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Autore Discussione: ALEXANDER STILLE.  (Letto 57079 volte)
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« inserito:: Agosto 14, 2010, 10:45:34 pm »


13
ago
2010

Si chiama giornalismo, questo?

di Alexander Stille

Si chiama giornalismo, questo? Com’era prevedibile (anzi previsto, perfino minacciato) Gianfranco Fini è sotto attacco da quando ha fatto il suo “strappo” dal Pdl di Silvio Berlusconi. Giorgio Stracquadanio, parlamentare Pdl aveva detto che bisognava sottoporre Fini al “trattamento Boffo” ricordando lo squallido episodio dell’ex-direttore di Avvenire, Dino Boffo, costretto a dimettersi a colpi di dossier, nonostante il fatto che alcune delle carte pubbblicate dal Giornale della famiglia Berlusconi fossero false come ammesso dal direttore Vittorio Feltri dopo che il danno era fatto e Boffo reso innocuo. Fango e falsità che non hanno impedito a Stracquandanio di lanciare il suo proclama: “Boffo si è dimesso da Avvenire per il martellamento del Giornale, anche su Fini eserciteremo una pressione costante”.

Un meccanismo che abbiamo visto tante volte all’opera durante l’avventura politica di Berlusconi. E’ toccato a Indro Montanelli, un giorno considerato il piu’ grande giornalista italiano del XX secolo poi, quando ha rifiutato di seguire gli ordini di Berlusconi, subito attaccatto come un ingrato, una voltagabbana, un vecchio fascista camuffato, ecc. Ad Umberto Bossi, ora alleato fedele di Berlusconi e quindi trattato con grande rispetto dagli organi di casa Berlusconi, massacrato durante i mesi del cosidetto “ribaltone” quando “tradì” Berlusconi e si alleò con il centro-sinistra.

Nel 2004, dopo le elezioni europee in cui Berlusconi perse molti voti, e Marco Follini, allora leader dell’Udc dichiarò (un po’ come Fini) “La monarchia è finita, deve cominciare La Repubblica” Berlusconi reagì minacciando una manganellata mediatica. “Marco, continua così e vedrai come ti tratteranno nei prossimi giorni le mie televisioni. (…) Non fare finta di non capire, la questione della par condicio è fondamentale. Capisco che tu non te ne renda conto visto che sei già molto presente sulle reti Rai e Mediaset”. Quando Follini sottolineò che di fatto nell’ultimo mese lui era stato presente solo per 42 secondi sulle reti di Berlusconi, il premier rispose: “Non dire sciocchezze la verità è che su Mediaset nessuno ti attacca mai”. “Ci mancherebbe pure che mi attacchino”. “Eppure se continui così te ne accorgerai”. E Follini replicò: “Voglio che sia messo a verbale che sono stato minacciato”.

Quando un giornalista attacca o non tratta bene un personaggio politico secondo il comportamento sugli ordini del suo padrone è giornalismo? O qualcos’altro: propaganda, ufficio stampa, pubbliche relazioni? I giornalisti di destra sostengono che loro sono come tutti gli altri. I giornalisti di Repubblica, per esempio, non sono anche loro di parte? Il giornale tifa apertamente per l’opposizione di centro-sinistra. Nessuno e’ obiettivo e quindi che differenza tra gli uni e gli altri?

A mio avviso, la differenza c’e, ed è molto grande. La cosa che, secondo me, separa il giornalismo dalla propaganda politica è la volontà – anzi il dovere – di raccontare anche le notizie che vanno contro il tuo punto di vista personale, che sono scomode per la tua tesi preferita e per la causa politica in cui ci si riconosce. Quindi quando la sinistra italiana sbaglia – cosa che fa spesso – in genere la Repubblica lo dice. Anzi, spesso le critiche più dure si trovano su giornali come Repubblica, proprio perche il giornalismo è un tentativo di informare e di spiegare la realtà come è non come vorremmo che fosse. Se la destra stravince, il titolo del Giornale è “La destra stravince”. Piaccia o no. Quando invece Berlusconi perde o la sinistra vince, appaiono storie di imbrogli elettoriali oppure articoli che addossano la sconfitta ad altri fattori, altri membri della coalizione del centro destra. Non appaiono mai articoli sgraditi al padrone. La Repubblica, pur apprezzando lo strappo di Fini, ha pubblicato pezzi sugli aspetti poco limpidi della storia della casa di Montecarlo. Mai i lettori del Giornale o di Libero sapranno nulla dei dettagli raccapriccianti di come Berlusconi abbia acquistato la sua reggia di Arcore.

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« Risposta #1 inserito:: Settembre 01, 2010, 10:52:05 pm »

31
ago
2010

Il vero scheletro nell’armadio

di ALEXANDER STILLE

Il vero scheletro nell’armadio di Berlusconi più imbarazzante e dannoso delle storie delle escort e delle tangenti dentro la sua amministrazione è l’andamento dell’economia italiana sotto la sua gestione. Le statistiche sono molto chiare ed eloquenti. L’economista inglese Charles Young, in un suo libro pubblicato recentemente, Inpunity  http://www.amazon.co.uk/Impunity-Berlusc…) dedica un capitolo sulla macroeconomia degli anni del governo Berlusconi. Le statistiche non possono essere scartate o attribuite a fattori internazionali fuori dal controllo di Berlusconi come l’undici settembre e la recessione attuale perché sono statistiche comparative e la conclusione è sempre la stessa: che l’economia italiana va peggio di qualsiasi paese nella zona europea, per quanto riguarda la crescita del PIL, l’indice più riconosciuto e più obbiettivo dell’andamento dell’economia. Ecco un brano del libro di Young insieme a due grafici illustrativi:

Nei cinque anni precedenti il 2009 la crescita in Italia è stata di segno negativo – l’economia nel 2009 è stata più contratta rispetto al 2004 -, mentre nel resto dell’Eurozona si è registrata una crescita positiva. Entrambe le cifre – il calo in Italia e la crescita nel resto dell’Eurozona – sono molto basse, e non va attribuito un eccessivo significato al picco negativo del grafico relativo all’ultimo anno.

Non vi è dubbio che basterebbe questo grafico a dimostrare l’inadeguatezza della gestione economica durante gli anni dei governi Berlusconi. Questo è dimostrato, in modo forse ancora più immediato, dal grafico che segue.

Il grafico mostra l’Italia agli ultimi posti della tabella dei paesi del mondo per crescita del PIL pro capite dal 2001 al 2009 (otto anni durante i quali Berlusconi è stato per lo più al governo). Negli otto anni precedenti il primo duraturo governo Berlusconi, questo valore era stato molto più vicino alla media OCSE.  Al contrario, nel periodo caratterizzato dai governi di Berlusconi, l’economia italiana è stata l’unica importante economia al mondo a subire negli ultimi otto anni un consistente calo (appena inferiore al 6%)  del reddito reale pro capite. Ad alcuni piccoli paesi è andata ancora peggio – il crollo di un terzo del reddito pro capite nello Zimbabwe di Mugabe fa passare in secondo piano anche l’Italia di Berlusconi. Haiti e la Costa d’Avorio hanno subito rispettivamente una diminuzione del 7% e del 9%. Comunque, a parte questi tre paesi, a nessun altro paese al mondo è andata peggio che all’Italia.

