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Autore Discussione: STEFANO LEPRI.  (Letto 52670 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:08:25 pm »

25/7/2012

Ma i sacrifici non sono stati inutili

STEFANO LEPRI

Guardando solo un numero, quello spread tra titoli di Stato italiani e tedeschi che ormai tutti conoscono, siamo tornati ai livelli che fecero cadere il governo Berlusconi, nel novembre 2011.

Inutili allora tutti i sacrifici che il governo Monti ci sta facendo fare, andare in pensione più tardi, pagare l’Imu, i prezzi cresciuti a causa della maggiore aliquota Iva, i tagli alle spese che si sentiranno via via?

No. E’ una crisi dell’Europa questa - il timore che l’euro si spacchi - nel contesto di una economia mondiale ovunque peggio messa rispetto all’anno scorso, con gli Stati Uniti che stentano a ripartire, la Cina, l’India e il Brasile che rallentano. A dircelo sono sempre i numeri, se li guardiamo bene, se ne guardiamo più di uno.

Non è tornato alla stessa vetta del novembre 2011 il tasso di interesse che il Tesoro italiano paga: resta ancora di circa un punto sotto il massimo raggiunto allora. La differenza sta nel rendimento dei titoli tedeschi, i Bund , scesi a un livello bassissimo, innaturale. I capitali internazionali affluiscono verso la Germania perché lì, nel caso si fratturi l’euro, si rivaluterebbero. Pare razionale investirceli anche se rendono meno di zero.

Nel novembre 2011 la Spagna pagava interessi più bassi dei nostri, benché gli analisti finanziari di tutto il mondo sapessero benissimo che le sue banche stavano molto peggio di quanto le fonti ufficiali volessero far credere, e sospettassero che tra le sue regioni ci fossero - come ci sono - casi di dissesto ancora più gravi di quello della nostra Sicilia.

Invece il rendimento dei titoli di Stato francesi nelle ultime settimane è sceso, benché il bilancio pubblico sia in condizioni strutturali assai peggiori delle nostre. Ieri, i decennali transalpini fruttavano un interesse del 2,24%, poco più che sufficiente a compensare la prevedibile inflazione.

Nell’insieme di queste cifre si legge che la scommessa dei mercati è su una rottura dell’unione monetaria in cui la Francia resterebbe agganciata alla Germania. Alla Spagna invece risulta estremamente difficile procurarsi nuovi finanziamenti sui mercati, benché abbia un governo politico provvisto di una solida maggioranza, che sia pure tra molti errori ha adottato misure di austerità severe.

La crisi europea è il punto critico di un pianeta dove le forze traenti della crescita economica sembrano affievolite dappertutto. Può darsi che negli Stati Uniti esistano le risorse tecnologiche per un nuovo balzo, ma non si sbloccheranno prima che finisca l’attuale paralisi politica. La Cina non può conservare il suo ritmo mirabolante di aumento del prodotto lordo se non vuole riempirsi di nuove fabbriche che non sapranno a chi vendere, mentre deve elevare il benessere dei suoi cittadini.

I capitali per ripartire ci sono, tuttavia non riescono a trovare la strada dell’investimento produttivo. Sono pieni di denaro i forzieri del governo cinese, sono piene le casse delle grandi imprese in America, in Germania, e in molti Paesi emergenti: si riversano nelle scommesse pazze della finanza, rischiando di distruggere i delicati meccanismi dell’economia reale - imprese, lavoro, commerci che hanno permesso di accumularli.

Manca la fiducia, manca la speranza. Solo la politica può riaccenderle. Senza l’euro avremmo una democrazia ancora più limitata nei suoi poteri, ancora più condizionata dai mercati. L’Italia nel novembre scorso ha evitato di cadere nel baratro da sola, ora può solo farsi parte di uno sforzo comune per non caderci tutti insieme.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10371
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« Risposta #61 inserito:: Agosto 01, 2012, 07:45:32 pm »

1/8/2012

Gli assist che servono alla Merkel

STEFANO LEPRI

Come si fa a sostenere che è normale se a una impresa italiana sana il credito costa più caro che a una impresa tedesca in difficoltà? A che serve condividere l’euro se, come ci informa la Reuters, su un mutuo casa la famiglia finlandese media paga un tasso di interesse che è meno della metà di quello che è richiesto alla famiglia spagnola?

Non è solo questione di salvare i debiti degli Stati. Tutto il funzionamento delle economie dei Paesi euro è distorto dal rischio che l’unione monetaria si spacchi. Gli stessi spread sui titoli pubblici dipendono più da questo fattore che dalle scelte dei governi o dalle incerte prospettive politiche di alcuni Paesi. Questo hanno inteso dire ieri il capo del governo italiano e il presidente della Repubblica francese riaffermando il loro pieno appoggio a Mario Draghi.

Eppure il compito di tenere insieme l’euro per il momento resta tutto affidato al presidente della Banca centrale europea. Ha dalla sua i governi, tedesco compreso; ma la riunione del consiglio Bce di domani e la successiva conferenza stampa richiederanno grandi dosi di coraggio, inventiva, abilità di manovra. I mercati sono pronti ad afferrare ogni pretesto per sentirsi delusi e riprendere a giocare al ribasso.

Se non si concretizzerà presto la «nuova spinta politica» sulla «tabella di marcia» per rinsaldare la zona euro, di cui ieri Monti e Hollande hanno discusso, la battaglia che divide la Germania potrebbe essere perduta per gli europeisti. Peggio, c’è da domandarsi che cosa possa uscir fuori da un Paese come la Germania nel caso prevalgano coloro che un giorno denigrano i meridionali dell’Europa, un altro ignorano le critiche di Barack Obama attribuendole alla campagna elettorale, un altro giorno ancora sostengono che il Fondo monetario sbaglia tutto perché è guidato da due francesi e influenzato dagli americani, e così via.

Dipende soprattutto dalla Francia se Angela Merkel potrà tranquillizzare i tedeschi con meccanismi chiari di condivisione politica delle responsabilità economiche. Ma non dipende soltanto dalla Francia. La Spagna se ha bisogno di aiuto deve calare il tono del suo orgoglio nazionale, accettare che altri occhi guardino nei conti delle sue banche e delle sue regioni. I partiti politici italiani possono contribuire con un po’ più di chiarezza su che cosa avverrà nel 2013. Se i giochi della politica interna tedesca fanno premio sulla sorte dell’Europa, come ha lamentato il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, i non tedeschi potrebbero cominciare a dare il buon esempio.

Non sarebbe nemmeno tanto difficile, per Draghi, rimettere le cose a posto, se il progetto della politica europea fosse chiaro. Domare i mercati non è impossibile, anche se sono oggi forti come mai prima. Se esistono le distorsioni di cui si diceva – esistono pur se i dogmatici della Bundesbank si rifiutano di vederle – è compito della Banca centrale europea contrastarle. Ovvero occorre restringere all’interno dell’area euro il divario tra i tassi di interesse.

