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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 66398 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Maggio 16, 2014, 06:45:00 pm »

Economia
16/05/2014 - reportage

Svizzera, il salario minimo corre verso il massimo
Domenica il voto: se c’è l’ok alla proposta la paga sarà tra le più alte del mondo
I sindacati: solo la metà dei lavoratori è tutelata col contratto collettivo

Michele Brambilla inviato a Lugano

Sembra di scrivere dal Paese di Bengodi: qui in Svizzera domenica si voterà un referendum per introdurre un salario minimo garantito di 4 mila franchi al mese, pari circa a 3.300 euro. Avete letto bene: 4 mila franchi, 3.300 euro, al mese: e per tutte le categorie di lavoratori. Se poi aggiungiamo che questo è il Paese con la più bassa disoccupazione d’Europa (3,2%), noi italiani possiamo crepare d’invidia.

Certo anche i numeri vanno interpretati. Dunque, per correttezza: i tremilatrecento euro sono lordi, e non netti. Da quella cifra va tolto un 15 per cento di tasse e contributi vari. Poi bisogna togliere anche la Cassa malattia, che non è trattenuta in busta paga, e che ciascuno si deve fare per conto proprio. Altra precisazione: in Svizzera la vita costa ben di più che in Italia: in quella francese e tedesca il 30-40 per cento in più, nel Canton Ticino il 20 per cento. 

Però, però: nonostante queste precisazioni, vista dall’Italia è tutta manna che cade dal cielo. Infatti complessivamente, cioè compresa la Cassa malattia, il carico fiscale della Svizzera è circa del 30 per cento, quasi la metà che da noi. E quanto al costo della vita, la legge che si voterà domenica prevede che ogni singolo Cantone potrà adeguare il proprio salario minimo garantito, ovviamente alzandolo. In ogni caso, se passasse il referendum di domenica la Svizzera avrebbe il salario minimo più alto del mondo: 22 franchi all’ora, pari a circa 18 euro, contro – per stare in Europa – gli 8 della Francia e gli 8,5 della Germania.

I Socialisti e i Verdi, che hanno proposto il referendum insieme con l’Unione sindacale svizzera, dicono che quattromila franchi al mese non devono fare scandalo perché «siamo uno dei Paesi più ricchi del mondo». Ma i padroni (qui in Svizzera li chiamano tutti ancora così, «i padroni») sono furenti. Quattromila euro al mese è pari al 64 per cento del salario medio svizzero: insomma è uno stipendio pesante, per essere considerato come una soglia minima. E, per giunta, riguarderebbe non pochi lavoratori: quelli che attualmente non raggiungono i quattromila franchi al mese sono il 9 per cento di tutti gli occupati. Ma forse fa più effetto dare i numeri, invece delle percentuali: a prendere il salario minimo garantito sarebbero 330.000 persone in tutta la Svizzera, cioè in un Paese che ha otto milioni e centomila residenti, compresi gli stranieri che sono il 25 per cento.

«Sì, i padroni sono furenti», mi conferma Giancarlo Dillena, direttore del Corriere del Ticino, il più diffuso quotidiano della Svizzera italiana: «Dicono che si rischia di immettere sul mercato una regola che sconvolge equilibri storici. E poi qui in Ticino ci sarebbe qualche problema in più. Intanto perché gli stipendi in media sono più bassi, e si introdurrebbe un minimo uguale per tutta la Confederazione. E poi qui abbiamo sessantamila frontalieri italiani, che avrebbero pure loro diritto ai quattromila franchi». Il rischio, dicono quelli del fronte del «no», è che molte imprese, visto l’andazzo, portino la produzione all’estero. Per questo anche alcuni sindacati, come i cristiano-sociali, vanno molto cauti, e non fanno campagna. 

Decisi, invece, quelli dell’Unia, una specie di Cgil elvetica. «In Svizzera – mi dice da Berna la responsabile nazionale, Vania Alleva – solo la metà dei lavoratori è tutelata da contratti collettivi. Gli altri percepiscono un salario deciso dal proprio datore di lavoro, e uno su dieci prende meno di ventidue franchi all’ora, cioè quattromila franchi al mese per chi è occupato a tempo pieno. Mi rendo conto che in Italia quattromila franchi possono sembrare tanti, ma in Svizzera non è così: se non arrivi a quella cifra, qui da noi vivi malissimo, vicino alla soglia di povertà». Spiega che il referendum è stato praticamente un’ultima spiaggia: «Gli imprenditori si lamentano, ma se non si fossero sempre rifiutati di negoziare contratti collettivi, non sarebbe stato necessario arrivare a proporre questa legge. Che, tra l’altro, avrà un impatto minore che in Germania, dove il salario minimo garantito sarà sì più basso, ma riguarderà il sedici per cento dei lavoratori. In Svizzera, ripeto, solo uno su dieci».

Comunque troppi, secondo Luca Albertoni, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria del Canton Ticino. «Siamo contrari», mi dice, «per due motivi. Il primo è che sarebbe un’imposizione dello Stato poco conforme alle nostre abitudini: sarebbe la fine di un patto sociale che in Svizzera ha una lunga tradizione. Secondo, quattromila franchi sono tanti, e metterebbero in difficoltà molti imprenditori. È vero che da noi tutto costa caro, ma ci sono già diverse esenzioni e sovvenzioni, per cui alla fine ciascuno può contare su un livello di vita dignitoso».