Si potrebbe obbiettare che la crescita economica non è tutto, che non è l’unica misura di un buon governo, ma ultimamente gli economisti si stanno focalizzando sempre di più sulla crescita del PIL come misura utile per la salute di una società. L’economista di Harvard Benjamin Friedman ne ha dedicato un libro molto importante intitolato The moral consequences of growth. (le consequenze morali della crescita), in cui nota che periodi di bassa crescita sono marcati da fenomeni di chiusura, xenofobia e politica estremista. Se si considera la storia europea dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo visto lo sviluppo a pari passo di una crescita economica molto florida e una società sempre più generosa di welfare, che offre benefici e servizi sociali su una base universale, mentre le crisi economiche dopo la prima guerra mondiale  e poi la grande depressione hanno portato al potere governi totalitari, dall’Unione Sovietica al Fascimo e Nazismo. Nella società di oggi, il rallentamento dell’economia europea ha coinciso con il fiorire di fenomeni di xenofobia in vari paesi, per cui non si può guardare con indifferenza il tasso di crescita molto basso in Italia.

http://stille.blogautore.repubblica.it/?ref=HREC1-1


GRAFICI VISIBILI SU  stille.blogautore.repubblica.it
« Ultima modifica: Gennaio 24, 2011, 10:06:52 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 09, 2010, 09:05:33 pm »

ALEXANDER STILLE

9
set
2010

Non è una Moschea sul cimitero

Cerchiamo di ragionare un momento sulla cosiddetta moschea a Ground Zero, che ha suscitato una sorprendente ondata di sentimento anti-islamico nel paese e che ha preso molti in contropiede. Intanto alcuni chiariamenti: non è una moschea, si tratta di un centro sociale in un palazzo di diversi piani con palestra, piscina, auditorium e altre cose, tra cui una sala di preghiera. Una struttura che prende il modello del Jewish Community Center a Manhattan, dove si può andare in piscina, in palestra o seguire corsi di cultura ebraica, sulla 77esima strada. Il centro Islamico non è a Ground Zero ma a due isolati da dove erano le Torri Gemelle distrutte l’11 Settembre 2011. Inoltre dovrebbe prendere il posto di un magazzino chiuso. Nella zona, a cinque isolati da Ground Zero, c’è infine già una piccola moschea, e nel quartiere del nuovo centro islamico ci sono due o tre locali a luci rosse.
Quindi sono volutamente distorte le dichiarazioni di chi parla di una moschea trionfante sul cimitero dei martiri dell’11 Settembre, come per esempio sostiene il predicatore cristiano Franklin Graham, secondo il quale ora i musulmani considereranno il World Trade Center ‘Terra Islamica’. Non si capisce, insomma, a che distanza dovrebbe stare una moschea. Bastano due isolati? Bastano cinque isolati? O dovrebbero essere dieci o venti?
È difficile spiegare il punto di vista americano al pubblico italiano, che vive in un paese dove il Cattolicesimo è stata religione di stato per tanto tempo, e dove un politico come Roberto Calderoli può celebrare il ‘maiale Day’ trascinando carne di maiale sul sito proposto per una moschea e poi tranquillamente diventare ministro. Negli Stati Uniti, anche se abbiamo una storia di intolleranza religiosa, soprattutto nei confronti dei Cattolici nell’Ottocento, la moschea di New York non dovrebbe essere controversa dal punto di vista legale. Gli Stati Uniti, fin dalla loro nascita, hanno scritto nella Costituzione che non ci può essere una religione di stato e che allo stesso tempo il governo non deve interferire in alcun modo con l’esercizio dei diritti religiosi. Essendo un paese di immigrati, abbiamo centinaia se non migliaia di culti differenti, alcuni abbastanza strambi, che convivono in genere senza difficoltà. Per cui dal punto di vista logico e legale non c’é nessuna base per differenziare una religione o un culto dagli altri.
Come ha detto giustamente il sindaco di New York Michael Bloomberg, che è stato uno dei fautori del Centro Islamico: ‘Non siamo sempre d’accordo con tutti i nostri vicini di casa, ma questa è la vita in una città cosi densa e variegata. Ma riconosciamo che essere newyorkesi significa convivere con i tuoi vicini con rispetto reciproco e tolleranza, ed è proprio questo spirito di apertura che è stato attaccato l’11 Settembre. Non dimentichiamo che c’erano musulmani tra le vittime e che i nostri vicini musulmani hanno pianto insieme a noi. Sarebbe un vero tradimento dei nostri valori e un regalo ai nostri nemici se cominciassimo a trattare i musulmani in modo differente rispetto ad altri gruppi nella nostra società”
C’è però gente che vuole approfittare di questa situazione per soffiare sul fuoco dell’odio e forse approfittarne politicamente. Ormai ogni candidato nella campagna elettorale deve prendere una posizione, a favore o a sfavore della moschea, e purtroppo c’é poco guadagno politico nel difendere una minoranza impopolare. Va ricordato che stragrande maggioranza degli arabi americani sono persone che vanno a lavorare tutti i giorni, e che la famiglia araba americana media guadagna 59 mila dollari rispetto alla famiglia media americana, che ne guadagna 52 mila. Si tratta quindi di persone abbastanza preparate e laboriose. Eppure c’è gente che vuole dichiarare una guerra santa contro l’Islam, come Graham, figlio di un famoso predicatore americano, che mette in discussione la fede cristiana del presidente Obama e che parla dell’Islam come di “una religione di odio e di guerra”. C’è un predicatore in Florida che annuncia di voler bruciare copie del Corano – una provocazione così offensiva che il Generale David Petraeus, comandante delle truppe americane in Afghanistan, lo ha pregato di soprassedere per non mettere a rischio le truppe americane che rischiano la vita in paesi islamici. Immaginate che bello strumento di reclutamento per Osama Bin Laden sarebbero le immagini di un falò di corani.

http://stille.blogautore.repubblica.it/?ref=HREC1-4
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 02, 2010, 12:21:12 pm »


2
dic
2010

Il governo-colabrodo

Alexander STILLE

Il ministro della difesa Americano Robert Gates, pur avendo denunciato da tempo le rivelazioni di Wikileaks, ha voluto mettere le cose nella loro giusta prospettiva. Ieri ha detto che “ogni altro governo nel mondo sa che il governo Americano perde informazioni come un colabrodo e così è stato per molto tempo.” Gates ha poi citato John Adams (secondo presidente degli USA, 1789-1797) che aveva detto: “come può andare avanti un governo dove si pubblicano i negoziati con paesi stranieri non lo so? A me sembra quanto pericoloso e nocivo quanto singolare”.

Continuava poi Gates spiegando che, mentre la pubblicazione del contenuto di conversazioni riservate era spiacevole ed imbarazzante, non cambiava la sostanza delle cose: “il fatto è che altri governi trattano con gli Stati Uniti perche è nel loro interesse, non perché ci amano, non perché si fidano di noi, e non perché credono che sappiamo tenere segreti. Molti governi trattano con noi perché hanno paura di noi, altri perché ci rispettano, la maggior parte perché hanno bI segreti di BankAmerica e le minacce di WikiLeaksisogno di noi.”

Una delle ragioni per cui ho in genere dato poco peso a varie popolari teorie di cospirazioni – del tipo la CIA o l’FBI hanno ammazzato il Presidente John Kennedy oppure il governo Bush era dietro agli attacchi dell’Undici Settembre – è che in questa società prima o poi viene fuori tutto. Non perché siamo virtuosi e sostenitori accaniti della trasparenza (anche se in molti lo sono) ma perché è una società che vive in un bagno di media e informazione, di celebrità istantanea, dove il fautore o la vittima di un crimine atroce possono godere dei loro 15 minuti di fama, dove casalinghe o disoccupati possono confessare i loro vizi sconvolgenti nei talk show del pomeriggio.

Qualsiasi congiura che richiede la cooperazione di più di quattro o cinque persone rincorrerebbe nel rischio che qualcuno dei cinque corra subito davanti alle telecamere della CNN piuttosto che Fox News per bagnarsi nella luce della ribalta.