Si potrebbe discutere all’infinito di quanto sia la parte «giusta» dello spread (quella che punisce la minore affidabilità dei debiti pubblici, ovvero dei sistemi politici che li governano) quanto invece quella «sbagliata» secondo Monti e Hollande sulla scia di Draghi. Tra gli esperti circola una ipotesi di intervento coraggioso e innovativo per tagliare il nodo: la Bce potrebbe acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli e per lo stesso ammontare vendere allo scoperto titoli tedeschi, olandesi, finlandesi. Se i tedeschi temono che si stampi moneta per pagare i debiti dei Paesi deboli, questo è un modo di evitarlo. Per molte ragioni, è difficile che si faccia. Speriamo nella fantasia di Draghi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10395
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« Risposta #62 inserito:: Agosto 18, 2012, 10:22:09 pm »

17/8/2012

La strada stretta del governo

STEFANO LEPRI

Già, sarebbe bello ridurre le tasse. Nel caso si potesse, dovremmo stare attenti a quali. Di gran lunga più vantaggioso sarebbe abbassare il carico sulla parte più vitale della nostra economia, ossia sul lavoro dipendente, specie ai livelli bassi che più soffrono, e sulle imprese, specie per quanto concerne l’impiego di lavoro; come consigliato in più di una occasione dalla Banca d’Italia. Come principio generale, inoltre, sarebbe bene lasciar come sono le imposte più difficili da evadere, e intervenire al ribasso su quelle dove la frode è più facile. Si tratterebbe di decisioni da prendere a mente fredda, senza subito dar ragione a chi strilla più forte contro questo o quel tributo ritenuto particolarmente odioso o vessatorio.

Ma si può? Sappiamo tutti quanto la situazione dell’Italia sia difficile, e quanto ossessivamente venga tenuta d’occhio giorno per giorno dai mercati finanziari, pronti a ingigantire gli effetti di ogni passo falso. Sarà molto se si riuscirà ad evitare quel nuovo aumento dell’Iva, oltre l’attuale 21%, scritto nei piani che hanno guadagnato al nostro Paese l’appoggio delle istituzioni europee.

Per sostenere che si può, alcuni offrono una ricetta semplice. Basta tagliare sul serio le spese dello Stato, senza riguardi per nessuno – dicono – e si potranno calare le tasse senza accrescere il deficit pubblico che è il principale indicatore sul quale veniamo giudicati. Oggi l’attrattiva di questa idea si nutre del malessere diffuso contro i costi della politica e contro i visibili sprechi di denaro dei contribuenti.

Mettiamo per un momento da parte il fatto che in Italia questa ricetta è stata più volte e con gran clamore scritta in programmi elettorali, mai applicata dopo il voto. Meglio guardare quanto davvero sia stata applicata altrove e se abbia funzionato. Tra gli economisti resta aperto un dibattito talvolta aspro. Però due punti fermi si possono trovare. Il primo è che non fu così che Ronald Reagan trent’anni fa riuscì a rilanciare l’economia americana: ridusse le tasse, sì, le spese no. Il secondo è che tagliare le spese per tagliare le tasse ha funzionato senza controindicazioni in Paesi piccoli non circondati da un’area tutta in difficoltà.

Anche se si è convinti che in prospettiva è meglio avere «meno Stato», ossia meno tributi e minor impiego di denaro pubblico, non ci si può nascondere che nell’immediato anche i tagli alle spese aggravano la recessione economica. L’esempio ci viene oggi dalla Gran Bretagna. Per un certo tempo George Osborne, responsabile del Tesoro con l’antico nome di Cancelliere dello Scacchiere, si è vantato di aver adottato una politica economica «da manuale». Per risanare il bilancio pubblico stremato dal soccorso alle banche, il governo conservatore-liberale di Londra ha soprattutto tagliato le spese. La pressione fiscale è stata lasciata nel complesso stabile riducendo però le aliquote sulle imprese e sui redditi più alti, nella speranza di incentivare la voglia di intraprendere e di guadagnare. Il risultato è che il Regno Unito si trova in una recessione di gravità analoga a quella italiana; incrementi di produttività non se ne sono visti.

Stato ed enti locali italiani forse svolgono anche compiti che sarebbe meglio lasciare ai privati; di sicuro forniscono in maniera poco efficiente servizi ovunque considerati di natura pubblica. Rivedere a fondo tutto questo, e il funzionamento stesso di tutta l’amministrazione, dovrà essere un compito centrale dell’attività politica dei prossimi anni. Bisogna pretendere che avvenga. Non ci si può illudere che si tratti di una ricetta magica per uscire dalla recessione subito.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10431
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 26, 2012, 05:16:38 pm »

25/8/2012

Le ambizioni vanno realizzate

STEFANO LEPRI

La canicola prosegue ma stiamo già cominciando a capire come sarà l’autunno. Sempre più i partiti reclameranno che solo un ritorno alla politica può ridare prospettiva al Paese; ognuno a suo modo chiederà di mettere più soldi nelle tasche della gente offrendo ipotesi vaghe su come trovarli. Nel frattempo, è probabile che l’economia seguiti a perdere colpi, e la disoccupazione ad aumentare.

È bene che il governo Monti prosegua il mandato fino alla fine naturale della legislatura. Ma occorre anche domandarsi perché stia perdendo impulso. Non si può limitarsi a dire che l’impaccio viene da una maggioranza parlamentare eterogenea, composta di forze che erano rivali prima e torneranno ad esserlo nella campagna elettorale ormai prossima.

Ieri a Palazzo Chigi si sono confrontati progetti disparati di singoli ministri, alcuni sensati ma frenati dalla carenza di risorse, altri velleitari seppure benintenzionati, altri ancora di scarso respiro. L’impegno a nuove liberalizzazioni è importante; ma tra una congerie di proposte sembrano talvolta anche farsi avanti interessi ristretti, ben insinuati nell’alta burocrazia.
Non è solo la «casta» politica a mancare di risposte ai problemi del Paese. C’è un deficit complessivo di classe dirigente, dai burocrati agli imprenditori passando per le professioni e l’accademia. Quanti progetti ambiziosi esaminati dal governo dei tecnici si arenano nel timore che i meccanismi amministrativi non siano in grado di portarli a compimento, o che la resistenza degli interessi parassitari colpiti prevalga sulle energie sane dell’economia capaci di reagire allo stimolo?

Nel breve termine, l’Italia reggerà se la crisi europea, come oggi pare possibile, non sprofonderà in un circolo vizioso di pessimismo che si autorealizza. Possediamo ancora grandi risorse, sì: nel senso che i patrimoni delle famiglie e i beni delle imprese sono di dimensione sufficiente a consentirci di proseguire a campare intaccandoli a poco a poco.
Nell’interesse dei figli più che dei padri, tuttavia, occorre riconoscere che questo non basta. Si perde solo tempo a ripetere i soliti scaricabarile politici nazionali; né vale prendersela contro i tedeschi cattivi. Come si vede in questa estate, non si tratta solo dell’euro: in tutto il mondo avanzato l’economia offre sviluppi poco promettenti.

La crisi iniziata nel 2007 segna un riaggiustamento imponente dei rapporti economici internazionali. I Paesi avanzati avevano vissuto a credito, attraendo capitali dal resto del mondo; ora sono chi più chi meno carichi di debiti, tranne la Germania che ancora vende ai Paesi emergenti i macchinari con cui domani le faranno concorrenza. Tutti cresceranno a rilento, nessuno potrà fare da locomotiva. Noi ci troviamo in difficoltà maggiori, perché il «modello italiano» sembra invecchiato senza rimedio.

L’abilità ad arrangiarsi non è più competitiva nel mondo di oggi, perché altri si arrangiano a costi minori. Non produce con efficienza una società in cui le leggi sono rigide contro i deboli e interpretabili con elasticità a favore di chi può. E come si fa ad escogitare innovazioni, se i giovani non hanno prospettive di carriera, se «si è sempre fatto così» è saggezza ovunque sbandierata dai burocrati come dai faccendieri?

