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Autore Discussione: STEFANO LEPRI.  (Letto 55758 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 02, 2011, 06:13:52 pm »

2/12/2011

Nicolas Sarkozy esita l'Europa aspetta Angela

STEFANO LEPRI

Mario Draghi ieri mattina ha indicato la strada: può salvare l’euro solo un accordo politico tra Paesi per governare insieme l’economia.
Ma Nicolas Sarkozy ancora esita davanti a tutto ciò che possa apparire una sottomissione della Francia ad autorità comuni; vedremo oggi se Angela Merkel mostrerà una Germania un po’ meno chiusa alla solidarietà verso gli altri Paesi. Nella settimana cruciale che ci separa dal vertice europeo del 9, occorre affrontare problemi elusi e rimasti irrisolti per anni. Molto ancora manca a formulare quella proposta comune che il presidente francese e la cancelliera tedesca dovrebbero mettere a punto in un nuovo incontro lunedì.

Può placare le ansie dei mercati, sedare il loro panico, solo un più forte ruolo della Banca centrale europea. Nel suo discorso di ieri davanti al Parlamento europeo l’italiano che ora la presiede ha fatto capire che questo può avvenire, risollevando sui mercati il valore dei titoli pubblici italiani, spagnoli e francesi. Con grande chiarezza ha detto che questo potrà avvenire soltanto sulla base di un nuovo patto politico che riformuli le regole sui bilanci pubblici dell’area euro, rendendole più stringenti.

Altrimenti «l’Europa rischia di essere spazzata via» ha detto ieri Sarkozy; restando tuttavia sul vago quanto ai rimedi.
Si attendevano novità dal discorso che ieri sera il Presidente francese, già di fatto in campagna elettorale per la rielezione a primavera, ha pronunciato a Tolone davanti a una folla di sostenitori. Invece ha fatto solo un piccolo passo avanti, verso le sanzioni automatiche contro i Paesi trasgressori proposte dai tedeschi. Nulla su quali autorità dovrebbero esercitare la sorveglianza e come.

Resta ancora la Francia il Paese più restio a sottoporsi a una disciplina comune; soprattutto ad attribuire nuovi poteri alla Commissione europea. Non si tratta solo di orgoglio nazionale. In concreto, grazie alla legge dei più forti (i due Paesi più forti) finora invalsa nell’area euro, il bilancio pubblico francese è assai più squilibrato di quello italiano, pur se gravato da un minor peso di debiti passati. Un riequilibrio secondo linee guida comuni, secondo regole uguali per tutti, inevitabilmente sarebbe pesante.

Però da lì si deve passare. Prendendosi la responsabilità di guidare, e non riuscendoci finora che tardi e male, sia Parigi sia Berlino stanno mettendo a nudo tutte le loro debolezze. Ma non si può evitare il salto in avanti richiesto ora anche dalla Bce con pretesti di rispetto della sovranità democratica dei due Paesi. Per sottrarsi a un impegno solidale la Germania si avvinghia alla lettera di una Costituzione pensata nel 1949 per fermare l’eventuale ascesa di un nuovo Hitler; la Francia rifiuta di intaccare il potere del proprio Stato sperando di difendere un modello di società supposto migliore di tutti gli altri, e invece sempre più chiuso su sé stesso.

Il ritardo nelle decisioni dell’Europa la sta precipitando in una recessione economica che poteva forse essere evitata. Dai suoi propri ritardi, l’Italia è costretta a nuove misure di austerità che sarebbero state meno severe se prese prima. Questi due processi interagiscono, aggravandosi a vicenda. Se il nostro Parlamento intralciasse l’attività del governo a cui ha dato un così ampio voto di fiducia, si prenderebbe responsabilità gravi di fronte a tutto il continente; e darebbe alla Germania un’ottima scusa per continuare a non decidere. Questo va assolutamente evitato, pre precise ragioni.

L’euforia finanziaria aveva creato nell’area euro un micidiale moral hazard, ovvero un perverso incentivo a spendere troppo nell’illusione che si sarebbe sempre trovato credito. Ma lo stato di panico in cui i mercati si trovano adesso lo ricrea alla rovescia: uno Stato tedesco che può prendere a prestito quasi gratis, un Paese dove affluiscono masse di capitali in cerca di sicurezza, non vede ancora tutta l’urgenza della crisi. Speriamo che davanti al Bundestag stamattina Angela Merkel sappia guardare oltre.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9506
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 05, 2011, 11:07:45 am »

5/12/2011

I patrimoni sono il primo obiettivo

STEFANO LEPRI

È razionale tassare di più, molto di più, la casa, come misura principale di riequilibrio del bilancio. E’ razionale destinare una parte del ricavato a ridurre l’Irap. Si aggiunge una riforma delle pensioni ben congegnata, che potrebbe essere definitiva. Nuove liberalizzazioni potrebbero aprire spazi alla crescita economica ed abbassare costi e prezzi.

Scompaiono parecchi enti inutili. In molti dei casi si tratta di decisioni sollecitate da anni.

Tutto questo può piacere o non piacere, ma ha un disegno. L’equità di fondo è data appunto dal concentrare sui patrimoni, immobiliari e in parte anche finanziari, il pesante aggravio di imposte che la situazione di emergenza richiede e che purtroppo non poteva essere evitato. L’Italia è appunto ricca nel patrimonio rispetto ad altri Paesi anche più ricchi nel reddito; in più, i patrimoni sono distribuiti in modo più diseguale dei redditi.

Dunque tassare di più la casa, pur se colpisce l’80% delle famiglie, è più pesante per i ricchi. Sarebbe meglio commisurare l’imposta ai valori di mercato piuttosto che alle fittizie e per di più invecchiate rendite catastali, ma non c’è il tempo, perché il fisco non li conosce. L’adeguamento delle rendite alla realtà di oggi, che parecchi grandi Comuni avevano già a buon punto, è stato interrotto tre anni e mezzo fa dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa.

In teoria, secondo la teoria degli economisti, sarebbe stato meglio puntare di più sui tagli alle spese. Purtroppo quando si opera con tempi di emergenza ridurre le spese risulta più difficile, come ha fatto presente ieri sera per lunga esperienza il ministro Piero Giarda. Inoltre, occorreva più che altro assicurare l’efficacia delle riduzioni di spese decise dal precedente governo, non tutte dettagliate e non tutte sicuramente praticabili.

La misura a più robusto effetto sulla crescita dovrebbe essere lo sgravio dell’Irap nella parte che incide sul costo del lavoro. Le imprese la reclamavano da anni, e ha un costo notevole. Certo, comporta il rischio di rimpinguare i profitti, piuttosto che di muovere nuovi investimenti. Funzionerà se l’insieme della manovra risulterà credibile e ridarà fiducia sia in Italia sia all’estero nelle prospettive della nostra economia.

Se si vuole criticare il maxi-decreto di ieri sera, è facile sostenere che avrà un effetto recessivo. Nell’immediato, sottrarre 20 miliardi netti di euro non può che deprimere l’economia. Tuttavia, incidere molto sui patrimoni e detassare le imprese è una delle combinazioni meno peggiori; occorre che vi si accompagni un forte recupero di evasione fiscale. Ieri sera il presidente del consiglio ha detto che i provvedimenti presi sono «piuttosto incisivi», però mancano ancora sufficienti dettagli.