È anche vero che una delle ragioni per la perdita di 250,000 documenti riservati è una conseguenza imprevista della lotta contro il terrorismo. Una delle critiche fatte dopo l’11 Settembre al governo americano era che l’informazione tra i vari rami del governo americano non era sufficientemente diffusa, e quindi che informazioni utili erano sepolte negli archivi di questa o quella agenzia, mentre avrebbero potuto essere usate per segnalare o fermare potenziali terroristi. E quindi gli Stati Uniti si trovano in una posizione paradossale: sia tenere stroppo stretta l’informazione che nasconderla troppo dentro le varie parti del governo comporta dei rischi.

Scritto giovedì, 2 dicembre 2010 alle 04:55

http://stille.blogautore.repubblica.it/2010/12/02/il-governo-collabrodo/?ref=HREA-1
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 05, 2010, 09:16:29 am »


4
dic
2010

Il segnale di Ratzinger

Alexander STILLE

Merita attenzione la notizia che Papa Benedetto XVI ha approvato l’uso dei preservativi quando si tratta di difendersi o di evitare di contagiare altri con il virus HIV. Può essere la scoperta dell’acqua calda, oppure un atto coraggioso di cambiamento.

Ammettere l’uso di preservativi soprattutto in luoghi come l’Africa, dove dagli anni Ottanta ad oggi sono già morte milioni di persone, e dove oggi sono ancora infettate decine di milioni di persone, è di una ovvietà sconvolgente. Già nel 1987 un comitato di vescovi americani sostenne che per impedire l’AIDS si doveva diffondere informazione sull’uso dei preservativi. Allora furono fortemente criticati da altri prelati, tra cui l’allora cardinale Joseph Ratzinger, capo della Congregazione per la dottrina della fede e attuale Papa.

Nel 2001 i vescovi dell’Africa del Sud hanno anche loro dato il beneplacito all’uso dei preservativi per prevenire il diffondersi del virus HIV dicendo che “la Chiesa accetta il diritto di ognuno di difendere la propria vita contro il pericolo mortale”.

Quindi il Papa è l’ultimo a prendere una posizione che sembrerebbe dettata da un minimo senso di umanità e di realistica compassione per una delle grandi tragedie dei nostri tempi.

Ma questo via libera rappresenta anche una novità importante nel lungo dibattito sulla contraccezione che divide la Chiesa dagli anni Sessanta. Nel 1981 l’attuale Papa fu scelto dal suo predecessore, Giovanni Paolo II, come difensore della linea dura dottrinale, soprattutto in materie come sessualità, celibato del clero,
contraccezione, divorzio, ruolo della donna nella Chiesa.

Ratzinger e Wojtyla hanno sempre visto come un disastro i cambiamenti del Concilio Vaticano Secondo, che cercava invece di “aggiornare” la Chiesa.

“Invece di una nuova unità cattolica abbiamo solo dissenso che sembra essere passato da autocritica ad auto distruzione – disse Ratzinger – e invece di un nuovo entusiasmo molti sono stati scoraggiati; invece di un grande passo in avanti, ci troviamo davanti a un fenomeno progressivo di decadenza”.

Sia Wojtyla che Ratzinger erano del parere che la Chiesa dovesse rappresentare una serie di verità assolute, eterne ed immutabili; e così le mosse di adattamento e di cambiamento erano viste come segni di cedimento e debolezza, che conducono allo sgretolamento della istituzione.

La “rivincita dei falchi” era cominciata già durante il papato di Paolo VI, quando un comitato di prelati e laici era stato incaricato di studiare il problema della contraccezione. Si arrivò a una posizione favorevole all’uso, ma la protesta di una minoranza del comitato, capeggiata proprio dall’allora cardinale Wojtyla, prevalse e Paolo VI emanò le sue famose Encicliche, l’Umanae e Vitae del 1968 e la Sacerdotalis Caelibatus del 1967. Con esse fu affermata l’inalterabilità del celibato del clero, sostenendo che la castità o il celibato erano il gioiello della Chiesa.

La linea dura di Wojtyla e Ratzinger ha dominato la Chiesa per quasi quarant’anni, certamente dal 1978 quando fu eletto Giovanni Paolo II. Ma la linea della fermezza non ha fermato la crisi e la disunità. La vocazione di nuovi preti è in declino verticale, i seminari sono vuoti, i monasteri con pochi anziani abitanti, l’età media dei sacerdoti è vicina ai settant’anni. Negli Stati Uniti una delle più grandi aggregazioni religiose è costituta da ex-cattolici che si sentono lontani dalla Chiesa di Roma e ignorano le sue prediche su divorzio, sesso prematrimoniale, contraccezione, omosessualità, e sono inorriditi dalla lentezza e dalle tante evasioni con cui la Chiesa ha affrontato la crisi dei preti pedofili.

In questo contesto, l’ultima dichiarazione di Ratzinger sui preservativi è un riconoscimento non solo della minaccia dell’AIDS ma anche del fatto che la Chiesa può e deve cambiare. In fondo il genio del Cattolicesimo nella storia è stata la sua grande adattabilità. La fede monoteista ha abbracciato il culto dei Santi, per captare la prassi pagana di devozione politeista. Festeggiare il Natale alla fine di dicembre è stato un modo per adattarsi alle festività del solstizio invernale, uomini sposati hanno fatto i preti per diversi secoli; ci sono stati perfino preti donne, ed il clero celibe è stato introdotto formalmente soltanto nel 1139.

La posizione di padri della Chiesa come San Tommaso d’Aquino sull’aborto era molto lontana da quella attuale della Chiesa: Aquino era convinto che l’embrione avesse uno status morale diverso dall’essere nato.

Si sta forse tornando a una grande tradizione cattolica: il cambiamento.

Scritto sabato, 4 dicembre 2010 alle 13:30 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

http://stille.blogautore.repubblica.it/2010/12/04/il-segnale-di-ratzinger/
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 15, 2011, 11:13:21 am »


14
gen
2011

Alexander STILLE

Parole violente, atti violenti

Infuria il dibattito sull’esistenza di un rapporto tra l’aspra retorica politica e le azioni di violenza di questi giorni. Dopo la strage in Arizona, dove un ventiduenne squilibrato ha sparato contro una deputata del Congresso, uccidendo sei persone e ferendone altre quattordici, molti, soprattutto tra i democratici, hanno puntato il dito contro il movimento del Tea Party di Sarah Palin e contro coloro che hanno scelto metafore militari e linguaggio violento per esprimere il loro dissenso politico. Su un suo sito web la Palin aveva inserito la parlamentare ferita, Gabrielle Giffords, tra i suoi ‘bersagli principali’, rappresentati attraverso il mirino di un fucile. La Palin e i repubblicani protestano contro quella che definiscono una strumentalizzazione ingiusta della questione, notando che l’assassino non era un militante di partito ma un malato di mente con idee politiche confuse e letture comprendenti sia il Mein Kampf di Hitler sia il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels. Imputare la responsabilità a una sola parte politica per il gesto di un matto è secondo loro un atto di disonestà e politicizzazione di una tragedia la cui responsabilità è puramente individuale.

Alcuni notano inoltre che anche i democratici nel calore dello scontro politico hanno usato metafore belliche. Persino il mite Barack Obama aveva detto a un certo punto: “Se gli altri portano un coltello, io porterò una pistola”. Sarebbe quindi responsabile se un suo seguace sparasse sulla folla con una pistola?