Chi aspira a governare l’Italia dovrebbe dirci come si fa a farla funzionare meglio. Quando il governo tecnico incontra ostacoli, sarebbe gradita una spiegazione precisa di come si potrebbe superarli. Altrimenti avremo una campagna elettorale dove i partiti affermati gareggeranno in promesse di denaro inesistente, mentre i partiti nuovi si limiteranno a ripetere che quelli vecchi fanno schifo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10457
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« Risposta #64 inserito:: Settembre 21, 2012, 05:41:47 pm »

21/9/2012

La solidarietà che serve all'Italia

STEFANO LEPRI

Risanare l’Italia sarà un lavoro lungo, e il mondo non ci aiuta. Le nuove previsioni economiche approvate ieri dal governo sono onestamente cupe, una scelta di verità. Confermano che l’uscita dalla recessione è lontana; i primi segni di recupero li vedremo l’estate prossima. E’ purtroppo inevitabile che altri posti di lavoro spariscano.

Il piano Draghi ha salvato l’area euro dal tracollo, ma è arrivato troppo tardi per frenare una caduta dell’attività che prosegue in tutti i Paesi membri, meno grave soltanto in Germania. Negli Usa la ripresa continua a stentare, e non va bene nemmeno la Cina, il cui modello di sviluppo travolgente ormai mostra crepe difficili da rappezzare.

In questa crisi epocale, l’Italia è uno dei punti di maggiore fragilità. Le speranze non sono perdute: il ritorno in attivo dei conti con l’estero prova che di dinamismo nel nostro sistema produttivo ce n’è ancora; e delle difficoltà causateci dalla moneta comune si può probabilmente intravedere la fine. Ma, appunto, c’è ancora moltissimo da fare per rimettersi in piedi.

Si può discutere se Mario Monti potesse fare di più, o più in fretta, anche forzando la mano alla sua maggioranza. I ritardi nell’attuazione delle leggi approvate rafforzano il sospetto che a un governo tecnico la burocrazia obbedisca di meno, perché meno teme di essere punita. Un governo politico potrebbe avere i suoi vantaggi, purché si formasse sulla base di un programma chiaro, e avesse dietro un elettorato convinto. L’attuale sfiducia verso tutti i partiti non giova.

Nella campagna elettorale che sta per aprirsi, il guaio non è tanto che i partiti promettano, ma che facciano promesse sbagliate, inseguendo ciò che gli pare piaccia agli elettori che conoscono meglio. In altre parole, cercano di interpretare soprattutto i desideri degli anziani. Stanno parlando in particolare di patrimoni familiari (la casa) e di pensioni, ovvero ciò che interessa alle persone più avanti con l’età; poco o nulla di che fare per il numero crescente di giovani disoccupati.

Può anche accadere di rinchiudersi nel declino. Il Giappone lo sta facendo, ma ha risorse sufficienti per riuscirci, maggiori delle nostre. L’Italia ha invece un bisogno vitale di tornare alla crescita, perché il debito non la schiacci. Certo, le politiche per la crescita dicono di volerle tutti. Però mancano i soldi per farle nei vecchi modi (ammesso e non concesso che fossero efficaci), ossia con ampi investimenti pubblici. Solo dopo ampi passi in avanti verso l’unità politica potremo, tutti i Paesi dell’euro insieme, ritrovare i margini di stabilità necessari ad usare questo strumento.

Per crescere, e per campare tutti meglio, occorre rendere il Paese più efficiente. Di ricette a pronto risultato non ce ne sono; anche misure sulla carta buone, come detassare gli aumenti di paga legati alla produttività, hanno rischiato di tradursi in complicità di elusione fiscale tra aziende e dipendenti. Né la trattativa appena iniziata fra Confindustria e sindacati sembra in procinto di sfornare grandi novità.

Invece di promettere la fine dell’austerità, occorre che la politica elabori programmi di paziente ristrutturazione del Paese, nel settore pubblico come nel settore privato. In parole povere: se vogliamo evitare che la pressione spietata dei mercati ci costringa a guadagnare meno, dovremo riuscire a organizzarci, con il contributo di tutte le parti, per lavorare meglio. Il nostro enorme debito pubblico è compensato da elevatissime ricchezze private; la sfida politica è di saper costruire una solidarietà nel nome della quale mobilitarle.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10550
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« Risposta #65 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:18:57 pm »

Editoriali

02/10/2012

Spettri tedeschi contro Draghi

Stefano Lepri

Mario Draghi sarà il comandante Schettino della moneta unica europea? Con questa domanda retorica si apriva ieri un commento nella pagina culturale della Frankfurter Allgemeine, quotidiano conservatore tedesco di ottima reputazione. 

 

Mentre quasi tutto il resto del mondo confida nella capacità del presidente della Bce di salvare l’euro, talvolta chiamandolo «super-Mario» (uno dei due), è ben noto che in Germania alcuni la pensano all’opposto. 

 

Questa volta, tuttavia, è difficile credere ai propri occhi. Sotto il titolo «Bunga-Bunga» e dopo l’accenno al noto naufragio, si ricordano i festini in costume della Regione Lazio, nonché l’arresto per spaccio di cocaina del direttore dell’ufficio postale del Senato. Conclusione: la vita pubblica italiana è irrecuperabilmente corrotta, Draghi è italiano, dunque non potrà che combinare disastri.

 

Difficile non chiamare razzista un ragionamento che attribuisce a tutti gli appartenenti a un popolo le colpe di una parte di esso. Purtroppo non si tratta del primo caso. Nella crisi dell’euro, acquistano dignità culturale in Germania posizioni o nazionalistiche o semplicemente di superiorità e disprezzo per gli altri Paesi. Il fenomeno investe i giornali seri - seri alla tedesca, dunque molto più dei nostri - e non si limita più a politici di second’ordine.

 

Il governo di Angela Merkel appoggia Draghi. Ma è stato Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, a paragonare Draghi al Mefistofele del Faust di Goethe, quando convince l’imperatore a stampare moneta in eccesso. Ha ragionate idee euroscettiche l’autore dell’articolo di ieri, Dirk Schuemer; il direttore della sezione cultura della Frankfurter Allgemeine, Frank Schirrmacher, è un intellettuale apprezzato, autore di libri tradotti anche in italiano.

 

Non è il ritorno di un passato lontano. Nella parte nobile, queste posizioni nascono da una giustificata fierezza per i successi del modello economico tedesco. Il guaio è che si irrigidiscono nella difesa di una dottrina economica, quella del rigore monetario, che resta importante, ma che ora quasi tutto il mondo ritiene inadatta alla gravità della crisi. Cosicché, nel condannare il compromesso europeo che costringe la Germania a discostarsene, sentendosi sotto assedio talvolta gli animi si riscaldano e si passa il segno.

 

E’ parso giustamente assurdo che in Grecia Angela Merkel fosse effigiata in camicia bruna nazista; le responsabilità di gran lunga più gravi sono di chi ad Atene ha governato. Ma se si vuole evitare che ai tedeschi di oggi, educati alla democrazia, si rinfacci un passato in cui non erano nati, occorre da parte loro evitare l’uso di banalità sprezzanti verso i Paesi del Sud, i mediterranei, o nell’insieme i popoli latini, francesi inclusi.

Il successo economico della Germania è anche frutto di sacrifici della gente comune, che nell’ultimo decennio ha visto ristagnare il proprio tenore di vita. Nulla vieterebbe ora di distribuirne meglio i frutti. Può venire il sospetto che la parte peggiore del Paese, per non mutare nulla, voglia invece trovare un capro espiatorio fuori dai confini nazionali.

