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Autore Discussione: STEFANO LEPRI.  (Letto 55677 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Ottobre 18, 2017, 07:25:51 pm »


In via Nazionale la battaglia delle regole

Pubblicato il 18/10/2017 - Ultima modifica il 18/10/2017 alle ore 07:00

Stefano Lepri

Chi tocca Banca Etruria muore? La mossa a sorpresa del Pd contro il governatore Ignazio Visco, ispirata da Matteo Renzi, può essere letta in due diverse maniere. Una è tutta politica: costi quello che costi, non lasciare la polemica contro i crack bancari alle sole opposizioni, M5S in testa. Un’altra è la vendetta per aver messo in difficoltà l’entourage toscano del segretario Pd. 

Il problema ovviamente esiste. In un breve volgere di mesi, dalla seconda metà del 2012 all’inizio del 2013, il sistema bancario italiano di cui prima si era vantata la solidità si è rivelato il più debole tra i grandi Paesi dell’area euro. Può ben darsi che ci sia stato un ritardo nel rendersene conto da parte della Banca d’Italia, allora unica responsabile della vigilanza sulle nostre aziende di credito.

È legittimo discutere se gli interventi sulle banche in difficoltà siano stati tempestivi. Quello sul Monte dei Paschi che Visco fece nelle prime settimane del suo mandato, autunno del 2011, lo fu. Per alcuni dei successivi, soprattutto la Banca popolare di Vicenza che era guidata da un gruppo di potere molto influente sia in Veneto sia a Roma, si possono avere dubbi.

Ma i politici dove erano? Dalla parte opposta. 
Quasi sempre da ogni parte del Parlamento sono venute pressioni per non drammatizzare o per evitare interventi traumatici; in un caso almeno, il commissariamento della Cassa di Risparmio di Chieti nel settembre 2014, anche il M5S protestò. Nel caso di Banca Etruria si era adoperata appunto l’allora ministra Maria Elena Boschi. 

L’assorbimento di una banca in difficoltà da parte di una più grande è sempre parsa ai politici la soluzione più opportuna per lavare i panni sporchi in casa, non turbare gli assetti di potere ed evitare conseguenze giudiziarie. Nel caso di Banca Etruria si parla appunto di svariati tentativi di questo tipo; e altro forse verrà a galla, nell’inasprirsi dello scontro.

Su questo l’amministratore delegato di Unicredit ha promesso di parlare davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta. In un’altra fase girò l’ipotesi di un intervento della Popolare vicentina, finita nel baratro essa stessa. Alcuni degli imputati hanno attribuito il suggerimento alla Banca d’Italia, la quale tuttavia è convinta di poter dimostrare di non esserne stata parte.

«Sbagliai a fidarmi della Banca d’Italia» recente affermazione di Matteo Renzi, è una frase ambigua, che si presta a diverse letture. Ne è sempre mancata una esplicazione precisa: quando, come, su quali banche. Cosicché si è tentati di sospettare che il rancore derivi non da ciò che la Banca d’Italia ha mancato di fare, ma da ciò che, magari un pochino tardi, ha fatto.

All’attacco improvviso oltre a capi d’accusa articolati mancano anche proposte alternative. Di personaggi esterni di autorità e competenza indiscutibili ce ne sarebbero, per dare una nuova guida alla Banca d’Italia; ma nessuno di essi pare sia mai venuto in mente a chi conduce l’attacco.

Oltretutto, per sostenere la linea Draghi nel consiglio Bce contro le pressioni tedesche serve un governatore rispettato all’estero, capace di esprimersi con proprietà sulle intricate faccende della moneta. Un italiano non all’altezza sarebbe un colossale autogol per l’economia del nostro Paese.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/18/cultura/opinioni/editoriali/in-via-nazionale-la-battaglia-delle-regole-S9HN5SYZIA6Nl4tdQLw33M/pagina.html
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« Risposta #106 inserito:: Ottobre 28, 2017, 05:25:07 pm »

L’onda lunga del debito mai corretto

Pubblicato il 26/10/2017

Stefano Lepri

Si annuncia una campagna elettorale ignara del peso immenso del debito pubblico. Dato che l’età media dei cittadini cresce, l’argomento preferito da tutti i partiti sono le pensioni. Dei giovani si parla poco, benché i dati mostrino che a soffrire di più negli ultimi anni sono stati soprattutto loro.

Già il buon senso fa apparire bizzarro che ieri la Corte Costituzionale si sia di nuovo espressa sull’adeguamento delle pensioni al costo della vita, sia pure per giudicare corretta la formula a scaglioni reintrodotta dal governo Renzi due anni fa.

Quando tutto un Paese diventa più povero (il potere d’acquisto per persona era nel 2016 del 10% inferiore al 2007) è difficile evitare che anche i pensionati, un quarto abbondante degli italiani, perdano qualcosa. Così pure sembra ragionevole che, con la durata della vita che si allunga, si vada a riposo un pochino più tardi.