Ma il problema non si risolve così facilmente. Chiunque ha prestato attenzione al dibattito politico americano in questi ultimi anni avrà notato un’estrema radicalizzazione della destra americana. Nelle manifestazioni del cosiddetto Tea Party, nei discorsi di diversi politici repubblicani e nelle arringhe quotidiane dei media di destra ci sono spesso attacchi che non sentivamo dal declino del senatore John McCarthy. Glenn Beck, il presentatore più popolare di Fox News, e uno degli ispiratori principali del Tea Party, presenta quasi tutti i giorni una visione apocalittica della storia e della politica americana, in cui il presidente Obama è dipinto non come un avversario politico con delle politiche sbagliate, ma come un agente segreto di una grande congiura tesa a distruggere il sistema capitalista americano e perfino disposto a eliminare il 10% della popolazione statunitense pur di realizzare una sua visione anarchica comunista maoista della società. In una sua trasmissione Beck dice: “ è gente disposta ad uccidere il 10% della popolazione … la stessa gente che è ovunque dentro il nostro governo e dentro il nostro sistema educativo. Per favore, per favore, imparate dalla storia.” Un altro pupillo della destra, il presentatore radiofonico Jim Quinn dice testualmente: “La jihad islamica è in sintonia con la sinistra americana, con il regime di Obama e i suoi seguaci che con il loro governo autoritario vedono come ostacolo principale al loro disegno la democrazia costituzionale. Guardate Obama, e chiedetevi: “Sta cercando di distruggere il nostro paese? Si. Questi discorsi folli sono ripetuti in continuazione e riecheggiano in quelli di diversi esponenti repubblicani di livello nazionale. Per esempio, Michelle Bachmann, una stella nascente del partito repubblicano, una specie di Sarah Palin del Minnesota, si descrive al Congresso di Washington come “una corrispondente all’estero dietro le linee del nemico, che cerca di far capire alla gente del Minnesota le nefandezze che stanno avvenendo a Washington” a proposito della politica energetica di Obama e del tentativo di tassare l’inquinamento. Bachmann dice: “Voglio che la gente nel Minnesota sia armata e pericolosa su questa questione dell’energia perché dobbiamo combattere. Jefferson ci ha insegnato che avere una rivoluzione di tanto in tanto va bene e che noi, il popolo, dobbiamo combattere duramente se non vogliamo perdere il nostro Paese. Penso che ci sia il potenziale di cambiare la dinamica della libertà negli Stati Uniti per sempre.” Glenn Beck come Newt Gingrich, ex capo repubblicano del Congresso e possibile candidato alla presidenza, hanno sostenuto che Obama, che si esprime sempre con toni molti pacati e moderati, sia in realtà animato nel suo profondo da odio razziale nei confronti della razza bianca e che la sua facciata moderata nasconda una rabbia anti-coloniale ereditata dal padre keniota, una rabbia che lo porterebbe a volere la distruzione degli Stati Uniti.

È diventato quasi di maniera in circoli repubblicani parlare di Obama come di un socialista e del suo governo come di un regime autoritario, fare paragoni tra la sua amministrazione e i regimi di Stalin e di Hitler. Tutto questo ha avuto un effetto concreto: un’alta percentuale di elettori repubblicani dubita che Obama sia cittadino americano, di conseguenza dubita della legittimità della sua presidenza, pensa che voglia veramente distruggere il sistema economico capitalistico e che gli estremisti islamici vinceranno la battaglia per il dominio del mondo. Ha detto l’altro giorno Joe Scarborough, ex deputato repubblicano e certamente non una persona di sinistra, a proposito dei discorsi di Beck e compagnia: “La gente comune sente tutti i giorni che c’è questo uomo nero, Obama, alla Casa Bianca che è un marxista che vuole distruggere il Paese e questo messaggio violento alla fine avrà un impatto, un effetto corrosivo sul Paese”.

È impossibile collegare un singolo discorso politico a un singolo atto di violenza, ma è francamente non credibile pensare che non ci sia un legame tra questa inflazione retorica e il ricorso sempre più frequente a minacce, azioni vandaliche e atti violenti nel Paese. Da quando Obama è diventato presidente, il numero di minacce ricevute da membri del Congresso è aumentato del 300%. Nel caso della deputata Gabrielle Giffords, quella ferita nella strage di Tucson, la porta del suo ufficio è stata distrutta dopo che aveva votato per la riforma sanitaria di Obama, ha ricevuto tante minacce di morte, un manifestante del Tea Party ha portato e lasciato cadere un’arma a una sua manifestazione, suscitando il timore di un possibile attentato. Ormai è prassi per i difensori del diritto alle armi mandare proiettili e minacce di morte ai pochi politici isolati che propongono qualche controllo alla diffusione delle armi. Nella lotta contro l’aborto tra il 1977 e il 2003, sono stati ammazzati sette medici, ci sono stati attentati dinamitardi contro 41 cliniche e 168 incendi dolosi.

Sarà che agiscono in termini concreti le persone più deboli e squilibrate, ma agiscono in un contesto molto preciso. Nello stato di Washington è stato arrestato un uomo di 64 anni che aveva minacciato di morte la senatrice Harvey Murray perché aveva votato la riforma sanitaria di Obama. Sarà anche lui un pazzo, ma ripeteva parola per parola le trasmissioni di Glenn Beck, il presentatore della Fox News.

Sei mesi fa, la polizia in California ha fermato un camion che conteneva due fucili, una pistola e giubbotti antiproiettile. Il tizio ha sparato contro la polizia. Poi ha ammesso che stava andando a San Francisco per uccidere della gente alla Tides Foundation. È una piccola fondazione quasi sconosciuta che promuove giustizia sociale e ambientalismo, manda assistenza ai terremotati di Haiti e figura nelle arringhe apocalittiche di Glenn Beck che l’ha menzionata oltre venti volte come strumento del complotto per infiltrare e distruggere il nostro sistema capitalistico.

I repubblicani amano dire che i loro critici sono altrettanto responsabili di linguaggio incauto, ma vorrei vedere esempi concreti di esponenti importanti del partito democratico che minacciano di rovesciare il governo o che hanno dipinto il presidente Bush come l’agente di una congiura straniera da battere a tutti i costi. Mentre il governatore repubblicano dello stato del Texas ha sbandierato l’idea della secessione se la politica nazionale dovesse continuare ad andare nella direzione opposta da quella voluta dai repubblicani texani, Sharron Angle, la candidata repubblicana per il Senato in Nevada, ha suggerito che ci siano ‘nemici interni’ nascosti dentro il Congresso e che forse sarebbe necessario usare le armi per difendere le libertà minacciate.

Una persona normale non molto informata, sentendo tutti questi discorsi, potrebbe pensare che la democrazia americana sia realmente in pericolo, che qualsiasi rimedio, violento o no, sia giustificato per difendere il nostro amato Paese e che sia non solo suo diritto ma forse suo dovere di farlo. Che questo messaggio martellante trovi uno sbocco concreto nel gesto di qualche malato di mente non è francamente molto sorprendente. Perfino Roger Ailes, il capo della Fox News, ha chiesto ai suoi presentatori di abbassare un po’ i toni pur sostenendo che gli altri sono altrettanto colpevoli.

Se volete avere un’idea di quello di cui sto parlando vi invito a sentire questo discorso di Beck:
 http://mediamatters.org/mmtv/20100610005

http://stille.blogautore.repubblica.it/2011/01/14/parole-violente-atti-violenti/
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 24, 2011, 10:07:23 pm »


24
gen
2011


Concezione Privatistica dello Stato

Ieri, il segretario del sindicato dei poliziotti ha protestato contro l’uso improprio degli agenti di scorta per portare in giro le prostitute del primo ministro:
“È gravissima e inaccettabile,” ha detto Claudio Giardullo, segretario del Silp Cgil “questa concezione privatistica dello Stato secondo la quale gli apparati di polizia sono considerati dal premier come suo staff personale. Chiediamo che sia restituito al Paese il senso della cosa pubblica, e il rispetto delle istituzioni”.
Il caso delle prostitute e dei poliziotti sembra ovvio. Ma in realtà, sintetizza la filosofia governativa di Berlusconi in questi ultimi diciassette anni. Se si lascia vuota la frase “apparati di polizia”, il resto suonerebbe: “È gravissima e inaccettabile questa concezione privatistica dello Stato secondo la quale sono considerati dal premier come suo staff personale”.