 

Come italiani, dobbiamo riconoscere che prendersela contro l’Italia è diventato troppo facile, da qualche anno a questa parte. Anche figure come quelle del comandante della Costa Concordia sono purtroppo frequenti nell’antropologia nazionale. Ma proprio perché i festini maialeschi e altri sprechi siamo noi tutti a pagarli con i nostri soldi - non i tedeschi, come qualcuno tenta di raccontargli -, è urgente che finiscano.

da - http://lastampa.it/2012/10/02/cultura/opinioni/editoriali/spettri-tedeschi-contro-draghi-spettri-tedeschi-contro-draghi-K1Tj0CQhEUOfMwlZ6CRsdI/index.html
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« Risposta #66 inserito:: Ottobre 11, 2012, 06:34:15 pm »

Editoriali

11/10/2012

Per le famiglie un bilancio in pari

Stefano Lepri

Un pochetto di equità, un pochetto di rilancio. Monti ha cercato di usare i margini di manovra di cui disponeva, che sono modesti. All’origine c’è un duplice movente politico: mostrare che non è cieca l’austerità a cui dobbiamo sottoporci, raccogliere indignazione contro gli sprechi proseguendo la revisione della spesa pubblica. 

 

Le misure scelte una loro logica economica ce l’hanno.

 

E’ falso che si tratti di una «nuova manovra depressiva» perché le grandi cifre dei conti pubblici restano le stesse; mutano gli addendi nel tentativo di migliorare il risultato. E’ vero invece che occorre domandarsi - come stimola a fare l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale - se in questa crisi tutti i governi non stiano eccedendo nelle medicine amare. Purtroppo non è un problema che l’Italia possa affrontare da sola.

 

Grazie ai tagli alle spese che appaiono possibili, il nuovo rialzo dell’Iva l’anno prossimo - già previsto da leggi in vigore - avrebbe potuto essere evitato. Il governo ha scelto invece di aumentare l’Iva di un punto sgravando nel contempo l’Irpef. Si intende segnalare che qualche imposta può anche muoversi al ribasso, pur se in misura minima. Di certo calando l’Irpef si allevia la tensione tra imprese e sindacati sul costo del lavoro.

L’aumento dell’Iva al 22% non sarà ovviamente gradito; pur se è bizzarro che protesti chi l’aveva alzata al 21%. Tuttavia occorre tenere conto che un’Iva più alta in una certa misura favorisce le esportazioni, sulle quali non grava. Insomma al punto di vista delle famiglie i conti sono grosso modo in pari - un po’ più di denaro in busta paga, prezzi un poco più alti - mentre dal punto di vista del sistema produttivo il risultato potrebbe essere benefico.

 

Inoltre c’è un aspetto di equità. Si ridisegna l’Irpef rendendola più progressiva, meno pesante per lavoratori e pensionati a basso reddito. Compare da subito l’imposta sulle transazioni finanziarie, ovvero quella «Tobin tax» da quindici anni cavallo di battaglia della sinistra; altre misure colpiscono banche e assicurazioni.

Certo alleggerire l’Irpef non dà nulla agli «incapienti», ovvero quei cittadini troppo poveri per pagare imposta sul reddito. Ma non pare bello che si ricordi di loro adesso chi finora cercava soprattutto di ripristinare la pensione a 57-58 anni. Oppure, si poteva far di più con i proventi della lotta all’evasione fiscale? No: stando ai dati, le meritorie iniziative del governo Monti (a cominciare da Cortina d’Ampezzo) sono solo riuscite ad evitare che nella crisi l’evasione crescesse ancora, reazione spontanea di un Paese negli anni precedenti abituato all’impunità.

 

Nello stesso tempo, è vero che l’accelerato risanamento dei conti pubblici continua a provocare effetti recessivi profondi; assai più profondi di quanto le dottrine economiche in voga prevedessero, ci dice ora il Fmi. Ma è un circolo vizioso mondiale: un sistema finanziario instabile prende a bersaglio gli Stati indebitati specie se li vede guidati da governi poco credibili; l’austerità che ne consegue diminuisce la fiducia dei cittadini nei loro governi e rende i Paesi ancora più instabili. 

 

Il debito pubblico va ridotto. Ridurlo più lentamente, per evitare danni, si potrà se tornerà la fiducia: in banche ben sorvegliate, in governi capaci di progettare il futuro. Per l’Italia, che da sola non può sfidare i mercati, l’aiuto principale potranno darlo istituzioni dell’area euro più forti e solidali; la strada giusta è stata imboccata nell’estate e si tratta di proseguirla. Intanto però, in casa, meglio astenersi da eccessive promesse elettorali.

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« Risposta #67 inserito:: Ottobre 12, 2012, 10:21:58 pm »

Editoriali

12/10/2012

Preferenze, il virus dei partiti

Luigi La Spina

La diagnosi si fa più grave. Credevamo che la politica italiana soffrisse di senescenza, più o meno precoce, quella che fa dimenticare i peccati del passato, nel ricordo di una gioventù che tutto assolve. Invece, si tratta di un sintomo più terribile, quello che caratterizza l’Alzheimer, la malattia che fa perdere soprattutto la memoria dei fatti recenti.

Ma come è possibile pensare di ripristinare le preferenze, non solo non rammentando che, in un referendum agli inizi degli Anni Novanta, gli italiani, con una maggioranza del 95 per cento, bocciarono questo sistema di voto, ma ignorando i vergognosi scandali di questi giorni? Come è possibile votare una legge, come quella approvata ieri in commissione al Senato, appena il giorno dopo la lettura sui giornali del caso Zambetti, l’assessore regionale lombardo del Pdl accusato di aver acquistato dalla ’ndrangheta quattromila preferenze per 200 mila euro? 

Come è possibile farlo, sempre il giorno dopo la scoperta che il capogruppo Idv alla Regione Lazio, quello che avrebbe sottratto al partito 780 mila euro, era un vero recordman di preferenze, ne aveva oltre 8 mila? Come è possibile proporre una cosa del genere, dimenticando che il famoso «Batman» romano, Franco Fiorito, era un altro fuoriclasse nel campionato nazionale delle preferenze?

La lista degli esempi, tutt’altro che raccomandabili, potrebbe facilmente proseguire, ma potrebbe pure annoiare il lettore, che, in genere, gode di una salute mentale molto superiore a quella dei suoi rappresentanti. Agli smemorati del Parlamento, è più utile, allora, un breve riepilogo delle ultime puntate.

Eravamo rimasti allo sdegno universale sulla legge attualmente in vigore per le elezioni alle Camere, il famoso «porcellum», quello che assicurerà a Calderoli fama imperitura, seppur discutibile. Lo si accusava di togliere agli elettori il potere di nominare i deputati e i senatori della Repubblica per affidarlo alle segreterie dei partiti. Incalzati da una simile pressione dell’opinione pubblica e dall’imminenza del voto per la fine di questa legislatura, ieri, alla commissione di Palazzo Madama, è stato deciso di restituire questo potere ai cittadini in modo tale da consentire ai clan mafiosi, nei casi peggiori, o alle clientele di sottogoverno locale, nei casi migliori(?), di influenzare pesantemente le scelte degli italiani.

Non c’è bisogno di possedere virtù divinatorie per sapere che cosa succederà con le preferenze. Anche in questo caso, basta ricorrere alla memoria, breve o lunga che sia. Quasi cinquant’anni di storia elettorale, nella seconda metà del secolo scorso, costituiscono un monito più che sufficiente. In sintesi: candidati costretti a spese folli pur di essere eletti, spese che, naturalmente, devono «rientrare» nel corso dell’esperienza parlamentare. Competizioni a coltello, seppur metaforico, tra compagni di partito; dove, né la lealtà, né il merito, comunque, assicurano la vittoria. Condizionamenti di lobby professionali di ogni genere e un profluvio di promesse alle più svariate corporazioni e alle più fameliche clientele, promesse da mantenere, pena la mancata rielezione. Infine, un ricatto esasperante e paralizzante nei confronti dei vertici dei partiti, in nome di quel tesoretto di voti acquistato con tante fatiche e tanti denari.