Ad esempio non sarebbe stato assurdo fissare a 500 euro, invece che a 1.000, il limite della tracciabilità dei pagamenti. Dentro l’attuale governo vi sono tutte le capacità tecniche per agire in modo deciso contro chi froda il fisco. Sarà essenziale provarlo, quando da oggi in poi si sentirà affermare da più parti che nulla cambia, perché pagano sempre i soliti: secondo alcuni i lavoratori, secondo altri i ceti medi, secondo altri ancora i poveri.

Nella situazione in cui ci troviamo, qualche sacrificio lo devono fare tutti. Nessuno, potrebbe riuscire a ricavare 20 miliardi di euro soltanto dai «ricchi». Un governo tecnico serve proprio a non subire quei ricatti dei pochi sui molti, ovvero delle lobby capaci di minacciare compatte un cambio di scelta elettorale, che normalmente paralizzano i partiti politici. Per questo motivo è essenziale che la gran parte dei cittadini venga persuasa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9518
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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 10, 2011, 04:38:17 pm »

10/12/2011

Le leve di comando

STEFANO LEPRI


Ci vorrebbe più lotta all’evasione fiscale, ci vorrebbero più tagli alle spese: restano queste le due principali critiche alla manovra Monti. Benché contro l’evasione ci sia una novità importante nelle prime ore sottovalutata, la trasparenza al fisco dei conti correnti bancari, molti altri provvedimenti vengono suggeriti. Meno chiare invece appaiono le controproposte sulla spesa pubblica.

Come ha detto ieri il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, per avanzare proposte valide sulla spesa occorrono «meccanismi idonei a formulare analisi dettagliate delle singole voci» e «indicatori accurati di efficienza delle diverse strutture pubbliche». Già: e perché non si è mai riusciti a farlo finora, quando è da vent’anni che i governi si impegnano a tagliare le spese?
I limiti rivelati dai primi provvedimenti del governo Monti tornano utili a riflettere su quanto in profondità siano radicati i problemi da affrontare. Verifichiamo nella pratica che il male non può essere attribuito soltanto alla «casta» dei politici. Per l’appunto diversi esponenti di un altro governo tecnico, quello guidato da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, ebbero l’impressione che l’alta burocrazia non gli obbedisse appieno. Di episodi simili si ha notizia in queste ore.

Un governo tecnico, che non deve essere rieletto, presenta in sostanza due vantaggi. Primo, è meno condizionato dall’impopolarità di massa delle misure più severe (come l’aumento di imposte sulla casa). Secondo, è meno condizionato da gruppi di interesse ristretti che spesso riescono a bloccare riforme gradite a una maggioranza di cittadini (la tracciabilità dei pagamenti, o certe liberalizzazioni). Purtroppo questo non basta, perché le leve di comando restano le stesse: la pubblica amministrazione, i cui alti gradi spesso sono parte dello stesso sistema in cui prosperano sia l’inefficienza sia la corruzione della politica. Per giunta gli stessi tecnici in qualche caso sono solo la migliore espressione, ad elevati livelli di competenza, di un Paese frammentato in corporazioni e gruppi di interesse.

Quasi tutti gli economisti sono convinti che nella spesa pubblica ci sia molto che può essere tagliato senza danno. Ma l’insieme è così poco trasparente che risulta difficile capire come. Forse alcune cose nemmeno i ministri riescono a saperle. Ad esempio, può essere un fatto obiettivo che a un certo punto le Volanti della Polizia si trovino a corto di benzina per svolgere il loro indispensabile lavoro; ma sarà difficilissimo stabilire se davvero prima di arrivare a questo esito si sia tagliata ogni altra spesa meno utile.
Una delle voci più dubbie della spesa totale è quella dei «trasferimenti a imprese»; la stessa Confindustria riconosce che lì molto potrebbe essere eliminato. Eppure una lista completa e dettagliata sembra non sia disponibile. Chi in Parlamento ha provato a indagare ha incontrato muri di gomma innalzati dai burocrati. La ragioneria generale dello Stato fa i conti e insieme li controlla; le proposte per distanziare questi due ruoli vengono regolarmente insabbiate. Quando il burocrate oppone il «non si può fare» coraggio e astuzia sono necessari. Altrettanto serve per affrontare l’evasione fiscale, tanto radicata nel corpo della nostra economia. Lì il vizio tenace delle burocrazie sta nel vantare successi inesistenti, «stiamo già facendo», quando poi la Corte dei Conti periodicamente rivela che alle altisonanti cifre degli accertamenti corrispondono solo in minima parte incassi veri di imposte in più. In più, le lobby interessate a che il fisco resti facile da ingannare possiedono forse una potenza sufficiente anche a intimidire un governo tecnico.

Con questa manovra l’Italia diventerà, con una pressione fiscale del 45%, uno dei Paesi più tassati del mondo. Senza più ampi tagli alle spese e senza recupero massiccio di evasione, come ci dicono le analisi della Banca d’Italia, la competitività perduta non la recupereremo mai.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9535
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 07, 2012, 11:19:17 am »

7/1/2012

Banche, la crisi torna dov'era cominciata

STEFANO LEPRI

I dati sulla disoccupazione sono da sempre più importanti negli Stati Uniti rispetto all’Europa, perché lì il Welfare protegge meno. Lo sono ancor più in questo periodo, quando perfino la destra repubblicana si accorge che si è rotto l’«ascensore sociale», ovvero che l’America non è più il Paese dove facilmente un povero che si dà da fare può diventare ricco. Rallegra anche Barack Obama il calo dei senza lavoro, perché gli fa guadagnare speranze di essere rieletto. La notizia non è tuttavia bastata, ieri nelle Borse di tutto il mondo, a controbilanciare il pessimismo che viene dall’Europa. Altri segnali dovranno seguire, prima di poter essere certi che negli Usa si è irrobustita la ripresa.

Se la recessione a cui va incontro l’Europa sarà breve, come i più recenti dati dall’economia reale consentono di sperare, le sue ripercussioni oltreoceano resteranno contenute. Ma ci sono le banche. Per quella via il contagio internazionale viaggia veloce. E la crisi dell’area euro stringe ora Stati e banche in un circolo vizioso: la fragilità del debito di alcuni Stati fa sorgere dubbi non solo sulle banche che vi hanno sede, ma su quasi tutte le banche del resto dell’area. Non è peraltro un male che la crisi ritorni dove è cominciata, nella finanza. Può essere utile a capirne meglio la natura; sperabilmente ad accelerare i rimedi. Purtroppo il colpo è stato duro in Italia, dove i banchieri non avevano molto peccato di sregolatezza prima del 2007. Ciò che viene alla luce è piuttosto una particolarità nazionale: mostra i suoi limiti l’assetto proprietario basato sulle Fondazioni, a cui si ricorse quando le banche furono privatizzate negli Anni 90. Inutile accusare le nuove regole europee, c’è una carenza di capitale vera. Non è un male che la crisi ritorni ad abbattersi sulle banche perché mostra quanto le difficoltà investano collettivamente tutta l’area euro, e richiedano dunque uno sforzo comune. La nazionalizzazione di ciò che resta di Dexia potrebbe dare il colpo finale alla «tripla A» del debito pubblico francese; il governo di Parigi ha smentito, e ciò nonostante la voce continua a girare. La stessa Germania potrebbe essere costretta ad interventi di grande peso.

