natura, l'identità, la politica della sinistra - fuori dai temi e dagli schemi imposti dalla precarietà e dall'emergenza. E da qui vorrei incominciare. Il leaderismo, dunque, «ovvero la politica di massa incentrata sul leader carismatico come risolutore e "chiave di volta" del bipolarismo». Diciamola tutta: il leaderismo non solo «non è sinistra», ma non ha funzionato. E non solo non ha funzionato ma ha fatto danni. Ha reso difficile in primo luogo ai cittadini, incominciando da quelli più politicizzati, dai membri di partito, di partecipare effettivamente alla vita politica: come può un cittadino contribuire, come è suo diritto e dovere, a fare avanzare questa o quella scelta, quando c'è un leader - per giunta inascoltato - che dice «decido io», «parlo solo io»? Quando i programmi di governo vengono preparati da un gruppetto di «saggi», come è avvenuto nel centro-destra, o riunendo in una «fabbrica del programma» - come è avvenuto col centro-sinistra - a turno gruppi di specialisti lasciando ai partiti - invitati a fare continui passi indietro - il compito di accettarli o di uscire dall'alleanza?

Del resto l'idea che si sia di fronte ad una crisi del sistema politico e dunque alla necessità di introdurre all'interno del sistema stesso misure di riforma (attraverso modifiche delle leggi elettorali, del ruolo delle Camere, dei ruoli del Presidente della Repubblica o del capo del governo, del rapporto centro-periferia, ecc.) è largamente diffusa. Si tratta sempre però di progetti di riforma che non toccano il dato essenziale del «potere personale» e del modello di bipolarismo che lo ha prodotto. La soluzione viene anzi cercata puntando su «volti nuovi», preferibilmente di giovani e di donne da inserire ai vertici di un partito del quale le uniche cose certe non sono gli elementi programmatici di fondo, i meccanismi per dar vita ad un visibile programma di partito da discutere con altre forze così da dar vita ad un programma di governo, e ancora una chiara visione del sistema di alleanze da mettere in piedi, ma... il nome del suo futuro Presidente.

Ora, se «il leaderismo non è sinistra», una forza di sinistra per essere tale dovrebbe proporsi anzitutto come obiettivo quello della riforma radicale del sistema politico. Ma se questo è il problema - Gravagnuolo non giunge a questa conclusione ma non vedo altra strada per la «sinistra smarrita» - quel che occorre è far si che il bisogno di dar vita ad un sistema politico nuovo diventi volontà politica e cioè partito. Un partito di sinistra a «baricentro culturale forte».

Ma come può nascere un partito? Intanto in modo diverso, opposto - è la mia opinione - rispetto alla via proposta su queste colonne da Roberto Gualtieri («La sinistra c'è se guarda avanti»). Un partito nuovo, come è sempre accaduto nella storia, non può nascere che sulla base della critica del passato (di quel che l'ha preceduto nel passato) e del presente (il mondo, la società), attraverso cioè la via delle scissioni e non delle aggregazioni (che verranno dopo per essere seguite da nuove scissioni. Si pensi a come sono nati i partiti socialisti dall'interno dei movimenti anarchici, proudhoniani, mazziniani; alla denuncia di Gramsci delle «piaghe» del partito socialista, ecc.).

Un partito nuovo di sinistra in Italia non può nascere dunque che sulla base della critica radicale del Pci (perché il partito del «comunismo democratico» è crollato nonostante la sua «diversità» rispetto al modello sovietico?) e del Psi (perché la sua «diversità» non lo ha preservato dal craxismo?). Una critica radicale. Quel che si deve chiedere ai potenziali fondatori del nuovo partito è dunque di non limitarsi alle critiche e autocritiche personali e alle abiure semplificatrici. Queste abiure da una parte liberano il campo alle nostalgie e dall'altra tolgono di mezzo il percorso col quale la sinistra in Italia è pervenuta col Pci ad acquisire come valori propri, insieme alle regole del gioco della democrazia parlamentare e ai diritti di cittadinanza, il ruolo del mercato e delle imprese, la lotta contro l'inflazione, contro gli sprechi, i parassitismi e i privilegi. (L'elenco è negli interventi di Berlinguer che si apprestava - era il 1977 - a far entrare il suo partito nell'area di governo e che qualche anno dopo si chiedeva «se l'obiettivo del socialismo» potesse essere considerato «ancora valido» o se si poneva «il nodo storico di ripiegare verso altri obiettivi»). Nel passato della sinistra italiana ci sono insomma fila da recidere e fila da continuare.