Stupisce che Berlusconi, l’ex censore della vecchia politica professionale, emblema di una prima Repubblica da cancellare, abbia approvato il simbolo elettorale di quel «teatrino», per anni deplorato con toni veementi. Così come stupisce che Casini, puntando sulla collaudata «abilità» dei suoi sodali nella caccia alla preferenze, di antica marca democristiana, non si sia ricordato dei guai giudiziari, a partire dalla Sicilia, che tale metodo di voto ha procurato al suo partito. Stupisce, infine, che il moralizzatore Maroni, in cambio di una soglia di ingresso in Parlamento rassicurante per la Lega, sia disposto a barattare le preferenze, simbolo della peggiore «Roma ladrona».

Eppure, il sistema per restituire ai cittadini il potere di esprimere un chiaro giudizio, senza influenze «esterne» così determinanti c’è, ed è quello dei collegi. Una sfida semplice tra due candidati che permette a chiunque di scegliere la faccia del vincitore. Si può discutere l’ampiezza di questi collegi, perché l’alternativa tra quelli ridotti e quelli che raccolgono un gran numero di votanti presenta vantaggi e svantaggi. Ma è difficile sostenere che la trasparenza del verdetto sia assicurata in maniera migliore dal sistema delle preferenze. Sempre per quest’ultima esigenza, la prima e l’essenziale in una democrazia, i partiti potrebbero estendere, nel territorio del collegio, l’abitudine delle primarie, per sondare il gradimento popolare nei confronti dei loro candidati.

La politica impone spesso scelte complicate, ma qualche volta, come in questo caso, possono essere molto facili, se l’obiettivo è il rispetto della volontà dei cittadini. A pochi mesi dal voto, poi, nel pieno di un’ondata impressionante di scandali, sfidare così l’indignazione degli italiani fa sospettare la recondita coscienza di dover essere duramente puniti.

DA - http://lastampa.it/2012/10/12/cultura/opinioni/editoriali/preferenze-il-virus-dei-partiti-qfrrmmEnPkqcvIQF5UmROP/pagina.html
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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 21, 2012, 11:36:48 am »

Editoriali
21/10/2012

Ai cittadini si offra verità non demagogia

Stefano Lepri

L’effetto Grillo» è già tra noi. Il crescente consenso che i sondaggi di opinione attribuiscono al Movimento 5 stelle sta spingendo chi lo teme a comportarsi nello stesso modo: chiedere tutto e il contrario di tutto. Lo provano sia le critiche alla legge di stabilità mosse da tutti e tre i partiti della maggioranza di governo, sia la manifestazione della Cgil ieri a Roma

 

Ognuno lo fa a modo suo, con obiettivi diversi. Ma c’è qualcosa che accomuna tutti o quasi. Nel tentativo di recuperare consenso, tutto fa brodo: inseguire andando ad orecchio le mode e le rabbie più recenti quanto rispolverare gli strumenti più logori che si erano riposti nel proprio magazzino. Un grande malessere nel Paese c’è, più di quanto chi sta nei palazzi del governo e del potere riesca ad afferrare. Difficile tuttavia contrastare i demagoghi senza idee nuove.

Quando Susanna Camusso dal palco di piazza San Giovanni dice che «la politica del rigore e dell’austerità non solo è fallita ma è la grande colpevole delle difficoltà di questo Paese» sposa una tesi che accomuna l’estrema sinistra ai più oltranzisti tra i consiglieri di Silvio Berlusconi. Presume che debba farsi intendere da persone tanto disperate, da non avere memoria.

Non è stata l’austerità, ma la dissennatezza, a mettere l’Italia nei guai. Basta rammentare il succedersi degli eventi nei due anni passati. La perdita di fiducia di tutto il mondo nel nostro Paese - fiducia anche politica, anche etica, non solo la «fiducia» convenzionalmente intravista nei movimenti dei mercati finanziari - è avvenuta proprio perché chi ci governava appariva incapace allo stesso tempo di mettere in ordine i conti dello Stato e di rispettare le leggi. 

Nella sua ultima fase, il governo Berlusconi aveva adottato a tre successive riprese misure di austerità sulla carta già molto pesanti. In parte erano annunci ancora privi di contenuto, in parte non avevano avuto ancora il tempo di dispiegare i loro effetti. Forse l’Italia è andata più vicina al default nel novembre 2011 che nell’ottobre 1992. Inoltre, il ritardo si paga. Così il governo Monti, per arginare la sfiducia, ha dovuto incidere sulla carne viva bruscamente, e in misura maggiore di quanto sarebbe occorso prima.

Molte persone ora perdono il lavoro; numerose aziende chiudono. Gli effetti recessivi dell’austerità sono pesanti, purtroppo molto più pesanti di quanto si prevedesse (non solo in Italia, come ci dice il Fmi). Ma un cambiamento di rotta non può essere cercato da un solo Paese; tanto è vero che nessuno lo osa, nemmeno la Gran Bretagna che conserva una propria moneta, nemmeno la Francia governata dalla sinistra che per ora i mercati trattano con favore. 

Si può cercare di far meglio. Ma per mettere insieme un progetto occorre coerenza. Non si può biasimare l’eccessivo ricorso delle aziende al lavoro precario, come fa la Cgil, e poi attribuire la perdita di posti di lavoro precari alla riforma Fornero che ha cercato di limitare un poco l’abuso di contratti a termine.

Così pure in Parlamento la nuova legge di stabilità viene trattata dagli stessi partiti che appoggiano il governo come se si trattasse di una nuova «stangata». Non è vero: attenua gli effetti di precedenti impegni presi, con un +0,2 in più di deficit che già negli uffici di Bruxelles non entusiasma. Per alleggerirla si va alla ricerca di entrate fantasma, con il rischio di un immediato contraccolpo sullo spread.

Alla recessione mondiale più grave da settant’anni da noi si aggiungono la crisi dell’attuale sistema di partiti e le ultime tappe di un preesistente declino del modello economico italiano. Le colpe sono soprattutto della classe dirigente. Ma ai cittadini bisogna offrire verità, o andrà ancora peggio.

da - http://lastampa.it/2012/10/21/cultura/opinioni/editoriali/ai-cittadini-si-offra-verita-non-demagogia-OSTLoz7gWOqDhtc0M4vfNL/pagina.html
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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 29, 2012, 10:52:53 pm »

Editoriali
29/10/2012

La prossima missione di Draghi

Stefano Lepri

Toccando ferro, perché altri - specie i politici - possono ancora commettere errori, Mario Draghi ha salvato l’euro. Di questo potrà farsi merito in silenzio giovedì, quando festeggerà il suo primo anno alla guida della Banca centrale europea. I mercati gli danno fiducia; cominciano a rientrare in Spagna, e perfino un poco a quanto pare in Grecia, i capitali che erano fuggiti. 

 

Si può dire che ha reso la Bce più anglosassone e meno tedesca. Certo non ci sarebbe riuscito se non si fosse conquistato l’appoggio di Angela Merkel. La cancelliera ha trovato il coraggio di contraddire la Bundesbank, raro nel suo Paese, e di dare fiducia a quell’italiano che nelle settimane scorse è stato in Germania paragonato a Mefistofele o a una insidiosa sirena capace di condurre al naufragio, quando non insultato e basta.

 

Nell’inverno il sostegno alle banche con prestiti triennali, l’estate scorsa l’impegno ad appoggiare gli Stati in difficoltà; anzi i dodici mesi Draghi li ha già festeggiati ieri con un’altra iniziativa. Il messaggio dell’intervista a Der Spiegel è che solo con più Europa, non con una difesa retrograda dei poteri degli Stati nazionali, le democrazie dell’euro possono riconquistare sovranità sul non democratico potere dei mercati finanziari.