Non sia mai. Si convertono anche politici ieri fautori dell’austerità. Il Pd comincia a smarcarsi dal governo. Circola l’affermazione falsa che in Italia si debba lavorare più a lungo che in tutti gli altri Paesi d’Europa. È vero invece che c’è un ampio divario tra l’età legale, prossima ai 67 anni, e quella effettiva media, negli ultimi dati disponibili attorno ai 62 per entrambi i sessi.

Questo comporta casomai un problema di uguaglianza tra cittadini. Trattamenti speciali, esenzioni, provvedimenti ad hoc, normative transitorie consentono ai più di lasciare in anticipo. Coloro che sono costretti ad attendere l’età legale senza scappatoie sono una minoranza di sfavoriti.

Un paradosso è che gli uomini andavano in pensione più tardi di oggi (tra i 63 e i 64) negli Anni 70, quando la loro vita durava in media una decina di anni in meno rispetto a quanto possono sperare i loro coetanei attuali. Per giunta, c’erano in proporzione molti più giovani a versare contributi.

Dato che la spesa previdenziale ammonta a un terzo del bilancio dello Stato, ciò che si decide sulle pensioni influenza moltissimo la sostenibilità del nostro debito pubblico. Va ripetuto che le colpe del debito le hanno i governi passati - 1981-92 e 2000-2004 i periodi peggiori - ma necessariamente chiunque guidi il Paese oggi ha margini di manovra limitati.

Un allentamento delle regole pensionistiche ha costi contenuti all’inizio, rapidamente crescenti nel tempo. Farebbe calare la fiducia nei titoli di Stato italiani proprio quando la Banca centrale europea annuncia - oggi pomeriggio - che ne ridurrà gli acquisti a partire dal gennaio 2018, con la conseguenza di un aumento dei tassi.

Certe promesse erano già ardue da sostenere nei tre anni di costo del debito ultra-basso finora garantiti al Tesoro dalle scelte di Mario Draghi. D’ora in poi divengono incaute. Inoltre nei momenti in cui l’economia va bene, come ora, occorre metter da parte risorse per i momenti brutti (una delle ipotesi correnti è che gli Usa vadano in recessione entro 1-2 anni).

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/26/cultura/opinioni/editoriali/londa-lunga-del-debito-mai-corretto-n5QUZJ61wKtK3IFfnLHM5O/pagina.html
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« Risposta #107 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:29:39 pm »

L’equivoco che imbriglia il credito

Pubblicato il 10/11/2017

STEFANO LEPRI

Con il senno del poi, è facile dire: quella banca era marcia, occorreva intervenire prima. Il guaio è che prima, quando una banca comincia a barcollare, potentati locali e politici premono sulle istituzioni di controllo perché si faccia tutto il possibile per lasciarle il tempo di riaversi, evitando soluzioni traumatiche. 
 
È questo, in parole povere, il contrasto tra esigenze di trasparenza ed esigenze di stabilità di cui parlano gli esperti. Se le traversie di una banca vengono messe in piazza troppo presto, si rischia di farne fuggire i depositi provocandone un disastro che poteva essere evitato. Se si attende troppo, si dà spazio a gruppi dirigenti spregiudicati per imbrogliare gli investitori.
 
A posteriori, ci vuol poco a individuare il momento giusto. In alcuni casi gli stessi politici ora impietosi nel denunciare i ritardi in precedenza chiedevano alle istituzioni di controllo di non accanirsi su banche vicine al territorio, impegnate a sostenere le imprese colpite dalla crisi.
 
Si indignano per i comportamenti disinvolti della Banca Popolare di Vicenza anche alcuni che volevano tenerla al riparo dalla riforma («vergognosa» secondo il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, sbagliata secondo altri sia a destra sia a sinistra) delle banche popolari. 
 
Una riforma che la Banca d’Italia sollecitava da anni e che solo nel 2015 è stata realizzata. 
 
Se non altro, il poco edificante battibecco di ieri (solo a distanza) tra Banca d’Italia e Consob ha indicato in quali direzioni occorre muoversi. La prima ha chiesto più poteri, la seconda più mezzi e maggiore accesso ai risultati delle ispezioni della vigilanza sulle aziende di credito. Bene; purché ci si renda conto che questo comporta una trasformazione più rapida del sistema bancario.
 
La Banca d’Italia chiede il potere di proibire del tutto la vendita al dettaglio di titoli alle banche sulle quali la valutazione di vigilanza sia inferiore a un certo livello. In un passato non distante, questa sarebbe stata definita una misura dirigista, un vincolo al mercato e alla libertà di impresa. L’esperienza recente porta invece a ritenerla opportuna.
 
La Consob da gennaio riceverà con la direttiva europea Mifid 2 poteri più ampi nel disciplinare la collocazione dei prodotti finanziari presso i piccoli risparmiatori. Da anni aveva chiesto al Parlamento italiano di ottenerli in anticipo, senza avere ascolto. Anche qui si tratta di vietare se necessario.
 
Poter meglio prevenire non basta, tuttavia. Il mondo bancario non può restare com’è oggi: l’informatica diminuisce l’importanza di avere sportelli ovunque; la stabilità finanziaria richiede maggiori dotazioni di capitale; nell’area euro la moneta comune consiglia fusioni transnazionali. È pericoloso che le banche diventino enormi, ma le piccole spesso non sono abbastanza vitali.
 
