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Autore Discussione: STEFANO LEPRI.  (Letto 52595 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Aprile 06, 2012, 03:18:57 pm »

6/4/2012

Perché torna la febbre da spread

STEFANO LEPRI

Non è colpa dell’Italia questa volta se la crisi dell’euro torna ad aggravarsi.

Per lo più gli analisti di mercato considerano timida la riforma del mercato del lavoro, ma sempre un passo avanti; il documento interno della Commissione europea sui conti pubblici italiani rivelato da questo giornale non muta il quadro delle previsioni.

Avviene invece che l’instabilità della finanza torni ad esercitarsi sui difetti costruttivi dell’unione monetaria. Si prendono a pretesto motivi in parte opposti a quelli della fase precedente, in quella che il capo economista del Fondo monetario, Olivier Blanchard, chiama «la schizofrenia dei mercati». E’ come se un medico, dopo aver prescritto a un paziente di dimagrire in fretta per diminuire il pericolo di infarto, ora gli dicesse che rischia perché si è indebolito.

Sotto tiro è al momento la Spagna. Più del ritardo nella riduzione del deficit, o dei difetti della nuova manovra di austerità (c’è un condono fiscale) i mercati paiono temere le conseguenze della recessione economica indotta dalle misure di austerità precedenti. Eppure, al prezzo di un forte aumento della disoccupazione, un risultato si è raggiunto: gli spagnoli hanno smesso di consumare più di quanto producevano, rimuovendo un importante fattore di squilibrio.

Quale è allora la scelta giusta? Sia rafforzare la stretta ai bilanci, sia allentarla, potrebbero accrescere la sfiducia. Nei suoi primi 100 giorni il centro-destra di Mariano Rajoy ha commesso diversi errori; ma questo non basta a giustificare il repentino cambio di umore dei mercati. Il più esile pretesto torna buono (in Italia dobbiamo stare attentissimi a non offrirne) per fare scommesse al casinò della finanza.

Se si vogliono evitare guai peggiori, alcune cose possono essere fatte. Che oggi nel mirino si trovi la Spagna aiuta a individuarle. Messe in difficoltà da una colossale «bolla» immobiliare, le banche iberiche hanno fatto ricorso massiccio alla liquidità della Bce, e l’hanno massicciamente impiegata (più di quelle italiane) nell’acquistare titoli dello Stato a cui appartengono.

Più che in altri Paesi dell’euro, in Spagna esiste il rischio di un circolo vizioso tra credibilità finanziaria dello Stato e credibilità delle banche. Sarebbe ora di riconoscere che un’unione monetaria si regge se la stabilità bancaria è centralmente governata. Altrimenti un giorno o l’altro i mercati potrebbero convincersi che qualche Stato non ha spalle abbastanza larghe per garantire le banche nazionali.

Su una proposta che abbracci tutta l’Europa a 27 si va a rilento. Il membro tedesco del direttorio Bce, Joerg Asmussen, suggerisce di limitarsi alla sola area euro. Lo scopo è di avere presto un sistema unico in grado di liquidare le banche decotte e garantire la solidità di quelle sane.

In questa chiave sarebbe inoltre opportuno abbandonare ogni pregiudizio nazionale sui gruppi di controllo delle banche. Da un punto di vista italiano, più il sistema sarà transnazionale meno il costo e la disponibilità di credito per le nostre imprese saranno legati allo spread dei titoli di Stato.

Se la Spagna appare fragile, è anche perché gli altri grandi Stati sono di nuovo presi ciascuno dai propri egoismi. Non giova che Nicolas Sarkozy per essere rieletto presidente prometta il pareggio di bilancio solo nel 2016, e che il rivale François Hollande non faccia meglio. Non giova che dalla Germania si continui ad assillare Mario Draghi con ansie di inflazione ingiustificate, per interessi di breve periodo dell’establishment tedesco. Tra due settimane, ai vertici internazionali di Washington, l’Europa rischia di fare di nuovo una brutta figura: tornare a chiedere appoggio dal Fmi senza essersi saputa prima aiutare da sola.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9967
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« Risposta #46 inserito:: Aprile 18, 2012, 03:57:35 pm »

18/4/2012

Il rigore nei conti non guarisce ogni male

STEFANO LEPRI

La dose di austerità è sufficiente; la ricetta per tornare alla crescita va cercata con pazienza e fantasia, ma nessuno l’ha in tasca già pronta. Arrivano al momento giusto, le parole del Fondo monetario, per sprovincializzare il dibattito italiano in vista del Consiglio dei ministri di oggi. Se c’è un allarme, riguarda il rischio di una nuova crisi dell’euro: dovrebbero ascoltarlo soprattutto in Germania.

Non solo in Italia, ma in tutti i Paesi avanzati del mondo, si prospetta una lunga fase di crescita economica lenta, frenata dal fardello dei troppi debiti. Qualche Paese quei debiti li ha contratti nell’euforia finanziaria di prima del 2007, qualcuno durante la crisi per lenirne le conseguenze, qualcuno, come noi, se li trascinava dietro da ancora prima.

Non è facile per nessuno ripagare il debito e nello stesso tempo trovare i soldi per investire sul futuro. In più, l’area dell’euro mostrandosi fragile ora danneggia i Paesi deboli al suo interno, dopo averli aiutati fin troppo negli anni buoni. Sotto la pressione dei mercati, anche l’Italia e la Spagna, accortesi in ritardo dell’urgenza di ridurre il debito, hanno preso misure di austerità tali da riprecipitarle nella recessione.

Di fronte a mercati finanziari pronti ad agitarsi un giorno perché il deficit pubblico è un po’ più alto del previsto, il giorno dopo all’opposto perché il calo del deficit aggrava la recessione, il Fondo monetario dà un messaggio di equilibrio. Ovvero, l’importante non è stringere ancor più la cinghia adesso, è avere progetti seri per ridurre il debito negli anni; e qui l’area dell’euro sta assai meno peggio di Stati Uniti e Giappone.

In questo quadro non implicano un biasimo le previsioni secondo cui l’Italia non raggiungerà il pareggio di bilancio nel 2013; dato che i programmi pluriennali vengono ritenuti credibili. Altro che «pensiero unico»! Qui il Fmi, guardiano della stabilità finanziaria mondiale, dimostra di pensarla in modo assai diverso da chi, alla maniera della Bundesbank e di altri in Germania, vede il rigore di bilancio come la cura di ogni male.

Oltretutto, l’Italia nel 2013 l’attivo di bilancio lo raggiungerebbe «al netto del ciclo» ossia scontando gli effetti della recessione. Sarebbe già raggiunto l’anno prossimo ciò che la modifica alla Costituzione approvata definitivamente dal Senato proprio ieri impone a partire dall’anno successivo, il 2014.

Purtroppo è altrettanto chiaro che nei prossimi mesi continueranno a scomparire posti di lavoro. Il capo economista del Fmi ha avuto ieri il merito di dichiarare con franchezza che il «Santo Graal» delle ricette miracolose per la crescita economica probabilmente non esiste. Dovrebbero prenderne nota tutti coloro, partiti o forze sociali, che si affollano a protestare che «il governo Monti non pensa alla crescita». Occorre sforzarsi senza sosta nella ricerca dei provvedimenti più utili, provando e riprovando, nella coscienza che da Washington a Tokyo a Bruxelles tutti vi sono impegnati.