Insomma, se le banche tremano, solo gli Stati possono sorreggerle. Ma che avverrà agli Stati troppo deboli per fare da sostegno? Anche nel caso delle banche si rivela una miopia dei poteri costituiti nazionali dell’area euro. La moneta unica per funzionare bene non richiede soltanto una parziale cessione di sovranità (una politica di bilancio comune) ma anche un sistema bancario il più possibile transnazionale. Ad esempio, è normale che alcuni dei 50 Stati nordamericani consumino più di quanto producano, e altri l’opposto; ma il risparmio viene trasferito da dove si forma a dove serve da un sistema bancario perlopiù a scala dell’intera Unione, senza che si interpongano etichette di provenienza, Illinois o Alabama o altro. Può darsi che la comune situazione di pericolo agevoli la comprensione dei fatti. Finora la Germania è riuscita a tenere separate le parti del problema, come se non ci fosse alcun nesso tra le difficoltà delle sue banche, venute da chissà dove, e quelle dei Paesi deboli, provocate dalla dissolutezza dei loro governi. L’attenzione ossessiva ai soli deficit pubblici minaccia di trasformare l’unione monetaria europea in un infernale meccanismo di recessione, come lo fu il gold standard negli Anni 30.

Sarebbe stato meglio per le banche un sostegno collettivo europeo, che le indirizzasse verso una dimensione sovrannazionale oltre ad evitare nuovi intrecci tra politica interna e potere della finanza. Intanto è necessario rendere pienamente operativo al più presto l’Efsf, il fondo di salvataggio europeo. Non è affatto detto che basti. Perlomeno Berlino appare ormai isolata nell’allungare i tempi, abbandonata anche dai suoi tradizionali alleati nordici.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9624
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 10, 2012, 10:17:08 am »

10/1/2012

Quella bandiera sognata dai No Global

STEFANO LEPRI

Quanta acqua è passata sotto i ponti... nel 1999 a Seattle, nel 2000 a Praga, nel 2001 a Genova la Tobin Tax (la tassa che dovrebbe colpire con una bassa aliquota ognuna delle migliaia di transazioni finanziarie effettuate ogni giorno) era la bandiera più accattivante, più chiara, delle proteste contro la globalizzazione nelle strade di tutto il mondo. Chi si ricorda? L’attivista franco-americana Susan George che la spiega in piazza Carignano, prima che la morte di Carlo Giuliani a qualche isolato di distanza oscurasse tutto? Il direttore del Monde diplomatique , Ignacio Ramonet, star dell’estrema sinistra, che rivendica di averla lanciata per primo nel 1997?

Ora, su quella tassa per mettere a freno la finanza si confrontano governi di centro-destra come quelli di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. A ben guardare, tanto strano non è. Non voleva affossare il capitalismo, piuttosto salvare il capitalismo produttivo dagli squilibri finanziari, l’economista americano James Tobin, premio Nobel 1981, non a caso uno dei maestri di Mario Monti a Yale 46 anni fa. Inutilmente lo ripeteva, allora: «Io sono per il libero commercio, appoggio il Fmi, la Banca Mondiale e la Wto, non ho nulla a che fare con chi si proclama rivoluzionario».

Tobin, rifacendosi a John Maynard Keynes, temeva che il moltiplicarsi di transazioni a breve o brevissimo termine finisse per distaccare completamente la finanza dal suo compito basilare di incanalare il risparmio negli investimenti produttivi dove può essere utilizzato con profitto; e creasse sui mercati (si riferiva soprattutto ai cambi delle monete) oscillazioni dannose per chi produce e commercia.

Però a scorgere i rischi della finanza erano in pochi, dieci o dodici anni fa. Anzi controlli e vincoli si attenuavano, secondo la dottrina del «tocco leggero» di Alan Greenspan. Da parte sua Attac, organizzazione di estrema sinistra nata per sostenere (qualsiasi cosa ne pensasse Tobin stesso) la tassa Tobin, la vantava come unica misura capace di raccogliere il denaro necessario ad aiutare i Paesi poveri. Nel Parlamento italiano di sostenitori se ne trovarono, parecchi nel centro-sinistra, qualcuno anche nel centro-destra; ma si demoralizzarono dopo che nessuno aveva dato retta al primo ministro socialista francese Lionel Jospin, prima voce ufficiale a dirsi favorevole.

Il seguito è noto: la finanza ci ha messo nei guai della grande crisi. Sui mercati non si dà gran peso ai dati reali, dai quali risulta che l’Italia è in grado di fare fronte ai suoi debiti; si opina invece che se i mercati stessi resteranno convinti che l’Italia non ce la fa, allora alla fine non ce la farà davvero. E cavalcando aspettative gregarie si arriva, come ieri, alla demenza di acquistare in massa titoli di Stato tedeschi a breve che rendono meno di zero.

Oggi quasi tutti sono d’accordo che la finanza va disciplinata. Anche a governi di centro-destra piace additare le responsabilità dei banchieri. Quanto alla Tobin Tax, tuttavia, restano gli stessi dubbi a cui non dette risposta un rapporto commissionato appunto da Jospin. Ovvero: non è certo che possa ridurre l’instabilità dei mercati; e se applicata solo da alcuni Paesi spingerebbe le transazioni finanziarie verso i Paesi che non la applicano. Negli Anni 80, obiettano i favorevoli, la Svezia adottò da sola una imposta simile, con danni limitati.

Il Fondo monetario internazionale la giudica difficile da applicare; se si vuole tassare la finanza, altre soluzioni sono più efficaci. La Tobin Tax ha il vantaggio di colpire la fantasia: disincentiva quel frenetico moltiplicarsi di scambi, ora anche «ad alta frequenza», di pochi attimi, grazie ai computer, di cui le persone qualsiasi non riescono a capire la necessità. Così si è rivelata una bandiera anche per due governi, come il tedesco e il francese, che in questa stessa crisi hanno fatto tutto il possibile per lavare in patria i panni sporchi delle loro banche.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9633
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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 12, 2012, 12:23:07 pm »

12/1/2012

L'aiuto che serve ai mercati

STEFANO LEPRI

L’ Italia di Mario Monti piace alla Germania; la bozza di trattato europeo in discussione non appare più minacciosa. La giornata di ieri è da segnare all’attivo per il nostro governo e il nostro Paese. Eppure l’uscita dalla crisi dell’euro resta lontana; i piccoli passi della diplomazia rischiano di essere sopravanzati non solo dalla velocità con cui i mercati si convincono di future catastrofi, ma anche dalla lentezza gregaria con cui la massa degli investitori si accorge delle inversioni di tendenza.

Monti in parole povere è andato a dire ad Angela Merkel che capisce benissimo l’ostinazione dei tedeschi nel pretendere rigore ed efficienza dagli altri Paesi dell’area euro, anche a costo di lasciarli a lungo affacciati sull’orlo del baratro. Ma ha anche ammonito a non spingere troppo oltre questo gioco d’azzardo. Ha provato a spiegare qual è, secondo lui, il limite di resistenza dell’Italia.

In questi giorni sono in molti a suggerire alla Germania di imparare dalla propria storia. Ad aprire la strada ad Adolf Hitler non fu l’iperinflazione del 1923 che distrusse i risparmi della classe media; fu l’austerità di massa del 1930-32, salari tagliati e posti di lavoro cancellati. Perlopiù i tedeschi tendono a vedere la seconda come conseguenza della prima e di fattori esterni al loro Paese. Solo pochi, come il novantenne ex cancelliere Helmut Schmidt, incitano a riflettere meglio.

