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Autore Discussione: MARTA DASSU'. -  (Letto 40702 volte)
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« inserito:: Novembre 21, 2010, 11:43:55 am »

21/11/2010

Il declino paradossale della politica estera
   
MARTA DASSU'

Perché la politica estera non interessa più? I giornalisti televisivi sostengono di perdere una quantità di ascolti quando parlano di problemi internazionali. Io vorrei evitare, scrivendo di politica estera, di fare perdere lettori alla Stampa.

E quindi cercherò di scrivere di cose internazionali come se fossero interne: in realtà lo sono. Prendiamo le scelte tedesche in Europa. Il modo in cui Angela Merkel - fino a ieri chiamata Mutter (mamma) dalla stampa popolare - sta gestendo la crisi del debito sovrano, non è per nulla materno. Perfino i tedeschi cominciano a lamentarsi: due giorni fa, Handelsblatt ha scritto che la Cancelliera sta imponendo condizioni così punitive ai Paesi in deficit da rischiare un effetto Versailles. Allo stesso modo della Germania, dopo la pace punitiva del 1919, i Paesi più deboli dell’euro potrebbero rispondere con un’ondata nazionalista. In questo caso rivolta contro Berlino.

Perché ci interessa - o ci deve interessare? La ragione, in questo caso, è ovvia: tutto ciò che riguarda l’euro è per definizione anche un nostro problema. Oggi guardiamo allo scarto fra titoli tedeschi e italiani come prima guardavamo al rischio di un attacco nucleare: è una questione di sicurezza essenziale.

La sicurezza, nell’epoca del dopo Guerra fredda, significa anzitutto solidità economica: ne accenna il nuovo Concetto Strategico della Nato, appena approvato a Lisbona. Al Consiglio europeo di dicembre, fra due settimane, verrà varata una riforma delle regole di gestione dell’euro che ci condizionerà fortemente. Ma che abbiamo in parte contribuito a scrivere e a modificare. A scriverle perché in fondo continuiamo a credere nell’antica regola aurea della politica europea dell’Italia: un vincolo esterno ci serve. A modificarle perché siamo riusciti a ottenere un’interpretazione complessiva di ciò che va inteso come sostenibilità di un Paese: non solo il criterio nudo e crudo del debito pubblico (il vincolo esterno sarebbe diventato suicida) ma anche il livello di risparmio privato, la salute del sistema bancario e così via.
Questo esempio, lo ammetto, è però troppo facile. Da parecchi decenni, infatti, la politica europea non è più una politica estera classica. E’ piuttosto, secondo una definizione ormai molto usata, una politica «intra-domestica».

Proviamo allora a guardare non all’Europa ma ai grandi equilibri - o meglio squilibri - globali. Nel giro di qualche giorno il G20 di Seul prima e il vertice di Lisbona poi hanno dato due messaggi opposti. A Seul, Cina e Germania, le grandi economie in surplus, si sono trovate dalla stessa parte nella loro critica agli Stati Uniti. A Lisbona, il patto Europa-America, da più di mezzo secolo imperniato sul rapporto fra Berlino e Washington, è stato rilanciato da un Obama reduce dal lungo viaggio asiatico. E il mondo euro-atlantico ha tentato di ancorare Mosca, capendo, con qualche ritardo, che l’altra pace punitiva del secolo scorso - quella che gli occidentali hanno somministrato all’Urss in fase terminale, dopo averla sconfitta nella Guerra fredda - non è convenuta granché.

Qual è il segno principale dei tempi, allora? La divergenza fra Berlino e Washington sul modo di lasciarsi alle spalle la crisi economica (la Germania come Cina d’Europa), la tentazione asiatica degli Stati Uniti (Obama come primo presidente dell’America Pacifica) o il rilancio atlantico ed europeo a Lisbona, con l’apertura alla Russia?

Posso certamente sbagliare, ma continuo a pensare che la relazione fra Paesi occidentali abbia ancora tempo davanti a sé. Per quanto decisivo sia il peso della Cina, è difficile credere che Pechino possa diventare l’interlocutore preferenziale: per la Germania o per l’America. Ma il «segno» dei tempi è che le alleanze internazionali sono comunque meno solide e meno cogenti di prima. Il gioco è diventato più libero.

Il punto è che si tratta di una libertà solo apparente: ai condizionamenti economici esterni si aggiungono nuovi tipi di pulsioni e condizionamenti interni. Che complicano la vecchia «foreign policy». Nel caso degli Stati Uniti, è la polarizzazione estrema della dinamica politica a pesare negativamente: il rapporto di Obama con la Russia è ostaggio di un Congresso che aborrisce accordi bipartitici. Nel caso della Germania, il peso di vincoli interni (dalle sentenze della Corte Costituzionale alla fragilità della coalizione di governo), o sentiti come tali, spiega molte delle scelte di Angela Merkel. Che da europee diventano nazionali.

E arrivo così alla conclusione a cui non avevo pensato. Che la politica estera interessi poco, dopo tutto, è normale. Perché quello che conta veramente è l’incontro/scontro, più veloce e diretto di quanto sia mai stato, fra i riflessi domestici di un numero crescente di attori. Il declino della politica estera è il paradosso dell’epoca globale.

Con questo articolo Marta Dassù, direttore della rivista Aspenia, comincia la sua collaborazione con «La Stampa».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8113&ID_sezione=&sezione=
« Ultima modifica: Febbraio 05, 2011, 09:41:16 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 14, 2010, 09:50:26 pm »

14/12/2010 - LE IDEE

Usa e Cina le potenze riluttanti

MARTA DASSÙ

Roma, Pechino, New York e ritorno. La tentazione è quella che vi potete immaginare. Di scambiare dei terminal per degli equilibri internazionali: l’aeroporto di Norman Foster, nella capitale cinese, come simbolo del nuovo secolo asiatico; JFK, a New York, quale erede appannato del secolo scorso, il secolo occidentale.

E Fiumicino, ahi Fiumicino, come caotico ritorno al futuro: dall’Atlantico al Mare Nostrum. Se le cose fossero proprio come dicono gli aeroporti - la Cina trionfante, l’America declinante, l’Italia stagnante e simbolo della divisione Nord-Sud nel cuore dell’euro - dovremmo stare tutti molto attenti: i precedenti della storia, infatti, indicano che non è mai stato facile digerire simili rimescolamenti del potere internazionale. Se la Cina fosse la Germania guglielmina di fine Ottocento, e se gli Stati Uniti fossero l’Impero Britannico, rischieremmo una guerra. Ma le cose stanno proprio così? Organizzare un colloquio alla Scuola di Partito di Pechino è un’esperienza istruttiva. Perché la Cina trionfante di Norman Foster appare, in realtà, una potenza riluttante. Un Paese ancora concentrato su difficoltà domestiche che non saranno facili da superare - il problema della coesione sociale, il controllo dell’inflazione, l’invecchiamento demografico - e che non ha ancora deciso quanto e come esercitare le sue nuove responsabilità internazionali. Rispetto agli anni in cui Deng Xiaoping predicava il «basso profilo» in politica estera, l’atteggiamento della Cina è diventato più assertivo nel cortile di casa; ma non fino al punto di dichiarare una dottrina Monroe in Asia Orientale. Sul piano globale, Pechino vede la politica estera con le lenti della geo-economia: materie prime, energia, controllo di alcuni porti nodali per le vie commerciali. In Africa, in America Latina, nel Mediterraneo. Per una leadership confuciana, prima che comunista, la cui caratteristica primaria è comunque il pragmatismo, la politica estera è quello che appare: uno strumento essenziale per garantirsi le condizioni dello sviluppo economico. Di qui una visione globale in parte mercantilista e in parte opportunista. Poi si vedrà. Ma l’istinto, anche negli scenari più fiduciosi sulla potenza futura della Cina, non è quello dell’Impero estroverso, che estende il suo modello in giro per il mondo. L’istinto è l’Impero di Mezzo: è il mondo, semmai, che verrà attirato dalla Cina. Ammesso che la crescita economica non conosca gli intoppi che parecchi prevedono.

Prendiamo adesso l’America declinante: non esiste concetto più distante dalla percezione tradizionale che gli americani hanno del proprio destino. Come nazione dal «destino manifesto», l’America è abituata a credere nel progresso; la paura di non farcela è l’altra faccia di questa stessa medaglia. L’istinto, dai Padri Fondatori in poi, è di reagire. Sta cambiando qualcosa? Quando gli Stati Uniti parlano di un mondo «multi-polare», riconoscono i limiti del potere di un singolo Paese, il loro incluso; ma sono comunque convinti che sia l’America a dovere esercitare una leadership. L’ultimo numero di Foreign Affairs, la rivista storica dell’élite internazionalista, è costruito su un solo concetto: basta con questo dibattito sul declino, o finiremo per procurarcelo sul serio. Dopo la crisi finanziaria del 2008, la tesi è che il rilancio della leadership americana sarà possibile solo ricostruendone le basi interne, anzitutto economiche. Ridurre il debito pubblico oggi diventa così condizione di un nuovo primato domani. Un ripiegamento parziale dell’America, rispetto agli impegni internazionali degli ultimi decenni, è insomma prevedibile. Ma non va letto come una rinuncia. O come un ritorno, impensabile, all’isolazionismo delle origini.