Agli apparati di polizia si potrebbero aggiungere molte altre categorie:

parlamentari (molti dei quali sono addirittura suoi dipendenti — “erano zucche e li ho fatti diventare parlamentari”)

conduttori televisivi (suoi e della televisione di Stato)

membri dell’AGCOM (“ti ho messo lì nel tuo posto”)

presidenti e vice presidenti di commissioni parlamentari (alcuni dei quali sono stati allo stesso tempo i suoi avvocati personali mentre scrivevano leggi che riguardavano direttamente il loro cliente più potente)

magistrati (si pensa al caso della P3)

L’elenco potrebbe essere molto lungo. Lascio ai lettori completarlo.

http://stille.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 10, 2011, 06:06:18 pm »

Alexander STILLE

8
feb
2011

Cronaca Nera, Televisione e Potere

Se si vuole capire bene come si mantiene il sistema berlusconiano, si deve riflettere su come la televisione tratta la criminalità.
Un buon articolo di Vladimiro Polchi (Repubblica, 27 gennaio) spiega come i problemi economici del paese, considerati la prima preoccupazione dal 48% dei cittadini, ricevano soltanto il 6% dello spazio sui telegiornali nazionali. Mentre “nel 2010 il Tg1 ha dedicato oltre mille notizie ai fatti criminali, il doppio rispetto al Tg pubblico spagnolo, il triplo rispetto a quello inglese, quattro volte di più rispetto al tg francese e, infine, 18 volte in più rispetto al tg pubblico tedesco”. Il tutto mentre in Italia continua a calare lievemente il numero di reati denunciati.
Forse ancora più significativo è il fatto che i servizi di cronaca nera non parlano di crimini ordinari che colpiscono i cittadini italiani nelle loro città e nelle loro case, ma di casi eccezionali che hanno presa sull’opinione pubblica, come il caso di Sarah Scazzi, su cui sono stati fatti 867 servizi in quattro mesi. Toglie l’attenzione dalla crisi economica in Italia ma senza fare danno al governo; infatti servizi sulla criminalità spicciola creerebbe senso di paura tra i cittadini e forse risentimento verso il governo che non è in grado di controllarla.
Questo quadro descritto in un rapporto dell’Osservatorio di Pavia è il rovescio della situazione dei telegiornali dal 2006 al 2008 – per esempio la cronaca nera sulle sei reti televisive principali è triplicata da quando Romano Prodi diventò presidente del Consiglio nel 2006. Guardando le tv italiane in quel periodo una persona normale avrebbe pensato che c’era un’ondata di romeni trasferitasi in Italia per il solo scopo di stuprare donne italiane. In realtà la delinquenza in molte categorie in Italia si era abbassata mentre altre erano in lieve aumento. Nonostante ciò, la percezione dei crimini e dell’insicurezza è aumentata moltissimo in quel periodo, creando forte disagio tra i cittadini e un umore collettivo anti governativo, sfruttato ampiamente da Berlusconi nella campagna del 2008, costruita attorno all’idea di città più sicure.
Improvvisamente nel 2008, l’anno in cui Berlusconi è stato rieletto, l’ondata di delinquenza è scomparsa nello stesso modo repentino in cui è arrivata: il numero di pezzi di cronaca nera è improvvisamente diminuito del 50% e con ciò è svanita anche la pubblica percezione di insicurezza. Tutto ciò indipendentemente da un reale cambiamento nel tasso di criminalità.
Per cui lo spostamento da pezzi su crimini comuni a crimini eccezionali è un’estensione ulteriore di informazione come una forma di reality tv o di un mondo virtuale che serve a un preciso scopo di potere.
Se è vero che c’è stato del calcolo politico nel boom della cronaca nera nel periodo Prodi, come ci si spiega il fatto che la Rai fosse nelle mani del centrosinistra?
È in parte questione di mercato: la cronaca nera porta ascolti alti e quindi i direttori di rete hanno sempre la giustificazione facile della necessità di mantenere l’audience.
Però c’era probabilmente anche un elemento di calcolo politico, dato che i servizi di cronaca sono diminuiti così drammaticamente dopo la vittoria di Berlusconi nel 2008 quando serviva sempre un alto livello di ascolti. I direttori della Rai, che sono creature estremamente sensibili al soffio di ogni vento politico, sapevano benissimo che il governo Prodi non sarebbe durato a lungo e si stavano preparando per il ritorno di Berlusconi mettendosi in una buona posizione. Fare cronaca nera non solo fa bene agli ascolti, ma si tratta di servizi ‘sicuri’, senza carattere ideologico, che non offendono nessuno – tranne naturalmente gruppi di immigrati che non hanno diritti o voce – mentre servono a farsi degli amici tra i nuovi padroni.

da - stille.blogautore.repubblica.it/2011/02/08
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 15, 2011, 10:59:50 am »


14
feb
2011

Tra Roma e Il Cairo, c’è di mezzo il Parlamento

La presenza di circa un milione di persone nelle piazze delle città italiane fa piacere, e dimostra una forte partecipazione popolare e una volontà di registrare una voce di dissenso in una situazione di stallo politico dominato dai problemi personali del Primo Ministro Silvio Berlusconi. Però l’interrogativo rimane: cambierà veramente qualcosa? La risposta sta soprattutto nel Parlamento.

È venuto naturale in questi giorni, seguendo la caduta dell’anziano autocrate egiziano Hosni Mubarak, fare il facile paragone tra Italia e Egitto e chiedersi come mai gli italiani non riescono a sbarazzarsi dell’autocrate di Arcore.

Ma in realtà le situazioni sono diverse. Bisogna riconoscere che Berlusconi continua a governare perché ha una maggioranza in Parlamento, un Parlamento eletto legalmente (anche se si può discutere quanto siano democratiche elezioni condotte sotto il controllo mediatico berlusconiano).

Perciò non cambierà nulla finché una maggioranza di deputati non deciderà di lasciare Berlusconi. Oltre alla capacità di Berlusconi di ripescare e forse comprare diversi dissidenti dell’area finiana, il problema di fondo rimane la frammentazione e la rissosità dell’opposizione. Sono anni che discutono di possibili alleanze, possibili formule, possibili programmi, invece di trovare terreno comune su alcuni punti cardine. È ora di calare il sipario sullo spettacolo grottesco di questo governo, fare una nuova legge elettorale decente, e, volendo, anche una per creare un federalismo sensato che non distrugga lo stato italiano, per poi andare alle urne. La paura del voto di alcuni, beghe interne e competizione tra leader individuali hanno ostacolato una soluzione che doveva essere ovvia e logica. L’unico punto positivo del prolungamento della crisi di Berlusconi è stato che il suo scivolamento nei sondaggi, con un tasso di approvazione che si abbassa al 30%, ha dato finalmente un po’ di coraggio alle truppe disordinate dell’opposizione. Sia Fini che Bersani sembrano ora parlare con più chiarezza.

Berlusconi continua ad invocare il popolo italiano come suo unico giudice naturale nel tentativo di sfuggire alla legge italiana e di usare il suo mandato popolare come scudo contro ogni critica e controllo. Quindi è giusto a questo punto tornare al popolo per avere indicazioni nuove: è giusto chiedere ai politici dell’opposizione di rischiare le loro poltrone a Montecitorio e di accettare la sfida di convincere una maggioranza degli italiani che hanno qualcosa di meglio da offrire rispetto all’incompetenza, alla corruzione e all’illegalità’ di due anni di Berlusconi.

Speriamo che si faccia una legge elettorale che tolga ai segretari di partito la capacità di scegliere tutti i candidati nelle liste e che dia all’elettorato la capacità di scegliere i propri rappresentanti, e che questo introduca un po’ di sangue fresco sia nei ranghi del centro sinistra che in quelli del centro destra.