Non è facile rimontare la china della sfiducia, se ancora molti in Germania (circa metà di quelli che hanno risposto ieri a un sondaggio online del Financial Times Deutschland ) e molti nel mondo sono convinti che «nemmeno Monti riuscirà a salvare l’Italia». Ed è purtroppo possibile che il fatidico spread sui titoli a 10 anni resti ancora a lungo sugli attuali livelli. Ma più la tensione si manterrà, più l’Italia rischia di infossarsi in una recessione grave, con possibili ondate di reazione populista.

Per scampare ai pericoli occorre non solo fare per tempo le mosse giuste, ma farle nella sequenza giusta, come ha detto qualche settimana fa Mario Draghi. L’annuncio della Merkel sul maggiore contributo tedesco al Fondo di salvataggio europeo consente un minimo di speranza; si tratta tuttavia di un progresso lento, ancora nella logica di cui sopra.

Vanno interpretate con attenzione alcune parole di Monti ieri: «Ci aspettiamo dall’Europa, di cui l’Italia fa parte, la messa a punto di meccanismi che facilitino la trasformazione di buone politiche in tassi di interesse più ragionevoli». Non c’è solo un invito ai mercati a rendersi conto che l’Italia non è più a rischio come due mesi fa. C’è anche l’idea che i mercati - dove è assurdo che l’Italia paghi il 7% così come che la Germania, profittando della sfiducia negli altri, si finanzi «sottocosto» al 2% - vanno aiutati a funzionare meglio dalle iniziative delle istituzioni. Innanzitutto, dall’Unione europea, ovvero dalle istituzioni politiche.

In parte l’ostacolo è la Germania, in parte è la Francia, e all’Italia non converrebbe gettare il suo peso relativamente modesto da uno dei due lati. Con garbo ieri Monti ha ricordato ai due governi l’errore di Deauville nell’ottobre 2010, quando il vertice franco-tedesco compì scelte subito giudicate disastrose dalla Bce, e presto rivelatesi tali. Occorre procedere attraverso le istituzioni collettive dell’Europa, «rispettandole».

Concluso il nuovo Patto sulle regole di bilancio, occorre potenziare gli strumenti di soccorso (l’Efsf, e l’Esm che gli succederà) facendo probabilmente molto di più di quanto fatto fino adesso. Solo così, poggiando su queste garanzie, potrebbe avviarsi l’ingranaggio finale del «meccanismo», ossia più massicci interventi della Bce sui mercati dei titoli; per ora di questo ai tedeschi è bene non parlare, ma è lì che è inevitabile arrivare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9639
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 14, 2012, 03:15:42 pm »

14/1/2012

Premiato l'egoismo

STEFANO LEPRI

Proprio quando sembrava di intravedere segni di sollievo per l’area dell’euro, Standard& Poor’s assesta una nuova mazzata. Ma prima di ridire delle agenzie di rating tutto il male che si meritano, riflettiamo su quanto resta fragile la nostra unione monetaria.

Ieri mattina, la nuova asta dei titoli di Stato italiani era andata così così, non bene come la precedente: il nostro Paese ancora stenta a recuperare la fiducia, forse anche a causa di ciò che avviene nelle sue aule parlamentari.

Ieri pomeriggio, poco dopo le prime voci sulla probabile perdita della «tripla A» per Francia ed Austria, e su ulteriori declassamenti per Italia e Spagna, si sono interrotte le trattative per ristrutturare il debito della Grecia: una vicenda che si trascina troppo a lungo in una sequela di errori, tra discordie di istituzioni e furbizie di banchieri.

In qualche caso, i verdetti delle agenzie di rating ormai vengono ignorati dai mercati. Il declassamento degli Usa, deciso dalla stessa Standard & Poor’s il 5 agosto, non ha inciso sui tassi del debito pubblico americano. Tutta questa severità contro gli Stati sovrani si rivela sempre più come un tentativo di farsi perdonare anni di colpevole indulgenza, anzi di complicità, verso le emissioni di titoli «tossici»; in Italia, basti ricordare che le tre agenzie si sono accorte del dissesto Parmalat quando ormai se ne discuteva nei bar.

La mossa multipla di ieri è solo l’effetto ritardato del deludente vertice europeo di dicembre; era attesa, tanto che i suoi danni almeno per ora restano limitati. Nelle ultime settimane, nulla è cambiato in peggio nella situazione italiana; forse troppo poco è cambiato, però nella direzione del meglio. Certo, in una fase come questa i ritardi possono far sospettare ancor più che negligenza. Somme enormi sono in gioco per scommesse sulle tendenze dei mercati. Ma finora non abbiamo mai avuto «pentiti» in grado di svelare malversazioni.

Invano il governo di Parigi ha ripetuto nelle settimane scorse che i dati economici francesi sono molto migliori di quelli della Gran Bretagna la cui «AAA» resiste indisturbata. E’ vero. Ma la Francia soffre perché l’Europa non riesce a decidere, e non decide perché non si sa chi debba farlo, grazie anche alla tenacia con cui la Francia rifiuta di cedere anche briciole di una sovranità nazionale ormai incapace di contrastare le ondate di piena dei mercati finanziari.

La conseguenza vera è che diventa più costoso irrobustire l’Efsf, il fondo europeo di salvataggio, perché perderà anch’esso la tripla A. Una responsabilità maggiore si abbatte sulla Germania: come previsto, il rifiuto di più consistenti mosse di solidarietà finora rischia di far sì che il prezzo per i tedeschi diventi assai più alto dopo. Tutte le soluzioni tecniche fin qui proposte sono state bocciate da Berlino. Ma solo provando ai mercati che si è davvero disposti a pagare un prezzo per salvare l’euro si può calmarli, e quindi minimizzare il prezzo. Occorre dunque andare oltre la promessa di un maggior contributo fatta a Mario Monti l’altro giorno a Berlino.

Se fosse questione di saldare i debiti altrui, i tedeschi avrebbero tutte le ragioni di rifiutare. Ma si rendano conto che i mercati, così come prima della crisi davano credito a troppo buon mercato ai Paesi spendaccioni, nell’ansia attuale premiano eccessivamente l’egoismo del Paese parsimonioso. Dal prolungarsi della crisi, la Germania risparmia miliardi pagando tassi di interesse eccessivamente bassi. Responsabilità è anche rifiutare i doni eccessivi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9647
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 22, 2012, 09:55:49 pm »

22/1/2012

Il peso dei numeri e dei progetti

STEFANO LEPRI

Ci inoltriamo in un recessione economica che potrebbe diminuire il prodotto italiano di oltre il 2%, e abbiamo un governo che ci promette di farlo crescere, nel lungo periodo, dell’11%. Qualcuno può domandarsi se ci propongano fantasie irraggiungibili, imitando i politici, anche il governo tecnico, anche il premier che ogni giorno ripete di non volersi candidare a nulla nella prossima legislatura.

No, una differenza c’è. Quella cifra dell’11% in più - e salari in aumento del 12%, quindi benefici per i lavoratori - viene da studi della Banca d’Italia. Chi li ha fatti ne difende la serietà (sono pubblici da tempo, e dibattuti fra gli studiosi) pur invitando a non essere schematici. Più che un numero o un altro, si indicano delle potenzialità: la scelta di politica economica più promettente è appunto quella delle liberalizzazioni.

Può darsi che gli economisti si sbaglino; negli anni scorsi alcuni di loro avevano contribuito a creare pericolose illusioni. Ma questo è il meglio che ci offrano oggi, nel mondo; tra i punti di riferimento citati nei lavori della Banca d’Italia c’è proprio quel Raghuram Rajan sentito ieri da La Stampa, uno dei pochissimi che la crisi della finanza l’avevano prevista.