Vedremo domenica. I sondaggi dicono che è in vantaggio il «no». Comunque beati loro che vanno a votare su questioni del genere.

Da - http://lastampa.it/2014/05/16/economia/svizzera-il-salario-minimo-corre-verso-il-massimo-lSADSYX5Ec9ZRgmmjRlpHP/pagina.html
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« Risposta #121 inserito:: Maggio 28, 2014, 12:21:19 pm »

Politica

26/05/2014 - La svolta nel Nord-Est
Imprese e artigiani La destra in Veneto si affida a Renzi
Gli imprenditori lasciano Lega e Forza Italia
Sia la Lega sia Forza Italia hanno perso molto terreno: alle politiche del 2013 gli industriali avevano guardato a Grillo

Michele Brambilla
Inviato a Treviso

C’è una parte d’Italia che può spiegare molti dei motivi del successo di Matteo Renzi. 

È un’Italia di destra, o al massimo di centrodestra, che per la prima volta ha votato per la sinistra. È il Veneto. Il Veneto degli imprenditori e delle partite Iva; il Veneto che non aveva mai votato a sinistra. 

Scrivo da Treviso perché, di questa parte d’Italia che ha «cambiato verso», Treviso è forse il luogo più simbolico. Lo è perché capitale di quella Marca che è stata il motore, negli ultimi decenni, dello sviluppo economico più miracoloso del nostro Paese. Lo è perché, appunto, zona «di destra» che aveva già dato il primo segnale di inversione di marcia l’anno scorso, quando Giovanni Manildo del Pd era diventato sindaco dopo un ventennio di primi cittadini leghisti. E lo è pure per una terza ragione. Treviso è il primo luogo che Matteo Renzi ha voluto visitare da presidente del Consiglio. Il giorno dopo aver ottenuto la fiducia è venuto subito qui, a incontrare studenti, sindaci e imprenditori. Perché? Ma è semplice: Renzi aveva capito che qui c’era la possibilità di una svolta storica.

Storica? Sì, storica. Il Veneto è, da quando esistono le elezioni, una terra proibita per la sinistra: regione più bianca d’Italia ai tempi della Dc, roccaforte leghista e berlusconiana nella Seconda Repubblica. Qui il centrodestra a volte ha vinto, a volte ha stravinto: come alle Regionali del 2010, quando Pdl e Lega insieme raggiunsero il 59 per cento.

Oggi il vento è cambiato. O sono cambiati i veneti, o è cambiata la sinistra. Fatto sta che già una ventina di giorni fa era arrivato un indizio importante: la Confartigianato regionale aveva reso noti i risultati di un sondaggio fra i suoi iscritti: il Pd era dato come primo partito con il 34 per cento; era al 9, un anno fa, fra gli artigiani. La fiducia personale nel premier e segretario Pd è stata poi stimata, nel sondaggio fra gli artigiani veneti, al 59 per cento: 41 punti in più di quanti ne aveva Bersani un anno fa. La fiducia in Berlusconi è calata dal 31 al 27; Salvini ha il 31, ma Maroni un anno fa aveva il 40. Solo il trevigiano Zaia, nel centrodestra, gode ancora di una fiducia altissima: 72 per cento.

 

Che cosa è successo? Che cosa è cambiato? Per capirlo bisogna prima dare un’occhiata ai risultati delle politiche dell’anno scorso. Dunque, dopo anni di vacche grasse leghiste e berlusconiane, in Veneto era andata così: Pdl al 18,5; Lega al 10,4; Scelta Civica al 10; Pd al 21,6; Movimento Cinque Stelle nettamente primo partito con il 26,5. A chi ha «rubato» i voti Grillo l’anno scorso? Non c’è il minimo dubbio: al centrodestra. Il risultato del Pd, infatti, era stato quello di sempre.

Ma il boom di Grillo in Veneto è già finito. Già fra gli iscritti a Confartigianato risultava un calo: dal 35 al 24 per cento. Secondo Natascia Porcellato, la sociologa che ha condotto per Demetra quel sondaggio, c’è stato uno sblocco psicologico: «Le scorse elezioni politiche sono servite ad aprire una breccia. Per la prima volta gli artigiani hanno smesso di votare compatti per il centrodestra e si sono orientati verso un altro partito, il movimento di Grillo. In pratica hanno rotto un tabù e a questo punto il passaggio verso un’ulteriore coalizione, in questo caso il centrosinistra, è diventato più digeribile».

Parlare di tabù e di rischio indigestione non è esagerato. Sentite il racconto che mi fa Bepi Covre, il primo sindaco leghista eletto in provincia di Treviso (a Oderzo) e imprenditore a Gorgo al Monticano: «L’altro ieri sono stato a una cena con una trentina di miei colleghi. Molti mi hanno detto: se lo sapesse mio padre si rivolterebbe nella tomba, ma quest’anno, per la prima volta, voto a sinistra». Sono parole importanti, perché spiegano anche gli errori di tutti i sondaggisti: il Pd è stato sottostimato perché gli elettori di centrodestra si «vergognano» a dire che votano per la sinistra, così come qualche tempo fa molti altri nascondevano l’intenzione di votare per Berlusconi o la Lega. Comunque, la conversione di massa dei veneti c’è stata. Covre me la spiega così: «In realtà non c’è stato uno spostamento a sinistra: c’è stato un interesse pragmatico per Renzi, un leader che parla un linguaggio nuovo. Grillo, invece, l’anno scorso ha preso molti voti da destra: ma adesso fa paura».