Scritto lunedì, 14 febbraio 2011 alle 23:28
da - stille.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 22, 2011, 03:47:47 pm »


21
feb
2011

Alexander STILLE

Il falso scontro di civiltà

Prendiamo un momento di pausa dal melodramma politico italiano e riflettiamo sui recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia.
Prima che subentri una realtà più complessa, permettiamoci di godere di qualche momento di soddisfazione per quanto è avvenuto in questi
paesi. Le rivolte in Tunisia ed Egitto hanno fatto cambiare la nostra visione di questi paesi.

Dopo l’undici settembre, ci è stata posta una falsa scelta tra governi autoritari, impopolari ma filo-occidentali (appunto come quello di Mubarak e di Ben Ali in Tunisia) e le masse arabe viste come fucina di islamismo estremista. Il cosiddetto “scontro di civiltà.” Quello che abbiamo invece visto in queste ultime settimane è una realtà molto più complessa e variegata: le rivolte popolari hanno avuto poco a che fare con l’Islam, per la prima volta vediamo grandi sommosse popolari nel mondo arabo che non sono dirette contro qualche nemico straniero.

Tornando indietro nel tempo, prima ci furono le rivolte contro i colonialisti britannici, la cacciata degli stranieri in Egitto con la rivoluzione di Nasser, il panarabismo concepito come difesa contro l’invadente occidente, l’ossessione con l’esistenza dello stato
d’Israele, le folle iraniane che hanno occupato l’ambasciata americana gridando “morte a Satana.” In quasi tutte le altre crisi nel mondo arabo la colpa è stata di qualcun altro e la rabbia diretta, a volte con giustizia a volte meno, contro qualche nemico esterno.

Ora le proteste sono mirate contro governi nazionali, corrotti e incompetenti, ed esprimono un desiderio del tutto comprensibile in cui ci riconosciamo in pieno: voglia di libertà, insofferenza verso i soprusi di governi repressivi e un desiderio di prendere nelle proprie mani il futuro. I manifestanti, sia in Tunisia che in Egitto, non sono fanatici religiosi: infatti in Egitto la Fratellanza Musulmana è stata presa in contropiede, come tanti altri, dallo scoppiare di una rivolta che aveva tutt’altre origini.

Anche se non sappiamo come finirà questa storia, e può darsi che i cattivi governi del passato sia sostituiti con altri cattivi governi, i manifestanti che abbiamo visto sono dei giovani che tutti riconosciamo; fanno parte della generazione di Facebook e vogliono molte delle cose che anche i nostri giovani vogliono: libertà, possibilità di lavoro, una vita decente per se stessi e per i loro figli, e danno ogni segno di non volere assolutamente sostituire le repressioni di governi autoritari laici con repressioni di imam o di movimenti islamisti nei loro paesi.

Oltre a far bene ai loro paesi, queste proteste hanno fatto un servizio pure a noi, infrangendo la nostra visione monolitica del mondo arabo, vista troppo spesso come masse animate da odio verso l’Occidente o fanatismo religioso, tenute fragilmente sotto controllo da governi costretti ad usare la forza. Tramite queste proteste, abbiamo visto che ci sono invece molti tipi di egiziani e tunisini.

da - stille.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:33:32 am »

Alexander STILLE

4
mar
2011

Amoralismo familiare dilagante

Il Sindaco di Milano Letizia Moratti dimostra che il Berlusconismo – o il conflitto di interessi con una buona dose di amoralismo familiare – è un epidemia nazionale. Si scopre da un articolo dell’Espresso che il figlio trentaduenne Gabriele Moratti è riuscito, usando i buoni uffici del Comune di Milano, a trasformare cinque capannoni destinati ad uso industriale dal piano regolatore, in un mega appartamento di 447 metri quadrati per suo uso personale.

In più il fatto che il giovane Moratti si faccia una casa -dice l’architetto- ispirata alla cava di Batman, dimostra il degrado culturale di un mondo visto attraverso la televisione e il cinema. Per non parlare della legge aggirata per interesse personale e dei propri familiari: l’Espresso stima che la trasformazione da uso industriale in uso residenziale abbia aumentato il valore della proprietà di circa un milione di Euro.

Sullo stesso tema, mentre infuria la polemica sulla ennesima proposta di legge ad personam per l’imputato Berlusconi, si ignora del tutto il ruolo di primo piano dell’avvocato Niccolò Ghedini nella legislazione che riguarda il destino del premier. E ormai i reati sono talmente tanti e talmente scandalosi che non si immagina in quale altro Paese il governo non sarebbe già caduto.

Il fatto che l’avvocato personale del Primo Ministro, che lotta in tribunale per il suo cliente, percepisca anche un lauto stipendio e la pensione a vita per il suo ruolo in Parlamento, dove lotta altrettanto ferocemente per far passare leggi a beneficio del suo cliente più importante, è un conflitto di interessi che farebbe girare la testa a chiunque, ma in Italia passa come per una cosa del tutto normale, perfino innocua.

Sarebbe giusto chiedersi e chiedere all’avvocato Ghedini quanti soldi abbia preso in questi ultimi anni lo Studio Ghedini per tutto il lavoro fatto per Silvio Berlusconi, i suoi parenti, Mediaset e i suoi dirigenti, e quanti soldi abbia poi preso dal popolo italiano nella sua veste da Parlamentare. Pensa davvero che quando gli interessi pubblici sono in conflitto con gli interessi del suo cliente più importante lui sia davvero libero e sereno di scegliere ciò che ritiene più giusto?

Non ho mai capito perché non si sia mai tenuto conto, con un elenco completo, di tutti i Parlamentari che dipendono economicamente da Berlusconi fuori dal loro ruolo istituzionale: i vari contratti di consulenza, parcelle di avvocati e fiscalisti, rubriche fatte sui giornali dell’impero Berlusconiano, o semplicemente dipendenti attuali o passati di una delle aziende dell’universo imprenditoriale del Premier e degli imprenditori che hanno fatto affari con una delle sue aziende. Sarebbe il minimo per stabilire un po’ di trasparenza nel sistema italiano.

Scritto venerdì, 4 marzo 2011 alle 16:15
da - stille.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 09, 2011, 06:49:05 pm »

Alexander Stille

7
mar
2011

L’incitamento all’odio è reato?

Mi ha colpito la coincidenza tra il caso del celebre stilista di Christian Dior, John Galliano, arrestato per una sua sfuriata antisemita in un locale di Parigi, e la decisione dell’altro ieri della Corte Suprema americana che ha votato con otto giudici su nove di non poter sanzionare la protesta anti-gay ai funerali di un militare.

I due casi sono piuttosto simili, trattandosi di espressioni di odio in luoghi pubblici. Nel caso di Galliano, è saltato fuori un video in cui lo stilista insulta altri clienti di un locale che lui pensa siano ebrei dicendo che ama Hitler e che i loro antenati sarebbero stati mandati alle camere a gas.

Nel caso delle proteste negli Stati Uniti, il conflitto era tra la famiglia di un militare morto in Iraq e una chiesa estremista che ha manifestato in molti funerali di militari contro la tolleranza per gli omosessuali nell’esercito, portando manifesti del tipo “Dio odia i froci”.

In ambedue i casi i messaggi sono di puro odio ma in Francia, come in altri paesi europei, l’incitamento all’odio è reato, mentre negli Stati Uniti è considerato libertà di espressione, protetta dalla legge. Scrive il capo della Corte Suprema John G. Roberts Junior: “La parola è potente, può muovere la gente all’azione, alle lacrime di gioia o di tristezza e, come in questo caso, infliggere grande dolore. Ma non possiamo reagire a quel dolore punendo chi parla. Il discorso dei manifestanti non può essere limitato semplicemente perché sconvolge e stimola disprezzo”.