Prima di tutto occorre evitare una nuova crisi dell’euro. Qui, in compenso, i consigli del Fondo sono chiari e precisi. La Bce deve riprendere i suoi interventi di sostegno, verso i quali si ritengono infondati i timori dei tedeschi. Poi, invece di escogitare rappezzi occorre capire che cosa rende funzionale una unione monetaria tra Paesi. L’obiettivo meno arduo da raggiungere è un sistema bancario più solido e transnazionale. Il Fmi propone di ricapitalizzare le banche con fondi anche europei, di eliminare quelle non salvabili e garantire i depositi con regole uniche in tutta l’area. Da un diverso punto di vista si può aggiungere - servirebbe anche a eliminare le complicità tra politici nazionali e banchieri nazionali.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10008
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« Risposta #47 inserito:: Aprile 26, 2012, 06:15:06 pm »

26/4/2012

Il rigore di bilancio non basta

STEFANO LEPRI

È una bella novità che sia Mario Draghi a suggerire ai governi un «patto per la crescita». Tuttavia il banchiere centrale dell’euro per crescita non intende ciò che intende la gran parte dei politici quando la invoca. Può darsi che una vittoria di François Hollande serva a rimescolare le carte sul tavolo, come in Italia spera oltre alla sinistra anche una parte della destra; purché si abbandonino le chiacchiere da campagna elettorale.

Vale la pena di guardarsi attorno. Non stiamo vivendo solo una crisi dell’euro. La ricetta britannica, austerità di bilancio fondata su tagli alla spesa e politica monetaria spericolatamente espansiva, appariva più efficace; scopriamo adesso che la recessione nel Regno Unito ha andamento e gravità simili a quelli dell’Italia. Né il successo dei partiti populisti è solo conseguenza dell’austerità per salvare l’euro, dato che investe anche Svezia e Danimarca.

Tutti i Paesi avanzati stentano a crescere, oggi. Tutta l’Europa avanzata patisce i traumi dell’immigrazione massiccia e dell’ascesa industriale dei Paesi emergenti. Rivolto ai politici, Draghi insiste: lo sviluppo non arriva né con i deficit di bilancio né con una politica monetaria ancor più espansiva.

Forse il presidente della Bce aveva in mente proprio la sua Italia. Dal Duemila fino alla crisi si sono sperimentati prima gli sgravi fiscali, poi l’aumento della spesa; mentre i tassi di interesse bassi assicurati dall’euro non imprimevano decisivi impulsi a una economia fiacca.

Facile è replicare a Draghi chiedendogli allora che cosa propone. Nelle posizioni del presidente della Bce c’è un inevitabile equilibrismo, stretto com’è tra le pressioni sull’Europa del Fondo monetario (spalleggiato da Usa e Paesi emergenti) e i no della Germania e della Bundesbank. Manca la risposta a una questione chiave posta dal Fmi: l’austerità di bilancio è davvero necessaria anche nei Paesi con i conti in ordine, come la Germania e l’Olanda?

Però è interessante che sia un banchiere centrale a chiedere ai politici di avere più «visione»: di solito, chi svolge quel ruolo esorta a tenere i piedi per terra. Non servono progetti magniloquenti, che a orecchie tedesche suonerebbero «pagherete voi i debiti degli altri»; occorre però indicare una direzione di movimento, verso una unione più stretta, e una politica più trasparente.

E’ spesso la difesa a oltranza di nuclei di potere politico-economico nazionale a rendere i 17 Stati dell’euro più deboli di fronte ai mercati di quanto i dati economici giustificherebbero. Ad esempio, un intervento di fondi europei a sostegno delle banche spagnole potrebbe risultare molto utile; Madrid non lo chiede forse per proteggere consorterie interne, Berlino lo rifiuta per sfiducia nelle altrui capacità di governo.

Anche Angela Merkel ora afferma che il solo rigore di bilancio non basta. L’Italia non può sottrarvisi. Deve casomai evitare un corto circuito letale: il malcontento contro l’austerità potrebbe essere sfruttato dai centri di potere per non applicare l’austerità a sé stessi. Un esempio lampante è quelli dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso i fornitori: le imprese giustamente li vogliono saldati, ma una parte corrisponde a denaro che non si doveva spendere, sorge da una diffusa disobbedienza ai tagli.

Nei primi mesi dell’anno non è calata la spesa pubblica, perché burocrati ed amministratori locali tentano di sfuggire ai vincoli. Nuovi scandali in imprese a controllo statale ripropongono l’opportunità di privatizzazioni. Pulizia della politica e revisione della spesa pubblica (o spending review che dir si voglia) non possono procedere l’una senza l’altra: sono le due facce della riforma strutturale oggi di gran lunga più importante.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10034
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« Risposta #48 inserito:: Maggio 03, 2012, 07:28:23 pm »

3/5/2012

Gli ostacoli sulla strada dei supertecnici

STEFANO LEPRI

Se l’unica difficoltà a governare l’Italia stesse nella cattiva qualità della classe politica, la nomina dei tre «supertecnici» non si capirebbe. Invece i compiti precisi affidati a Enrico Bondi e a Francesco Giavazzi rivelano due altri ostacoli ingombranti che il governo di Mario Monti si trova di fronte: la burocrazia e i poteri corporativi.

Per riformare la spesa pubblica occorre aggirare complicità che rafforzano da fuori la cattiva politica. Negli acquisti pubblici di beni, si nascondono guadagni illeciti piccoli e grandi; nei trasferimenti alle imprese, scambi di favori annosi e ben radicati. Più di una volta in passato alcuni politici si erano prefissi obiettivi ambiziosi; poco è seguito.

Da un quarto di secolo è noto l’andamento anomalo del settore di spesa dove dovrà incidere Enrico Bondi. Fu la legge finanziaria del 2000 ad affidare alla Consip il compito di centralizzare e rendere trasparenti gli acquisti delle pubbliche amministrazioni; i burocrati l’hanno ostacolata in tutti i modi, convincendo i Parlamenti a limitarne il raggio.

Dove ha operato, la Consip ha in genere prodotto risparmi. Ma responsabili di ogni livello del settore pubblico sono pronti a negare che spunti prezzi più bassi, oppure la proclamano incapace di fornire i beni della qualità giusta, di capire le esigenze specifiche dei loro uffici, eccetera eccetera. Avvocati illustri patrocinano al Tar i fornitori esclusi, e spesso ottengono di rovesciarne le decisioni.

Di rivedere i trasferimenti alle imprese si proponeva già Guido Carli (al Tesoro fra il 1989 e il 1992) che proprio alla fine del suo mandato chiamò come dirigente al ministero l’allora quarantenne professor Giavazzi. Talvolta, la dimensione della spesa a favore delle imprese private è stata agitata come minaccia per rendere gli industriali privati più docili verso i politici; poco si è ragionato sull’ammontare dei fondi destinati a imprese pubbliche.