Perché paura? Dopo anni di crisi, il Veneto vede qualche piccolo segnale di ripresa: nel primo trimestre di quest’anno il saldo tra assunzioni e cessazioni è stato di più 33.000, e le esportazioni sono cresciute del 5 per cento. I veneti hanno pensato che una vittoria di Grillo sarebbe stata un salto nel buio. Siccome poi di Berlusconi non si fidano più, ecco perché Roberto Zuccato, presidente della Confindustria regionale, pochi giorni fa aveva dichiarato al Corriere del Veneto che «molti industriali vedono in Renzi l’ultima spiaggia». In un’altra intervista allo stesso giornale aveva detto: «Renzi rappresenta l’unica prospettiva reale di cambiamento». Segnali che non tutti hanno colto, ma che le urne hanno confermato, anzi addirittura reso più clamorosi.

Da - http://lastampa.it/2014/05/26/italia/politica/imprese-e-artigiani-la-destra-in-veneto-si-affida-a-renzi-LcN5Byw2e5qSnwmzwpGtIO/pagina.html
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 15, 2014, 11:58:17 am »

Editoriali
13/06/2014

Quel doppio malcostume sulla Giustizia

Michele Brambilla

Il giorno in cui Silvio Berlusconi ha cominciato a prestare servizio a Cesano Boscone c’erano molti giornalisti stranieri i quali, in mancanza di meglio (l’ex Cavaliere non poteva rilasciare dichiarazioni) si misero a intervistare noi giornalisti italiani. A un certo punto una collega di una tv francese mi chiese se gli italiani non fossero stupefatti, in quei giorni, nel vedere un ex presidente del Consiglio condannato ai servizi sociali che continuava a fare campagna elettorale per il suo partito. Quando le risposi – senza alcuna intenzione di fare una battuta spiritosa – che noi italiani ormai non ci stupiamo più di niente, lei scoppiò a ridere, così tanto che non riuscì neppure a continuare l’intervista. Evidentemente non le pareva vero che un italiano contribuisse a rafforzare l’immagine che all’estero, purtroppo, hanno di noi. 

Immagino dunque che cosa penseranno oggi, in Francia e altrove, sapendo che un sindaco che ha patteggiato quattro mesi di carcere la mattina, ha tranquillamente guidato la giunta il pomeriggio. Perché questo è quello che è successo a Venezia: Giorgio Orsoni ha fatto colazione da detenuto (sia pure in casa sua) e ha cenato da sindaco.

Certamente il suo è un reato minore, rispetto al marcio che sta emergendo da questa storia del Mose. Altrettanto certamente patteggiare una condanna non significa, dal punto di vista tecnico, ammettere di essere colpevoli. D’accordo. Ma se invece che ai codici ci rifacciamo a un minimo di buon senso, ci vien da dire che così non si fa. A nostro parere, insomma secondo quello che a noi sembra appunto un minimo di buon senso, Orsoni ieri pomeriggio avrebbe potuto guidare la giunta solo se la mattina fosse stato assolto, e se a mezzogiorno i magistrati avessero convocato una conferenza stampa per dire che il sindaco era stato rilasciato con tante scuse perché innocente. Invece la conferenza stampa l’ha fatta Orsoni per dire che resterà al suo posto, nonostante sia stato rilasciato non perché riconosciuto innocente, ma perché non c’erano più esigenze di detenzione, essendosi chiusa questa fase con un patteggiamento.

Può darsi che il sindaco di Venezia sia stato in buona fede, nel ricevere quel contributo per la sua campagna elettorale; in ogni caso, il suo sarà senz’altro un peccato veniale. Ma sempre il nostro ingenuo buon senso ci fa dire che chi governa non deve avere addosso neppure un’ombra. Venezia, una delle nostre icone nel mondo, può permettersi un sindaco con una condanna patteggiata che taglia il nastro della Biennale di Architettura, o che poi inaugura il Festival del Cinema? Ci viene da aggiungere: un leader come Renzi, che ha puntato tutto sul rinnovamento, può permettersi – da segretario del Pd – di tenere nel partito un sindaco in quella condizione che non si dimette?

 Insomma. Tutto quello che abbiamo detto fin qui ci pare documenti un diffuso atteggiamento, anzi malcostume: sono troppi i politici che non capiscono quanto male facciano al Paese nel sentirsi sempre cittadini intoccabili.

 

C’è però anche un altro, e opposto, malcostume italiano. La vicenda delle tangenti veneziane ha scatenato una campagna mediatica che ha finito per gettare nel medesimo calderone tutte le parti in commedia, da chi rubava milioni per vivere da nababbo a chi riceveva (come pare essere appunto il caso di Orsoni) un finanziamento illecito per l’attività politica. Nel modo in cui la vicenda è stata presentata – sia da alcuni inquirenti sia soprattutto da noi giornalisti – c’è stata un’istigazione alla confusione, al tutto fa schifo. Quel che è più grave, c’è stato un compiacimento cialtrone nel diffondere venticelli di calunnia, infilando tra le righe nomi «grossi», ma nomi di persone che con i reati commessi non c’entrano nulla. È il caso di Enrico Letta, ad esempio: è estraneo alla vicenda, ma lo si è voluto mettere in mezzo, naturalmente con l’ipocrita precisazione che «non è indagato», frase furbetta che vien scritta per evitare una querela, ma che non evita il danno e la diffamazione.