Gli Stati Uniti hanno come principio fondativo il Primo Emendamento mentre l’Europa ha la sua lunga e tragica storia di guerre di religione e genocidio, per cui sono due tradizioni profondamente diverse. Non è vero che negli Stati Uniti si possa dire qualsiasi cosa, ma la condanna dell’opinione pubblica può elargire sentenze molto dure: i discorsi antisemiti degli attori Mel Gibson e Charlie Sheen hanno danneggiato in modo forse irreparabile le loro carriere. Il tutto senza una legge. Invece in Europa si sente il bisogno di rendere reato certi discorsi intolleranti.

Qual è, chiedo ai lettori, il sistema più efficace per limitare l’incitamento all’odio?

Tutto ciò è paradossale se si pensa che avviene l’esatto contrario in un altro campo: gli Stati Uniti impediscono per legge ai ragazzi sotto i 21 anni di bere alcolici, mentre in quasi tutti i paesi europei c’è molta più libertà.

Scritto lunedì, 7 marzo 2011 alle 15:06
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 18, 2011, 05:04:00 pm »

Alexander STILLE


17
mar
2011

Viva l’Italia unita (e disunita)


Mi trovo a Roma giusto in tempo per la festa del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Ieri sera sono stato alla passeggiata del Gianicolo a vedere tutti i busti dei garibaldini – per anni ridotti da graffiti e atti di vandalismo, senza un naso o un orecchio. Ora sono tutti rifatti come nuovi, ma sotto sacchi di plastica per proteggerli dalla pioggia e dai vandali almeno per il giorno della loro inaugurazione.

Stamattina sono stato all’arco di Porta San Pancrazio dove una folla con bandiere aspettava, di nuovo sotto la pioggia, la riapertura del Museo risorgimentale e l’arrivo delle autorità dello stato. Molti, evidentemente, hanno aspettato l’opportunità di fischiare Berlusconi. “Ecco lo psiconano!” urlava una. “Buffone! Buffone!” “Dimissioni!”

Ecco l’unità d’Italia.

Mi occupo troppo spesso nel mio lavoro degli aspetti più brutti dell’Italia: il fascismo, la mafia, la corruzione politica. Mentre ho cominciato ad occuparmi dell’Italia per amore verso il paese: soprattutto per la gente che ho incontrato – persone di una gentilezza e simpatia incredibili – un gran sapere vivere e un modo di vita che ha beneficiato di centinaia se non migliaia di anni di tradizioni e costumi. Ma anche, più ovviamente, per la straordinaria bellezza del paese e le sue sterminate ricchezze culturali e artistiche.

In questo, paradossalmente, la disunità politica d’Italia (di cui soffre ancora) è stata anche fonte di ricchezza culturale. Il fatto che c’erano decine, a volte centinaia di piccoli stati, principati, ducati, città indipendenti – ognuno del quale si considerava il centro del mondo, con la sua corte, i suoi architetti e i suoi artisti – che pretendeva di sfidare le grandi capitali del mondo costruendo la cattedrale più grande o il palazzo più bello rende unica l’Italia.

Per molti secoli non era chiaro dove sarebbe stato il centro d’Italia: Ravenna, capitale bizantina. Palermo sotto i normanni fu una grande capitale europea. Napoli e Venezia erano per un certo periodo le città più grandi d’Europa. E città come Genova e Amalfi erano grandi rivali commerciali. Bologna e Padova ospitarono le più grandi università del continente attraendo studiosi da tutta l’Europa. Nel duecento, Siena pensava di superare Firenze e nel Rinascimento città-Stato come Mantova e Ferrara erano piccole capitali a livello europeo. Mentre in Inghilterra e la Francia, il successo dello stato centrale ha avuto l’effetto di creare molto presto una grande capitale che ha attratto le risorse più importanti del paese riducendo il resto del paese in provincia, in Italia la mancanza di stato centrale ha avuto l’effetto opposto, mantenendo e incoraggiano questa grande, ricca diversità – la fortuna e la sfortuna d’Italia.

Per cui, viva l’unità e la disunità d’Italia.


http://stille.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER1-1
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 01, 2011, 10:26:53 pm »

LA POLEMICA

Quando il giornalismo è in conflitto d'interesse

di ALEXANDER STILLE

Giuliano Ferrara mi ha dedicato un lungo e violento attacco personale sulle pagine del suo giornale, Il Foglio, come risposta a due paragrafi in un mio post per il blog di Repubblica 1. La lunghezza e la ferocia dell'articolo suggeriscono che evidentemente ho toccato un tasto importante.

Che cosa ho scritto per giustificare tanto rancore da parte di Ferrara? In un pezzo su una serie di conflitti d'interesse nell'Italia berlusconiana, ho scritto: "Stranamente non desta nessuna meraviglia o indignazione il fatto che Giuliano Ferrara, ex portavoce del primo governo Berlusconi, direttore di un quotidiano della famiglia Berlusconi, cominci una feroce controffensiva pubblicitaria a difesa di Berlusconi, proprio dopo un incontro personale con Berlusconi, e che gli venga dato un programma in prima serata alla Rai. Tra i mille scandali dell'epoca berlusconiana, questo è evidentemente di poco peso. Ma in realtà, il fatto che un ex portavoce di un leader politico, che riceve tuttora uno stipendio dalla famiglia Berlusconi, abbia anche un programma su una delle principali reti pubbliche del Paese è uno scandalo".

Ferrara fa una specie di apologia pro vita sua  -  il che va benissimo, ha molte doti e ha fatto molte cose di cui essere orgoglioso  -  parla della sua amicizia con mio padre, genuina e sincera da ambedue le parti, per poi scendere in un attacco molto personale nei miei confronti arrivando perfino a chiamarmi "un figlio parricida". Qui fa un'ingiustizia a un suo amico, mio padre. La logica bizzarra di Ferrara sarebbe più o meno questa: le mie critiche alla corruzione dei politici degli Anni 80 e alle nefandezze dell'era di Berlusconi rappresentano un attacco contro mio padre  -  come se mio padre fosse un indagato di Tangentopoli. Sarebbe come se io riducessi l'impegno anti-comunista di Ferrara (che credo sincero) in un desiderio suo di uccidere suo padre comunista.

Le mie critiche a Ferrara erano puramente professionali: considero un serio conflitto d'interesse per un giornalista avere un programma del servizio pubblico mentre dirige un quotidiano della famiglia Berlusconi. Questo non significa che sia un uomo venduto. Ferrara cita i casi americani di William Safire e George Stefanopolis - ex portavoci di presidenti americani che poi hanno lavorato con successo come giornalisti. Ma omette che sia Safire che Stefanopolis hanno dovuto tagliare qualsiasi rapporto professionale ed economico con la politica attiva quando hanno fatto il passaggio al giornalismo.

L'anno scorso, Keith Obermann, conduttore di un programma di informazione politica sulla rete Msnbc, è stato sospeso dal lavoro perché è venuto fuori che ha versato alcuni contributi (del tutto leciti) a campagne elettorali di candidati democratici. Il programma di Obermann era apertamente schierato: lui non aveva ricevuto un centesimo da nessuno, aveva solo dato un po' di soldi, tutti registrati per legge. Considero, personalmente, questa un'esagerazione. Ma la Nbc ha stabilito che questo rapporto economico abbia in qualche modo compromesso il necessario distacco dei giornalisti nei confronti della politica.

Ho sempre apprezzato Giuliano Ferrara e l'ho considerato un amico nonostante avessimo punti di vista politici molto diversi. Mi è sembrato una persona capace di separare scontri politici anche molto accesi da rapporti personali. L'ho invitato a partecipare alla presentazione del mio libro su Berlusconi proprio per stimolare un dibattito civile. Non credo di avere un monopolio della verità e credo che Ferrara possa avere ragione su alcune questioni o comunque avere molto da contribuire per spingerci verso una visione più sfumata e complessa della realtà.