Se la Cina è per ora una potenza riluttante e l’America lo è temporaneamente (ri)diventata, cosa ne sarà della famosa «governance» internazionale? Ammettiamo pure, ha detto un partecipante cinese al colloquio di Aspen a Pechino, che la crescita di potere di un Paese ne aumenti anche le responsabilità internazionali; la Cina non ha nessuna intenzione di pensarsi come «potenza irresponsabile». Ma chi definisce le responsabilità? Il rischio, con Cina e Stati Uniti entrambi ripiegati all’interno e al tempo stesso forzati a coesistere, è quello di un vuoto di potere conflittuale. Il rischio è l’incertezza: su di sé e sulle mosse reciproche.

E’ di fronte a una prospettiva del genere che l’Europa stagnante potrebbe trovare una sua ragione di essere. In teoria e nella pratica dell’ultimo anno, l’Europa appare ancora più risucchiata dalla crisi dell’euro; e quindi marginale rispetto alle tensioni o distensioni cino-americane. Che il cosiddetto G-2 decolli o si frantumi (si vedrà nel gennaio prossimo, con la visita di Hu Jintao negli Stati Uniti), l’Europa sembra destinata a rimanere alla finestra, più che sedersi allo stesso tavolo. Non è necessariamente così. Seduti al tavolo a tre della Scuola di Partito a Pechino, con cinesi e americani, gli europei hanno parlato e pesato.

Soprattutto, è stata la presenza degli europei a costringere Cina e Stati Uniti a uno scambio diverso: meno concentrato sulle rivalità bilaterali ma anche meno spiazzato dalla latitudine di un forum alla G-20. Certo, è stato soltanto un esperimento politico-intellettuale; ma per quello che può contare, l’impressione è che questo tipo di Europa, a condizione che risolva la propria crisi interna, servirebbe. L’Europa come network? Non sarà una grande teoria, su come governare il mondo di oggi. Ma è una convinzione possibile: l’Europa come fattore unificante, più che come forza a sé stante, troverebbe uno spazio nei terminal del XXI secolo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8197&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 16, 2011, 11:05:55 am »

16/1/2011
 
Tunisi lancia una sfida all'Europa
 
 
MARTA DASSU'
 
La tentazione è di leggere la fine di Ben Ali come un caso di ritorno al futuro: dopo tutto, anche il padre della Tunisia indipendente, Habib Bourghiba, era stato messo da parte attraverso una sorta di coup costituzionale, medico-militare. Questa volta, i militari che occupano le strade agiscono in nome di un presidente temporaneo, il presidente del Parlamento Mebazaa, come annunciato dalla Corte costituzionale; ma la sostanza, dicono molti mentre si moltiplicano le violenze, è che la Tunisia non sta diventando una democrazia.

La scommessa è che invece si stia andando in quella direzione: non solo un cambio di potere, garantito dall’esercito, ma un futuro cambio di regime, innescato dalla protesta di piazza di una generazione ventenne che ha i numeri dalla sua (è più del 40% della popolazione) ma che è senza lavoro e senza futuro.

Le prossime settimane diranno se la rivolta di Tunisi verrà ricordata come l’ennesima occasione perduta di giovani generazioni arabe (e persiane) che non mancano certo di coraggio; o se al contrario avrà cambiato le stelle sui cieli del Maghreb. La risposta farà tutta la differenza. Non solo per la Tunisia, anche per il potenziale contagio di regimi - dalla Libia fino all' Egitto - molto diversi fra loro, ma ugualmente incapaci di gestire una vera successione, questione-chiave dello Stato moderno.

La sfida che viene da Tunisi è anche una sfida per noi, gli europei. Da anni, facciamo finta di favorire la democrazia. Nei fatti, abbiamo puntato quasi tutte le nostre carte sulla stabilità, ritenendo che i vari Ben Ali, Mubarak, Gheddafi fossero il male minore rispetto alla minaccia integralista, garantissero buoni affari economici e ci aiutassero a controllare l'emigrazione. Questo approccio europeo e non solo italiano ha prodotto temporanei vantaggi; ma è stato un gioco al rinvio, che sta arrivando ai suoi limiti. Una politica considerata realista appare ormai un’illusione.

Il flop dell’Unione per il Mediterraneo, varata su iniziativa di Nicolas Sarkozy nel 2008, dimostra che anche l’Europa non può sfuggire al dilemma che si è già posta l’America. Un dilemma ben sintetizzato in questa affermazione: «Per sessant’anni, gli Stati Uniti hanno perseguito la stabilità a scapito della democrazia in Medio Oriente, e non abbiamo ottenuto né l’una né l’altra». La citazione è tratta da un discorso ufficiale americano fatto al Cairo: non da Barack Obama, bensì da Condoleezza Rice nel giugno del 2005. Il guaio è che anche la politica di promozione della democrazia tentata da Washington negli ultimi anni - con la forza o con i discorsi, con gli incentivi o con le sanzioni - non ha avuto successo.

Prova ne sia la dura frustrazione con cui Hillary Clinton ha parlato mercoledì scorso in Qatar, subito dopo l’esplosione di un’altra crisi politica, quella del governo libanese: «In troppi luoghi e in troppi modi - ha detto senza complimenti a una platea di diplomatici e businessmen arabi - le fondamenta della regione stanno andando a picco». Perché, ha continuato, senza offrire una speranza ai giovani, senza colpire la corruzione e senza vere riforme di sistemi politici autoritari, un nuovo Medio Oriente non ci sarà. Con questa sua lista ovvia e brutale - che si potrebbe senza sforzo applicare anche alla Tunisia -, il segretario di Stato americano ha messo i governi della regione di fronte alle loro responsabilità. Ma facendolo, ha anche evocato i limiti dell’influenza americana.

Quel che vale per l’America sul fronte orientale del mondo arabo, vale per l’Europa sul suo versante occidentale, fino al Nord Africa. La differenza, tuttavia, è che mentre gli Stati Uniti potrebbero in teoria contemplare un parziale disimpegno dal Medio Oriente e dal Golfo (e in parte ciò sta avvenendo, con il ritiro dall’Iraq), l’Europa non può certo permettersi di venire via dal Mediterraneo. Perché ne fa parte. Perché esiste un differenziale demografico che non farà certo diminuire il problema migratorio; per ragioni di dipendenza energetica che l’America comincia a sentire di meno nel Golfo (dove le importazioni americane sono attorno al 12%).

Fra tentazione e scommessa, violenza e speranze, la lezione che viene da Tunisi è comunque chiara, per l’Europa: la politica mediterranea non può restare una scatola vuota. Dal 1989 in poi, l’Ue si è concentrata essenzialmente verso Est; dal 2008 siamo stati interamente assorbiti dalla crisi economica. Dal 2011 converrà guardare di nuovo verso il Mediterraneo. Ma con occhi diversi: senza una posizione chiara e unitaria sulla Turchia - Paese che ha riscoperto la sua centralità in Medio Oriente e che rischiamo di «perdere» - e senza riuscire a parlare alle nuove generazioni, invece che ai vecchi autocrati, l’Europa sarà al tempo stesso vulnerabile e periferica. La peggiore combinazione possibile.
 
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8299&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 31, 2011, 11:31:27 am »

31/1/2011

La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi)


MARTA DASSÙ

La crisi dell'Egitto è, per i politologi, l'equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti. Nessuno l'aveva prevista, in un ambiente che vive di previsioni (sbagliate) sui «dieci scenari da evitare nel 2011». Naturalmente si dirà che non è così, perché in un numero speciale della rivista del Centro di Informazione sul Nulla, la successione a Hosni Mubarak era stata segnalata come una tappa critica. Ma la verità è esattamente questa: anche i politologi, come gli economisti, fanno una enorme fatica a immaginare i tempi e i modi in cui si manifesterà una crisi. Non è una novità, certo. Pochissimi avevano previsto il crollo dell’Urss. La cosa mi è tornata in mente quando Barack Obama ha evocato, nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione, lo choc dello Sputnik. Per essere onesti, non mi è sembrata una grande trovata: mezzo secolo dopo, la sindrome Sputnik evoca soprattutto la fragilità dell’Urss, più che la solidità dell’America. In ogni caso, dal lancio dello Sputnik fino al crollo del Muro di Berlino, ben poche analisi avevano anticipato lo scenario dell’implosione del sistema sovietico. Anche il 1979 iraniano non era stato previsto da molti; soprattutto, non era stato previsto che le proteste del partito comunista e dell’élite borghese-intellettuale dell’Iran, combinate con la rabbia degli emarginati, producessero il trionfo degli ayatollah. Oggi, il precedente iraniano viene applicato all'Egitto; la previsione dominante, infatti, è che il crollo del regime di Mubarak preparerà l'avvento delle forze islamiche, travestite da Fratelli musulmani. Ma possiamo davvero leggere il futuro del maggiore Paese del mondo arabo con la testa rivolta al precedente persiano?