Ecco, l’aspetto più sconfortante della vicenda veneziana è forse proprio la persistenza di questa schizofrenia sul tema giustizia, la sopravvivenza di questo doppio estremismo che da anni impedisce all’Italia di affrontare veramente la questione morale.

Da - http://lastampa.it/2014/06/13/cultura/opinioni/editoriali/quel-doppio-malcostume-sulla-giustizia-5iMkYctIz4yZS0rKV2iQpL/pagina.html
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« Risposta #123 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:13:35 pm »

Editoriali

11/06/2014 - caos centrodestra
Matteo Salvini un leader per i naufraghi

Michele Brambilla

Dal naufragio generale del centrodestra pare essersi salvato un uomo solo: Matteo Salvini, 41 anni, segretario della Lega Nord. Anzi non solo si è salvato: è l’unico, a destra, che può dire di aver vinto. E così adesso si parla di lui come possibile nuovo leader della coalizione. Cioè come possibile erede di Berlusconi.

Diciamo la verità: chi lo avrebbe mai detto. Ancora un giorno prima delle elezioni, a Salvini non veniva dato molto credito.

Intanto, il nuovo segretario leghista raccoglieva un’eredità pesantissima. La Lega pareva un’armata in disarmo. Il vecchio capo, Umberto Bossi, era stato (ed è ovviamente tuttora) scaricato dagli ex fedelissimi, che lo considerano bollito e non gli rivolgono più nemmeno il saluto. Il suo successore, Maroni, non aveva dimostrato neppure la metà del carisma. 

L’immagine del partito che girava era quella delle lauree false in Albania e delle mutande verdi. Insomma rianimare la Lega era un’impresa disperata. 

Poteva riuscirci uno come Salvini? Ben pochi lo ritenevano possibile. Di lui si ricordavano principalmente due cose. La prima è la proposta di separare, sui mezzi pubblici milanesi, i posti per gli italiani da quelli degli immigrati. La seconda è il coro intonato con alcuni amici - tutti armati di boccale di birra - nel 2009 a Pontida: «Senti che puzza/ scappano anche i cani/ sono arrivati i napoletani».

Il look di Salvini, poi, è quello che è: non esattamente il modello di tanti elettori moderati, che in questo giovanotto in barba e maglietta scorgono piuttosto un passato da leoncavallino, quale in effetti l’attuale segretario leghista era, prima della conversione che lo portò a candidarsi nei «comunisti padani».

Eppure quest’uomo ha condotto la Lega al 6,2 per cento, quando tutti o quasi la davano sotto il quorum del 4; portandosi a casa, per giunta, un bottino personale di 387.139 preferenze. Bisogna dunque riconoscergli dei meriti, perlomeno nell’interesse del suo partito.

Intanto, Salvini ha saputo far fare al popolo leghista una sterzata storica, cambiando radicalmente l’obiettivo finale: non più la secessione ma l’uscita dall’euro. Anche il nemico è cambiato: non più Roma ma Berlino; non più i terroni e gli immigrati, ma quelli con i capelli biondi. Da un certo punto di vista, un capolavoro.


Salvini ha usato spesso un linguaggio e argomenti detestabili: ma non c’è dubbio che abbia saputo – frequentando le piazze e i mercati rionali – intercettare malumori e rabbie di un popolo che gli analisti avevano sottostimato. Così, il giovane leader leghista si è ritagliato uno spazio nuovo, salvando il partito e se stesso. Possiamo dire che ha dato una lezione a noi giornalisti e ai sondaggisti? Ma sì: ha avuto più fiuto lui.

Detto tutto questo, però, da qui a vedere Matteo Salvini come nuovo leader di un centrodestra riunificato ce ne corre parecchio. Proviamo solo a elencare le prime domande, e obiezioni, che ci vengono in mente.

La prima: Berlusconi – che tutto ha in testa fuorché di ritirarsi – accetterebbe un ruolo da subalterno? Si farebbe dettare la strategia politica da Salvini?

La seconda: quanti elettori di centrodestra si identificherebbero con una linea che prevede l’alleanza con Marine Le Pen?

Terza obiezione. Il «no euro» può essere uno slogan efficace a breve termine: ma a lungo? Quanti italiani, al momento di arrivare al dunque, avrebbero il coraggio (la follia) di uscire davvero dalla moneta unica? Non dimentichiamo poi che, per quanto seducente, la campagna contro l’euro ha comunque portato a un 6 per cento, non a un 40.

E infine: un centrodestra guidato da Salvini quanti voti penserebbe di prendere al Sud, tra quegli elettori «colerosi terremotati» che «con il sapone non si sono mai lavati»? Forse qualcuno si è già dimenticato che a Salvini, a Napoli, non più tardi di un mese fa è stato fisicamente impedito di parlare.