Si dirà che non si può chiedere ad un partito di fare storia. Gli si può chiedere però di prendere atto dei risultati già raggiunti dai lavori di numerosi giovani studiosi che al tema hanno dedicato e stanno dedicando grandi energie.

La critica del Pci, dunque. E poi la critica dei tentativi, sempre falliti, di dar vita a formazioni, a «cose» nuove, messi in piedi dal 1991 in poi.

E infine dov'è la critica del presente, di quella che Gualtieri ha definito «la più trita teoria liberista» al di là delle tante parole sugli operai che sarebbero scomparsi, sulla flessibilità che sarebbe un'occasione ecc. ecc.? Dov'è un'analisi della «questione settentrionale» e di quella meridionale che ci dia un quadro a livello, ad esempio, dei risultati conseguiti da ricerche sparse sui giornali, spesso vituperati e proprio quando mettono in chiaro i legami più nascosti fra affari e politica; dei momenti di verità-realtà fornitici da certi film sulla mafia, sul Nord Est, sull'immigrazione; e ancora di certe inchieste televisive della Terza rete, o da libri come quello di Roberto Saviano? (Può succedere, succede, - mi dicono - che in seguito alla trasmissione di un'inchiesta di Milena Gabanelli, si muovano i carabinieri o le guardie di finanza. I partiti no. È già molto se non danno querela). La «sinistra smarrita» vive nella «terra di nessuno» nella quale ci si è continuati a muovere pensando a «cose» senza identità o con identità («partito democratico», «partito socialdemocratico») che non erano il risultato di percorsi reali, di analisi critiche o anche soltanto di dibattiti seri. E intanto si camminava inesorabilmente verso l'idea che identificava «sinistra» e «centro-sinistra», che - come riconosce ancora Gualtieri - alcuni capisaldi del pensiero conservatore (tra questi oltre alla «personalizzazione della politica», «l'idea bizzarra secondo cui la politica non si dovrebbe occupare dell'economia ma limitarsi a "dettare le regole"») diventassero «veri e propri assiomi» fatti propri anche dalla sinistra.

Così la ritirata dello Stato, con le privatizzazioni selvagge non contrastate quando andava fatto, è diventata una rotta, e, ad esempio, la ricerca di un rapporto fra le forze di sinistra e la cooperazione - che è nata dalla sinistra e con la sinistra - è divenuta un delitto indifendibile. Si andava, si va, verso il «pensiero unico», verso l'idea che per ogni problema esistano non soluzioni diverse ma una soluzione ottimale.

Ora un partito per essere tale deve essere anzitutto «parte». Chi scrive, per raggiunti limiti di età, può essere portavoce- me ne rendo conto - di vecchi modi pensare. Vorrei chiarire però che non sto riproponendo il ritorno al partito nomenclatura di classe. E neppure alla semplice identificazione della sinistra con i valori indicati da Norberto Bobbio in quel suo dimenticato libretto del 1994.

Ci sono valori nuovi, quelli ad esempio più volti indicati - insieme ai compiti nuovi determinati dai profondi mutamenti intervenuti nel mondo e nella vita degli uomini - da Alfredo Reichlin. Ma è pensabile che un partito nuovo possa nascere come risultato dell'aggregazione di partiti e gruppi (e come aggregazione burocratica, usando il manuale Cencelli) che, come si è detto, non solo partecipano del sistema politico in vigore ma si propongono di salvarlo?

Porre questo interrogativo non vuol dire - va chiarito - sottovalutare il ruolo che forze e uomini che operano all'interno dei Ds possono svolgere per far vivere una sinistra autonoma. Gravagnuolo ha avanzato l'idea di una possibile «conversione a U» di coloro che stanno lavorando per dar vita al Pd. Ed è auspicabile che ciò possa avvenire. (Né lo si può escludere: penso a D'Alema, o a Reichlin, nei cui articoli le ragioni per dire «basta» al partito democratico ci sono spesso tutte). Sembra certo tuttavia che si stia andando, indipendentemente della sorte del governo Prodi, verso la formazione di un'aggregazione di centro sinistra. All'interno della quale non tutti saranno lì per difendere il vecchio sistema coi suoi privilegi.