Questo è un altro bel guaio, in effetti: la tentazione, nelle analisi di politica internazionale, è sempre di ragionare sulla base della crisi precedente. La guerra in Iraq è stata gestita con in mano il manuale dell’intervento in Kosovo del 1999, cosa che certo non è stata di aiuto. La strategia di uscita dall’Afghanistan tiene conto del precedente iracheno, sebbene l'Afghanistan sia un teatro molto diverso dall’Iraq. E così via, con una coazione a ripetere che è l'altra faccia della medaglia della scarsa capacità di prevedere.

Si potrebbe obiettare, a questa visione pessimistica, che qualcuno che sa prevedere c'è, ma non ce ne accorgiamo: qualche professore che non viene invitato a Davos, qualche specialista che non pubblica mai sul Financial Times. E' vero. E qui si torna al famoso dibattito nato di fronte agli errori di valutazione compiuti sull’Iraq: esiste davvero la voglia di ascoltare una expertise che non confermi le scelte politiche? C'è anche il caso dei «dissidenti», i quali credono per definizione nel crollo del regime che li opprime. Peccato che venga data loro ragione solo quando il famoso crollo si verifica davvero. Fino a quando un regime viene sostenuto per ragioni di realpolitik - e nel caso dell’Egitto le ragioni erano e rimangono decisamente importanti: il Paese centrale del mondo arabo, in pace con Israele e alleato degli Stati Uniti - i dissidenti sono soprattutto gente scomoda.

Conclusione? Nello stesso modo in cui la crisi finanziaria del 2008 ha generato un dibattito fra gli economisti, la crisi mediorientale del 2011 dovrebbe generare una riflessione fra i politologi. E' indubbio che il problema del cambiamento politico e sociale sia in ogni caso difficile da leggere e da interpretare. Ma questa scarsa capacità di prevedere ha molto a che fare, io credo, con la nostra abitudine a studiare i regimi, più che i Paesi. Se decidessimo che anche i Paesi contano - la gente, non solo i potenti - le nostre analisi sarebbero migliori, probabilmente. E con loro, anche scelte di politica estera per troppi anni rivolte a sostenere regimi amici, ma nemici della loro gente.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 05, 2011, 09:41:43 am »

5/2/2011

Una partita cruciale per tutti noi


MARTA DASSU'

A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro. Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.

Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.

Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.

Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.

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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 15, 2011, 10:55:58 am »

15/2/2011

Per l'Europa la sfida è sui valori


MARTA DASSÙ

Quando il ministro Maroni lamenta che l’Europa non sta aiutando l’Italia a fronteggiare il flusso di emigrati dalla Tunisia, dice una cosa vera. Una politica europea dell’immigrazione esiste, sulla carta. Così come esiste un’Agenzia, Frontex, incaricata di coordinare missioni congiunte degli Stati nazionali per il controllo delle frontiere esterne dell’Ue. Ma i meccanismi decisionali europei sono lenti. E ciò che definiamo una politica comune sono in realtà dei principi generali, cui dovrebbero ispirarsi gli Stati nazionali: una vera e propria politica europea, in materia di immigrazione, non c’è. Ogni Paese continua a scegliere quanti e quali emigranti ammettere, come e quando attribuire loro la cittadinanza e come controllare i flussi irregolari, pur rispettando regole comuni minime (a volte contestate dal governo italiano e da quello francese, peraltro) in materia di espulsioni.

Se guardiamo ai dati, l’Italia ospita un numero di rifugiati e di richiedenti asilo per abitante inferiore a quello dei Paesi del Nord Europa.

Tuttavia, per la sua posizione geografica, è molto più esposta della maggior parte dei suoi partner a shock migratori periodici (i flussi dai Balcani negli Anni 90, quelli da Tunisia, Egitto e Libia nell’ultimo decennio). In un’Europa che funzionasse, esisterebbero anche meccanismi concreti di burden sharing, di condivisione degli oneri. Così non è.

Va aggiunto un secondo punto importante: per riuscire a gestire i fenomeni migratori dal suo «estero vicino» - la riva Sud del Mediterraneo - l’Europa avrebbe bisogno, oltre che di Frontex, di una politica estera comune. Anche qui: in teoria, una politica estera comune dell’Ue esiste. Tanto più dopo che il Trattato di Lisbona ha portato alla creazione di un servizio diplomatico europeo e di un «quasi» ministro degli esteri dell’Ue, Catherine Ashton. Nei fatti, di fronte all’ondata di proteste che ha investito il Maghreb, sono state Francia, Germania e Gran Bretagna a produrre (in ritardo) un comunicato congiunto. Lady Ashton, che ha finalmente svolto ieri una missione in Tunisia, è più o meno sparita nella fase acuta della crisi.

Si potrebbe anche sostenere che questa preminenza degli Stati nazionali, rispetto alle istituzioni comuni, non è tipica solo della politica estera o della sicurezza interna. Negli ultimi anni, il Consiglio europeo (l’organismo in cui siedono gli Stati) si è rafforzato, così come il Parlamento di Strasburgo. Mentre la Commissione è molto indebolita, perfino nelle materie economiche che sono il cuore dell’Unione. Nel frattempo la Germania, come Paese più solido dell’area dell’euro, ha cominciato ad esercitare senza i vecchi imbarazzi la sua leadership continentale, con l’appoggio (subalterno) di una Francia che vede nel legame con Berlino l’unico modo per mantenere uno status di Grande in Europa. La risposta alla crisi dell’euro e le nuove forme di «governo» dell’economia che si stanno discutendo conducono, se viste in un’ottica politica, a questa conclusione: la Germania, per restare europea, ha bisogno di un’Europa tedesca. Il che, uscendo dalle formule, significa che Berlino ha messo sul tavolo uno scambio: la Germania salverà l’euro solo a condizione che i Paesi dell’area euro adottino a loro volta la filosofia economica tedesca. Giusto o sbagliato che sia.

Se applichiamo la stessa logica alle questioni dell’immigrazione, appellarsi all’Europa in quanto tale serve a poco. Così come scaricare su Bruxelles responsabilità cui non può assolvere senza il consenso degli Stati nazionali. Servirebbe di più chiedere a Germania e Francia (con l’aggiunta, in questo caso, di Spagna e Gran Bretagna) di definire insieme all’Italia un atteggiamento comune sulla stabilizzazione del Maghreb; inclusa la gestione dei flussi migratori. Anche perché, come nelle crisi passate, l’onda che arriva da Tunisi rifluirà in parte su altri Paesi europei, dopo avere investito l’Italia.

Qualche tempo fa, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, David Cameron ha parlato della vulnerabilità delle società europee di fronte ai fenomeni migratori. Dopo gli sbarchi a Lampedusa, è un discorso da rileggere. Perché il giovane premier inglese ricorda fra l’altro una cosa importante, sebbene ovvia: la sfida dell’immigrazione è prima di tutto una sfida identitaria, per le nostre società. Obbliga insomma a interrogarci di nuovo sui valori che ci uniscono. E che uniscono gli europei fra di loro.

Siamo in una fase in cui la politica interna sembra impedirci di ragionare in questi termini; le sfide esterne ci costringeranno a farlo.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:11:22 pm »

3/3/2011

Il pericolo è un altro Kosovo

MARTA DASSÙ

La discussione italiana sulla Libia appare sempre un po’ fuori tempo. Siamo partiti troppo lenti, sperando nello status quo. Si è detto che Gheddafi non era come Mubarak: infatti non lo è, è ben peggiore. Ci siamo poi concentrati sul cosiddetto esodo biblico dal Maghreb: e finalmente cominciamo a preoccuparci delle sue conseguenze umanitarie. Infine, mentre c’è aria di guerra civile e sono state firmate le prime sanzioni dell’Onu, abbiamo aperto un «grande dibattito» sul Trattato bilaterale italo-libico: un Trattato che non avrebbe dovuto essere firmato e che è stato ormai superato dagli eventi (qualunque sia l’artificio giuridico per sospenderne l’applicazione).

Insomma, stiamo perdendo di vista il punto cruciale. Il punto cruciale è che Gheddafi non sta mollando e non lo farà. Del resto, la prospettiva del ricorso al Tribunale internazionale rende più difficile di prima una via di uscita negoziata (esilio?) col raiss di Tripolitania. Nel frattempo, la Libia è spezzata in due: la Cirenaica da una parte, con il governo provvisorio di Bengasi, e Tripoli dall’altra. In mezzo, quei millecinquecento chilometri di costa sabbiosa su cui avrebbe dovuto essere costruita la famosa autostrada finanziata dall’Italia. E ai lati una folla di rifugiati, che preme verso la Tunisia e in parte verso l’Egitto. Una bomba umanitaria in piena regola, che si somma alle morti già avvenute con la repressione interna.