Ecco perché la discussione di questi giorni su un Matteo Salvini possibile futuro leader è, con ogni probabilità, solo la conseguenza dello choc e della confusione post-sconfitta di un centrodestra il quale ha capito che un’era è finita, ma non riesce ancora a intravedere quella nuova.

Da - http://lastampa.it/2014/06/11/cultura/opinioni/editoriali/matteo-salvini-un-leader-per-i-naufraghi-sEj4HsUd677pqzBT2oODlK/pagina.html
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« Risposta #124 inserito:: Giugno 17, 2014, 05:10:38 pm »

Editoriali
16/06/2014

Gli chef e il bello dell’Expo
Michele Brambilla

Se si facesse un rapido sondaggio fra gli italiani chiedendo che cosa viene loro in mente non appena sentono la parola «Expo», quasi certamente la risposta più frequente sarebbe: «Tangenti»; e la seconda «ritardi nei lavori». Se ce ne fosse poi una terza, sarebbe «opere inutili».

Di simili risposte i primi responsabili saremmo, ovviamente, noi giornalisti, che dell’Expo raccontiamo esclusivamente gli aspetti negativi.

Ma, più in generale, responsabile sarebbe un’antica – e in questo momento particolarmente vivace – vocazione italiana all’autodiffamazione. Che l’Expo possa essere una straordinaria occasione non solo per creare lavoro nel 2015, ma soprattutto per far conoscere nel mondo le nostre eccellenze, non viene in testa quasi a nessuno. Prova ne sia, fra l’altro, che dell’Expo si continua a parlare come di un evento milanese, senza pensare a quanta parte del Paese si potrebbe coinvolgere. 

Qualcuno, per fortuna, reagisce. Sabato e domenica prossimi, 21 e 22 giugno, davanti al Grand Hotel di Rimini verrà inaugurato un grande spazio nel quale ventiquattro grandi chef – dodici emiliani, dodici stranieri – cucineranno i prodotti di quel pezzo d’Italia che è la via Emilia, i 329 chilometri che collegano appunto Rimini alla Milano dell’Expo. L’iniziativa è del sindaco di Rimini Andrea Gnassi, del grande chef modenese Massimo Bottura e dal patron di Eataly Oscar Farinetti: saranno loro tre, sabato 21 alle 11,30, a presentare la kermesse, che si svolgerà in un grande tendone da circo dedicato al capolavoro di Fellini «Otto e mezzo». La manifestazione sarà aperta al pubblico, che potrà assaggiare i piatti dei grandi cuochi e, alle bancarelle sul lungomare, acquistare i prodotti dop dell’Emilia Romagna, che sono trentanove, in attesa che diventino quaranta con la piadina.

La due giorni è intitolata «Al Meni» (le mani, in romagnolo) come una poesia di Tonino Guerra perché, ha spiegato Massimo Bottura, «noi chef manipoleremo i prodotti raccolti e lavorati con le mani da quegli eroi che sono i contadini: sarà una celebrazione dell’artigianato italiano. Noi possiamo rialzarci grazie a queste cose: abbiamo prodotti straordinari e artigiani straordinari. Dobbiamo dire al mondo: venite a vedere che cosa abbiamo!».

«L’Italia», dice il sindaco di Rimini Andrea Gnassi, «è piazzata dal quindicesimo al diciottesimo posto nel mondo per il brand. Dovremmo essere al primo. Solo su quella via Emilia che vogliamo celebrare in questi due giorni, l’Italia ha dato al mondo la Ferrari e la Ducati, il parmigiano reggiano il culatello la mortadella e la piadina, Verdi Fellini e il turismo balneare. Oggi invece buchiamo lo schermo, purtroppo, su altri temi». Al Meni però è nata proprio come reazione a questi altri temi: «L’abbiamo pensata come risposta alle delusioni che poteva dare l’Expo. Sulla riviera romagnola ogni estate trovano ospitalità sedici-diciassette milioni di persone, in buona parte stranieri: perché non cercare di attirarli all’Expo?».

Eppure, finora il Comune di Rimini non è ancora riuscito a ottenere di poter vendere, ai turisti che verranno, i biglietti per l’Expo: strano caso di autolesionismo o, come è di moda dire, di «un Paese che non fa sistema». Anche la presentazione di Al Meni – avvenuta nella nuova sede milanese di Eataly – avrebbe meritato maggior attenzione da parte dei responsabili dell’Expo. Così, anche una rassegna gastronomica diventa specchio della bizzarria di un Paese che avrebbe tutto per ripartire ma che trova sempre qualche pretesto per non farlo. «Dobbiamo smettere», dice Gnassi, «di dire che abbiamo grandi talenti. Dobbiamo usare i nostri talenti».

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/16/cultura/opinioni/editoriali/gli-chef-e-il-bello-dellexpo-nDm7BmF4Vu80UJpW3ijQPN/pagina.html
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« Risposta #125 inserito:: Luglio 12, 2014, 11:04:17 pm »

Editoriali
10/07/2014 - il caso di Napoli

Morire a 14 anni non può essere una fatalità

Michele Brambilla

Una trentina d’anni fa, a un suo giovane sostituto che voleva aprire un’inchiesta per la morte di un automobilista schiacciato da un albero caduto durante un temporale, il procuratore di un’importante città lombarda rispose allargando le braccia e alzando gli occhi al cielo: «Ogni tanto ci scordiamo che esiste pure Iddio», disse. È probabile che l’Onnipotente - inteso come Fato, come Ineluttabile Destino - sia stato scomodato anche in questi giorni per la disgrazia che ha stroncato la vita di Salvatore, il quattordicenne napoletano ucciso da un cornicione caduto dalla galleria Umberto I di Napoli, la sua città. 