Resteranno sorpresi quelli che dall’estrema sinistra o dall’estrema destra accusano i dirigenti della Bce, «non eletti dal popolo», di voler imporre una crudele e iniqua sudditanza ai mercati. Tutto il contrario. Le parole di Draghi richiamano il caloroso manifesto europeista pubblicato qualche settimana fa da due politici molto diversi per collocazione, il liberale belga Guy Verhofstadt e il Verde Daniel Cohn-Bendit, ex leader del ’68 francese.

 

La Bce, unica vera istituzione federale, si conferma forza motrice dell’Europa. Era un processo già cominciato sotto Jean-Claude Trichet; Draghi, che all’abilità diplomatica del predecessore aggiunge maggiore competenza monetaria, lo accelera nell’urgenza dei tempi. Non si tratta di una scelta politica, che ai banchieri centrali non compete; solo dell’indicazione pratica, da parte di tecnici, di quale sia l’unica via d’uscita dal pasticcio in cui i 17 Paesi dell’euro si sono cacciati.

 

Ancora non sappiamo misurare quanto sia stata ardita la scommessa di Draghi quando il 26 luglio ha dichiarato che «avrebbe fatto tutto il necessario» per salvare l’euro. Aveva già il consenso del direttorio a 6 dell’Eurotower; non quello di tutti i 17 governatori delle banche centrali nazionali (come si sa Jens Weidmann della Bundesbank non glielo ha dato mai). La versione ufficiosa è che abbia informato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble subito dopo, dato che la Bce deve essere autonoma dai governi, anche dai più potenti. Però è lecito sospettare che il via libera l’avesse avuto prima.

 

Pur nel rispetto dei confini legali tra tecnica e politica, le responsabilità si intrecciano. Già da subito altre prove attendono la Bce, specie per compiere il grande passo avanti su cui al contrario Berlino frena, la cosiddetta unione bancaria. Dal 2014 non dovrebbe più accadere che organismi nazionali vietino a una banca di spostare i fondi in eccesso che detiene in un Paese dell’euro verso un altro Paese dove le imprese hanno fame di crediti (è accaduto); né che in uno Stato si chiuda un occhio sui cattivi affari di certe banche per non turbare equilibri di potere interni.

 

Quando, ingrandita e potenziata, la Bce vigilerà sulle banche, dovrà essere ancor più capace di opporsi a pressioni politiche. Perché ci riesca è essenziale che conservi e rafforzi la fiducia della collettività. Una delle prossime mosse di Draghi potrebbe essere di rendere più trasparenti i dibattiti che si svolgono all’interno.

da - http://lastampa.it/2012/10/29/cultura/opinioni/editoriali/la-prossima-missione-di-draghi-OFUJ1CwkTp1kCq6I2zYalJ/pagina.html
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« Risposta #70 inserito:: Novembre 01, 2012, 11:46:30 am »

Editoriali
01/11/2012

Profumo di elezioni

Stefano Lepri

E’ diventata «più intelligente» la legge di stabilità? Bisogna vedere dal punto di vista di chi. Certo alcuni ritocchi imposti al governo dalla sua maggioranza, come la non retroattività di certe misure fiscali, paiono opportuni. 

Ma, per quanto se ne può già capire, la logica delle modifiche chieste dai partiti si riassume in poche parole: sotto elezioni, nelle tasse è meglio toccare il meno possibile.

 

Lo scambio tra più Iva e meno Irpef, sul quale nemmeno il governo era coeso, nasceva da un ragionamento benintenzionato ma un po’ astratto, uscito per l’appunto dalla testa di tecnici. Il buonsenso spicciolo dei partiti suggerisce che se si riducono le tasse ad alcuni cittadini e le si aumentano ad altri, le proteste di chi paga di più in genere sovrastano i sospiri di sollievo di chi paga di meno.

A saperlo meglio di tutti è il centrosinistra. L’introduzione dell’Irap dal 1998, in sostituzione di svariate imposte differenti, nelle grandi cifre si risolse in uno sgravio, mentre nella memoria del Paese viene perlopiù ricordata come un aggravio. 

 

Tanto più oggi, quando il consenso nei partiti tradizionali appare in rapida frana, chi fa parte dell’attuale maggioranza ragiona così: quelli a cui togliamo di sicuro si vendicheranno, quelli a cui diamo probabilmente non ci diranno grazie. Dunque via lo sgravio all’Irpef, sparso su una platea troppo vasta per essere avvertito, purché si ridimensioni l’intervento sull’Iva, che alimenta le paure di non arrivare a fine mese.

Dopodiché si tenterà di mostrare che si sono accolte richieste particolarmente meritevoli: gli imprenditori, i lavoratori a basso reddito, le famiglie numerose, e via enumerando secondo i target elettorali di ciascuno. I dettagli dell’intesa governo-partiti non sono ancora chiari, ma se come Mario Monti e Vittorio Grilli continuano ad assicurare i saldi della manovra restano invariati, non ci sarà da largheggiare per nessuno.

 

Certo, maggiori detrazioni per lavoro dipendente faciliterebbero il dialogo tra sindacati e imprese meglio di un intervento generico sull’Irpef: ma occorrerà capirne la dimensione. Quanto a rivendicare di aver messo nella manovra qualcosa di più e meglio, per carità. Ricette valide «per lo sviluppo» non sembra possederle nessuno al mondo; e se perfino Barack Obama e Mitt Romney si sfidano riscaldando minestre di ieri o dell’altroieri, figuriamoci i partiti nostri.

 

Viene osservato a ragione che il movimento guidato da Beppe Grillo non ha un programma, salvo una serie di slogan perlopiù irrealizzabili e talvolta contraddittori. Ma diventa possibile fare politica in questo modo quando gli altri un programma fanno solo finta di averlo; già stentavano a definirlo prima, adesso con gli elettori che scappano non è davvero aria di prese di posizione precise.

 

Nelle ultime settimane il governo Monti ha ripreso l’iniziativa, dopo una fase in cui sembrava appannato. Ma più ci si avvicina al voto più diventa difficile toccare qualcosa; si rafforza il ricatto dei gruppi di interesse agguerriti pur se poco numerosi (risulta che qualcuno in Parlamento abbia levato la voce contro i 160 milioni agli autotrasportatori, sussidio che perpetua l’inefficienza del settore?).

 

A distanza di oltre un decennio, scopriamo che la promessa di un «nuovo miracolo italiano» era una accattivante trappola per nascondere finché possibile il declino che cominciava. Oggi appare seducente buttare via tutto cambiando in blocco una classe dirigente che ha fallito. Ma il partito del «no a tutto» non sarà per caso un’altra - più aggiornata - maniera per far muro contro le novità che irrompono dal mondo?

da - http://lastampa.it/2012/11/01/cultura/opinioni/editoriali/profumo-di-elezioni-gz06dPxFEzDAd1Q86P5OYP/pagina.html
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« Risposta #71 inserito:: Novembre 10, 2012, 05:58:23 pm »

Editoriali
10/11/2012

Un pericoloso corto circuito

Stefano Lepri

L’Europa piacerà sempre meno a quelli che dovrebbero essere i suoi cittadini, se continuerà a funzionare in modo tanto contorto.
Forse il no ai fondi per l’Emilia terremotata era soltanto una mossa tattica all’interno di un arcano mercanteggiamento.

Ma diventa sempre più difficile spiegare alla gente che cosa accade; anche perché, altre volte, il diniego di solidarietà da parte di alcuni Paesi c’è davvero. 

 

Tutto il negoziato sul bilancio dell’Unione europea si trascina a sussulti di intricatissimi do ut des tra burocrazie nazionali, capaci di annoiare pressoché chiunque. Dentro ci sono problemi veri, come la posizione della Gran Bretagna, come il rapporto tra l’Unione a 27 (presto 28), e l’area euro avviata a integrarsi di più se vuole sopravvivere; problemi che a nessun governo al momento conviene evidenziare come tali.