E poi ci sono altre forze ancora. Ci sono i delusi del centro-sinistra che già hanno fatto lo «sciopero del voto». Se è vero, come credo sia vero, che un' ondata di protesta contro l'attuale sistema politico stia montando, e che alla base di questa ondata vi sia, insieme al fallimento del sistema politico, il quadro impressionante degli aspetti degenerativi a cui il sistema stesso è giunto, perché non raccogliere - sottraendola al «partito della non politica», e far diventare «politica» «sinistra» e «partito», la spinta al cambiamento che tutti avvertiamo nell'aria? La mia opinione è che solo una forza popolare di sinistra, e di «sinistra di governo», autonoma, possa fare questo. Ma evidentemente non può farlo da sola. Occorre un sistema di alleanza che vada ben al di là della sinistra. E questo vorrei dire a Mussi e ad Angius che mi sembrano troppo occupati - nel momento in cui c'è da parlare a milioni di cittadini, anzi, diciamolo con una parola grossa, al paese - a incontrarsi con i dirigenti dei partiti della sinistra radicale come se per uscire dalla crisi ci si potesse limitare a contrapporre ad un'aggregazione moderata un'aggregazione della vecchia sinistra.

Pubblicato il: 26.06.07
Modificato il: 26.06.07 alle ore 13.56   
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 03, 2007, 10:04:43 pm »

Sxnet.it, sinistra unita, almeno virtualmente

Wanda Marra


«Sinistra (sx)»: da qualche giorno dei grandi manifesti rossi 6x3 campeggiano per le strade di alcune grandi città. Sotto c’è un richiamo internet: www.sxnet.it. E chi digita questo indirizzo internet si ritrova su una home page dove si alternano le traduzioni della parola sinistra in varie lingue: «Left», «Gauche», «Izquierda», «Linke». “Declinazioni” della parola sinistra che da ieri campeggiano anche sui manifesti 70x100 e 100x140 distribuiti da Rifondazione su tutto il territorio. Sì, perché, il sito al quale rimandano in realtà risponde a un progetto ben preciso: essere l’agorà, la piazza virtuale a disposizione di chi si sente di sinistra. E anche di chi alla costruzione in corso della sinistra-sinistra vuole contribuire. D’altra parte, nel messaggio di «Benvenuti» l’invito è chiaro: «Un sito è più facile navigarci dentro che spiegarlo. Per noi è nata così: immaginare uno spazio aperto ad una comunità di sinistra. Sentimentalmente di sinistra. Ovvero non un sito della politica di sinistra, ma un sito per le persone di sinistra». Promosso dalla Sinistra europea e con i fondi di questa, curato dall’agenzia di Marketing, Sister (la stessa che ha fatto la campagna elettorale di Rifondazione) in realtà il progetto vede coinvolta, oltre che Rc, anche gli altri soggetti che stanno lavorando alla costruzione della cosiddetta «Cosa rossa». E infatti il sito, che da ieri è nella sua versione ufficiale, raccoglie interventi anche di esponenti di Pdci, Verdi, della Fiom. E si rivolge anche a Sd.

Sull’«unità a sinistra» scrive la responsabile Cultura del Pdci, Patrizia Pellegrini, nella sezione «Con sorpresa». Dichiara che «la lotta ai cambiamenti climatici deve essere un tema centrale, anche e soprattutto per chi si riconosce in un’ idea della politica a sinistra», Angelo Bonelli nella sezione «Per paura». «Palestina: l’ultimo frutto della guerra permanente di Bush in Medio Oriente» si intitola l’intervento di Roberto Giudici dell’Ufficio internazionale della Fiom di Milano, nella sezione «Con rabbia». «Abbiamo bisogno ancora una volta d’immaginare partendo da lì, in alto a sinistra», dichiara nel suo intervento Michele Palma, della Segreteria nazionale di Rc nella sezione «Per amore».

Questo il lancio. Ma in realtà, volendo essere una piazza virtuale, il sito più che a interventi “dall’alto” è aperto a quelli dal basso. Tra le altre idee, quello di dar vita a un alfabeto di sinistra. Per adesso, la A è legata ad Amore. Ma l’intenzione è quella di costruire un alfabeto che funzioni come una sorta di Wikipedia, l’enciclopedia online in cui chiunque può inserire una voce nuova o aggiungere definizioni a voci già esistenti. La risposta ad ora è stata lusinghiera: la versione ufficiale è online da ieri, ma da lunedì scorso si poteva accedere ad una pilota. Ed a scrivere sono stati circa in 2000. L’obiettivo è arrivare a gennaio e, dopo un momento di verifica dell’iniziativa, offrire il sito a tutti i soggetti della sinistra-sinistra: perché questo diventi uno strumento non “per” la sinistra, ma “della” sinistra.