«Che sfortuna, che fatalità», vien subito da pensare. È stato così anche un paio di mesi fa, quando addirittura una croce elevata in memoria di Papa Wojtyla è rovinata addosso a un giovane disabile, ammazzandolo.

Allo stesso modo qualcuno avrà inizialmente liquidato la faccenda negli anni scorsi qui nel Torinese, quando uno studente morì per il crollo di un soffitto; e lo stesso pensiero si sarà ripetuto in tanti, innumerevoli altri casi. Che sfortuna. Che fatalità. 

Quando capitano disgrazie simili, viene istintivo ripercorrere gli attimi immediatamente precedenti, che ci paiono la sequenza horror di un film scritto da un regista crudele. Ci sembra che il tragico epilogo sia il frutto di una serie di sventurate coincidenze: se non avesse perso il treno; se avesse risposto a quella telefonata invece di uscire di casa; se avesse girato a destra, come pensava in un primo momento, anziché a sinistra.

Ma se è vero che nessuno di noi è in grado di aggiungere un solo secondo al tempo che ci è dato di trascorrere su questa Terra, è anche vero che con il Destino possiamo collaborare, nel bene e nel male. Il giovane sostituto procuratore di cui parlavamo all’inizio (oggi pm molto noto) aprì ugualmente l’inchiesta, nonostante il fatalismo del suo capo, e il processo finì con la condanna per omicidio colposo di ben due assessori, perché si scoprì che le piante di quel viale erano da tempo malate, e i tecnici del Comune avevano invano sollecitato un intervento per evitare che cadessero.

Insomma, anziché indagare a ritroso sulle imprevedibili coincidenze sfortunate, molto spesso sarebbe più razionale indagare sulle prevedibili conseguenze dei nostri comportamenti. Sul caso di Salvatore, la Procura di Napoli ha già avviato un’indagine, perché pare evidente che non si possa archiviare la tragedia in un fascicolo intestato alla malasorte. I calcinacci non decidono di cadere: cadono se chi ha la responsabilità della manutenzione dello stabile non fa il proprio dovere. E non stiamo parlando di un rudere in periferia: ma di un palazzo della centralissima e famosissima Galleria Umberto I di una città come Napoli.

 
Ma più in generale, la morte di Salvatore ci pare sciaguratamente «normale» in un Paese dove i controlli e le messe in sicurezza sembrano molto spesso un optional. Ci lamentiamo tanto se all’estero ci deridono: ma quanto a rispetto delle regole, diamo buoni argomenti ai nostri denigratori. Poco dopo il terremoto dell’Aquila, l’allora prefetto Franco Gabrielli mi mostrò una cartina in cui erano evidenziate le numerose scuole pubbliche che non risultavano neppure al catasto. Quelle scuole erano naturalmente crollate e migliaia di studenti si erano salvati solo perché la scossa arrivò di notte: in quel caso il Destino, se ebbe un ruolo, ce l’ebbe benevolo.

Oggi la sensibilità comune è per fortuna cambiata, non ci sono più magistrati che allargano le braccia e forse qualcuno pagherà per l’assurda fine di Salvatore, morto in un’Italia che sembra non avere più nemmeno i soldi per la manutenzione dei cornicioni.

Da - http://lastampa.it/2014/07/10/cultura/opinioni/editoriali/morire-a-anni-non-pu-essere-una-fatalit-HDDzKcpIZGvTuZgOyRqCkL/pagina.html
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« Risposta #126 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:47:14 am »

Editoriali
23/07/2014

L’irresistibile tentazione di un “cheese” col comandante

Michele Brambilla

Credo che ciascuno di noi abbia almeno un parente o un amico che tiene in casa, appesa a qualche parete o appoggiata su qualche mensola, una foto che lo ritrae accanto a un Papa. Sono scatti di udienze collettive spesso spacciate come incontri privati, li si espongono per devozione ma anche per segnare una piccola differenza di status: hai visto a chi ho stretto la mano io? Ma ora che il Santo Padre è diventato molto più accessibile la foto in Vaticano ha perso valore (semmai durante una conversazione si butta lì: sapessi chi mi ha telefonato l’altra sera) e a quanto pare diventa molto più trendy mostrarsi immortalati accanto a un altro Francesco: Schettino. 

Proprio nei giorni in cui la Concordia riemerge in mare, il Comandante è infatti riemerso in società, in una magnifica villa di Ischia dove l’editore Piero Graus ha organizzato un esclusivo White party. Tra gli ospiti, tutti vestiti di bianco da capo ai piedi, c’era appunto anche lui, Schettino, che peraltro si sarà sentito in divisa d’ordinanza. Non sappiamo se la festa sia stata martellata dall’«A far l’amore comincia tu» della Carrà e allietata da un trenino finale: di sicuro Schettino, a giudicare dalle foto che da ieri circolano in rete grazie al quotidiano «Il Golfo», appare abbronzatissimo e in gran forma come un Jep Gambardella.