Uno stallo del genere, con tutti i pericoli che si porta dietro, era prevedibile. Il comportamento di Gheddafi non è poi molto diverso da quello di Milosevic, altro dittatore amico dell’Italia e che alla fine (1999) abbiamo bombardato, assieme agli impianti di Telecom a Belgrado. Il punto è che la gestione internazionale della crisi libica rischia di entrare in una spirale molto simile: dalle sanzioni economiche ai corridoi umanitari, fino ai bombardamenti militari. Siamo preparati a un esito del genere? La sensazione, guardando agli interventi occidentali degli ultimi due decenni, è che questo tipo di guerre moderne nascano appunto così: come guerre non dichiarate e forse neanche volute, ma che diventano inevitabili come ultimo anello di una catena di azioni-reazioni. Quale Paese in prima linea, molto più esposto di altri, l’Italia ha interesse a evitare che la risposta internazionale alla crisi libica ricalchi le stesse dinamiche. Perché l’esito sarebbe già scritto: finiremo per bombardare Tripoli.

Se americani ed europei decidessero di colpire sedi e strumenti del potere di Gheddafi, come si comincia a chiedere da Bengasi, le implicazioni sarebbero almeno tre. Primo: diventeremmo alleati di una parte in conflitto, così come lo diventammo a suo tempo dei guerriglieri kosovari-albanesi. E’ una scelta politica che siamo intenzionati a compiere? Non è facile rispondere, anche perché non è chiaro, in realtà, come sia composta la galassia assai frammentata dell’opposizione cirenaica. Secondo: l’appoggio cinese e russo alla prima risoluzione dell’Onu è stato essenziale; ma è escluso che Pechino (e forse Mosca) possano votare a favore di un’azione militare, che sarebbe quindi essenzialmente americana ed europea. Dopo aver bombardato, gli occidentali sarebbero comunque oggetto del risentimento della popolazione locale: la gratitudine dei popoli liberati è merce rara.

Terzo: l’uso della forza nei conflitti interni agli Stati non si esaurisce con il primo intervento. Crea anzi le premesse di una lunga presenza, militare e politica, trasformando nei fatti la «responsabilità di proteggere» - ossia un intervento motivato da ragioni umanitarie - in un semi-protettorato. A dodici anni dall’intervento in Kosovo siamo sempre lì, con i nostri soldati e i nostri soldi. E’ un onere che l’Italia e l’Europa sono pronte ad assumersi, in Libia?

Vista l’importanza di queste conseguenze, tentare prima strade diverse è ragionevole - ammesso che la violenza contro il popolo libico non torni a crescere rapidamente. Una parte della diaspora libica, ad esempio, sostiene che nella cerchia ristretta del Colonnello esistano ancora interlocutori possibili, pronti a fare uscire di scena Gheddafi e ad avviare trattative con il governo provvisorio. Un golpe interno, con appoggi internazionali, sarebbe in ogni caso preferibile - almeno come modo per liberarsi del raiss di Tripoli - a un intervento esterno. Nel frattempo, l’Italia dovrà comunque rafforzare gli sforzi umanitari, cercando di garantirsi un appoggio più concreto dell’Europa. Dovrà anche vagliare, con Stati Uniti e Lega Araba (che ha aperto all’Unione africana), l’opzione di una «no fly zone»: non come primo passo verso bombardamenti militari su più larga scala, ma per evitarli, impedendo una repressione tale da costringere a un vero e proprio intervento militare.

In conclusione: i costi e le implicazioni delle decisioni che stiamo prendendo devono essere chiari. Troppo spesso, di fronte alle crisi passate, l’Italia è stata trascinata - a volte nella giusta direzione, a volte meno - dalla spirale degli eventi. In questo caso l’Italia, viste le sue responsabilità particolari di fronte alla Libia, potrà tentare di influire sulle scelte collettive. Ricordando il punto sostanziale: a lungo termine, l’unica vera condizione per la stabilità della Libia è che sia retta dalla propria gente, invece che dai dittatori locali o dalle vecchie potenze coloniali.

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« Risposta #7 inserito:: Marzo 11, 2011, 04:31:51 pm »

11/3/2011

Doppia coppia contro l'Ue

MARTA DASSÙ

C’è una doppia coppia al cuore dell’Europa di oggi. Sulla gestione economica della zona dell’euro, la coppia è fatta da Berlino e Parigi: ultimo esempio il «Patto di competitività», in discussione a Bruxelles.

Sulle questioni di politica estera la coppia è invece composta da Parigi e Londra: ultimo esempio la gestione della crisi libica, con l’accelerazione francese (e l’assenso tacito inglese) sul riconoscimento del governo di Bengasi. C’è chi dirà: so what? E allora? Dopo tutto - questa l’argomentazione degli amici della doppia coppia - l’Ue ha sempre avuto bisogno, per funzionare, dell’asse franco-tedesco. Quanto alla politica estera, c’è poco da scherzare: Francia e Gran Bretagna sono le uniche due potenze militari rimaste, con armi nucleari e un seggio all’Onu. E quindi prendere o lasciare. Anche da parte dell’Italia, Paese che ha poco da dire o da offrire - aggiungono in modo malevolo gli amici della doppia coppia - ma che soffre in compenso di un complesso storico di «esclusione».

L’Italia avrà anche un complesso di esclusione: gran parte della nostra politica estera, da Cavour in poi, è stata dominata dal tentativo di guadagnarsi una sedia al tavolo dei Grandi (la politica del sedere, nella definizione scherzosa dell’ambasciatore Quaroni). Ma il problema non è l’Italia, per una volta. Il problema è che la doppia coppia non funziona.

Guardiamo prima alla gestione dell’economia europea. Qui la coppia è solo di bandiera. Il Paese decisivo è la Germania. Dopo notevoli esitazioni di fronte alla crisi greca, Angela Merkel ha messo sul tavolo una sorta di grande trade-off: la Germania resterà europea (difenderà l’euro) solo se l’Europa diventerà tedesca, ossia accetterà la disciplina finanziaria e attuerà le riforme che hanno fatto la forza del modello Deutschland. In realtà, è escluso che il Patto di competitività produca per magia un’Europa tedesca; è molto dubbio che le ricette proposte (in assenza di strumenti come gli eurobonds) favoriscano il rilancio della crescita su scala continentale; e resta probabile una futura ristrutturazione del debito in Grecia o in Irlanda. Ma Angela Merkel, in un anno elettorale, ha bisogno di coprirsi le spalle con la propria opinione pubblica. Lo fa con l’appoggio di Parigi: Nicolas Sarkozy ha appunto deciso che spalleggiare la Germania è l’unico modo per tutelare la centralità della Francia in Europa, che tuttavia - così facendo - centralità non è più. Lo conferma la rilassatezza con cui Londra guarda alla nascita di un’Europa a due velocità, con un’eurozona più integrata a guida tedesca.

Per David Cameron, a differenza che per Tony Blair, il problema britannico non è di condizionare la zona euro; è di restarne, più semplicemente, out.

La Gran Bretagna vuole invece essere «in» sulla politica estera europea. Il problema è che sia Parigi che Londra vedono la politica estera comune come il risultato di accordi bilaterali (nella Difesa, anzitutto), di posizioni conquistate nel Servizio diplomatico creato dal Trattato di Lisbona (dove il peso di francesi e inglesi è preponderante), di decisioni nazionali precostituite. Prendiamo il caso limite di ieri. A poche ore dal vertice europeo sulla Libia, e mentre lady Ashton escludeva di potere assumere una posizione del genere a nome dell’Ue, la Francia ha deciso di riconoscere per conto suo il governo provvisorio di Bengasi quale unico legittimo rappresentante di un Paese spezzato a metà. Lasciamo un momento da parte il merito e guardiamo al metodo: il metodo è uno schiaffo a qualunque idea di concertazione europea. Arrivando «prima», e scommettendo sullo scenario del dopo-Gheddafi, Parigi ha puntato a garantirsi vantaggi politici ed economici: l’attivismo francese e inglese a Bengasi ha a che fare anche con le concessioni petrolifere, come l’Italia ha capito con qualche ritardo. La forzatura francese, d’altra parte, ha bruciato qualunque cautela sulla composizione del Consiglio provvisorio libico. Con il risultato di imporre una scelta secca al resto dell’Europa: la convergenza sulla posizione di Parigi o l’assenza di una posizione comune. Niente di nuovo, sembra un’ennesima variazione sul tema dei riconoscimenti (con il precedente, ad esempio, della Croazia).

Chi critica la lentezza con cui l’Europa ha reagito alla crisi del Nord Africa, può leggere in tutto questo un recupero di velocità. Ma è difficile fidarsi troppo dell’istinto di Nicolas Sarkozy in materia, dopo il flop dell’Unione per il Mediterraneo e dopo gli infortuni su Ben Ali. Per il momento, l’Italia ha deciso di fidarsi a metà di Parigi: ha deciso di riaprire il consolato a Bengasi; ha escluso, nelle dichiarazioni iniziali di Franco Frattini, di partecipare a bombardamenti aerei mirati in Libia, apparentemente contemplati dall’Eliseo. Vedremo nelle prossime ore con quale solidità.