Pubblicato il: 03.07.07
Modificato il: 03.07.07 alle ore 9.04   
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 04, 2007, 10:31:27 am »

Intervista rilasciata da Fabio Mussi e pubblicata su La Stampa martedì 3 luglio 2007

Da Piero idee oniriche. Io non entrerò nel Pd
di Riccardo Barenghi


Nell’intervista pubblicata ieri sulla Stampa Piero Fassino ha accusato Mussi e la sua Sinistra democratica di usare due pesi e due misure: «Non capisco perché quando a Firenze io lavoravo per il Partito democratico, stavo liquidando la sinistra. Mentre oggi va bene Veltroni che sostiene la stessa prospettiva da molti anni. (...) Tornino pure tutti quelli che vogliono tornare ma ammettano di essersi sbagliati su di me».

Allora Ministro Mussi, torna nel Pd adesso che c’è Veltroni?
«Queste di Fassino mi sembrano opinioni oniriche. Sono assai preoccupato perché vedo con qualche dispiacere che il mio amico Piero non solo non domina gli eventi, ma non capisce esattamente neanche quello che succede».

Quindi non è vero che lei e suoi compagni state pensando di rientrare nel Partito democratico?
«Ma neanche per sogno. Non capisco come a Fassino possa venire in mente una prospettiva del genere: mai come ora sono stato convinto delle mie scelte. Naturalmente ho apprezzato la candidatura di Walter, visto che fino a quel momento il progetto del Pd era una nave che correva verso gli scogli. Lui forse può evitare il naufragio, che certo io non mi auguro: se fallisse il Pd, perderebbe tutto il centrosinistra. Tanto è vero che all’ultimo Congresso dei Ds ho augurato ai miei ex compagni buona fortuna. Ma questo non cambia la mia opinione su quell’avventura politica: il Partito democratico non è e non sarà il mio Partito. Non aderirò mai e non lo voterò».

Eppure Veltroni le ha rivolto un appello diretto...
«Lo ringrazio ma mi sembra sempre più chiaro, anche grazie a lui, che il profilo che assume il Pd non ha nulla a che fare con la sinistra, non è l’ennesima metamorfosi della sinistra. Non sarà un Partito di sinistra ma un qualcosa che va verso il centro, tanto che persino Walter ventila, sbagliando, alleanze variabili in futuro. E qui vorrei dire a Fassino che semmai sono io che pretendo le sue scuse, visto che c’era una volta il più grande Partito della sinistra italiana e oggi non c’è più».

Ma del discorso di Torino cosa pensa?
«Come si dice, luci e ombre. Mi è piaciuta l’agenda di priorità, dal precariato alla formazione, alla ricerca. Non mi è piaciuta invece la parte sulla democrazia che deve decidere. Non credo che la crisi della politica possa essere affrontata con un assetto iperpresidenzialista. A me interessa sapere soprattutto su cosa deve decidere la democrazia, e il cosa per me è l’estrema diseguaglianza che esiste nel nostro Paese».

Dal 14 ottobre in poi avrete un premier in carica (Prodi) e un premier in corsa (Veltroni): saranno guai per il governo?
«Io sostengo da tempo che il Partito democratico è un fattore destabilizzante per il quadro politico, e infatti ne abbiamo avute parecchie conferme. Ricordo che D’Alema lo chiamò il Partito di Prodi, invece sarà il Partito di Veltroni. E’ evidente che in autunno si aprirà un problema da trattare con molto garbo, bisognerà sforzarsi tutti per mantenere un equilibrio che si preannuncia piuttosto delicato. Ma bisogna fare di tutto per evitare che il governo cada, altrimenti gli eventi precipitano».

Nel frattempo la vostra Cosa rossa, che potrebbe colmare quel vuoto che il Pd apre a sinistra, sembra marciare piuttosto a rilento.
«E’ evidente che si tratta di un processo difficile. Non sarebbe giusto limitarsi a sommare le quattro forze in campo, cioè Rifondazione, Pdci, Verdi e noi della Sinistra democratica, senza ingaggiare una battaglia politica, provocare spostamenti di forze, confrontarsi sui contenuti. Tuttavia la Cosa va e io non penso a tempi biblici, anche perché sono convinto che il bipolarismo potrà sopravvivere solo se dalla nostra parte del campo avremo un Partito democratico dal profilo riformatore ma alleato con una forza di sinistra».

Una forza che si presenterà insieme alle elezioni? E quando?
«Alle amministrative dell’anno prossimo. Altrimenti il progetto fallirebbe».

Da www.sinistra-democratica/dalla.stampa/interviste-356
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 19, 2007, 10:53:11 am »

PORTE GIREVOLI

Chi terrà insieme le due sinistre?
di Edmondo Berselli

Se il Partito democratico, come dice Veltroni, dovrà essere a 'vocazione maggioritaria' la leadership dovrà essere conquistata sul terreno di una competizione interna all'alleanza  Il presidente della Camera Fausto BertinottiDi qui al 14 ottobre, data di fondazione del Partito democratico, ci sarà la possibilità di analizzare le prospettive del 'partito nuovo', e di capirne le potenzialità. Ma c'è un problema che finora è stato solo sfiorato, e che è a suo modo un problema eterno, cioè strutturale, per il centrosinistra. Vale a dire la convivenza fra le due sinistre, quella liberal-riformista e quella 'alternativa'.