Ciò che non va nell’economia italiana è che mancano gli incentivi a darsi da fare. In troppi mestieri è difficile entrare. Troppe attività sono frenate da leggi fatte su misura per proteggere chi già le esercita. La burocrazia mette la sua taglia, implicita o esplicita, un po’ su tutto. Di potenziali imprenditori ce ne sono fin troppi, ma molti di loro trovando tutte le strade sbarrate riescono solo a vivacchiare frodando il fisco.

Gli studi della Banca d’Italia mostrano, con ampi confronti internazionali, che altri Paesi privi di questi difetti se la cavano molto meglio. La sfida è provare ad imitarli. Naturalmente non è detto che l’Italia ci riesca: può darsi che le sue energie vitali siano limitate. Dovremo riconoscere allora di essere un popolo vecchio, capace solo di campare di rendite, avvinghiato a mille piccoli status quo.

La differenza con le promesse dei politici dunque c’è. Per la prima volta dopo una dozzina d’anni chi governa in Italia torna ad avere un progetto. Ad alcuni potrà non scaldare il cuore, ma un progetto c’è. Non se ne sentiva più parlare da quando entrati nell’euro il centro-sinistra non seppe come proseguire da lì, e nel 2000, messo sotto scacco dalle promesse di Silvio Berlusconi, provò ad imitarlo abbassando le tasse in deficit.

Per lunghi anni abbiamo sentito ripetere che i progetti erano roba da intellettuali giacobini, illusi di diventare i pedagoghi delle masse; che invece occorreva assecondare la gente così com’è, scambiando le pulsioni più rozze per la verità della gente com’è. Il risultato è che anche nell’economia ha trionfato la legge del più forte; si è spenta la voglia dei giovani di farsi avanti scaricando su di loro il peso di tutto ciò che non si voleva cambiare.

Ora sappiamo che in fondo a quella china può esserci il default. Anche se riuscissimo ad evitare il default, c’è il declino. La nuova recessione del 2012 non è ormai evitabile, perché dobbiamo prendere atto che, causa errori precedenti, non possiamo più reggere il tenore di vita di prima. La speranza di risalire la china può darcela solo una direzione di marcia coerente.

Il paradosso è che occorrerebbero dei bravi politici per spiegare che cosa si sta facendo; errori di ingenuità possono perfino creare simpatie per i tassisti, come da sondaggio. In certi casi, è vero che le novità nascono da movimenti di protesta; ma per il momento quanto a protesta abbiamo più che altro i «forconi» in Sicilia, dove si chiede o di lasciare tutto come prima o di fare ancora di peggio.

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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 28, 2012, 06:21:17 pm »

28/1/2012

Un sentiero strettissimo

STEFANO LEPRI

La crisi dell’area euro è stata a un passo dall’avvitarsi, ha spiegato ieri Mario Draghi; ora si avvertono consistenti segnali di sollievo, ma la strada per uscirne resta ancora lunga. Le discussioni di Davos mostrano una Germania isolata culturalmente nel mondo; rivelano tuttavia anche una diffusa, persistente sfiducia che nel suo insieme il Meridione d’Europa possa evitare il declino. Le decisioni dell’agenzia di rating Fitch ieri, tardiva coda di un pessimismo che sui mercati è in ritirata, possono essere utili a ricordare quanto è facile una ricaduta.

L’Italia gode di un momento di attenzione favorevole, deve stare molto attenta a non sciuparlo. Ai giudizi positivi sulle azioni del suo governo si aggiungono gli esiti buoni di successive aste dei Bot, che fanno sperare per una prova più difficile, l’asta dei Btp lunedì. Se davvero nel fine settimana si raggiungesse un accordo sul debito della Grecia, come le autorità europee sperano, potremmo tutti tirare un poco il fiato.
Non certo nel senso che le fratture nell’area euro siano sanate, nel senso che abbiamo il tempo necessario per farle guarire.

Da parte sua il presidente della Banca centrale europea si muove su un sentiero strettissimo. In cuor suo Draghi è forse più vicino a quanto consigliano all’Europa il segretario al Tesoro Usa Tim Geithner, suo vecchio amico, o la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde; nei comportamenti deve tenere unita l’istituzione che dirige, evitando che la stampa popolare tedesca gli tolga quell’elmetto prussiano inopinatamente dipintogli in testa quando ormai la sua candidatura all’Eurotower di Francoforte si stava facendo invincibile.

Nel mondo, appunto, nessuno crede che l’area euro si possa salvare con la cura di sola austerità che la Germania prescrive. Il Fmi, gli Stati Uniti, gran parte degli economisti dei cinque continenti sostengono che ai Paesi indebitati è necessaria ma che invece i tedeschi potrebbero evitare di imporla a sé stessi; che insomma Angela Merkel potrebbe ridurre le tasse nel momento in cui Mario Monti è costretto ad aumentarle. Niente da fare; secondo il ministro dell’Economia di Berlino Wolfgang Schaeuble, il successo economico della Germania è dovuto proprio al fatto che sa essere austera.

Draghi al contrario non si illude: le misure di austerità hanno, stanno già avendo, forti effetti recessivi. Ma come evitarli? Pragmatico quale è, il presidente della Bce sa che per smuovere la Germania occorre ripristinare la fiducia che tra i Paesi dell’euro si è persa; la solidarietà si otterrà solo dopo avere stabilito regole severe e credibili. Quanto più rapidi ed efficaci saranno i passi dei governi verso una politica di bilancio comune (fiscal union, in inglese) tanto meglio sarà.

La Banca centrale europea nei primi cento giorni di Draghi ha svolto un ruolo importante: fornendo alle banche tutta la liquidità necessaria ha evitato – questo si è capito ieri – una carenza di credito alle imprese che avrebbe precipitato l’area euro in una recessione assai dura. Ora, per la prima volta negli ultimi giorni alcuni indicatori economici tornano a puntare verso l’alto: la causa viene probabilmente da lì. Resta tuttavia l’interrogativo se la Bce possa fare ancora di più, come molti membri tra i 23 del suo consiglio direttivo ritengono, contrari i due tedeschi e pochissimi altri; Draghi non l’ha sciolto.

Rimane il rischio che la Germania, avvinghiata a dottrine economiche che buona parte del mondo considera superate, finisca per credersi vittima di un «complotto anglosassone» per accollarle i debiti del Meridione d’Europa. Il ritorno di fiducia nell’Italia può aiutare: allunga i tempi a disposizione perché il lento meccanismo europeo produca misure condivise.

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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 30, 2012, 11:58:17 am »

30/1/2012

Non basta, lo Spread deve calare ancora

STEFANO LEPRI

Il vertice europeo di oggi si impegnerà a mostrare che si fa qualcosa anche per la crescita economica. I fondi a favore dell’Italia sono una buona notizia.

Anche perché sono stati sbloccati da azioni efficaci dell’attuale governo. Ma non illudiamoci: finché non sarà trovato un meccanismo migliore per governare l’euro, il resto del mondo continuerà a guardare verso il nostro continente con il timore che la sua malattia comprometta la salute economica di tutti.

Per anni eravamo stati orgogliosi che l’Europa indicasse ai Paesi emergenti un modello sociale che, a ragione, ritenevamo più equo di quello americano, e un modello politico di cooperazione sovrannazionale tra popoli di lingue e storie diverse, in passato nemici. Rischiamo ora di diffondere nel mondo lo scetticismo verso ogni tentativo di superare sovranità ed egoismi nazionali.