Governi di diverso colore avevano promesso di abbassare le aliquote di imposta sulle imprese a fronte di una riduzione di incentivi e sussidi vari; anche quando un presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, accettò la sfida, le resistenze delle categorie industriali interessate prevalsero. Ora il governo Monti cita giustamente tra i sussidi più distorsivi quelli all’autotrasporto: nel caso, occorrerà il coraggio di affrontare uno sciopero dei Tir. Reazioni analoghe potrebbero prodursi altrove.

Diversi politici, e anche qualche collega accademico, fanno dell’ironia su Giavazzi alle prese con le difficoltà pratiche di realizzare le idee espresse sul Corriere della sera . Ma magari ne arrivassero altri ancora, di «tecnici dei tecnici». Diciannove anni fa, il governo di Carlo Azeglio Ciampi attirò nei ministeri numerose persone capaci dal settore privato, dalle professioni, dalle università; era il segno di una speranza, dopo Tangentopoli. In un momento di uguale gravità, può il fenomeno ripetersi?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10057
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 15, 2012, 11:36:22 am »

15/5/2012

La minaccia e i bluff della Grecia

STEFANO LEPRI

La cura di sola austerità nell’area euro è sconfitta, ad opera degli elettori di diversi Paesi e regioni. Su come integrarla, si apre ora una stagione di faticosi negoziati, forse di maldestri compromessi.

Ma per la Grecia è urgente essere pronti a tutto. E occorre distinguere le realtà dalle minacce e dai ricatti che si incrociano in queste ore.

Punto primo. La Grecia non è in grado di sopravvivere da sola; non più di quanto potrebbe ad esempio - per avere un’idea delle dimensioni - una Calabria separata dall’Italia.

Senza aiuti dall’Europa e dal Fondo monetario, presto non avrebbe soldi né per pagare gli stipendi degli statali né per comprare all’estero ciò che serve ad andare avanti, tra cui alimenti e petrolio.

Punto secondo. Dopo la ristrutturazione a carico dei privati, oggi circa la metà del debito greco è in mano all’Europa o al Fondo monetario. Quindi se la Grecia non paga, ci vanno di mezzo soprattutto i contribuenti dei Paesi euro, cioè noi tutti (in una stima sommaria, circa un migliaio di euro a testa).

Punto terzo. Il ritorno alla dracma sarebbe vantaggioso solo nella fantasia di economisti poco informati, per lo più americani. Trapela ora che il governo Papandreou aveva commissionato uno studio dal quale risultava che perfino i due settori da cui la Grecia ricava più abbondanti introiti, turismo e marina mercantile, non sarebbero molto avvantaggiati da una moneta svalutata.

Punto quarto. L’incognita vera è quali danni aggiuntivi, oltre al debito non pagato, una eventuale bancarotta della Grecia causerebbe agli altri Paesi dell’area euro (in primo luogo crescerebbero gli spread ). Di certo le conseguenze sarebbero asimmetricamente distribuite: più gravi per i Paesi deboli, in prima fila il Portogallo poi anche Spagna e Italia; meno gravi per la Germania.

Non c’è risposta certa alla domanda presente nelle teste di tutti i ministri dell’Eurogruppo riuniti ieri sera a Bruxelles - se convenga di più sostenere la Grecia o lasciarla andare a fondo. A prima vista, almeno per l’Italia la solidarietà sembra meno costosa del diniego; eppure, guardando nel futuro, una Grecia non risanata diventerebbe una palla al piede.

Fa bene perciò ragionare sulle alternative; e occorre farlo in modo politico, dato che due crisi politiche qui si intrecciano, una dei meccanismi decisionali europei, un’altra dei partiti greci.

Ad Atene, un sistema politico crolla, come nell’Italia di 20 anni fa, ma le scelte minacciano di polarizzarsi in modo più pericoloso. Occorre chiedersi se la sconfitta dei due ex partiti dominanti, Nuova Democrazia e socialisti, sia dovuta ai tempi troppo stretti del risanamento chiesto dall’Europa, o non soprattutto al modo iniquo e inefficiente con cui i sacrifici sono stati distribuiti tra i cittadini, proteggendo clientele e centri di potere.

L’Europa aveva preteso tempi più stretti di quelli ritenuti opportuni dal Fmi proprio perché non si fidava dei politici greci in carica. Ora non se ne fidano più nemmeno gli elettori. I loro voti si sono spostati verso politici emergenti i quali però raccontano una bugia: che la Grecia può ricattare gli altri Paesi in modo più efficace, minacciando di trascinarli nel baratro se non apriranno di nuovo il portafoglio.

Dal lato opposto, sta alla Germania e agli altri Paesi rigoristi dimostrare che il ricatto è vano perché nel baratro non ci cadremo. Ovvero, occorre che mettano le carte in tavola, specificando quali gesti di solidarietà compirebbero verso gli altri Paesi deboli nel caso ad Atene si formasse un governo deciso al braccio di ferro. Altrimenti dire ai greci «o mangiate questa minestra, o saltate dalla finestra» si rivelerebbe un bluff , come già tendono a ritenere i mercati.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10105
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« Risposta #50 inserito:: Maggio 19, 2012, 10:31:55 am »

18/5/2012

Le scelte non più rimandabili

STEFANO LEPRI

Ormai ce lo sanno dire tutti. Tutto il mondo sa che cosa l’area euro dovrebbe fare per uscire da questa nuova stretta. Consigli analoghi vengono dal Presidente degli Stati Uniti, dal Primo ministro britannico, dal Fmi; manca solo che ci si metta anche la Cina. Nelle ultime ore qualcosa sembra muoversi, in Germania. Ma non c’è più tempo per caute correzioni di rotta. Il momento per decidere è ora.

Non è un tracollo dell’euro quello che rischiamo, questo no. L’unione monetaria sopravvivrà; ma dalle scelte che si faranno nei prossimi giorni dipende se al risultato ci arriveremo con affanno e a costi elevati, spinti dall’urgenza di elevare barriere contro un crack della Grecia, o se lo otterremo prima, senza passare per questo trauma, evitando la scia di risentimenti che ci imprimerebbe nella memoria. Speriamo che non sia già troppo tardi per arrestare la frana. Forse è esagerato il timore che ad affossare la Grecia siano già prima delle nuove elezioni i greci stessi.

Greci che hanno svuotato le loro banche, inzeppando i materassi di banconote in euro destinate a restare valide fuori dei loro confini in un domani di ritorno alla dracma.

È paradossale che proprio l’euroscettico David Cameron, conservatore inglese a cui l’euro non è mai piaciuto, ci fornisca una agenda precisa. Ce l’aveva già detto nelle settimane scorse, ma mai con tanta incisività come ieri: un efficace fondo di salvataggio, banche ben capitalizzate e regolate da un’unica autorità di vigilanza, una politica di bilancio comune, una banca centrale pronta a intervenire.

Dove sono gli ostacoli? Ovunque. Si può capire che un Paese rilutti a cedere sovranità nazionale; assai meno che i suoi politici non vogliano rinunciare a un rapporto di complicità con i banchieri insediati entro i propri confini. Lo abbiamo visto e lo continuiamo a vedere nel modo reticente e maldestro in cui a Madrid prima il governo socialista, e ora quello popolare, hanno gestito la crisi delle banche locali spagnole.