A essere meticolosi le sinistre sono ben più di due, dal momento che andrebbero considerate le componenti ambientaliste e neosocialiste. Ma se il Pd, secondo la formula più volte espressa da Walter Veltroni, dovrà essere un partito "a vocazione maggioritaria", la linea di confine del conflitto possibile, all'interno del centrosinistra, corre nei pressi dei Comunisti italiani e di Rifondazione comunista.

Quindi oltre a marcare una piattaforma esplicitamente riformista, come Veltroni ha fatto nel discorso al Lingotto di Torino, occorrerà anche provare a immaginare come dovrà svilupparsi il rapporto con l'altra sinistra. Finora infatti si è assistito a un incepparsi dell'azione di governo (esemplare, e preoccupante, nel caso delle pensioni), in cui le resistenze dell'ala oltranzista si sono intrecciate con la posizione della Cgil, che non può farsi scavalcare dai partiti, con la conseguenza di una impasse assai negativa per l'immagine dell'esecutivo.

La situazione è stata riassunta con lucidità lievemente sadica da Giulio Tremonti, il quale ha dichiarato: Prodi non è uno qualsiasi; ha governato il Paese; è stato, bene o male, alla presidenza della Commissione europea. Se si è piantato in un anno, vuol dire che nessun altro, nel centrosinistra, può illudersi di farcela. In altre parole: il problema del centrosinistra è irrisolvibile.

In realtà, Prodi ha tentato di risolvere la questione attraverso il suo voluminoso programma, le famose 281 pagine di super-mediazione. Ma il totem del programma rischia di diventare un vincolo, se non è sottoposto al vaglio della realtà e del contesto economico in evoluzione. Ad esempio: il taglio del cuneo fiscale alle imprese era stato pensato in una fase in cui c'era la sensazione di una perdita di competitività da tamponare a ogni costo. Per rispettare la promessa alle imprese, si sono impegnate risorse mentre l'apparato produttivo italiano stava riprendendo a fare profitti. Ne è venuta fuori una misura 'pro-ciclica', di quelle che il centrosinistra aveva spesso rimproverato al centrodestra (come nel caso della detassazione degli utili reinvestiti nel primo governo Berlusconi).

In sostanza, il programma è uno strumento che può diventare un vincolo ulteriore, come prova anche la discussione infinita sullo scalone. E allora, se non basta un accordo di programma, qual è la risorsa chiave che può garantire la gestione di un rapporto non paralizzante con la sinistra alternativa?

Non c'è una risposta unica. È possibile che a dispetto delle apparenze (e agli appelli di Fassino a Pier Luigi Bersani a non infrangere "l'unità riformista") a Veltroni possa far comodo una candidatura alle primarie che si dislochi alla sua 'destra': nel senso che la presenza di una piattaforma industrial-liberalizzatrice (come quella di Enrico Letta, per intenderci), potrebbe assicurargli una posizione di maggiore centralità nel Pd e nell'intera coalizione, e quindi un ruolo più dinamico nella trattativa con la sinistra meno riformisticamente malleabile.

Ma a prendere sul serio l'etichetta di "partito a vocazione maggioritaria", viene da dire che non si diventa partiti maggioritari senza sistema maggioritario. Per il centrosinistra, le future elezioni politiche avranno due fronti, non uno solo: il primo sarà quello del confronto, durissimo, con il centrodestra; il secondo sarà quello che designerà i rapporti di forza interni all'Unione.

Non è pensabile in questo momento che il Pd possa diventare maggioritario semplicemente in base alla propria condizione di partito dei riformisti più volonterosi. La leadership di coalizione dovrà essere conquistata sul terreno di una competizione interna all'alleanza. E allora è inutile illudersi che riforme elettorali all'acqua di rose possano rendere centrale il futuro partito di Veltroni. Se c'è una strada, per il Pd, è quella segnata dal referendum di Guzzetta e Segni. Che imporrebbe regole severissime e una torsione formidabile del sistema politico: ma poiché l'alternativa è la vittoria semiautomatica della destra, e simmetricamente una grande palude a sinistra, vale la pena di correre l'avventura. Anche perché un partito nuovo non nasce nella bambagia, bensì nell'asprezza del confronto. E allora, se il Pd vuole vincere, innanzitutto non deve avere paura di giocarsi la partita senza riserve mentali.