Scopriamo ora che nell’avanzare veloce della globalizzazione i Paesi dell’euro sono divenuti molto più interdipendenti di quanto i loro governi credessero. Ieri un ministro tedesco ha confermato che esisteva davvero la richiesta di commissariare dall’esterno la politica economica greca. Non sarà accolta, ma occorre riflettere su perché è nata.

Come italiani, abbiamo mostrato di essere meglio capaci di governarci della Grecia. Quasi contemporaneamente i due Paesi si erano dati governi tecnici appoggiati dai due maggiori partiti rivali. La differenza evidente è ora che Mario Monti ha preso numerose decisioni importanti e gode di un consenso ampio tra i cittadini; mentre Lukas Papademos, a cui già i partiti avevano assegnato un tempo troppo breve, cade nei sondaggi di opinione e non riesce a realizzare gli impegni.

Sarà una coincidenza, ma la richiesta tedesca è stata rivelata dal Financial Times proprio pochi giorni dopo che il Parlamento di Atene aveva bocciato una proposta di ampliare gli orari delle farmacie (sì, il dinamismo di un’economia è fatto di una somma di tanti piccoli dettagli, nessuno all’apparenza decisivo). Naturalmente sono anche gli aspetti maggiori del risanamento ellenico a restare carenti: scarsi successi contro l’evasione fiscale, ritardi nel liberalizzare le professioni, ostacoli alla vendita delle aziende pubbliche. Tutte cose che noi italiani capiamo al volo.

Si può capire l’esasperazione dei tedeschi; però oltre ad essere giuridicamente impraticabile il commissariamento della Grecia non coglieva il punto. Non si tratta di calare dall’esterno qualcuno che decide; si tratta di saper attuare le decisioni prese. Se gli uffici tributari greci non sono capaci di scovare gli evasori, certo non lo diventerebbero se glielo si ordinasse in tedesco. L’esempio è utile: dimostriamo che, invece, noi italiani possiamo riuscirci.

Diventa perciò sempre più difficile escogitare strumenti per salvare la Grecia. Intanto nei giorni scorsi il timore di un default greco ha aggravato le condizioni del Portogallo, nonostante che a questo Paese non servano nuovi fondi fino all’anno prossimo. Forse l’Italia, come altre volte in passato, sotto un pesante vincolo esterno sta riuscendo a reagire bene. Ma per ridurre la profondità della recessione che ci investe occorre prima di tutto che lo spread cali ancora.

Per una svolta risolutiva occorre che l’area euro sappia muoversi su un terreno del tutto inesplorato. E’ ancora possibile, e come, evitare un default della Grecia? Sia che si tenti di sostenerla ancora, prolungando l’incertezza, sia nel caso contrario, come evitare il contagio al Portogallo? E se la strategia tedesca è di tirare in lungo per vedere quali Paesi ce la fanno e quali no, qual è il momento in cui si rende noto il verdetto?

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« Risposta #40 inserito:: Febbraio 13, 2012, 11:31:43 am »

13/2/2012

Cosa ci dice la rabbia dei greci

STEFANO LEPRI

Osserviamo con attenzione la Grecia, perché può insegnarci molto. I leader dei due principali partiti politici sono coscienti, d’accordo con il primo ministro tecnico, che altri sacrifici sono inevitabili. Ma la gente non ne può più, perché i sacrifici finora sono stati distribuiti male, e segni di speranza non se ne vedono. Nei nostri tempi, nessuna democrazia era mai stata sottoposta a uno stress simile a quelli da cui nacquero le dittature degli Anni 30.

Vediamo un sistema politico e amministrativo corrotto avvitarsi su sé stesso. Il medico-sindacalista ateniese intervistato ieri da questo giornale sosteneva che i tagli di spesa fanno mancare le medicine negli ospedali. Fino a ieri, peraltro, risultava come prassi corrente rivendere all’estero, dove i prezzi sono più alti, i medicinali acquistati dal sistema sanitario pubblico greco. Non a caso la spesa pro capite per farmaci l’anno scorso è stata oltre il 15% superiore rispetto all’Italia, benché il reddito sia alquanto più basso.

In questo caso come in altri, la corruzione che pervade il sistema scarica tutto il peso dei sacrifici sui più deboli, ovvero su chi non fa parte di una clientela o di una categoria protetta.

Peggio ancora, l’incapacità di toccare i privilegi blocca ogni tentativo di rivitalizzare l’economia. Ai deputati risulta più facile aumentare le tasse a tutti che pestare i piedi a gruppi di interesse compatti. Dopodiché una amministrazione corrotta riesce a riscuotere le maggiori tasse solo dai soliti noti, mentre i furbi se la cavano (portare l’aliquota Iva dal 19 al 23% non ne ha accresciuto il gettito).

Il sindacato dei poliziotti ellenici vorrebbe mettere in galera gli inviati della «troika» (Commissione europea, Bce, Fondo monetario). Eppure a tormentare la «troika» è assai più la mancanza di riforme strutturali. Ad esempio, poco o nulla si è fatto in materia di privatizzazioni, perché i politici non volevano rinunciare a strumenti di potere. E perché mai un Paese in queste condizioni è pronto a tagliare le spese militari solo se «non pregiudicano le capacità difensive»?

Dall’altro lato dello Ionio arrivano a punte estreme fenomeni che ben conosciamo. Ce ne rendiamo conto, tanto da ripetere «non siamo come la Grecia» un po’ troppo spesso. Più efficace è invece dire che i sacrifici non li facciamo perché ce li chiede l’Europa ma per il nostro futuro. Questa è la chiarezza che è finora mancata in Grecia, grazie anche a procedure di decisione europee che rendono agevole lo scarico di responsabilità.

Forse la gente che protesta in piazza ad Atene è ormai troppo esasperata per spiegargli che un Paese non può campare producendo 100 e consumando 110, come era avvenuto grazie ai crediti di quella finanza internazionale che poi ha avuto paura delle proprie dissennatezze. È comprensibile l’indignazione contro una macchina politico-burocratica che preme sul Paese come un tumore; ma alle prossime elezioni pare non ci sarà molta scelta tra rivotare chi ha falsificato i bilanci pubblici o gonfiare partiti estremisti privi di ricette.

Il voto di ieri sera nel Parlamento non risolve nulla, allunga i tempi di qualche mese. La vera scadenza diventa ora un’altra: nel corso del 2012 il bilancio dello Stato greco arriverà all’«attivo primario» ossia eliminerà tutto il deficit non causato da pagamento di interessi su debiti. A quel punto, l’insolvenza totale diventerà una tentazione; non è facile capire se più per i greci, o per chi in Europa vuole abbandonarli a sé stessi.

Le ripercussioni di un eventuale default sembrano ora meno difficili da assorbire. Ma quali speranze potrà infondere, dopo, una politica europea che ha permesso ai greci di dipingere i tedeschi come sadici aguzzini, e ai tedeschi di disprezzare i greci come dei fannulloni bugiardi?

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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 19, 2012, 10:35:04 am »

19/2/2012

Occasione da non perdere

STEFANO LEPRI

La recessione in cui l’economia italiana si trova non durerà a lungo: le parole del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a Parma non annunciano nuove avversità, temperano invece il forte pessimismo con cui il 2012 era iniziato. Meno di un mese fa, il Fondo monetario internazionale aveva pronosticato al nostro Paese due anni di arretramento, e più grave nelle cifre.