A ridurci a questo punto è stata la reciproca sfiducia tra le classi politiche dei 17 Paesi membri. Nel suo insieme l’area euro è in equilibrio nei conti con l’estero, non avrebbe avuto bisogno del risanamento tanto accelerato che l’ha risospinta di nuovo nella recessione. A Berlino lo stanno cominciando a capire solo ora, perché l’umore della stessa Germania sta cambiando, tra agitazioni sindacali e voti in alcune regioni.

Un passo in avanti politico è ora indispensabile, come fa bene a ripetere il nostro Presidente della Repubblica. Lo è perché la sovranità non è più dove le classi politiche nazionali insistono a ripetere che si trova ed è da loro difesa e salvaguardata. Gli squilibri economici la hanno già trasferita. La Grecia è ridotta in condizioni di dipendenza tali che i suoi elettori ignorano di non poter scegliere liberamente; mentre i cittadini dei Paesi forti fanno per ragioni interne scelte di cui non sanno le ripercussioni sui Paesi vicini.

La distorsione della democrazia è maggiore proprio nel Paese più forte e in quello più debole. In Germania, il successo economico cela che sarebbero possibili soluzioni più vantaggiose anche per la gran massa dei tedeschi stessi; rende sordi ai consigli di Washington e di Londra. In Grecia, a una classe politica corrotta rischia di sostituirsene un’altra che sfrutta la disperazione della gente per addossare al resto d’Europa, o a un complotto neoliberista mondiale, la colpa di sacrifici che il Paese dovrebbe fare comunque per sopravvivere. Esiste una politica europea capace di far intendere agli uni le ragioni degli altri?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10119
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 24, 2012, 11:43:15 am »

23/5/2012

Più poveri di 20 anni fa

STEFANO LEPRI

Siamo più poveri di vent’anni fa: in media, il 4% di potere d’acquisto in meno per persona. I dati dell’Istat ieri non ci dicono soltanto che la grande crisi in corso dal 2007 ha colpito duramente l’Italia. Già da prima la crescita economica si era quasi arrestata. Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale, un grande Paese avanzato non avanza più. Possiamo già chiamarlo declino?

Inutile prendersela con l’instabilità finanziaria, e tanto meno con l’euro. L’analisi dell’Istituto di statistica, in diversi punti vicina a quella della Banca d’Italia, fa risalire a ben prima i nostri mali. In sintesi, si sono combinati tra loro diversi errori della nostra classe dirigente: non solo i politici, anche gli imprenditori, anche i burocrati, anche altri poteri costituiti.

Non c’è da stupirsi se in diverse occasioni, nelle urne e nelle piazze, emerge una complessiva insofferenza verso «quelli in alto». In situazioni del genere si fanno strada i demagoghi, con i quali si cade dalla padella nella brace. E’ stata peraltro tutta la collettività a rendersi conto tardi della gravità della crisi: la percezione dei dati economici - anche questo mostra l’Istat - è stata fino all’estate 2011 fortemente influenzata dai mass media, specie dalla Tv.

Nello stesso giorno in cui le statistiche nazionali ci informano che le retribuzioni sono pressoché allo stesso livello di vent’anni fa, da Parigi l’Ocse suggerisce una riduzione dei salari reali per accrescere la competitività e ridurre la disoccupazione. Sono, purtroppo, due facce della stessa medaglia. La produttività in Italia è rimasta ferma mentre altrove aumentava; gli altri con la stessa quantità di lavoro realizzano più beni, noi no.

Non siamo stati colpiti da una misteriosa pigrizia. Secondo l’Istat, scelte sbagliate delle aziende e dello Stato si sono rafforzate a vicenda. Un gran numero di imprese non è bravo nell’utilizzare appieno le nuove tecnologie, non sa crescere di dimensione od organizzarsi meglio; fuori gli fanno da freno le inefficienze pubbliche, trasporti faticosi, cattiva formazione scolastica, giustizia civile lenta, mentre l’evasione fiscale favorisce le più inefficienti attività dell’economia sommersa.

Una stagione di profitti industriali assai alti, dal 1993 durata circa un decennio, non ha accresciuto né diversificato gli investimenti nelle strutture produttive: fabbrichiamo più o meno le stesse merci. Dal 2000 al 2005, i governanti hanno scialacquato i benefici dell’euro: il minor peso degli interessi sul debito pubblico è stato utilizzato per accrescere le spese. Ora i nodi arrivano al pettine tutti insieme.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10137
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:50:16 am »

25/5/2012

Ue, se vincono gli egoismi nazionali

STEFANO LEPRI

Il guaio degli eurobond è che uno degli ostacoli principali lo pone proprio chi li ha chiesti con maggior forza al vertice europeo, ossia la Francia. Senza un rafforzamento delle strutture politiche comuni dell’area euro, senza cessioni di sovranità da parte degli Stati, questi titoli di debito comuni non sarebbero credibili.

Pagherebbero interessi alti, con un forte onere per la Germania e poco sollievo per Spagna o Italia.

Mario Monti si dice ottimista. Certo, una maggioranza di governi dei Paesi euro è favorevole; e tutto il mondo ce li consiglia. Ma l’ostilità di tedeschi, olandesi, finlandesi, non è solo egoistica, ha buone ragioni. Può cadere solo se tutti saranno disponibili a procedere verso l’unione politica. Qui è Parigi a dover dare il via. Ed è improbabile che il neo-presidente François Hollande possa esprimersi - in un Paese così attaccato alla propria sovranità nazionale - prima di sapere se otterrà una maggioranza in Parlamento alle elezioni dei 10 e 17 giugno.

Per poter emettere eurobond che i mercati accettino a tassi di interesse moderati, occorre dunque quel «coraggioso salto di immaginazione politica» che Mario Draghi sollecita. E’ solo in apparenza strano che un banchiere centrale, addetto a governare la moneta, lanci un appello europeista tale da commuovere gli autori del Manifesto di Ventotene, se fossero ancora vivi. Lo fa per evitare che, in caso di eventi traumatici, tutte le responsabilità di evitare il peggio si concentrino sulle sue spalle.

Saranno terribili le settimane che ci separano dal doppio voto francese e dal nuovo voto greco, sempre il 17 giugno. Dopo il fallimento dei vertice dei governi, la Banca centrale europea è restata sola. Nulla oltre a suoi interventi di emergenza potrebbe evitare un disastro, qualora i pericoli si aggravassero; e su di essi il rischio di spaccature interne sarebbe altissimo. Ieri Draghi ha rivendicato la propria ortodossia monetaria nello stesso tempo distanziandosi dal dogmatismo della Bundesbank; in una stretta drammatica, questo potrebbe divenire impossibile.

La strada verso l’unione politica, se la si trova, può solo essere molto lunga; al massimo si può fissarne le tappe in anticipo, su un arco di anni. C’erano invece cose che il vertice europeo poteva fare subito, e non ha fatto, come ipnotizzato dalla possibilità che la Grecia oltrepassi il punto di non ritorno. Si può capire che si esiti a intaccare la sovranità nazionale, frutto di secoli di storia, giustamente cara ai cittadini. Difficile perdonare, invece, l’attaccamento di ciascuno Stato ai propri poteri sulle banche.