(18 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 19, 2007, 07:39:23 pm »

Politica
 
Mussi: «La minaccia al governo non viene da sinistra»Simone Collini


Non c’è un conflitto sulle pensioni tra giovani e vecchi. Fabio Mussi vede invece dispiegarsi oggi in Italia «una lotta di classe»: «Dei ricchi, in forza, contro i poveri». Il ministro per l’Università e la ricerca guarda con preoccupazione alla «fune tirata da settori del centro dello schieramento» sullo scalone. Attenzione a questa «linea oltranzista», dice il leader di Sinistra democratica, attenzione a dipingere come nemici dell’accordo sulla riforma previdenziale i sindacati. «Su una linea così non solo salta il governo ma si alza fino all’incandescenza il conflitto sociale. Questo si vuole?».

Quando l’accordo sulle pensioni sembrava in dirittura d’arrivo è arrivata la mossa di Emma Bonino. Come la giudica ministro Mussi?
«È un episodio di guerra preventiva. Voglio bene alla Bonino, però ha utilizzato una forma stravagante».

Ha detto che rimetteva nelle mani di Prodi il suo incarico chiedendogli di decidere se il suo permanere nel governo è compatibile con la proposta che presenterà ai sindacati.
«Un chiaro tentativo di condizionamento. Non consapevole dell’importanza per il governo, per la sua tenuta e durata, di un accordo con le parti sociali. Il governo non agisce mai sotto dettatura di un altro soggetto. Ma senza concertazione si va alla guerra di tutti contro tutti».

Il dubbio della Bonino è che si siano ascoltate troppo le “posizioni reazionarie della sinistra comunista e sindacale”.
«Madonna santa. Noi partiamo dal programma. Si fa un gran discutere di crisi della politica. Uno dei modi per non aggravarla è fare in modo che tra le parole, gli annunci, le promesse, e i fatti, le azioni, ci sia coerenza. Immagino che quelli che nella Fabbrica del programma di Prodi hanno scritto “abolire lo scalone” sapevano quel che facevano».

Il programma dice però anche che bisogna tenere conto dei cambiamenti demografici.
«Certo. E io aggiungo anche i cambiamenti della struttura del mercato del lavoro, il fatto cioè che i giovani sono sempre più impegnati in lavori atipici, precari, a tempo determinato, discontinuo. Questo pone un problema enorme in relazione all’entrata in vigore del sistema contributivo. Mi sono battuto per la riforma Dini e nel 2012 si supererà il sistema dell’età in quanto si andrà in pensione prendendo in proporzione i contributi versati. Se per i giovani il lavoro continua a essere così precario si crea un problema esplosivo che va affrontato precocemente».

C’è anche chi dice che sarà un problema tenere in ordine i conti dell’Inps se non ci sarà un innalzamento dell’età pensionabile.
«Intanto, nella precedente Finanziaria abbiamo già aumentato il prelievo contributivo sul lavoro dello 0,3%, il che ha dato 800 milioni di euro. E poi oggi c’è un attivo dell’Inps di 3 miliardi e mezzo di euro, con il quale si finanziano i passivi di altre casse previdenziali. Per esempio si finanzia il deficit della cassa previdenziale dei dirigenti d’azienda. Cioè questo è un paese in cui i lavoratori con i loro contributi finanziano le pensioni ai loro capi. E la cosa appare normale».

Tenuto conto di tutto questo?
«Si tratta di lavorare a un onorevole compromesso».

L’ipotesi che circola circa lo scalino di 58 anni più le quote contributi-più-età possono portare a un accordo?
«Se c’è anche la messa in sicurezza dei lavoratori precoci, quelli che hanno 40 anni di contributi, gli usuranti».

E se a un’ipotesi del genere ci fosse oggi l’accordo con le parti sociali?
«Credo che il governo dovrebbe nella sua collegialità sostenerlo. Servirebbe a garantire la sua tenuta».

Nella sua collegialità vuol dire anche dai partiti di sinistra, come il Prc, che nelle passate settimane si sono mostrati scettici?
«La minaccia, nonostante la monumentale costruzione ideologica, non viene da sinistra. Rifondazione comunista ha avuto la tentazione di scavalcare il sindacato. Mi pare che sia rientrata».

Da dove dice che viene la minaccia?
«La fune viene tirata da settori del centro dello schieramento. Settori del costituendo Partito democratico e dintorni. È da lì che sono venute le più esplicite minacce, compresa quella di aprire una crisi di governo. E questo su una linea oltranzista: i nemici sono i lavoratori e i sindacati, non vogliono fare l’accordo, l’unica cosa che conta è il dato economico. Su una linea così non solo salta il governo ma si alza fino all’incandescenza il conflitto sociale. Questo si vuole?».