Proprio la sicurezza dei risparmiatori richiede trasformazioni accelerate. Rendiamoci conto che la modifica delle procedure e delle regole di cui ieri è emersa l’urgenza imporrà sfide che per alcune delle attuali aziende bancarie potrebbero risultare troppo ardue. Saranno inevitabili altre aggregazioni, o almeno allargamenti di gruppi di controllo.
 
E allora non si può tenere il piede in due scarpe: ovvero, da un lato fare demagogia grossolana imputando ai banchieri misfatti di ogni genere, dall’altro schierarsi a difesa degli attuali poteri bancari italiani contro ogni innovazione normativa europea che li spinga a evolversi.

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« Risposta #108 inserito:: Marzo 10, 2018, 05:56:45 pm »

Un aiuto a chi è in sofferenza. Ma c’è il rischio assistenzialismo
I dubbi degli esperti: si perdono gli stimoli a cercare strade nuove il lavoro nero potrebbe diventare cronico e le truffe aumentare
Scorretto.
Chiamato «reddito di cittadinanza» in realtà la proposta del M5S è un’integrazione sul modello di quello già operativo in Italia (è stata introdotta dal Pd) anche se rafforzata. Nella foto un gruppo di persone porta uno striscione alla marcia Perugia Assisi organizzata dal M5S
Pubblicato il 10/03/2018 - Ultima modifica il 10/03/2018 alle ore 09:21

STEFANO LEPRI
ROMA

Suscitare un eccesso di attese al Sud e perdere consensi al Nord sono i rischi politici che il Movimento 5 Stelle avrebbe davanti se realizzasse quello che ha chiamato «reddito di cittadinanza». Il nome, suggestivo, non è esatto, perché si tratta di un’integrazione fino a un reddito minimo condizionata alla ricerca di lavoro.

Già cinquecento anni fa, gli umanisti Tommaso Moro (nel libro «Utopia») e Juan Luìs Vives proposero che ogni cittadino ricevesse dallo Stato un minimo vitale, per evitare che la miseria spingesse al furto. Invece, nel mondo di oggi, fino a che punto la garanzia di un reddito può indurre alla pigrizia?

Un vero «reddito di cittadinanza» è uguale per tutti senza condizioni: lo stanno testando in Finlandia su duemila disoccupati estratti a sorte, 560 € al mese per 2 anni. Dovrebbe renderli più sereni nella ricerca di un impiego, o dargli tempo di metter su una attività autonoma. Un anno è trascorso, ancora mancano dati su che cosa accada.

Il reddito del programma M5s ai pigri dovrebbe poi essere tolto. «Dopo la terza offerta di impiego rifiutata? Siamo sicuri che in Italia si riesca a controllare questo?» chiede l’economista Francesco Daveri, Università di Parma e Bocconi, che sta studiando gli effetti dell’innovazione tecnologica sul lavoro. Tra 5 milioni di beneficiari, parecchi un’offerta non la riceverebbero mai.

Diversi Paesi con indennità di disoccupazione generose nei primi anni Duemila ne hanno irrigidito i criteri, subordinandole a un’attiva ricerca di impiego. Sono documentati espedienti vari per eludere, perfino falsi licenziamenti concordati per tornare a percepire l’indennità: in Italia potrebbe nascerne un business.

Nelle intenzioni, il reddito garantito cancellerebbe i lavori precari più miseri, a cui nessuno vorrebbe più prestarsi. Ma, al contrario, nelle aree dove il lavoro nero è già diffuso, si potrebbe tentare di sommare l’uno e l’altro. Inoltre le richieste potrebbero dilagare al di là dei calcoli fatti, come già avvenuto per un’erogazione della Regione Campania.


In linea di principio, concedere automaticamente una somma a tutti taglia corto con i ritardi delle burocrazie e i favori delle clientele. Per questo ci sta pensando l’India. Ma nei Paesi avanzati se così si sostituiscono altre forme esistenti di soccorso alla povertà, avverte l’Ocse, le fasce più deboli potrebbero ricevere meno di prima. Soprattutto, osserva Daveri, «non è quello che serve di fronte ai problemi di oggi. La disoccupazione prodotta dall’arrivo di nuove tecnologie o da altre trasformazioni ha bisogno di interventi più mirati. Occorre pensare a strumenti nuovi, che durino se necessario più a lungo dell’attuale indennità».

In altre parole, «va bene riqualificare i disoccupati, ma non possiamo chiederlo a un cinquantenne il cui posto di lavoro scompare. Per esempio, possiamo aiutarlo ad accettare un impiego differente con uno stipendio più basso, come è stato fatto negli Stati Uniti. Un piccolo stanziamento c’è già nella legge di bilancio 2018, occorre far meglio».

Da tempo il presidente dell’Inps Tito Boeri lamenta la mancanza di uno strumento unico per soccorrere sia gli indigenti sia chi a dispetto degli sforzi resta disoccupato oltre la durata dell’indennità. Forse è da lì che, per un compromesso di governo, si può partire.

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