Proprio mentre l’Europa stava faticosamente cercando di mettere la casa in ordine, ossia di gestire le conseguenze della crisi dell’euro, l’incendio del cortile di casa tende ancora una volta a dividere, invece che a unire. Difficile concludere, allora, che la doppia coppia funzioni. Troppo guidati da esigenze domestiche, troppo ripiegati su calcoli a breve termine, troppo oscillanti nelle loro reazioni, i Grandi d’Europa giocano una loro partita nazionale. Non riescono ancora a giocare una partita europea.

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« Risposta #8 inserito:: Marzo 19, 2011, 11:01:20 am »

19/3/2011

Libia, conciliare valori e interessi

MARTA DASSU'

La partita è appena cominciata. Si svolge nel nostro cortile di casa. Coinvolge interessi essenziali del nostro Paese, dalle forniture energetiche al controllo dei flussi migratori. Non sarà una partita breve: come dice la sua storia personale, Muammar Gheddafi giocherà una serie di mosse e cercherà di farcela pagare, prima di cedere. Ha cominciato subito, a poche ore dalla Risoluzione con cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha autorizzato «tutte le misure necessarie per proteggere i civili sotto minaccia di attacco in Libia».

E’ la formula standard (tutte le misure necessarie) per il ricorso alla forza: il preludio ad attacchi mirati, non solo a quella «no fly zone» decisa quasi fuori tempo massimo. Come ha risposto il Raiss di Tripoli? Ha dichiarato, attraverso la voce del ministro degli Esteri libico, un cessate-il-fuoco unilaterale, invitando la comunità internazionale a verificarlo sul terreno. La scommessa di Gheddafi è che una mossa del genere complichi le scelte occidentali, gettando una manciata di sabbia nei motori, già accesi, dei bombardieri francesi e inglesi.

Facciamo - per capire meglio le regole della partita e i suoi giocatori - un passo indietro. La decisione di picchiare duro sulle forze del Raiss, prevenendo così un attacco finale a Bengasi, è stata trainata dalla Francia: Nicolas Sarkozy ha deciso di puntare tutte le sue carte sulla caduta del Raiss, per recuperare prestigio domestico e per fare dimenticare i legami fra il suo governo e il regime di Ben Ali in Tunisia. La foga di Parigi ha scosso anche Londra, rimasta su una posizione più cauta; accettata la linea interventista, David Cameron ha cercato a sua volta di smuovere Washington dall’attendismo delle ultime due settimane. Il resto lo hanno fatto le minacce di Gheddafi; quando il Raiss di Tripoli ha annunciato che avrebbe azzerato l’opposizione di Bengasi, Barack Obama ha capito di non potere più esitare. Pena una perdita secca della credibilità degli Stati Uniti, già messa duramente in discussione nel Golfo: l’intervento saudita in Bahrein, senza concertazione con Washington, è stato un campanello di allarme. E’ un’America riluttante, insomma, quella che ha appena deciso, contro il parere dei suoi militari, di intervenire di nuovo in un Paese arabo. Riluttante al punto da lasciare in modo esplicito la «guida» - così ha detto ieri Obama - ai due Paesi europei del Consiglio di sicurezza e a nazioni arabe.

La Germania, da parte sua, ha deciso di restare defilata: l’astensione in Consiglio di sicurezza, insieme a quella di Cina, Russia, India, Brasile, conferma le priorità tutte elettorali di Angela Merkel e dimostra che Berlino non sa o non vuole esercitare una leadership internazionale. Al di là della grande partita sull’euro, la visione tedesca del mondo sembra a tratti mercantilista, a tratti isolazionista. Vicina alla Cina nelle discussioni G-20 sugli equilibri commerciali e monetari; vicina alla Russia sui problemi della sicurezza europea, vicina ad entrambe sulla Libia: Berlino gioca in proprio. L'Italia ha, in questa vicenda, una posizione molto più delicata di quella tedesca. Ha alle spalle il peso della storia coloniale; ha interessi economici in gioco molto più sostanziali; è direttamente esposta alle ritorsioni di Gheddafi; ha molto da perdere, e poco da guadagnare, da una spaccatura fra Tripolitania e Cirenaica. E ha in casa le basi da cui partiranno i raid militari. Sono fattori che dovrebbero spingere il nostro Paese verso l’intervento attivo o verso una posizione passiva?

Una discussione onesta su questo punto - sui costi e benefici di una scelta cruciale di politica estera - sarebbe salutare. Per troppo tempo, siamo stati abituati a ragionare solo in termini di allineamenti: con l’America o contro, con la Nato o fuori, con la Germania o con la Francia, e così via. Oggi, il gioco internazionale è diventato più libero: una condizione che aumenta, con i rischi, anche le responsabilità nazionali. Se ragioniamo in questi termini - gli interessi dell’Italia e le sue responsabilità come Paese democratico - esiste una domanda essenziale a cui rispondere, di tipo real-politico; ed esiste un atteggiamento a cui tendere, di tipo idealistico. La domanda è sempre la stessa: la traiettoria politica di Gheddafi è finita? Ma la seconda risoluzione dell’Onu modifica la risposta: probabilmente sì. Potrà volerci tempo, come è stato nel caso di Milosevic o in quello di Saddam Hussein, ma la fine del Raiss è cominciata. E se è davvero così, l’Italia non ha nessun interesse a lasciare che siano la Francia e la Gran Bretagna a disegnare il futuro della Libia. Una linea di disimpegno alla tedesca, nel nostro cortile di casa, non sarebbe pagante. Del resto, lo scenario peggiore, per l’Italia, sarebbe un Gheddafi apertamente «nemico» ma ancora in sella, con i rischi e i costi (sanzioni petrolifere) della situazione. Anche lo scenario di una guerra protratta fra tribù, con la frantumazione della Libia, sarebbe pessimo per il nostro Paese: avremmo una Grande Somalia appena al di là del Mediterraneo. L’intervento internazionale, per essere utile, dovrà riuscire a evitare il primo scenario senza lasciarsi alle spalle il secondo.

L’atteggiamento a cui tendere è quello richiamato da Giorgio Napolitano, nelle sue parole di ieri a Torino: «Nelle prossime ore dovremo prendere decisioni difficili, impegnative, rispetto a ciò che sta accadendo in Libia… Se pensiamo a ciò che è stato il nostro Risorgimento, innanzitutto come movimento liberatore, non possiamo rimanere indifferenti rispetto alla sistematica repressione di fondamentali libertà e diritti». Per un caso della storia, il 150° anniversario dell’Unità d’Italia avviene nel pieno della crisi libica e 100 anni dopo la spedizione coloniale di Giolitti. Un’occasione giusta per cercare di conciliare, nella politica estera dell’Italia, interessi e valori.

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« Risposta #9 inserito:: Marzo 31, 2011, 06:01:32 pm »

31/3/2011

Due governi decidono per l'Europa

MARTA DASSÙ

Cosa resta dell’Unione europea dopo la crisi dell’euro e nel bel mezzo della crisi libica? Resta molto in campo economico e molto poco in politica estera. Jean Monnet osservava che l’Europa si è costruita grazie alle crisi. Questa legge è stata in fondo confermata dalla risposta all’esplosione del debito sovrano: dopo essere partita lenta di fronte al rischio default della Grecia, l’Europa è comunque arrivata a un nuovo Patto sull’euro. Con i suoi vantaggi e i suoi limiti. Ma si tratta di un passo in avanti.

L’intervento in Libia non sta invece producendo dei progressi nella politica estera comune; anzi, ha dimostrato che l’impianto stabilito con il Trattato di Lisbona - una specie di ministro degli Esteri, con un Servizio diplomatico - non funziona. O è irrilevante. C’è chi sostiene che sia tutta colpa di Catherine Ashton, ormai bersaglio delle accuse più disparate. In realtà, Catherine Ashton è stata scelta apposta dai governi nazionali: apposta per essere, quale Alto Rappresentante della politica estera europea, una «non-entity». La Baronessa inglese sta rispettando questa sua missione. Perché non funziona la politica estera comune? Perché gli Stati europei hanno interessi geopolitici divergenti - o meglio ritengono di averli. Perché i politici usano il terreno internazionale come uno strumento di immagine personale (la «ego-diplomacy», secondo la definizione di Riccardo Perissich). E perché, a differenza di quanto accade in campo economico, non esiste il collante di una moneta unica, non esistono le istituzioni comuni collegate al mercato interno e così via.

È chiaro che anche in economia gli interessi nazionali possono divergere: l’Europa è comunque un ambiente competitivo. Ma prevale - almeno per ora - la sensata convinzione che i benefici dell’appartenenza ad un’area economica integrata siano superiori ai costi. In politica estera non è così. Usiamo la Libia come cartina di tornasole. Per la Francia, colta impreparata dalle proteste in Tunisia e in Egitto, la guerre a Gheddafi è l’occasione per tentare di impostare su basi nuove la propria influenza nel Mediterraneo. Per la Germania, è un’impresa inutile e costosa. Quando la Germania pensa alla propria influenza la proietta verso Est, ha in testa una versione aggiornata della «Mitteleuropa». O la proietta sul piano globale, guardando agli interessi commerciali che la spingono verso l’India e la Cina. Non solo. Nicolas Sarkozy crede ancora - che la cosa sia fondata o meno - nell’uso risolutivo della forza come strumento della grandeur francese. Angela Merkel esprime invece la riluttanza tedesca, prodotto storico del secolo scorso, a usare la forza dove non siano in gioco interessi nazionali vitali o dove non sia in gioco il futuro della Nato (lo era in Afghanistan, non sembra esserlo - ancora - in Libia). La conseguenza è paradossale: è la prima crisi internazionale che vede due Paesi europei (Francia e Gran Bretagna) in prima fila; al tempo stesso, la politica estera e di sicurezza europea ne esce a pezzi.