Importanti giornali soffiano sulla crisi di governo, quello di Confindustria suggerisce a determinati ministri di dimettersi.
«È la prima volta che il Sole 24 Ore fa degli articoli in cui auspica una crisi di governo. Non gliel’ho mai visto fare. Quando l’esecutivo era presieduto da uno degli associati di Confindustria, di nome Silvio, con il debito pubblico in ripresa, il deficit sopra le soglie del Patto di stabilità europeo, la crescita zero, non è stata chiesta la crisi di governo».

Questo per dire cosa?
«Voglio fare un appello per fermare la lotta di classe. La lotta di classe in forza dei ricchi contro i poveri».

Più che altro oggi si parla di un conflitto di generazioni.
«Sì, una volta c’erano le dispute tra gli antichi e i moderni, ora c’è la disputa giovani-vecchi. Rutelli ha persino invocato la protesta dei giovani contro i sindacati, poi ci ha provato Giachetti e hanno partecipato in venti».

La teoria non la convince?
«L’atto più ostile della società attuale contro i giovani si chiama precarietà. Sono state approvate leggi che hanno enormemente moltiplicato la condizione precaria dei giovani. E anzi ormai non si può dire neanche più dire che il fenomeno riguardi solo loro, perché la vita precaria continua in età matura, con redditi e stipendi da fame. Io guardo al mio settore, a chi si occupa di ricerca scientifica: un dottorando riceve 800 euro al mese, un assegnista di ricerca 1100, un ricercatore 1200. Questo è un clamoroso oltraggio sociale al principio del merito, che è l’ospite d’onore in tutti i convegni della domenica. Se interessa una politica che disarmi l’eventuale guerra tra anziani e giovani dobbiamo prendere di petto la questione del precariato. Per esempio le norme sul lavoro a tempo determinato. Non si può importare in Italia una delle regole d’oro della globalizzazione: pagare il lavoro a prezzi orientali, vendere le merci a prezzi occidentali».

Che ne pensa del manifesto di Rutelli e del centrosinistra di “nuovo conio”?
«Intanto, non si può non notare che il documento di Rutelli comincia con un attacco al governo. Poi presenta uno schema programmatico piuttosto distante dal programma dell’Unione. E alla fine appare l’espressione alleanze di nuovo conio. Confesso di non capire cosa voglia dire. Perché se l’intenzione è quella di scaricare la sinistra dello schieramento, per sostituirla e fare maggioranza non basta l’Udc. Bisogna andare più in là. Molto più in là».

E delle primarie per il Partito democratico?
«Ho fatto gli auguri a Veltroni, alla Bindi, li faccio a tutti gli altri. Con la pluralità dei candidati si è evitato il plebiscito. Però con questo sistema elettorale di liste che si collegano non è facile evitare una rete feudale. E poi mi sembra una bizzarria un partito che nasce con le primarie, che sono uno strumento per selezionare i candidati per le cariche pubbliche».

Il suo giudizio sul Pd rimane negativo anche dopo la discesa in campo di Veltroni?
«Li ha salvati dal naufragio, ma per quanto mi riguarda non cambia nulla. Anzi, ci sono cose che continuano a sorprendermi».

Per esempio?
«Che alle ultime uscite di Papa Ratzinger, la riabilitazione della preghiera per la conversione degli ebrei e l’affermazione che l’unica vera Chiesa è quella cattolica apostolica romana, ci sia stato un tale silenzio da parte della cultura cattolico democratica. Il Pd si è fatto per fondere la cultura riformista di matrice socialista con quella di matrice cattolica. Ma se il cattolicesimo democratico è silente di fronte a una spinta reazionaria di questa portata, che partito è quello che nasce? Non vorrei dover rimpiangere la Dc».

Non è che sia tanto positiva la situazione a sinistra. L’obiettivo di unificare ciò che oggi è diviso appare alquanto lontano.
«Certo, comporta un processo, anche una lotta politica, perché bisogna che tutti i reparti dei vari eserciti escano dalle trincee, bisogna che tutti si rimettano in discussione e che si guardi alla sinistra che verrà, non semplicemente a quella che è stata».