Affari suoi. E poi anche lui ha diritto a difendersi (pare che stia scrivendo un libro con la sua versione dei fatti) e a rivivere. Quello che stupisce un po’ è la corsa, scattata fra i partecipanti al White party, al «cheese» con l’imputato. Schettino non è solo accusato di aver provocato trentadue morti in un disastro che ha fatto il giro del mondo: è anche il Comandante (con moldava in cabina) che abbandona la nave che affonda, è quello che non torna a bordo c... Insomma è il simbolo di tante cose per cui noi italiani non godiamo di grande fama. Lo è anche ingiustamente, perché per Schettino non è scattato neppure il garantismo di maniera. Ma lo è.

Eppure nell’epoca della visibilità anche un selfie con Schettino è un’immagine da incorniciare o meglio da postare. Apparire, non importa come; conoscere, non importa chi. Una sera, davanti a un tg con gli amici, si potrà commentare una notizia sulla Concordia ostentando un rapporto confidenziale: non credete a queste balle, Francesco mi ha spiegato com’è andata veramente. E per chi non ci crederà, ci sarà sulla mensola la foto che ha sostituito quella con il Papa: in fondo anche il Comandante Schettino è vestito di bianco.

Da - http://lastampa.it/2014/07/23/cultura/opinioni/editoriali/lirresistibile-tentazione-di-un-cheese-col-comandante-IlivNDtag9HQRY5LKVIFoM/pagina.html
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« Risposta #127 inserito:: Settembre 16, 2014, 06:15:16 pm »

Demagogie e buoni esempi

15/09/2014
Michele Brambilla

Si dirà che, con tutti i problemi che abbiamo, c’è ben altro a cui pensare. Però la politica si sta dividendo anche su questo: sull’orario di lavoro dei parlamentari e sulle ferie dei magistrati. 

Cominciamo con la prima questione. Il premier Renzi, nei giorni scorsi, ha chiesto ufficialmente ai capigruppo di Camera e Senato, Speranza e Zanda, di allungare appunto l’orario di lavoro di deputati e senatori, portandolo a cinque giorni su sette. Il lettore comune forse penserà a un refuso, ma non è così: il sacrificio richiesto ai parlamentari è proprio quello di lavorare cinque giorni su sette, cioè di adeguarsi ai ritmi di ciascun italiano che abbia la fortuna di non essere ancora disoccupato. 

La seconda questione riguarda, dicevamo, le ferie dei magistrati. Attualmente sono di quarantacinque giorni all’anno e il governo le vorrebbe portare a trenta. Come quelle degli impiegati degli operai dei baristi e dei camerieri: anzi probabilmente ancora un po’ di più. 

Le reazioni a entrambe le proposte non sono state di entusiastica adesione. In Parlamento frenano. Attualmente le due Camere sono popolate solo dal martedì mattina al giovedì sera. Perché mai lavorare anche di lunedì e di venerdì? Ci aveva già provato Gianfranco Fini, quando era presidente della Camera: ma era stato respinto con perdite. Ora pare che nel Pd ci sia una certa diffusa disponibilità, anche per non far innervosire il capo: ma nel centrodestra, casa politica della meritocrazia, non hanno gradito. Certo nessuno dice apertamente che cinque giorni alla settimana sono roba da sfruttamento ottocentesco: però, insomma, si nicchia. 

Quanto ai magistrati, hanno reagito in modo veemente. Dicono che in realtà un giudice non è mai davvero in ferie, perché si porta a casa le carte da studiare; così come i parlamentari dicono che il lunedì, il venerdì - e a volte anche nel week end - devono «presidiare il territorio», ascoltare la voce degli elettori (i quali, peraltro, ormai da tempo non possono più nemmeno sceglierli, i parlamentari).

Sarà tutto vero. Sarà vero che gli indici di produttività - almeno quello diffusi dalle rispettive categorie - testimoniano una certa efficienza da parte sia dei parlamentari, sia dei magistrati. Ma il cittadino forse non ha la stessa impressione. La politica non dà certo l’idea di marciare spedita, e quanto alla giustizia i numeri dicono anche che il tempo medio per una sentenza civile di primo grado in Italia è di 945 giorni, contro i 350 della Francia e i 300 della Germania.

Certamente le cause dei tempi lunghi della politica e della giustizia non sono da attribuire né alla settimana corta di Montecitorio e Palazzo Madama, né al fatto che i tribunali chiudono il 31 luglio per riaprire il 15 settembre. È chiaro che le lungaggini italiane dipendono soprattutto da un sistema che complica e rallenta tutto. Così come è chiaro che bisogna evitare facilonerie populiste.

Tuttavia, è vero anche che la fiducia dei cittadini passa pure attraverso alcuni segni. Certo a volte i segni sono demagogia o peggio propaganda: Mussolini lasciava accesa la luce del suo studio di Palazzo Venezia fino alle tre di notte per comunicare agli italiani che lavorava per loro, e gli italiani pensavano che il loro Duce avrebbe fatto meno danni se fosse andato a casa prima: oltretutto avrebbe risparmiato sulla bolletta della luce. Ma anche i parlamentari con il trolley che arrivano a Fiumicino e alla stazione Termini già alle tre di giovedì pomeriggio non sono un bel segno. Così come i tribunali deserti ogni giorno della settimana dalle ore quattordici in poi. Quando entrò in magistratura arrivandovi dalla polizia, Antonio Di Pietro si fece largo a suon di inchieste anche perché in ufficio arrivava alle sette di mattina e ci restava fino alle otto di sera: oggi, forse perché ha conservato uno spirito di appartenenza alla categoria, dice che le ferie dei magistrati non sono un problema.