La tesi di Parigi e Londra, naturalmente, è che non sia così. La loro idea è di agire «per conto» dell’Europa, come uniche potenze rimaste. La percezione degli altri, invece, è che Francia e Gran Bretagna agiscano «al posto» dell’Europa: il che fa una bella differenza. Difficile pensare, ad esempio, che l’accordo franco-inglese del novembre scorso sulla cooperazione militare abbia segnato un progresso dell’Europa della Difesa. È vero che i due Paesi coprono da soli più della metà dei bilanci militari europei; è vero che sono i soli a disporre ancora di armi nucleari e a sedere come membri permanenti nel Consiglio di sicurezza; ma è vero anche che non hanno nessuna intenzione di riversare la loro cooperazione bilaterale in una «istituzione» europea che non sia sotto il loro controllo. L’Agenzia per la difesa, peraltro affidata da pochi giorni a un nuovo direttore francese, non è mai decollata. E il caso della Libia è indicativo dei limiti delle capacità militari esistenti: per riuscire ad intervenire, francesi e inglesi hanno comunque bisogno dei Tomahawk americani. E utilizzano basi italiane.

Francia più Gran Bretagna, insomma, non fanno l’Europa, in politica estera e nella difesa. Sono indispensabili ma non sufficienti. Nel frattempo, i due Paesi hanno però occupato gran parte delle posizioni-chiave nel Servizio europeo di Azione Esterna: il segretario generale della Farnesina europea è un diplomatico francese, Pierre Vimont, il capo dell’Africa (o meglio il «managing director», termine in sé abbastanza curioso per indicare i vertici del Servizio Esterno) è un diplomatico inglese, Nicholas Westcott; il capo del Medio Oriente è di nuovo un francese che viene dalla Commissione, Hugues Mingarelli. Sul delicato fronte Sud dell’Europa (in altre posizioni, Cina inclusa, pesa invece la Germania), il Servizio di azione esterna è già franco-inglese: è quasi un’espressione diretta della coppia al comando. Cosa che secondo Charles Grant, direttore del Cer di Londra, permetterebbe uno schema molto semplice per far funzionare la politica estera europea: appaltarla in modo esplicito a Parigi e Londra, secondo un principio di «devoluzione» delle responsabilità compatibile con il Trattato di Lisbona.

Quando idee del genere cominciano a circolare, è bene preoccuparsi. I precedenti - da Suez a Ben Ali, attraverso l’Algeria - sconsigliano fortemente una scelta del genere. Italia e Spagna, in particolare, non hanno nessun interesse a una delega in bianco nel proprio cortile di casa. Come sta dimostrando la crisi libica, l’alternativa alla responsabilità diretta non è l’Unione europea ma la sua scomparsa.

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« Risposta #10 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:35:52 pm »

26/4/2011

Ora potremo influire sugli alleati

MARTA DASSÙ


L’Italia ha deciso ieri di partecipare ai bombardamenti della Nato in Libia. E’ una svolta netta per Silvio Berlusconi, presentata come risultato di una telefonata con il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.

Nelle settimane scorse, il capo del governo italiano aveva escluso che il nostro Paese, per il suo passato di potenza coloniale, avrebbe mai potuto bombardare le terre della Jamahiriya. Ma questa posizione - già difficile in sé da tenere di fronte alle pressioni dell’Alleanza atlantica - era diventata insostenibile dopo il riconoscimento a Roma del Consiglio Transitorio di Bengasi quale unico legittimo rappresentante della Libia. Ci sono limiti oltre i quali, in sostanza, l’incoerenza in politica estera diventa un puro e semplice costo.

In teoria, l’Italia avrebbe potuto scegliere, di fronte allo scoppio della crisi libica, una posizione diversa.

Ma una volta scartata questa opzione - una linea defilata alla «tedesca», per capirci - una volta date le proprie basi, una volta premuto per il comando Nato, una volta accolto con tutti gli onori Jalil (il capo di Bengasi) a Roma, una volta deciso l’invio di alcuni consiglieri militari, il rifiuto di fornire bombardieri non aveva senso.

Perché? Perché l’Italia avrebbe comunque pagato i costi politici della guerra a Gheddafi e avrebbe comunque rischiato le ritorsioni già minacciate dal Colonnello; ma perdendo, al tempo stesso, credibilità nella Nato. E legittimando il ruolo preponderante di Francia e Gran Bretagna: oggi e domani, nei futuri assetti della Libia. In breve, questo passo era necessario anche solo per potere pretendere, dopo molte esitazioni e incertezze, di avere una linea di politica estera. E per evitare di restare ai margini di una crisi che ci vede particolarmente interessati e particolarmente esposti: con molto da perdere e poco da guadagnare. Ma diventerà un passo utile, oltre che necessario, se l’Italia lo utilizzerà per tentare davvero di influire su una strategia di intervento ancora confusa e poco efficace. Troppo spesso, in passato, la politica estera del nostro Paese è cominciata e finita nello sforzo di partecipare a decisioni prese altrove, più che a contare. Oggi l’Italia deve invece sollecitare una discussione vera su questioni essenziali ma ancora prive di risposte: che sostegno daremo al «governo» che è stato appena riconosciuto? Come evitare una spartizione della Libia? Come fare in modo che l’intensificazione della campagna militare favorisca la soluzione politica indispensabile per l’uscita di scena di Gheddafi?

La coerenza non sembra, in realtà, la cifra della risposta europea e americana alla grande scossa che sta vivendo il mondo arabo. Gli Stati Uniti oscillano: fra peso del debito, cautela del Pentagono, calcoli real-politici, l’America non ha ancora deciso fino a che punto appoggiare il risveglio arabo. Che ha per ora prodotto la caduta di regimi amici, piuttosto che di quelli avversari. L’Europa si è divisa di fronte ai flussi migratori: oggi, nell’incontro con Nicolas Sarkozy, Roma e Parigi dovranno chiudere la strana guerra franco-italiana in materia, figlia di errori reciproci e di calcoli elettorali, per puntare verso un accordo europeo.

Mentre l’America esita e l’Europa si frantuma, la primavera araba rischia il suo inverno in Siria: la violenta repressione del regime di Bashar al Assad e la debolezza delle reazioni occidentali dimostrano che l’attivismo di Parigi può spingere verso un intervento in Libia, Paese petrolifero ma laterale negli equilibri mediorientali. Ma non è bastato a salvare il potere degli Hariri in Libano o a ridurre davvero l’influenza della Siria, alleata di Teheran e di Hezbollah. Va ricordata, in proposito, la tesi secondo cui il risveglio arabo non sarebbe cominciato in Tunisia, nel dicembre scorso, ma proprio in Libano nel 2005. Quando l’assassinio di Rafiq Hariri, ex premier sunnita, portò migliaia di persone a chiedere il ritiro delle truppe siriane dal Paese. Cosa che avvenne, dopo una Risoluzione delle Nazioni Unite sponsorizzata da Francia e Stati Uniti. Anche allora, come oggi, Bashar Assad accusò da Damasco forze straniere di puntare alla destabilizzazione. Era l’anticipo dello showdown che si sta tragicamente consumando in terra siriana fra la minoranza alawita e la popolazione sunnita.

Questa tesi sposta il perno della primavera araba (o già inverno che sia) nel cuore del Medio Oriente: la prova di forza in Siria avrà effetti sul Libano e sulla sicurezza di Israele, sull’Iraq (attraverso la sorte della minoranza curda), sulla Turchia (che ha giocato negli ultimi anni una sua carta siriana), sulla sicurezza di Israele. Rispetto alla posta in gioco a Damasco, il futuro di Tripoli può quindi apparire marginale. Ma non lo è: l’esito della prova di forza con Gheddafi condizionerà anche le scelte di Bashar Assad.

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« Risposta #11 inserito:: Maggio 06, 2011, 11:03:24 pm »

5/5/2011

Il fragile successo di Barack

MARTA DASSÙ

La sensazione è che Barack Obama rischi di sciupare il principale successo della sua Presidenza. Il 2 maggio ha ottenuto una grande vittoria politica, con l'uccisione di Bin Laden in Pakistan. Tre giorni dopo soltanto, la scena si complica. Sul piano interno, la Casa Bianca ha dato troppi dettagli, finendo per entrare in contraddizione con le prime ricostruzioni del blitz ad Abbottabad.