Si tratta qui di misure che ai cittadini non farebbero alcun danno, anzi porterebbero vantaggi. E’ una ottima idea quella suggerita dal governo italiano, di una garanzia comune sui depositi bancari dell’area euro: renderebbe tutti noi più sicuri sulla sorte dei nostri risparmi, invece di farci desiderare, come nei momenti di ansia accade, di spostarli in Germania. Ancor più, si potrebbero usare fondi europei per consolidare le banche deboli, a cominciare da quelle spagnole; e tanto di guadagnato se sfuggono all’influenza dei politici locali.

Una normativa bancaria unificata, con poteri centrali di regolazione e di intervento, è indispensabile quando si condivide una moneta. Gli americani ce lo avevano spiegato dall’inizio («ve ne accorgerete a vostre spese alla prima crisi» fu detto a chi scrive da una funzionaria della Federal Reserve nel 1998) ma gli interessi dei ceti dirigenti nazionali continuano a prevalere. Anche per questo ora si oscilla tra fare ai greci la faccia feroce, in modo che non votino per i partiti estremisti, e rassicurarli, nel timore che portino i soldi all’estero, rendendo così inevitabile il crack.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10145
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« Risposta #53 inserito:: Giugno 12, 2012, 04:42:31 pm »

12/6/2012

Le manovre di chi specula in malafede

STEFANO LEPRI

È davvero assurda l’idea che se le banche spagnole hanno avuto bisogno di soccorso, qualcosa debba accadere anche alle banche italiane.
In Spagna pesano i resti di un mostruoso boom immobiliare, almeno 700.000 appartamenti invenduti; nulla di simile c’è in Italia.
Tanto i problemi sono stati lasciati degenerare, nell’area euro, che riesce troppo bene alla malafede degli speculatori al ribasso confondersi con i timori di tutti.

Era una buona notizia, quella dell’intervento a favore della Spagna. L’irrazionalità dei mercati sembra essere riuscita, nel seguito della giornata, a trasformarla in cattiva. E questo accade proprio in una fase in cui il governo Monti pare perdere la spinta.
Dopo averlo esaltato fin troppo all’inizio, ora i mass media internazionali si disamorano di lui.

Nulla nei dati giustifica preoccupazioni aggravate verso il nostro Paese, se non l’accresciuta confusione nella sua politica. La recessione italiana dipende innanzitutto da una manovra di bilancio obbligatoriamente brusca perché attuata troppo tardi. Ad ostacolare le misure di riforma strutturale e di rilancio sono problemi pratici di decidere, e di attuare ciò che si decide, che qualsiasi maggioranza incontrerebbe, nel triangolo oscuro tra alta burocrazia, poteri lobbistici, classe politica.

Scrive il New York Times che il governo Monti è ostacolato dall’eredità di decenni di riluttanza politica verso cambiamenti dolorosi.
Chi si prepara alle prossime elezioni, invece di mischiare parole d’ordine altisonanti e contentini per tutti, farebbe bene a mettere nei programmi come si fa a risolvere questioni terra terra, tipo far pagare le tasse senza che i funzionari di Equitalia debbano aver paura quando camminano per strada.

Un’altra causa della nostra recessione sta nel credito scarso e caro che arriva alle imprese. In questo senso esiste un problema delle nostre banche: solo l’85% dei finanziamenti è coperto dalla raccolta tra i risparmiatori italiani, occorre finanziarsi fuori dai confini, cosa ardua e costosa con lo spread alto, che il caos della politica fa risalire. Anche a noi gioveranno rapide e più ampie decisioni collettive che sottraggano le banche all’abbraccio letale con il debito pubblico del proprio Paese.

L’Europa pare finalmente risolversi ad alcuni passi in avanti politici e istituzionali, nel vertice di fine giugno. Dato che non è bastato aiutare la Spagna, servono mosse straordinarie per consolidare e insieme vigilare con più severe regole comuni tutte le aziende di credito. Recalcitrano soprattutto le banche tedesche, ingrassate in questo periodo di tensioni. Furono gli affari spericolati di alcune di loro, ha detto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, a portarci il contagio della finanza Usa; ora guadagnano sulle paure che spingono i capitali a cercare rifugio in Germania.

Occorre essere chiarissimi nello spiegare ai cittadini che cosa si fa, o gli equivoci si moltiplicheranno. In ogni Paese circola sfiducia verso gli altri e in tutti ha una cattiva immagine la finanza. Se oggi sul salvataggio delle banche spagnole si chiede un commento ai passanti in Germania, si ascolterà protestare perché il denaro tedesco viene usato per aiutare le banche di un altro Paese. Se si fa la stessa domanda nelle strade di Madrid o di Siviglia, qualcuno obietterà che sarebbe meglio darli ai cittadini, quei soldi.

Invece la Spagna riceverà prestiti al 3-4% di interesse con capitali che la Germania può procurarsi sul mercato al 2%. E le famiglie spagnole sono già indebitate troppo.

Ma lo si spieghi, lo si dimostri, che non stiamo salvando i banchieri.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10219
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« Risposta #54 inserito:: Giugno 18, 2012, 05:02:04 pm »

18/6/2012

Atene, si è evitata la catastrofe

STEFANO LEPRI

Evitata una catastrofe, si apre una fase di trattative serrate, che richiederanno fantasia da parte di tutti in Europa. Ancora nelle ore in cui l’esito del voto greco restava sul filo, dalla Germania si alzavano voci secondo cui non c’era grande differenza tra i rivali.

Se avesse vinto l’estrema sinistra il suo ricatto massimalista si sarebbe ammorbidito a contatto con la realtà di uno Stato a corto di fondi; nel caso opposto, sempre di greci si tratta, per farla breve.

Il governo di Berlino ha deciso ieri sera di non avvalorare questo pessimismo strumentale, e ha salutato la vittoria dei partiti pro euro.
Ma proprio alla luce della storia tedesca di ottant’anni fa sarà bene che si rifletta a fondo sull’esito delle seconde elezioni anticipate della Grecia, compreso il successo tra i giovani di un partito neonazista che non nasconde di essere tale. E non è sufficiente dire che la Germania di Weimar era oberata dal peso di esose riparazioni di guerra, mentre i greci nei guai ci si sono cacciati da soli.

Guardiamo ai dati di fatto. La Grecia è come un parente rovinato da affari sbagliati che non possiamo fare a meno di aiutare, benché stia continuando a perdere denaro ogni mese che passa. Con i patti fin qui concordati, doveva azzerare le perdite entro l’anno prossimo; ma è possibile che senza dargli un po’ più di respiro i suoi affari non si raddrizzino mai, e in più potrebbe dargli di volta il cervello.

Come ci si può comportare, fuori di metafora, con un Paese che finora non è mai riuscito a mantenere le proprie promesse, carente di senso civico assai più del nostro che già ne ha poco? Condizioni finanziarie meno gravose per il programma di aiuti - che già anche a Berlino si ipotizzano possono essere concesse solo in cambio di controlli più severi su ciò che ad Atene in concreto si fa. Il caso greco pone con drammatica immediatezza quel problema di mettere poteri in comune che tutta l’area euro deve affrontare per salvarsi.