Nel frattempo sui mercati i rendimenti dei titoli del Tesoro sono scesi. Al momento, ci spiega la Banca d’Italia, ci troviamo fuori pericolo: la nostra finanza pubblica «è comunque su un sentiero sostenibile». Ciò non toglie che si debba fare di tutto per attenuare le difficoltà a cui andremo incontro in questa prima metà dell’anno. In questo momento, è cruciale il ruolo delle banche; più di quanto non appaia.

Lo strumento principale con cui l’area dell’euro è stata tenuta insieme, e a parte la Grecia prende a rinsaldarsi, è l’operazione con cui la Banca centrale europea ha rifinanziato le banche per tre anni al tasso dell’1%, nelle cifre da loro desiderate.

Secondo estremisti e populisti di varie tendenze è stato un regalo immeritato a chi aveva già causato gravi danni; secondo i tedeschi più ostili verso l’Europa del Sud, invece, un trucco per aggirare il divieto di finanziare gli Stati.

Nella visione della Bce e della Banca d’Italia si è trattato di una misura necessaria per fronteggiare il cattivo funzionamento dei mercati. Tuttavia sui banchieri ricade una grande responsabilità: usare bene di questo vantaggio nell’interesse di tutti, e non soltanto nel loro. Ignazio Visco li ha difesi dalle accuse più spicce e demagogiche; però non è stato tenero. Quel denaro a buon mercato non dovrà essere usato per nascondere inefficienze, evitare innovazioni utili, foraggiare equilibri di potere superati; tanto meno, per speculare su mercati lontani.

In breve, la prima operazione di rifinanziamento a tre anni è servita in gran parte a fronteggiare la mancanza di liquidità causata dal panico dei mercati a fine 2011. Non è giusto, secondo il governatore, accusare i banchieri di aver occultato quei soldi chissà dove. Però la seconda operazione dello stesso tipo, in programma per la fine del mese, dovrà poter fornire credito al sistema produttivo.

È esagerato affermare, come qualcuno ha fatto, che gli italiani abbiano all’improvviso smesso di risparmiare. Risparmiano meno, ma non c’è stato nessun crollo. Le nostre banche sono state messe in difficoltà dai mercati internazionali, dove non riuscivano più a finanziarsi. Sono venute in evidenza loro debolezze di lunga data: altro che profittare della crisi, hanno guadagnato poco nel 2011, e poco guadagneranno, continuando così, anche quest’anno.
Resta la tentazione di restringere le banche pur di conservare il potere dei vecchi gruppi dirigenti, pur se la scelta del Monte dei Paschi di aprirsi è una novità importante.

L’esperienza della crisi mostra che non è tanto importante crescere di dimensione, quanto oltrepassare le frontiere, per alleggerire il circolo vizioso fra affidabilità di un Paese dell’area euro ed affidabilità delle sue aziende di credito.

In questi giorni i banchieri ribattono di essere prudenti nel concedere prestiti proprio perché c’è la recessione e cresce il rischio di non riavere i soldi indietro. Ignazio Visco li esorta a uno sforzo in più di iniziativa e di intelligenza: andare a cercare le imprese promettenti, capaci di crescere.

Resa inevitabile dalle incapacità dei governi, la scelta di sostenere l’euro attraverso le banche richiede che i banchieri se ne mostrino all’altezza. Altrimenti dovremo concludere che il moral hazard - il rischio di incentivare comportamenti sbagliati - tolto ai politici, è solo spostato altrove.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9789
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« Risposta #42 inserito:: Febbraio 21, 2012, 11:39:38 pm »

21/2/2012

Pagare tutti per pagare davvero meno

STEFANO LEPRI

Non aspettiamoci di pagare presto meno tasse. Nemmeno Mario Monti può fare i miracoli. Possiamo però aspettarci un fisco più razionale e meno oppressivo. A questo anche servono i tecnici al governo: a disboscare la giungla creata da una politica inefficiente. Sommando favori a questi e a quelli, introducendo scappatoie a favore di interessi protetti, e procedendo per grida demagogiche, si è costruito un sistema contorto.

Un sistema capace di esasperare il contribuente mentre soffoca gli uffici tributari di lavoro in parte inutile. Certo è bene formalizzare la promessa che i ricavi della lotta all’evasione saranno restituiti alla generalità dei contribuenti. Dopo le operazioni del fisco a Cortina, in alcune grandi città e ora a Courmayeur, si tratta di una scelta obbligata, di chiarezza. Tanto più è necessaria a un governo che nell’urgenza è stato costretto a puntare più sulle tasse che, come avrebbe preferito, sui tagli di spesa.

La stessa promessa l’avevamo già ascoltata altre volte. In questo caso, può confortarci un poco l’esperienza recente. A giudicare da alcuni dati, davvero i comportamenti dei contribuenti sono mutati secondo le scelte dei governi, e abbastanza in fretta. Qui l’Italia è un interessante oggetto di studio per esperti anche stranieri. Nell’attuale legislatura il gettito Iva è calato dalla seconda metà del 2008, quando il governo Berlusconi cancellò certe misure stringenti, e si è ripreso dall’autunno 2009 in poi, dopo che Giulio Tremonti trovò opportuno in parte reintrodurle e annunciò un maggior impegno contro l’evasione.

Non è dunque impossibile recuperare. Si tratta di un’azione doppiamente utile. Non sono in conflitto in questo caso i due tradizionali obiettivi dell’equità e dell’efficienza, grande argomento di contrasto fra destra e sinistra. Far pagare le tasse a tutti non è solo giusto, aumenta anche la produttività della nostra economia, come ha ricordato ieri il presidente dell’Istat Enrico Giovannini. La gara tra le imprese è distorta se i profitti vengono più facilmente dall’evasione tributaria invece che da produrre beni e servizi migliori a costi più bassi.

In tante transazioni della vita quotidiana la convenienza a evadere è di entrambe le parti, del ristoratore e del cliente, dell’idraulico e di chi lo chiama a riparare, e così via. Non esistono rimedi miracolosi. Può aiutare che si percepisca mutato l’umore pubblico del Paese; serve a molto che l’amministrazione pubblica si mostri efficace nel colpire. Un problema che va risolto quanto prima - se non altro il governo ne è cosciente - è che la durezza delle sanzioni di Equitalia si deve dirigere contro i bersagli giusti; altrimenti si rischia che un identico malcontento unisca persone perbene ed evasori.

Un sistema fiscale razionale è fatto di un numero minore di imposte, con un minor numero di esenzioni e agevolazioni. Non pochi contribuenti sarebbero disposti anche a pagare di più se perdessero meno tempo nelle pratiche. Cambiare è peraltro rischioso, perché chi beneficia sta zitto, e chi è colpito protesta: prova famosa fu l’Irap, imposta impopolarissima fin dalla sua introduzione benché nella media avesse ridotto il carico fiscale, e non di poco.

I margini sono scarsi. Non dimentichiamo che il grosso degli interventi futuri sul bilancio pubblico dovrà venire da tagli delle spese, nel nostro Paese sempre difficili. Già il governo si assume un rischio rinviando di fatto al 2014, causa recessione, il pareggio di bilancio promesso per il 2013. La misura giusta sta nell’indicare un obiettivo - pagare tutti per pagare meno - senza sollevare aspettative in eccesso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9797
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« Risposta #43 inserito:: Febbraio 29, 2012, 10:02:31 am »

29/2/2012

Al mercato serve un'intesa modello Imu

STEFANO LEPRI

Il primo scopo delle liberalizzazioni è far pagare un po’ meno certi beni e certi servizi. Su gas, benzina, farmaci, prestazioni professionali, servizi bancari ed assicurativi, in teoria potremmo risparmiare qualcosa nei prossimi mesi. In Parlamento, l’assalto delle lobby al decreto «Cresci Italia» ha prodotto danni limitati. Ma di misure di questo tipo è soprattutto importante curare l’attuazione.