Giuliano Ferrara ed io abbiamo un lungo contenzioso da quando Silvio Berlusconi è entrato in politica. Ho detto fin dall'inizio che il conflitto d'interessi presentato da Berlusconi sarebbe stato un disastro per l'Italia: il miscuglio di interessi massicci privati e poteri pubblici avrebbe impedito a Berlusconi di liberalizzare l'economia e di fare riforme di cui il Paese aveva bisogno. Ho detto che un imprenditore con tanti scheletri nell'armadio avrebbe dovuto paralizzare il sistema giudiziario per difendere i propri interessi. Ho detto che il proprietario delle tre principali reti televisive non avrebbe dovuto controllare il sistema televisivo pubblico e che avrebbe deformato l'informazione in Italia. Ho detto che un tale concentramento di potere nelle mani era un male per la democrazia in Italia e che avrebbe messo in crisi le istituzioni del Paese. Questo punto di vista l'ho ripetuto tante volte in diciassette anni. E capisco che può sembrare a Ferrara "noiosa" e "pedante", questa litania, ma purtroppo tutto quello che è successo credo che abbia dato ragione al mio punto di vista.

Ho sempre considerato molto grave l'abitudine di molti giornalisti di prendere un secondo stipendio scrivendo rubriche per Panorama (giornale della famiglia Berlusconi) pur occupandosi di affari nazionali. E credo che la sinistra italiana avrebbe fatto molto bene a fare una legge sul conflitto d'interessi non diretta esclusivamente contro Berlusconi ma anche contro categorie che sono vicine alla sinistra (professori universitari, magistrati, doppi incarichi di sindaci, parlamentari, europarlamentari).

Ferrara ha una concezione molto diversa della deontologia professionale. Si è vantato di aver preso soldi dalla Cia come informatore  -  un fatto che mio padre non avrebbe approvato. E Ferrara non vede nulla di male nella disinvoltura con cui ha assunto una serie di ruoli diversi nell'era berlusconiana  -  portavoce, ministro, consigliere, direttore di un giornale di famiglia, candidato politico e conduttore di programmi televisivi.

Giuliano contrasta il mio "puritanesimo noioso" con il suo neo-machiavellisimo vivace. Ma sbaglia se pensa che io sia un puritano o creda nella purezza di me stesso o di qualcun altro. E proprio perché credo che siamo tutti soggetti alle stesse tentazioni (soldi e potere) sostengo che abbiamo bisogno di regole come quelle del conflitto d'interessi. "Se fossimo degli angeli non avremmo bisogno di un governo", ha scritto James Madison, difendendo la costituzione americana, tutta basata sull'equilibrio dei poteri.

(01 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 07, 2011, 04:54:42 pm »

5
apr
2011

La politica della battuta

Alexander STILLE

Nella campagna elettorale del 1968 la durata media dei soundbite (estratto audio di una figura politica che parla senza interruzione durante un programma televisivo) durante i telegiornali americani era di 43 secondi. Negli anni Ottanta si è arrivati a soli 14 secondi e ora siamo sotto agli 8 secondi.

Significa che la politica di questi giorni si riduce sempre di più a delle battute veloci: “Leggi le mie labbra, niente nuove tasse” ha detto il primo presidente George Bush. “Dov’è la carne?” chiedeva Walter Mondale, lo sfidante democratico nel 1984, ripetendo una famosa pubblicità di hamburger dell’epoca. “Non siate femminucce dell’economia” esultava Arnold Schwarzenegger, l’ex attore che è stato per anni governatore della California, alla convention Repubblicana del 2004. “Qual è la differenza tra un mastino e una mamma di hockey? Il rossetto.” diceva Sarah Palin alla convention repubblicana del 2008. La tecnologia ha cambiato il discorso politico: siamo passati dalle lunghe orazioni del primo Ottocento alle battute di otto secondi. In parte è un adattamento inevitabile al progresso tecnologico: la CBS, la rete televisiva americana con la più lunga storia di eccellenze giornalistiche, ha cercato di rovesciare il trend dei soundbite brevi, impegnandosi a non mandare in onda spezzoni di audio di meno di 30 secondi. Ha dovuto cedere dopo poche settimane: il mercato e il gusto degli spettatori sono cambiati e apprezzano la velocità.

Anche quelli che oggi deprecano la superficialità del dibattito politico non sopporterebbero i lunghi discorsi retorici dell’Ottocento che facevano impazzire le folle, ma che si tradurrebbero molto male sul piccolo schermo televisivo. Il ridurre la lunghezza dei discorsi dei politici non è sempre un male, perché può significare anche l‘indipendenza del giornalista rispetto al potere politico.

In Italia per esempio succede il contrario: il 61% dei servizi dei telegiornali RAI che si occupano di politica consiste di dichiarazioni di politici, mentre solo lo 0,2% nasce da inchieste. La media in Europa, per quanto riguarda dichiarazioni dirette di politici, è del 23%.

Nella televisione commerciale americana per rendere la politica più accattivante durante le campagne elettorali quasi tutti i pezzi riducono la politica a una specie di gioco, o come viene chiamata, una corsa di cavalli: chi è in testa, chi sta guadagnando o perdendo terreno. Uno studio ha scoperto che nel 1960 circa il 40% dei pezzi si collocava dentro lo schema del gioco della corsa di cavalli, mentre nel 1992 la percentuale era arrivata a più dell’ 80%. Mentre lo studio più recente, fatto nel 1997, ha trovato che soltanto il 15% del giornalismo televisivo politico riguarda le proposte politiche e le idee dei candidati.

Gli studiosi hanno identificato tre scuole di giornalismo televisivo. Quella americana, con il miscuglio di indipendenza politica e superficialità dovuta alla commercializzazione della tv. La seconda è la scuola italo-francese, che gli studiosi chiamano sacerdotale, in cui i discorsi dei politici dominano la televisione come i sacerdoti in chiesa. Infine c’è la scuola anglo-tedesca che rappresenterebbe una via di mezzo, con un buon livello di professionalità giornalistica, una certa indipendenza dalla politica e soundbites di media duratura.

Che cosa significa questo per la politica di oggi?  Ha portato soprattutto alla personalizzazione. Nell’era televisiva, il candidato giudicato più ‘amabile’ ha vinto ogni elezione americana dal 1960 in poi, da quando la televisione è diventata un fattore cruciale negli Stati Uniti. L’unica eccezione è stato Richard Nixon nel 1968, quando il candidato democratico più forte Robert Kennedy fu assassinato durante la campagna elettorale: il partito democratico si spaccò in due tra fautori e critici della guerra in Vietnam. Mentre in passato i candidati dei due maggiori partiti americani erano scelti dai leader del partito stesso, dopo il 1968 le regole furono cambiate: chi vinceva le primarie correva poi per la Casa Bianca. Con la crescente importanza della televisione, l’elettorato ha creduto di poter conoscere in prima persona il candidato ed è diventato impensabile che la leadership potesse essere decisa da qualcun altro. Questo ha fatto delle primarie una specie di gara di bellezza, in cui i candidati più telegenici hanno avuto la meglio.

Se pensiamo al contesto italiano, sarebbe impensabile immaginare la candidatura a premier di politici del passato come un Flaminio Piccoli o forse anche un Aldo Moro, noti per i loro discorsi incomprensibili.

Siamo ormai talmente abituati a vedere la politica attraverso la televisione che non ci rendiamo più conto di quanto condizioni il nostro modo di concepirla; ogni volta che guardiamo un confronto politico in tv giudichiamo la prestazione di questo o di quel candidato secondo dei valori prettamente televisivi: non sembrava molto a suo agio, era troppo autorevole, piaceva, non piaceva, la gestualità o la postura.

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