Solo una piccola quota del denaro dei cittadini viene spesa dall’Unione, il cui bilancio totale è circa un sesto di quello del solo Stato italiano; e va ricordato (specie al Nord del continente) che il nostro Paese versa assai più di quanto riceva. Comunque sia, non si può più decidere così quali sono le priorità, in negoziati dove perlopiù i diplomatici si destreggiano a cercare compromessi tra differenti misture nazionali di interessi costituiti.

Pezzo a pezzo, negli anni, si è costruita una struttura che spesso per funzionare richiede di dire una cosa per farne un’altra. Ad esempio la Commissione di Bruxelles sa benissimo che ulteriori dosi di austerità non sarebbero tollerabili, ma è costretta a fare la faccia feroce per evitare che i politici di certi Paesi ritornino ai vecchi vizi. Il recente richiamo all’Italia, sugli impegni anche dopo il 2013, è rivolto a chi vincerà le elezioni; quando perfino il governo tecnico ha qualche difficoltà a centrare l’obiettivo 2012 (i dati sui conti del Tesoro in ottobre non sono granché buoni).

 

Tutto questo andrebbe ripensato alla radice. Certe menzogne demagogiche contro l’Europa - strumento del sopruso di alcuni Paesi, veicolo di spietati progetti oppressivi, o altro a seconda dei gusti - sono possibili grazie all’oscurità del disegno di insieme. E se il Parlamento europeo continuerà ad avere poteri tanto scarsi, come convinceremo nel 2014 gli elettori ad andare alle urne? Che autorità ha un governo (la Commissione di Bruxelles) in cui non solo la scelta dei membri, ma anche parte dell’articolazione dei dicasteri, derivano da faticose alchimie di vertice tra Stati?

 

Solo con poteri chiaramente attribuiti, trasparenti, legittimati, l’Europa può riconquistare fiducia. Il guaio è che oggi siamo di fronte a un corto circuito pericoloso. La Germania chiede passi avanti verso l’unione politica perché solo una effettiva cessione di sovranità da parte degli Stati può permettere più solidarietà tra le nazioni. La Francia ribatte che solo una crescente solidarietà da subito può invogliare alla cessione di sovranità. I due governi hanno a che fare con elettorati in modo diverso riluttanti.

 

E’ normale che i cittadini di diversi Paesi abbiano priorità differenti. Quello che non si può più fare è affidare il compito di conciliarle soltanto ai rapporti di vertice tra governi o, peggio, a un equivalente diplomatico del mercato delle vacche. Occorre un’arena pubblica in cui chi desidera rappresentare i cittadini si misuri con la necessità di spiegarsi a nazioni diverse, e presenti programmi capaci di essere intesi in tutte le lingue. Già da adesso, in vista del rinnovo del Parlamento europeo nel 2014, non basta che i partiti di ciascun Paese competano su come meglio rappresentare quel Paese a Strasburgo; servono liste europee in gara per esprimere sulla scala dell’Unione le idee di ogni parte politica.

da - http://lastampa.it/2012/11/10/cultura/opinioni/editoriali/un-pericoloso-corto-circuito-Vy1OR6FlRSfBXQnqpcPQpJ/pagina.html
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 11, 2012, 04:06:58 pm »

Editoriali
11/11/2012

Il traguardo del professore

Stefano Lepri

Un traguardo cruciale è ancora da raggiungere, per Mario Monti.
Il risanamento dei conti pubblici deve culminare in un deficit inferiore al 3% del prodotto lordo quest’anno. 

Solo con questo traguardo la Commissione europea potrà chiudere la «procedura per disavanzo eccessivo» nei confronti dell’Italia.
Secondo le ultime previsioni resta possibile arrivarci appena appena, grazie al gettito dell’Imu.

Il prezzo è stato pesante. Ma le privazioni portate dall’austerità modello Monti vanno comparate a ciò che sarebbe successo senza; benché sia difficile immaginarselo. L’Italia non è la Grecia anche nel senso che è troppo grande per essere salvata. Una dichiarazione di insolvenza italiana, tipo quella dell’Argentina undici anni fa, sarebbe stata possibile durante l’inverno 2011-2012. Avrebbe causato uno shock finanziario di dimensioni planetarie e probabilmente la rottura dell’euro.

La storia degli ultimi dodici mesi è risultata diversa per un intrecciarsi di contributi. Senza la correzione di rotta apportata da Mario Monti in Italia, nell’estate Mario Draghi non avrebbe potuto fermare la crisi dell’euro con il consenso di Angela Merkel. A sua volta, la nuova linea di condotta della Bce ha evitato che gli sforzi compiuti dall’Italia fossero resi vani.

La traiettoria dello spread racconta in parte questa storia, dal massimo storico di 574 punti il 9 novembre 2011, alla discesa sotto i 300 in marzo, al nuovo picco di 537 il 24 luglio prima delle dichiarazioni di Draghi a Londra, ai 363 di ieri. Consente di isolare meglio i timori per un collasso a breve termine dell’Italia il tasso medio sui BoT, sceso dal 6,5% del novembre 2011 all’1,5% attuale.

Quanto ai conti pubblici, è noto che quest’anno toccheremo un nuovo record della pressione fiscale (anche altrove aumenta, la Francia non si è fatta sorpassare) per poi stabilirne uno più alto ancora nel 2013. Ma non solo di tasse erano composte le manovre: e probabilmente a fine 2012 questo governo potrà vantare di essere stato il primo da molti decenni a fermare le spese, mantenendole su una cifra suppergiù uguale a quella del 2011.

Dall’estate in poi, l’iniziativa dei tecnici è sembrata infiacchirsi. Perfino nella lotta all’evasione fiscale, uno dei cavalli di battaglia di Monti, poco di nuovo si è aggiunto a quanto era stato fatto prima; il gettito tributario va bene, senza però fornire chiari segni di una svolta nei comportamenti. La legge di stabilità per il 2013, spiaciuta alle forze sociali prima che ai partiti, è stata riscritta dal Parlamento senza che ne uscisse un messaggio più chiaro.

Il negoziato sulla produttività, partito senza obiettivi chiari, di per sé difficile date le differenti strategie politiche di Cgil e Cisl, i differenti interessi di industriali e banchieri, rischia di concludere poco. Come già nella riforma del mercato del lavoro, non si distingue se la priorità sia facilitare la trasformazione e l’innovazione oppure erodere per vie traverse il costo del lavoro.

Alla fine, è la crescita economica che manca. Non è un problema solo italiano, in questa crisi; in Italia è più grave. Tutte le ricette fin qui sperimentate mostrano i loro limiti. Nella dottrina Monti prevale quella liberale delle riforme di struttura, la più accreditata nel mondo; siccome è lenta a dare frutti, incontra resistenze enormi.

Pur nell’evidenza di questi limiti, Monti conserva a tutt’oggi nel mondo l’immagine di un leader di primo piano (Gegenspieler di Angela Merkel in Europa, ovvero antagonista, avversario nel gioco, secondo il quotidiano tedesco Die Welt). In concreto, gli viene dato merito soprattutto della riforma delle pensioni, che ha reso la previdenza italiana una delle più stabili nella prospettiva futura. Demolirla dopo il voto sarebbe una via rapida per ripiombare nei guai; come lo sarebbe ridimensionare l’Imu, principale strumento per risanare i conti.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/il-traguardo-del-professore-JYoqU54CW9oWKVbS259vdK/pagina.html
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 13, 2012, 07:41:41 pm »

Editoriali
13/11/2012

Il messaggio della patrimoniale

Stefano Lepri

Meglio così, sulla patrimoniale: mettere le carte in tavola subito, prima che avveleni la campagna elettorale. Oportet, come dicevano i professori di latino. A parte l’equivoco di comunicazione iniziale, le parole di Mario Monti ieri possono aiutare a discutere in modo più posato. 