Il rischio, di dettaglio in dettaglio, di contraddizione in contraddizione, è che il Presidente/Nobel per la pace, diventato di colpo Comandante in capo, si esponga all’accusa di non avere detto parte della verità. Anche perché la famosa immagine della «situation room» è un’arma a doppio taglio: farà ricordare che Obama ha voluto la testa di Bin Laden ed è riuscito ad ottenerla; ma lo coinvolge anche pienamente, direttamente, nel modo in cui questo risultato è stato ottenuto. Prevale, per ora, l'entusiasmo del pubblico americano; prevalgono le congratulazioni dei repubblicani, i quali sanno che Barack Obama giocherà la campagna elettorale sulla sicurezza nazionale - almeno fino a quando non aumenteranno i numeri dell'occupazione. Proprio per questo, tuttavia, ogni parola detta sul blitz pachistano conterà. E Obama, oggi molto più forte, potrà forse trovarsi in difficoltà.

Sul piano esterno, il rischio può essere sintetizzato così. Una volta ucciso Bin Laden, aumenta anche la pressione al ritiro dall'Afghanistan. In teoria, è un vantaggio ai fini della rielezione di Barack Obama, che farà più in fretta ciò che ha già promesso. Nei fatti, il rischio deriva dalla crisi di fiducia senza precedenti fra Washington e Islamabad, come effetto di tutti i contorni della vicenda Bin Laden. Se Obama perderà il Pakistan, mentre si ritira dall’Afghanistan, si lascerà alle spalle un vuoto strategico. E proprio in un'area che - come spiega Robert D. Kaplan nel suo libro più recente, «Monsoon» - è al centro della mappa di questo secolo, connettendo gli interessi energetici e geopolitici di India, Cina, Pakistan, Iran.

Il contro-argomento, e la speranza di Barack Obama, è che lo showdown nato sul caso Bin Laden costringa finalmente Islamabad ad uscire dall’ambiguità di questi anni: un’ambiguità tale da avere obbligato gli Stati Uniti - secondo le parole di Leon Panetta, capo della Cia e prossimo segretario alla Difesa americano - ad agire da soli in Pakistan, nel timore che i servizi segreti di Islamabad potessero mettere in forse il successo della missione, «avvertendo gli obiettivi».

Da parte americana, quindi, la tolleranza sul Pakistan è finita. La collusione dei servizi segreti pachistani con i gruppi qaedisti era nota da anni: in un messaggio pubblicato da Wikileaks nel 2001, i diplomatici americani descrivevano l'Isi (l’agenzia di sicurezza pachistana) come un braccio del terrorismo. Ma Washington, che bombarda con i droni i santuari qaedisti nel Waziristan, non aveva mai avuto la forza di imporre un chiarimento. La domanda è se, dopo anni di politica fallimentare verso il Pakistan, e dopo montagne di aiuti sprecati, l'uccisione di Bin Laden renda possibile una svolta favorevole agli interessi occidentali.

Nel breve termine, una fase di tensione estrema con Islamabad è probabilmente inevitabile, tensione che la Cina sta già cercando di sfruttare a suo favore. Ma se Washington riuscirà a giocare bene le sue carte, facendo leva sull'attuale debolezza dell'esercito pachistano, i rapporti con Islamabad potranno fondarsi su basi più «sane»: il Pakistan non sarà mai un vero alleato strategico dell’Occidente, inutile illudersi; ma può e deve diventare un partner più affidabile.

Va tenuto conto che Islamabad vede nell’Afghanistan un terreno storico di scontro con l’India; l’appoggio ai taleban, e i santuari di Al Qaeda in Pakistan, sono strumento di questa competizione geopolitica. L’uccisione di Bin Laden potrà forse spingere parte dei taleban a valutare un accordo con il governo di Kabul, facilitando un'intesa con il Pakistan e un ritiro rapido dall'Afghanistan.

Si gioca qui, in ogni caso, una grande e delicata partita: il futuro del Pakistan, politicamente ed economicamente fragile, esposto al terrorismo, con 190 milioni di persone, con armi nucleari, è una variabile decisiva della sicurezza internazionale. Questa partita ha dei rischi per Barack Obama, è il test vero di una politica estera che ha appena colto un grande ma provvisorio successo. E ha dei rischi per noi europei. Se aiutare l’America significa in questo caso aiutare noi stessi, dovremmo ricordarci, mentre l'accogliamo a Roma per il gruppo di contatto sulla Libia, che Hillary Clinton era seduta con Barack Obama, il 2 maggio, nella «Situation room». Quando gli americani dicono che per loro la Libia è un interesse meno centrale (eppure l’America c’è) è forse bene capirli. E trarne le uniche conseguenze possibili: dobbiamo assumerci le nostre responsabilità lì dove è più evidente, nel nostro cortile di casa.

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« Risposta #12 inserito:: Maggio 19, 2011, 06:06:11 pm »

19/5/2011

Lo scandalo penalizza l'Europa

MARTA DASSÙ

La caduta di Strauss-Kahn è la fine simbolica di un’era per lo status dell’Europa nel mondo. In un’ennesima parabola del potere Strauss-Kahn ha prima rilanciato, con grande capacità, la guida europea sul Fmi. E poi l’ha bruciata. In mezz’ora.

Può anche darsi che una donna francese, Christine Lagarde, sia considerata la persona più adatta per rimediare a uno scandalo gallico in terra americana. In breve: è possibile, forse probabile, che la guida del Fmi resti per ora in mani europee. Ma se guardiamo al dibattito suscitato dal caso Strauss-Khan negli Stati Uniti e in Asia, l’impressione è che il giudizio di una Corte di New York verrà usato non contro un uomo soltanto ma contro ciò che ha rappresentato fin qui: l’influenza internazionale del Vecchio Continente.

Dalla metà del secolo scorso in poi, Stati Uniti ed Europa hanno guidato, rispettivamente, la Banca mondiale e il Fondo monetario. Quest’assetto, immaginato dopo la seconda guerra mondiale come cardine del sistema economico atlantico, non riflette da tempo gli equilibri di un mondo spostato verso il Pacifico. Per Paesi come la Cina o l’India, continua infatti a conferire un peso eccessivo all’Europa, a svantaggio delle economie emergenti. Non solo. Che la guida del Fondo spetti agli europei è posto ormai in discussione anche dagli Stati Uniti. Il disprezzo con cui Washington ha chiesto le dimissioni di Strauss-Kahn tradisce l’insofferenza diffusa per un Continente vecchio, troppo frammentato e in genere di poco aiuto. Si sta formando così una sorta di coalizione degli insoddisfatti: una coalizione ancora poco in grado di esprimere candidature unitarie ma che considera il peso degli europei nelle istituzioni internazionali come un’anomalia storica da superare. E come un ostacolo a istituzioni più rappresentative del secolo attuale.

Il problema è che l’Europa offre vari pretesti a tesi del genere. Dopo avere evocato per anni un «multilateralismo efficace», con la riforma delle istituzioni di Bretton Woods, la realtà è che il Vecchio Continente finisce per difendere lo status quo. Al di là di una revisione parziale delle quote e dei diritti di voto nel Fmi, approvata lo scorso anno, l’Europa non sembra disposta ad andare. Per due ragioni molto semplici. La prima è che l’assetto ereditato dal secolo scorso continua a convenirle, proprio perché ne sovrastima le posizioni. La seconda è che qualunque riforma seria delle istituzioni internazionali comporta una razionalizzazione della presenza degli europei. E cioè una diminuzione dei pesi nazionali in cambio di un’influenza complessiva: un trade-off che i Paesi grandi dell’Ue non sono disposti a contemplare e di cui quelli piccoli non si fidano. Lo conferma il dibattito ricorrente sulla riforma del Consiglio di sicurezza, con le divisioni fra la Germania - che rivendica un proprio seggio nazionale permanente - e il vasto fronte mobilitato dall’Italia, favorevole a un aumento dei soli membri non permanenti e in prospettiva a seggi regionali, fra cui un seggio Ue.

Questo sfondo spiega perché il caso Strauss-Khan venga visto come un’occasione possibile - dal partito degli euro-critici su entrambi i lati del Pacifico - per contestare vizi e difetti della rendita di posizione europea. E per scrollarsela di dosso alla guida del Fondo monetario.

Qui entra in gioco, tuttavia, il peso della crisi greca, o più largamente della periferia dell’euro. Dal 2009 in poi, il Fondo monetario si è in effetti quasi trasformato in un’Agenzia di salvataggio degli anelli deboli dell’euro, in accordo con la Bce e i governi nazionali. Ciò significa che, come europei, siamo ormai parte integrante del problema e non solo della sua soluzione. In teoria, una condizione del genere delegittima la guida europea del Fondo. Nei fatti, la rende necessaria ancora per qualche tempo: perché - questo l’argomento che potrebbe prevalere a Washington - una guida europea avrà migliori capacità di gestire quella che è vista come una crisi potenzialmente sistemica, con effetti globali. In sostanza: è la vulnerabilità dell’Europa ad aumentarne in questa fase il peso contrattuale.