D’altra parte, di fronte a mercati finanziari enormi e percorsi dal panico, la sovranità nazionale è una fortezza già mezza vuota. Il leader dell’estrema sinistra Alexis Tsipras prometteva, in caso di vittoria, di cancellare le esenzioni fiscali agli armatori, la più potente lobby greca; gli armatori avevano risposto strafottenti che sarebbero fuggiti dal Pireo verso porti più ospitali. Nel frattempo centinaia di migliaia di piccoli evasori si dicono che se i ricchi armatori non pagano tasse, è giustificato non pagarle neppure loro.

Già in tempi normali i Paesi dell’area euro sono troppo interdipendenti tra loro per non aver bisogno di politiche economiche comuni, capaci di misurarsi con forze multinazionali che attraversano l’economia produttiva. Per giunta, le oscillazioni irrazionali dei mercati finanziari causano repentini trasferimenti di ricchezza da un Paese all’altro: l’euforia pre-2007, pareggiando i tassi di interesse, arricchiva i Paesi deboli drenando risorse dai forti, mentre gli spread esagerati dalla crisi svenano i deboli ingrassando la Germania.

La Grecia dovrà impegnarsi a riedificare il suo Stato, a vendere parti del suo patrimonio, e a molto altro. Prestarle denaro sta già costando parecchio all’Italia e alla Spagna, nulla alla Germania, a causa dei differenti tassi di interesse; dilazioni e sconti saranno più onerosi dunque per noi, e abbiamo forse ancor più diritto di vedere presto risultati.

Anche un nuovo patto con Atene non guarirà l’euro, perché ormai il contagio della malattia è troppo avanzato. Diversi progetti validi vengono studiati in vista del vertice di fine mese; non si andrà lontano però se la Francia si accontenterà di un «pacchetto crescita» e la Germania si intestardirà a voler sottrarre le proprie banche a un organo di controllo sovrannazionale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10238
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 21, 2012, 06:41:16 pm »

21/6/2012

Finanza e democrazia

STEFANO LEPRI

Non c’è solo da salvare l’euro. Se fosse solo per la moneta unica, oltre certi limiti sarebbe legittimo domandarsi se ne vale ancora la pena. No, c’è un problema di rapporto tra finanza e democrazia che tocca all’Europa risolvere per il mondo, prima che la gente esasperata si rivolga a chi democratico non è.

Qualcosa ha cominciato a muoversi nella riunione del G-20 in Messico, come i mercati hanno notato ieri.

Verificheremo se sarà abbastanza al vertice tra i quattro maggiori Paesi dell’euro domani. Dato che nel mirino sono ora Madrid e Roma, non basteranno mediazioni a basso livello.

Per i tre Paesi deboli già soccorsi, Grecia, Irlanda e Portogallo, era ragionevole dubitare che potessero farcela da soli a sostenere i loro debiti. Il caso di Spagna e Italia è differente: avranno difficoltà a pagare solo se i mercati si convinceranno che hanno difficoltà a pagare. O meglio, se gli operatori finanziari si convinceranno che una parte sufficiente della loro categoria fa pronostici negativi sui due Paesi.

Così operano i mercati finanziari mondiali in una fase di instabilità. I due Paesi hanno difficoltà vere - in Spagna postumi della bolla immobiliare e reticenza dei successivi governi sullo stato delle banche, in Italia enorme debito pregresso e scarsa competitività - non sufficienti però a produrre un crac se i tassi di interesse non superano certi limiti.

Da questi dati di fatto si sviluppa sui mercati un processo che si autoalimenta. Che i tassi oggi richiesti sui titoli spagnoli e italiani siano assurdamente alti lo prova che sono vicini allo zero i tassi dei Paesi sentiti come rifugio, non solo la Germania ma anche Danimarca e Svizzera. Dopodiché, se il costo degli spread troppo alti affossa le economie, nel gioco delle scommesse possono anche entrare le conseguenze politiche, come una possibile ingovernabilità dell’Italia dopo le elezioni.

Alla speculazione finanziaria si intreccia nel mondo di oggi anche una speculazione intellettuale, che per giustificare a ritroso la propensione della finanza a creare disastri ingigantisce la dimensione delle difficoltà reali; le percezioni di tutti si distorcono. A questo punto ricordare che nei codici penali esiste un reato chiamato aggiotaggio fa venire in mente Don Chisciotte, oppure il limite di velocità a 80 km/h per i Tir in autostrada.

Se fenomeni di questo tipo possono far cadere gli Stati, nasce un problema di democrazia. Da secoli è noto che diffondendo il panico con voci o speculazioni si può abbattere anche una banca che ha impiegato i soldi in modo prudente. Centocinquant’anni fa in Inghilterra, per opera del commentatore economico Walter Bagehot, si diffuse l’idea che proprio nell’interesse di una sana economia di mercato un intervento pubblico (della banca centrale) doveva impedire esiti di questo genere.

Oggi occorre trovare strumenti innovativi perché la finanza non possa abbattere gli Stati. A questo mira la proposta italiana di cui ora in Europa si discute - impegno ad acquisti illimitati se i tassi superano una certa soglia - nata nella Banca d’Italia (Ignazio Visco vi aveva alluso il 31 maggio). Richiederà garanzie severe che giustifichino la fiducia reciproca degli Stati. Non deve accadere come nell’agosto 2011, quando i primi acquisti di titoli italiani da parte della Bce rilassarono l’impegno del precedente governo.

L’operazione costerà poco, anzi potrebbe perfino risultare in guadagno, se si riuscirà a convincere i mercati di essere pronti a spendere molto. E avrà senso solo se l’area euro intraprenderà nel contempo il doppio processo che ormai è impossibile rinviare, a breve termine per unificare i sistemi bancari, in tempi più lunghi per l’unione politica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10250
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:29:23 am »

25/6/2012

Serve una prova di coraggio

STEFANO LEPRI

Il guaio è che se gli altri non riusciranno a prendere decisioni efficaci, i cocci li dovrà rimettere insieme lui, subito dopo. Sulle spalle di Mario Draghi si ammassano compiti sempre più pesanti, il rischio di scontare anche gli errori altrui si fa forte.

Oggi, in un ruolo insolito per un tecnico come lui, spiegherà al presidente francese François Hollande che per risanare l’euro occorre compiere importanti passi avanti verso l’unità politica.

Quali siano le strettoie tra cui si muove il presidente della Bce lo ha fatto capire ieri Jaime Caruana, suo amico da quando negli Anni 90 erano entrambi direttori generali del Tesoro, l’uno in Italia, l’altro in Spagna. Caruana, ora alla guida della Bri di Basilea, ha notato che in tutto il mondo, ma nell’area euro molto più che altrove, sempre di più si chiede alle banche centrali di rimediare a quanto i governi non riescono a fare.