È quello che sostiene Bertinotti in un articolo della rivista “Alternative del socialismo”.
«È un articolo a doppio taglio. Non condivido il giudizio liquidatorio sulla socialdemocrazia in Europa. Ne avessimo ora, oltre che di Enrico Berlinguer, di Olof Palme e Willy Brandt. Poi non condivido che ci siano due sinistre, una riformista e una di alternativa. Dopodiché si entra nella parte interessante del suo discorso, che è quella che chiama del socialismo del XXI secolo. Lì si può lavorare. Sapendo che non sarà un rapporto bilaterale Prc-Sd, perché in questo campo della sinistra ci sono forze politiche - spero compreso lo Sdi, che ha fatto una scelta infeconda con l’idea di rimettere insieme i pezzi di una diaspora socialista di 15 anni fa con il nome Psi - ma poi c’è anche un pezzo d’Italia che oggi non è rappresentato politicamente e che è in attesa della buona novella».


Pubblicato il: 19.07.07
Modificato il: 19.07.07 alle ore 13.01   
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« Ultima modifica: Settembre 15, 2007, 11:02:36 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 20, 2007, 07:53:41 pm »

Pdci: presenteremo modifiche al provvedimento in Parlamento

Rifondazione: «Accordo da respingere»

Il segretario di Rifondazione: «L'accordo sulle pensioni tende solo a diluire gli effetti della Maroni».

Possibile no in Aula   

 
ROMA - L'intesa sulle pensioni raggiunta a Palazzo Chigi tra governo e sindacati e poi approvata dal Consiglio dei ministri è un primo passo importante verso la nuova riforma pensionistica. Ma il cammino per l'entrata in vigore delle nuove norme è ancora lungo e dovrà affrontare, oltre al giudizio dei lavoratori che Cgil, Cisl e Uil consulteranno nelle aziende, anche le insidie dei passaggi parlamentari. E qui Rifondazione, ma anche il Pdci, avanzano già un netto no ( i primi) e molti dubbi (i secondi). «In questi casi è bene fare un'operazione di verità e sulle modalità dello scalone il giudizio è critico e negativo perchè si tende a diluire gli aspetti della Maroni e non va bene» afferma il segretario del Prc Franco Giordano.

IL NO DEL PRC - Dopo Giordano è un altro esponente del Prc, il senatore di Rifondazione Comunista Claudio Grassi, a dire più nettamente no all'accordo. «Il giudizio che diamo dell'accordo sulle pensioni è negativo. Si tratta di una intesa in netto contrasto con il programma dell'Unione una proposta che, in pratica, dilaziona lo scalone di Berlusconi in quattro anni». Spiega Claudio Grassi: «Al posto dello scalone abbiamo gli scalini, cioè ciò che abbiamo sempre detto che non avremmo mai accettato». Ciò non significa, prosegue il senatore, «non apprezzare la resistenza opposta da Rifondazione Comunista e dalla Fiom contro le proposte dei settori moderati della maggioranza di governo, ma ciò che conta è il senso generale dell'intesa e dobbiamo riconoscere che il governo si è piegato ai diktat arrivati negli ultimi giorni da Draghi, dalla Bonino e della Confindustria». Per Grassi «dobbiamo evitare di commettere l'errore fatto con la legge Finanziaria, quando non abbiamo riconosciuto, fin da subito, che non andava bene». E conclude: «Questo accordo non va bene e va respinto. Rifondazione Comunista deve dirlo in modo chiaro».
 
PDCI: VIA A MODIFICHE - Più drastica la reazione dell'altro partito della sinistra radicale, il Pdci. «Mi riservo di valutare testi precisi e non solo note di agenzia - ha detto il segretario Oliviero Diliberto -, ma non nascondo che a una prima valutazione la delusione sembra grande. Appare abbastanza chiaro che il governo sembra aver ceduto alle indebite pressioni del governatore della Banca d'Italia, di Confindustria, e all'esplicito ricatto della parte conservatrice della nostra coalizione, fino alla farsa delle finte dimissioni di Emma Bonino».
A questo punto il Pdci si è detto pronto a presentare modifiche al provvedimento quando verrà discusso in Parlamento.

L'OPPOSIZIONE - Decisamente negativo, invece, il giudizio che arriva da Maurizio Sacconi, di Forza Italia, già sottosegretario al Lavoro nel governo Berlusconi. Per l'esponente azzurro l'accordo segna l'ennesima vittoria della sinistra politica e sindacale. Si tratta di un «regresso - ha spiegato in un'intervista al Gr3 - rispetto alla riforma che noi abbiamo realizzato e l'Italia è l'unico paese che invece di alzare l'età pensionabile la riduce». «L'intesa - ha detto ancora Sacconi - è, non a caso, con il solo sindacato. Alla faccia della concertazione: tutte le altre associazioni sono state escluse e ciò la dice lunga a proposito della visione classista della società che caratterizza questo governo».

20 luglio 2007
 
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