 

A lla destra, pronta ad agitare lo spauracchio dell’esproprio, il presidente del Consiglio ricorda che imposte pa trimoniali esistono in molti Paesi «estremamente capitalisti» e si può proporle anche per motivi di efficienza dell’economia di mercato. 

Alla sinistra, ricorda che parecchio in questo campo il suo governo lo ha fatto, con l’Imu, la tassa sugli yacht, il prelievo aggiuntivo sui capitali «scudati», e che andare oltre è in parte rischioso, in parte arduo: tassare i patrimoni finanziari può farli fuggire all’estero, mentre altre ricchezze, come oro e gioielli, al fisco non sono note.

Nell’insieme, secondo dati Ocse, nel 2011 le imposte sul patrimonio pesavano per il 4,1% del prodotto lordo in Gran Bretagna, 3,7% in Francia, 3,5% in Canada, 3% negli Stati Uniti, 2,8% in Giappone, solo il 2,2% in Italia. Con l’Imu, ora, ci siamo portati più in linea con gli altri.

 

Tassare i patrimoni ha motivi sia di equità sia di efficienza. Di equità, perché i patrimoni sono più inegualmente distribuiti dei redditi (la ricchezza si eredita), e in Italia i patrimoni privati sono particolarmente consistenti rispetto ai redditi. Di efficienza, perché colpire i patrimoni scoraggia poco o nulla l’iniziativa economica e la produzione di nuovo reddito.

 

Fin qui i dati. Dopo, ci sono i sogni di «far piangere i ricchi» da una parte, le paure irrazionali dall’altra, spesso più intense in chi detiene patrimoni piccoli e non può facilmente occultarli. Inoltre, svariati tecnici non catalogabili politicamente hanno proposto forme di maxi-patrimoniale straordinaria tale da ridurre una volta per tutte il peso del debito pubblico italiano.

 

Con la sfiducia nei meccanismi di decisione politica che circola nel Paese, per una operazione straordinaria tipo «oro alla patria» mancano i requisiti di base. Quanto ai patrimoni finanziari, in astratto una maggiore tassazione può apparire equa. Ma far parte di una unione monetaria reputata instabile dai mercati è la situazione peggiore per adottarla.

 

L’esperienza del luglio 1992, con il prelievo del 6 per mille sui depositi bancari, fu negativa: impopolarità somma per il governo («continuano ancora a rimproverarmelo quando cammino per strada» usa dire Giuliano Amato, che lo decise) e una accresciuta insicurezza che forse contribuì al successivo crollo della lira in settembre, invece di evitarlo.

 

Non dimentichiamo però che esistono anche forme di prelievo patrimoniale occulto. Il peggiore, e pesantissimo, sarebbe uscire dall’euro. Il ritorno alla lira, con inevitabile default finanziario, ridimensionerebbe brutalmente sia i patrimoni sia, attraverso l’aumento dei prezzi, i redditi.

 da - http://lastampa.it/2012/11/13/cultura/opinioni/editoriali/il-messaggio-della-patrimoniale-vXZkQsF70OSoPcGEX3IZFN/pagina.html
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« Risposta #74 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:21:17 pm »

Editoriali
11/11/2012

Il traguardo del professore

Stefano Lepri

Un traguardo cruciale è ancora da raggiungere, per Mario Monti. Il risanamento dei conti pubblici deve culminare in un deficit inferiore al 3% del prodotto lordo quest’anno. 

Solo con questo traguardo la Commissione europea potrà chiudere la «procedura per disavanzo eccessivo» nei confronti dell’Italia. Secondo le ultime previsioni resta possibile arrivarci appena appena, grazie al gettito dell’Imu.

Il prezzo è stato pesante. Ma le privazioni portate dall’austerità modello Monti vanno comparate a ciò che sarebbe successo senza; benché sia difficile immaginarselo. L’Italia non è la Grecia anche nel senso che è troppo grande per essere salvata. Una dichiarazione di insolvenza italiana, tipo quella dell’Argentina undici anni fa, sarebbe stata possibile durante l’inverno 2011-2012. Avrebbe causato uno shock finanziario di dimensioni planetarie e probabilmente la rottura dell’euro.

 

La storia degli ultimi dodici mesi è risultata diversa per un intrecciarsi di contributi. Senza la correzione di rotta apportata da Mario Monti in Italia, nell’estate Mario Draghi non avrebbe potuto fermare la crisi dell’euro con il consenso di Angela Merkel. A sua volta, la nuova linea di condotta della Bce ha evitato che gli sforzi compiuti dall’Italia fossero resi vani.

La traiettoria dello spread racconta in parte questa storia, dal massimo storico di 574 punti il 9 novembre 2011, alla discesa sotto i 300 in marzo, al nuovo picco di 537 il 24 luglio prima delle dichiarazioni di Draghi a Londra, ai 363 di ieri. Consente di isolare meglio i timori per un collasso a breve termine dell’Italia il tasso medio sui BoT, sceso dal 6,5% del novembre 2011 all’1,5% attuale.

 

Quanto ai conti pubblici, è noto che quest’anno toccheremo un nuovo record della pressione fiscale (anche altrove aumenta, la Francia non si è fatta sorpassare) per poi stabilirne uno più alto ancora nel 2013. Ma non solo di tasse erano composte le manovre: e probabilmente a fine 2012 questo governo potrà vantare di essere stato il primo da molti decenni a fermare le spese, mantenendole su una cifra suppergiù uguale a quella del 2011.

 

Dall’estate in poi, l’iniziativa dei tecnici è sembrata infiacchirsi. Perfino nella lotta all’evasione fiscale, uno dei cavalli di battaglia di Monti, poco di nuovo si è aggiunto a quanto era stato fatto prima; il gettito tributario va bene, senza però fornire chiari segni di una svolta nei comportamenti. La legge di stabilità per il 2013, spiaciuta alle forze sociali prima che ai partiti, è stata riscritta dal Parlamento senza che ne uscisse un messaggio più chiaro.

Il negoziato sulla produttività, partito senza obiettivi chiari, di per sé difficile date le differenti strategie politiche di Cgil e Cisl, i differenti interessi di industriali e banchieri, rischia di concludere poco. Come già nella riforma del mercato del lavoro, non si distingue se la priorità sia facilitare la trasformazione e l’innovazione oppure erodere per vie traverse il costo del lavoro.

 

Alla fine, è la crescita economica che manca. Non è un problema solo italiano, in questa crisi; in Italia è più grave. Tutte le ricette fin qui sperimentate mostrano i loro limiti. Nella dottrina Monti prevale quella liberale delle riforme di struttura, la più accreditata nel mondo; siccome è lenta a dare frutti, incontra resistenze enormi.

Pur nell’evidenza di questi limiti, Monti conserva a tutt’oggi nel mondo l’immagine di un leader di primo piano (Gegenspieler di Angela Merkel in Europa, ovvero antagonista, avversario nel gioco, secondo il quotidiano tedesco Die Welt). In concreto, gli viene dato merito soprattutto della riforma delle pensioni, che ha reso la previdenza italiana una delle più stabili nella prospettiva futura. Demolirla dopo il voto sarebbe una via rapida per ripiombare nei guai; come lo sarebbe ridimensionare l’Imu, principale strumento per risanare i conti.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/il-traguardo-del-professore-JYoqU54CW9oWKVbS259vdK/pagina.html
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