Nell’immediato, se i risultati del vertice europeo di fine settimana risultassero deludenti, ricadrebbe tutta sulla Banca centrale europea la responsabilità di evitare che la crisi dell’area euro torni ad aggravarsi. I mercati finanziari lo attendono; così si spiega che nei giorni scorsi gli spread italiano e spagnolo siano calati. Hanno fiducia che Draghi riuscirà a inventarsi qualcosa.

Ma dentro la Bce diventa sempre più difficile compiere nuove mosse senza che i tedeschi della Bundesbank - ripetutamente rimasti in minoranza negli ultimi mesi - facciano conoscere all’esterno il proprio dissenso, con perdita di prestigiopertutti.Cosìèaccadutoanchevenerdì, dopo una decisione tecnica che mirava a dare più respiro soprattutto alle banche spagnole.

I margini che Draghi ha, divengono sempre più limitati. Può darsi che la Bce giovedì 5 luglio riducailsuotassoguidasottol’attuale1%,giàun minimo storico. Non basterà, perché all’interno dell’area euro il denaro una volta intermediato dal sistema bancario costa già troppo poco nei Paesi forti, troppo in quelli deboli; ovvero, le banche tedesche con le casse piene sono di nuovo soggette a brutte tentazioni speculative, le banche italiane penalizzano le imprese con credito scarso e caro.

La soluzione può essere solo una unione bancaria: «Ogni banca che opera nell’area euro deve divenire una banca europea» come suggerisce la Bri. Regole, vigilanza, strumenti di intervento e di garanzia comuni dovrebbero ridurre gli squilibri nel credito tra Paesi che tanto danneggiano economie come la nostra. Sta a Draghi qui contribuire al progetto comune da presentare al vertice dei governi il prossimo fine settimana. Nel quartetto di cui fa parte, insieme con Herman van Rompuy, José Barroso e il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, è però essenziale stabilire come i vari pezzi unione bancaria, unificazione delle politiche di bilancio, unione politica - possono incastrarsi tra di loro.

Tutto sta nella «sequenza» (come lo stesso Draghi ha detto in un’altra occasione). In breve, Hollande vorrebbe dare priorità all’unione bancaria perché rilutta all’unione politica, Angela Merkel teme che l’unione bancaria senza unione politica accolli troppi oneri alla Germania. Sulla carta, il discorso tedesco fila: perché aiutare le banche spagnole con soldi dei nostri contribuenti se non sappiamo che ne fanno?

La risposta può essere solo nel costruire meccanismi trasparenti per condividere le responsabilità. A rafforzare in futuro i fondi di sostegno alle banche potrebbe essere quella tassa sulletransazionifinanziariedicuidatempoigoverni discutono; l’uso del denaro dei contribuenti dovrebbe tradursi in un reale potere delle istituzioni europee all’interno delle banche salvate, una sorta di nazionalizzazione-europeizzazione temporanea, proprio per sottrarle alle cricche di potere nazionale. Se ne troverà il coraggio?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10263
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« Risposta #57 inserito:: Luglio 07, 2012, 11:14:12 am »

7/7/2012

La fiducia torna solo con le regole

STEFANO LEPRI

E’ ancora meno facile prendere di petto difetti annosi e intricati dell’Italia, come quelli che gonfiano e rendono inefficiente la spesa pubblica, quando in tutto il mondo le condizioni dell’economia tornano a peggiorare. La crisi globale che tra un mese compirà cinque anni e non è mai finita pone ora problemi nuovi, che sono politici nel senso più profondo del termine, e vanno riconosciuti come tali.

Il cieco instabile potere della finanza rende oggi arduo sanare quegli squilibri enormi della globalizzazione (Paesi avanzati che vivono al di sopra dei propri mezzi, in debito verso i Paesi emergenti) che lo hanno fatto crescere a dimensioni spropositate. Le ricette di politica economica applicate finora - tutte, non solo quella neoliberista che ha condotto alla crisi - diventano o inefficaci o dannose.

L’area euro fatica a risolvere i suoi problemi perché non riescono ad essere solidali tra loro le nazioni che la compongono. Negli Stati Uniti la ripresa stenta a causa della paralisi del governo, dovuta a contrasti politici mai così aspri, insomma a un calo della solidarietà tra i cittadini. Le banche continuano a funzionare male perché la sregolatezza passata fa sì che ognuna non si fidi delle altre.

Nello stesso tempo, arrivano al pettine i nodi in parecchi Paesi emergenti. Il lungo boom della Cina si infiacchisce: un regime autoritario che da anni chiede di faticare oggi in nome di un migliore domani, non sa dire ai suoi cittadini che il domani è arrivato, perché non ha fiducia in loro.

L’Italia, inoltre, soffre di una comprensibile sfiducia nella propria classe dirigente. La nostra economia aveva cominciato a perder colpi già prima della grande crisi; la crescita del tenore di vita si era arrestata, e non per colpa dell’euro. Anzi, il vantaggio dei primi anni dell’euro, ossia i bassi tassi di interesse, era stato usato per nascondere i guai.

Se non vuole restare schiacciato dal debito, il nostro Paese deve ritornare più efficiente. O ci riesce rivedendo a fondo la spesa pubblica, e rinnovando lo Stato, o sarà costretto ad abbassare ancora il proprio tenore di vita, a cominciare dai salari (come ci consigliano i tedeschi, scettici sulle nostre capacità di autoriforma). E sì, purtroppo, in una prima fase anche i tagli aggravano la recessione, al contrario di quanto predicavano alcuni economisti in voga.

Non è facile intervenire nel modo giusto sulla spesa. Attorno agli sprechi peggiori si annidano i gruppi di potere più tenaci; e può accadere che si finisca a tagliare prestazioni sanitarie agli anziani nell’incapacità di eliminare le mazzette sulle forniture agli ospedali; che riducendo i fondi un po’ per tutti si puniscano le Regioni meglio governate. Però protestare a priori contro ogni intervento sulla spesa è proprio ciò che aiuta di più i corrotti e gli scialacquatori.
In Italia come altrove, la fiducia può ritornare solo con regole chiare, spiegando bene che cosa si fa e perché. Gli ostacoli all’efficienza non vengono solo dalla classe politica.

Burocrazia, lobbies, forze sociali, pezzi anche ampi di società, profittano dello stato presente delle cose. E quanti di noi si aggrappano a piccoli privilegi perché disperano in ogni possibile soluzione di più ampio respiro?

Un progetto tecnico calato dall’alto fallisce perché la gente non ne comprende la necessità. Eppure, far piazza pulita a colpi di demagogia non risolve nulla, perché unirsi in nome del «non ne posso più» dura poco e distrugge le scarse solidarietà che restano. Occorre spiegare con pazienza, confrontarsi sui dettagli: mostrare che esiste un progetto, che nuove regole varranno per tutti. Altrimenti, perché gli altri Paesi dell’euro dovrebbero avere fiducia in noi?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10306
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 14, 2012, 03:52:55 pm »

14/7/2012

Garantire subito la stabilità

STEFANO LEPRI

Senza inseguire fantasie di complotti, senza ascoltare gli arzigogoli dei nostri politici, la nuova valutazione di Moody’s sull’Italia è utile per riflettere meglio su come funziona la finanza globale. I mercati veri ne hanno tenuto scarso conto, in breve riportando i tassi dei titoli italiani dove stavano prima; l’importanza delle tre discusse agenzie di rating è oltretutto in calo, per recenti scelte delle istituzioni ufficiali.