Alcune norme avranno bisogno di regolamenti: è bene che la burocrazia non perda tempo. Altre sono affidate alla sorveglianza di organismi di controllo che devono essere messi in condizione di lavorare bene. Il potere degli interessi privilegiati in Italia si estende ben oltre il folclore di certi personaggi che si aggirano nei corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama e degli emendamenti da loro ispirati sottoscritti da certi parlamentari. Sa farsi sentire anche nelle stanze dei ministeri.

Perciò sarebbe opportuno che, nei prossimi mesi, il governo ci informasse regolarmente se sono rispettate le scadenze amministrative; e, più in là, se esistono già risultati misurabili.

Fare le cose a metà può essere dannoso, perché molte misure non producono effetti istantanei. Quanto più vengono deluse le attese di prezzi più bassi, di servizi migliori, di una concorrenza più vitale, tanto più sarà facile agli interessi colpiti tornare alla carica, con la tesi che i benefici promessi non si sono visti.

Durante l’esame parlamentare in alcuni casi gli interessi protetti hanno prevalso. Sui taxi decideranno i sindaci, che dei tassisti hanno una paura matta. Certo non si tratta di una questione cruciale, anche perché il numero di licenze risulta insufficiente solo in alcune delle più grandi città. Era importante il principio, di fronte a certi eccessi di arroganza corporativa soprattutto romani.

Più grave è il passo indietro per i professionisti. La chiusura delle libere professioni raffigura bene la scarsissima mobilità sociale del nostro Paese, dove gli avvocati sono perlopiù figli di avvocati, e così via. Quando ci sembra che i politici formino una «casta», rendiamoci conto che la politica spesso attrae persone ambiziose respinte da altre «caste» ancor meno penetrabili, e capaci di influenzarla.

Già la Banca d’Italia si era lamentata della rinuncia a introdurre per i professionisti l’obbligo di un preventivo scritto, che avrebbe consentito ai clienti di decidere con più consapevolezza; e che, nel caso degli avvocati, avrebbe forse contribuito a ridurre l’eccesso di cause giudiziarie di scarso rilievo. Con un altro emendamento, si è anche circoscritta la possibilità di esercitare le professioni in forma societaria, tenendo in vita gli ultimi residui di una norma odiosa che risale al 1939 e che serviva a escludere gli ebrei.

Ciò nonostante, i passi avanti sono molti. Separare la Snam dall’Eni potrà ridurre il prezzo del gas e anche dare una spinta di dinamismo all’economia. Però il termine ultimo è lontano, oltre la fine della legislatura, e occorrerà evitare una marcia indietro. Qui come altrove, l’azione del governo dovrà essere costante. Forse sarebbe opportuno prevedere già una seconda fase di misure di liberalizzazione, approfittando che deve essere affrontata la spinosa faccenda delle frequenze televisive.

Può far da modello la soluzione trovata all’Imu per gli edifici religiosi. Il governo tecnico è riuscito a chiarire che non si trattava di una battaglia tra laici e cattolici, ma di una misura di equità necessaria a far funzionare bene il mercato: gli alberghi religiosi non devono essere favoriti rispetto agli altri alberghi, le scuole private cattoliche rispetto alle scuole private laiche. Anche in altri casi, occorre che il mercato sia uguale per tutti.

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« Risposta #44 inserito:: Marzo 14, 2012, 07:18:09 pm »

14/3/2012

Italia fuori pericolo soltanto con la crescita

STEFANO LEPRI

Angela Merkel e Mario Monti concordano che occorre «più Europa»; e solo una maggiore armonia politica può concederci speranze. L’austerità che ripiomba le nostre economie nella recessione, occorre ripeterlo, è eccessiva proprio a causa delle reciproche diffidenze tra Paesi. Potrà attenuarsi se ci uniamo di più.

Rimane il dubbio che i tempi con cui la cancelliera vuole muoversi in questa direzione siano troppo lenti. Da Berlino vengono per ora parole giuste ma pochi fatti, come nota un grande tedesco, il filosofo Juergen Habermas. Forse per dare una sistemazione duratura alle questioni aperte occorrerà aspettare ancora un anno e mezzo, fino alle elezioni tedesche dell’autunno 2013.

L’intesa mostrata ieri dai due capi di governo ha comunque un suo valore, quando invece nella campagna elettorale francese di Europa si parla pochissimo e anzi Nicolas Sarkozy recupera punti nei sondaggi attaccando certe politiche dell’Unione.

La grande crisi ha mostrato che i poteri pubblici sono indispensabili per correggere l’instabilità dei mercati, per imbrigliare entro regole la loro energia. Ma mostra anche che certi poteri pubblici - gli Stati nazionali dell’area che condivide l’euro - non sono di dimensione sufficiente. A Parigi ancora non sembrano averlo capito né il presidente in carica né colui che potrebbe sconfiggerlo, il socialista François Hollande.

Altri elementi del quadro, per fortuna, stanno cambiando. Il compromesso raggiunto ieri con la Spagna, che le concede un po’ più di respiro nelle misure di riduzione del deficit, rende un po’ meno feroce l’aspetto del futuro « Fiscal compact ». Queste nuove regole disciplinari per i bilanci pubblici, oltretutto, a leggerle bene, nei meandri dei loro tecnicismi sono meno rigide di quanto erano parse all’inizio.

La stessa bizzarra voce di una candidatura di Mario Monti alla presidenza dell’Eurogruppo, oltre a provare la stima di cui gode il nostro presidente del consiglio, è l’effetto collaterale di un gioco di poltrone in corso. Forse le ansie della Bundesbank saranno placate dall’ingresso nell’esecutivo della Banca centrale europea del lussemburghese Yves Mersch (un «falco» alla tedesca) nel posto che fin qui pareva dovesse spettare a uno spagnolo. Se avverrà così, diverrà urgente sostituire alla presidenza dell’Eurogruppo il lussemburghese Jean-Claude Juncker, finora confermato in mancanza di alternative.

Benché le mosse della politica siano tardive e impacciate, a Bruxelles come a Parigi e a Berlino, la fase distensiva in corso sui mercati finanziari agevola diversi sviluppi. Il divario di competitività tra Paesi, che rende difficile tenere insieme l’area euro, potrebbe essere attenuato in Germania non dall’azione del governo, ma da quella dei sindacati, che stanno chiedendo forti aumenti salariali. Se li otterranno, si ridurrà il vantaggio tedesco sugli altri Paesi.

Tuttavia si continua a procedere in modo un po’ confuso, con il rischio di imbattersi in nuovi ostacoli. Le elezioni politiche anticipate in Grecia, se davvero si terranno il mese prossimo, quasi di certo peggioreranno la qualità del governo; e ulteriori misure di austerità sono richieste per il 2013. Probabilmente nel corso dell’estate si dovrà concordare un secondo pacchetto di aiuti per il Portogallo.

L’Italia non sarà fuori pericolo finché il suo sistema produttivo non avrà ripreso a crescere. Non è poco, intanto, aver riconquistato pieni diritti nel definire le scelte dell’Europa. La minaccia dello spread è riuscita a farci prendere decisioni buone per l’economia; speriamo di non doverla paradossalmente rimpiangere di fronte a nuove instabilità della nostra politica.

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