In un momento già delicato per i rapporti transatlantici, con un presidente americano proiettato verso l’Asia, questa ricetta per salvaguardare l’influenza internazionale dell’Ue non potrà durare molto a lungo. La ricetta della «debolezza come forza» sta esaurendosi, anche nel campo della sicurezza: il dibattito americano sulla Libia, con le polemiche ricorrenti sull’aiuto all’Europa perfino nel proprio cortile di casa, lo dimostra.

Se gli europei fossero disposti a fare i conti con la realtà, il campanello d’allarme del caso Strauss-Kahn servirebbe a qualcosa. Le rendite di posizione ereditate dal secolo scorso sono agli sgoccioli. Non è affatto chiaro in che modo i Paesi europei potranno restare uno dei principali blocchi economici al mondo se non sapranno ripensare le forme di un’influenza politica collettiva. La tentazione tedesca è di immaginarsi come nuovo Paese «emergente» sul piano nazionale, una sorta di Bric europeo: la richiesta di un seggio alle Nazioni Unite, insieme a India e Brasile, è appunto simbolo di questo modo di pensare, per cui la Germania, da Paese sconfitto nella seconda guerra mondiale, diventa uno dei vincitori del secolo attuale. Senza l’Europa e i suoi vincoli. È una scommessa difficile da vincere per la Germania; e perdente per l’Ue nel suo insieme.

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« Risposta #13 inserito:: Maggio 26, 2011, 05:52:04 pm »

26/5/2011

Un discorso che sa di storia

MARTA DASSÙ

I discorsi sono soltanto discorsi e poi c’è bisogno che diventino politiche.

Ma questo address di Barack Obama a Westminster Hall, nella casa madre dei Parlamenti moderni, è stato un grande discorso. Come tono: Obama ha finalmente ritrovato il timbro ispirato dei primi tempi. Come sostanza: Obama ha finalmente detto a cosa serve la Nato, l’Alleanza fra le democrazie occidentali. E come messaggio: Obama ha finalmente deciso che il declino dell’America non c’è. Per quante Cine esistano al mondo. Perché, in un sistema internazionale che pure richiede cooperazione globale, sono comunque i valori e i principi che le democrazie occidentali rappresentano a catalizzare le possibilità di cambiamento.

Il tempo della nostra leadership - ha infatti affermato il Presidente americano, descrivendosi come l’erede della civiltà anglosassone - è oggi. Quando, dopo la sconfitta del nazismo, la ricostruzione post-bellica, la vittoria nella Guerra fredda, ci attende un nuovo compito comune: appoggiare quanti chiedono dignità e libertà in Medio Oriente e in Nord Africa. Agendo con umiltà; ma anche assumendosi le proprie responsabilità.

Poi certo: Obama ha ricordato un po’ troppe volte il rapporto fra Roosevelt e Churchill. Avrà fatto piacere a David Cameron. Con minore piacere, un premier britannico critico sul «multi-culturalismo» avrà ascoltato l’appassionata difesa della «diversità» quale fonte della grandezza di una nazione. Il «nipote di un nonno keniota che ha servito come cuoco nella British Army e che oggi sta di fronte a voi come Presidente degli Stati Uniti» non poteva dire altrimenti. Ma aveva forse bisogno della regina Elisabetta per sentirsi di nuovo alla guida dell’America.

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« Risposta #14 inserito:: Maggio 31, 2011, 03:55:08 pm »

31/5/2011

Tre ragioni che rendono utile il G8

MARTA DASSÙ

Ha ancora senso l’Occidente nel mondo post-occidentale? Dopo il rilancio tentato da Barack Obama con il suo viaggio in Europa, non conteranno le parole. Conteranno i fatti. Conterà la capacità di chiudere una guerra lontana - l’intervento in Afghanistan, in corso da dieci anni - e di vincere la guerra vicina, in Libia.

Per errore o per forza, la Nato ha scommesso la propria credibilità su entrambe. Se cedesse oggi - all’attentato terroristico che ieri ha colpito ad Herat i soldati italiani dopo quelli tedeschi, o al colonnello Gheddafi, che ieri ha escluso ancora una volta di lasciare il potere - sarebbero le democrazie occidentali a subire una seria sconfitta. Cosa che non possiamo permetterci: nel mondo post-occidentale, fatto di grandi potenze in ascesa e di grandi rischi, mantenere una capacità collettiva di influenza non sarà facile.

Sul fronte afghano, la morte di bin Laden aumenta, prima di tutto negli Stati Uniti, gli argomenti a favore di un ritiro abbastanza rapido, dall’estate del 2011 in poi. Al G8 di Deauville, europei ed americani hanno confermato, con l’appoggio della Russia, che lo scenario a cui guardano è questo: passaggio graduale della sicurezza alle forze afghane, appoggio ai tentativi di riconciliazione interna da parte di Karzai e sostegno economico. Leggendo al di là delle formule scritte sulla carta: ridimensionate le attese nel «nation building», si dirà che il compito sta finendo e si accetterà di lasciare parte del potere nelle mani dei talebani che siano disposti a dissociarsi da Al Qaeda. Nel frattempo, l’America si concentrerà nel controllo del terrorismo alla frontiera pakistana, cercando di non mandare del tutto a picco i suoi rapporti con Islamabad. E tentando di evitare che il Pakistan diventi una provincia cinese. Vedere le cose con una certa crudezza non impedisce di cogliere un punto sostanziale, per i rapporti politici fra Europa e Stati Uniti: proprio in questa fase, di graduale e delicata costruzione della strategia di uscita della Nato, l’importanza della coesione occidentale aumenta. Il sacrificio dei soldati italiani è ancora essenziale.

In Libia, la sconfitta di Gheddafi è decisiva per rompere lo stallo militare, impedire una spartizione di fatto e incoraggiare i fautori della Primavera araba. Si vedrà nei prossimi giorni se le mediazioni dell’Unione africana o di Mosca renderanno più rapide le cose. Ma la caduta di Gheddafi non ha alternative.

Sembra abbastanza paradossale che, dopo la grande scossa della crisi finanziaria, la credibilità di Stati Uniti ed Europa sia oggi messa alla prova dalle modalità del ritiro dall’Afghanistan e dalla capacità di sconfiggere Gheddafi in tempi e modi accettabili. Ma è così. La settimana scorsa, il G8 ha difatti rilanciato il proprio ruolo non nella gestione delle crisi economiche internazionali - ormai materia di G-20 - ma sul fronte politico, come Alleanza fra democrazie.

Ha senso questo passaggio da un G8 economico ormai largamente superato a un G8 politico? O stiamo solo salvando, nel mondo post-occidentale, un foro inutile? La mia risposta è che ha senso, per almeno tre ragioni importanti. La prima è che Stati Uniti ed Europa escono finalmente dalla sindrome «declinista» degli ultimi anni, secondo cui la democrazia - come sistema politico competitivo - era ormai condannata al fallimento di fronte all’ascesa delle cosiddette «autocrazie sostenibili», a cominciare dalla Cina. Se la Primavera del mondo arabo ha funzionato da tonico, è essenziale che non fallisca: perlomeno là dove è cominciata, in Tunisia e in Egitto.

Seconda ragione: Stati Uniti ed Europa cominciano a riscoprire l’importanza della loro relazione reciproca. E’ evidente che, con lo spostamento verso il Pacifico dell’asse dell’economia globale, il vecchio rapporto atlantico non basta più a governare il mondo. Negli anni scorsi, tuttavia, si è passati un po’ troppo in fretta da questa premessa (l’Occidente non basta più) alla conclusione che il West fosse ormai superato, reso inutile, dall’ascesa del Rest. Così non è. Facciamo un esempio. La nomina di Christine Lagarde alla guida del Fondo monetario internazionale sarebbe sbagliata se esprimesse la stanca difesa di una tradizione vetusta o di un «diritto divino»; ma diventa giusta, per gli europei e per Washington (che votando insieme sono in grado di imporla), quando esprime la sensata affermazione di un interesse condiviso a guidare ancora per alcuni anni la complicata e difficile transizione che stiamo vivendo.

Conta infine - terza ragione - la questione Russia. Che Mosca sia parte di un’Alleanza fra democrazie mature è discutibile. Ma è indiscutibile che il G8 possa servire a tenere ancorata la Russia all’Occidente allargato. E a bilanciare i nuovi fori che si stanno costruendo fra i Brics (le potenze economiche in ascesa) - di cui Mosca fa parte assieme a Pechino.

Nell’insieme, mi sembrano ragioni solide. Che verranno svuotate, tuttavia, se la Nato non porterà a compimento la transizione in Afghanistan e non prevarrà rapidamente in Libia. E se alle dichiarazioni di intenti della settimana scorsa, sull’appoggio ad Egitto e Tunisia, non seguiranno politiche conseguenti. Che la Primavera araba non diventi un Inverno è decisivo per le aspirazioni di milioni di giovani. È una questione-chiave per il futuro del nostro continente, come anticipano le tensioni sul problema immigrazione. E sarà importante per la credibilità della democrazia, in una competizione globale che non è soltanto economica ma riguarda i modelli politici. Se le poste in gioco sono queste - lo sono - meglio che il G8 politico dimostri, nel mondo post-occidentale, la sua utilità.

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