Tuttavia i mercati finanziari sono un luogo dove si gioca d’azzardo. Ha poco senso domandarsi se Moody’s sia in malafede o no: nei casinò c’è chi fa delle scommesse, c’è chi ne fa delle altre. Alla base delle scommesse sono andamenti economici reali, ma il processo per cui una scommessa finanziaria si vince o si perde ha alla fine un rapporto assai mediato e contorto con gli eventi concreti del lavoro e del risparmio. Sopravvivere alla continua instabilità comporta: primo, che l’Europa non può più resistere così come è strutturata adesso; secondo, che la politica italiana non si può continuare a fare come la si è fatta fino adesso. Questo perché la possibile rottura dell’euro è diventata il gioco più attraente nel casinò mondiale, specie per molti giocatori che di recente hanno guadagnato molto meno di quanto desideravano.

La sorte dell’euro dipende parecchio da quanto accade in Italia. Inutile ormai interrogarsi su che cosa si sbagliò nel costruire l’euro così com’è. Nessuno tra chi criticava l’unione monetaria al suo inizio aveva previsto che la finanza globale l’avrebbe ingannevolmente favorita nella fase dell’euforia, e invece sospinta verso il tracollo nella fase della crisi. Tra i 17 Paesi l’Italia ha una speciale responsabilità, perché è un Paese grande con una politica fragile. Può anche esser vero, come afferma uno studio della Bank of America, che in caso di rottura dell’euro ce la caveremmo con meno danni della Germania, ma è come dire che conviene buttarsi in gruppo da un precipizio se possiamo sperare di romperci soltanto le gambe mentre ad altri capiterà di peggio.

Un circolo vizioso è possibile: la recessione rende gli italiani sempre più scontenti, i politici (sia vecchi sia nuovi) cercano di compiacerli con promesse assurde, gli altri Paesi si irrigidiscono, i mercati speculando ancor più sulla rottura dell’euro mandano alle stelle i tassi, la recessione si aggrava, si affermano scelte estreme. La novità è che la finanza accorcia enormemente i tempi: basta il timore che l’Italia diventi ingovernabile perché l’ascesa dello spread la renda già tale.

Ogni mossa spregiudicata, non cooperativa, da parte delle nostre forze politiche e sociali (non solo i partiti, i sindacati, la Confindustria, altri) alimenta gli azzardi dei mercati. Ogni mormorio di impazienza viene moltiplicato da una eco colossale, si trasforma in un boato. Per contrasto la modifica delle opinioni consolidate, rimasta ai tempi di prima, appare lentissima. Non è questione di offrire nuovi sacrifici al Moloch dei mercati, che stando così le cose non ne farebbero alcun conto. Occorre invece governarsi bene subito, ad esempio rendendo chiaro il senso degli interventi sulla spesa pubblica, sapendo discutere come migliorarli. Solo una garanzia di stabilità dell’Italia può aiutare la Francia a capire la necessità dell’unione politica, e la Germania a darsi ragione della solidarietà economica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10329
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« Risposta #59 inserito:: Luglio 23, 2012, 04:28:33 pm »

23/7/2012

I tedeschi nella trappola della finanza

STEFANO LEPRI

Invece di prendersela con i tedeschi, bisognerebbe paradossalmente - compatirli. I mercati finanziari li stanno attirando in una trappola.
Più insistono che non saranno loro a pagare il conto per i Paesi deboli dell’euro, e più rischiano di andarsi a cacciare in una situazione in cui saranno costretti ad aprire il portafoglio sul serio.

Ovvero, se si seguita ad affermare alla leggera che l’area euro sarebbe bene ridimensionarla, i mercati continueranno a scommettere che si spacchi, divaricando ancor più i tassi di interesse tra Nord (compresi Francia e Belgio) e Sud. Ma alla resa dei conti l’alternativa sarebbe tra due scelte entrambe costosissime per la Germania: soccorrere massicciamente Spagna e Italia, oppure affrontare una rottura traumatica dell’euro.

La Repubblica federale tra aiuti già erogati ai tre Paesi sotto assistenza e aiuti promessi a Madrid già contribuisce con un centinaio di miliardi di euro. E’ facile compiacere i tedeschi dicendogli che hanno fatto fin troppo. Meno facile è spiegargli che questi soldi li prestano, raccogliendoli sui mercati a un tasso assai inferiore, quando non addirittura sotto zero.

I mercati ingannano. Stanno gonfiando una bolla speculativa sui titoli di Stato non solo dei Paesi forti dell’euro, anche di altri Paesi economicamente legati alla Germania. Secondo stime aggiornate, nella prima metà del 2012 lo Stato tedesco ha risparmiato un miliardo di euro rispetto a quanto prevedeva come pagamento di interessi sul debito.

L’afflusso ansioso di capitali verso i Paesi reputati sicuri li spinge a sottovalutare la gravità della crisi. La Finlandia - dove Mario Monti si recherà tra una settimana - può cinicamente avere qualche buon motivo, dato che secondo alcune analisi sopporterebbe abbastanza bene una rottura dell’unione monetaria. La Germania no, è creditrice dei Paesi deboli sotto varie forme, per almeno mille miliardi di euro. Nella migliore delle ipotesi quei soldi li riavrebbe indietro molto svalutati.

Il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble queste cose le sa benissimo, tanto che ha fatto calcolare ai suoi uffici i costi di una rottura dell’euro; altri suoi compatrioti non riescono a capirle. Per questo è urgente, come sosteneva ieri Giuliano Amato, verificare se il governo di Berlino è sincero quando propone passi avanti verso l’integrazione politica dell’Europa come passaggio per ottenere una maggiore solidarietà; o se lo afferma a vuoto, sapendo che Parigi resta contraria. L’intervista di Schaeuble apparsa sabato sul Figaro fa sperare, ma occorre una risposta francese.

Se è vero quanto sostengono il Fondo monetario e la Banca d’Italia, che solo una parte dello spread italiano e di quello spagnolo è giustificato dallo stato dei due Paesi - mentre dal lato opposto è assurdo che i titoli dei Paesi forti fruttino meno di zero - questo comporta che è già in atto in Europa quel «trasferimento di risorse» tanto temuto da certi tedeschi. E’ già in atto, però alla rovescia: grazie ai mercati finanziari, da Italia e Spagna verso Germania, Olanda e Finlandia.

Proprio per questo motivo, al nostro Paese conviene una maggiore integrazione politica dell’Europa. Stiamo pagando un tributo non deciso da nessuno; decidere tutti insieme a Bruxelles non sarebbe certo un danno. Potremmo «vedere le carte» offrendo per primi di rinunciare a una parte della nostra sovranità di bilancio. Mentre, al fondo, la lezione da apprendere per i politici tedeschi e italiani è la stessa: proporre soluzioni illusorie - lì la cacciata dei Paesi del Sud, qui un’uscita magari «temporanea» dall’euro - rischia di avverarle in forma di disastro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10361
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