Può darsi. Ma anche se abbiamo ben altro a cui pensare, sarebbe sbagliato non capire che, oggi più che mai, gli italiani hanno bisogno pure (e sottolineo pure) di piccoli gesti di buona volontà.

Da - http://lastampa.it/2014/09/15/cultura/opinioni/editoriali/demagogie-e-buoni-esempi-CmpTsTABjwIbYsmtgdglBO/pagina.html
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« Risposta #128 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:08:28 pm »

Chiamparino: “L’amico Matteo mi ha deluso, da lui neppure un sms”
Chiamparino: nessuno mi ha avvisato che i tagli erano cresciuti

18/10/2014
Michele Brambilla
Biella

Si erano tanto amati. Sergio Chiamparino era renziano quando nel partito, ai renziani, c’era chi dava del fascista. E Matteo Renzi di Chiamparino pensava tanto bene che lo voleva al Quirinale. Ora invece volano parole grosse. Uno dice che l’altro offende; l’altro gli replica di piantarla con i tweet. Colpa della manovra, dei tagli che il governatore del Piemonte tenta di far digerire qui a Biella - nel palazzo della provincia - agli imprenditori, ai sindacati e agli amministratori locali. Insomma proprio lui deve fare il poliziotto cattivo. Riusciamo a parlarci tra un incontro e l’altro, tra l’annuncio di un sacrificio e una lamentela.

Presidente, che cosa è successo tra lei e Renzi? Fine di una sintonia? 
«No, io continuo a essere in sintonia con lui. Condivido le linee di fondo della sua manovra».

Ma? 
«Ma alcune modalità non sono sostenibili. Dalle regioni, ma anche da altri enti locali. Le province, ad esempio. Nessuno parla più delle province perché si pensa che non esistano più. Ma la legge Delrio continua ad assegnare loro funzioni fondamentali. Lo vede quel signore lì? È il presidente della provincia di Biella. Mi ha appena detto che a gennaio finisce i soldi per riscaldare le scuole. Sa che cosa vuol dire? Che da gennaio i soldi li deve metter la regione. O dobbiamo lasciare i bambini al freddo?».

Non sia mai. Ma lei i soldi dove li trova? 
«Indebitandomi ancora di più. Ascolti bene: per prima cosa, i quattro miliardi di tagli alle regioni di questa manovra si sommano al miliardo già previsto dal governo Monti e agli ottocento milioni già previsti dal governo Letta: quindi i miliardi sono sei, non quattro. Seconda cosa, a questi sei miliardi vanno sommati quelli tolti alle province».

Se l’aspettava una mannaia del genere? 
«Mah, guardi. Io ero in contatto con Delrio via sms. Ma sapevo di tre miliardi, non di più. Evidentemente c’è stato un cambiamento di rotta negli ultimi giorni».

 

Con il premier niente sms? 
«Ce ne siamo scambiati un po’ nelle scorse settimane sull’articolo 18. Una volta mi ha anche chiamato chiedendomi consigli sul trasporto pubblico. Ma sui tagli alle regioni niente telefonate e niente sms».

Renzi dice: le regioni pensino a tagliare i loro sprechi. 
«Se parliamo di sprechi, potrei dire che ce ne sono molti di più nei ministeri: eppure la manovra prevede quattro miliardi di tagli a tutte le regioni d’Italia e solo sei ai ministeri. Ma non voglio alimentare polemiche. Lei ha sentito che cosa ho appena detto qui a Biella: ho presentato un piano di riordino per ridurre le spese. Quindi non è che non facciamo la nostra parte. Ma se non si trova una modalità per correggere la finanziaria, dovremo tagliare su sanità e trasporti: il 90 per cento della spesa delle regioni sta lì».

E lei pensa che sia possibile trovare una modalità per correggere? 
«Certamente sì. Ma dobbiamo incontrarci e parlarne. Non si può andare avanti a tweet. Guardi, la questione non è tra Renzi e il sottoscritto, ma tra Renzi e tutti i presidenti di regione. E noi presidenti di regione non siamo cialtroncelli che fanno polemiche per il gusto di farle. Oltretutto, nessuno di noi ha interesse a fare strumentalizzazioni politiche».

Nessuno? 
«Nessuno. Non c’è alcuna rottura politica tra le regioni e il presidente del consiglio. Lui ha fatto una manovra che punta a rimettere in circolazione tutta una serie di risorse, e noi siamo perfettamente d’accordo: è la strategia giusta. Però se non correggiamo la parte che riguarda i tagli, ci sarà un’altra rottura: non fra il governo e le regioni, ma fra il governo e i cittadini».

Insomma, lei sta dicendo: Renzi deve capire che le nostre critiche possono aiutare anche lui. 
«Sì, io ritengo sinceramente di difendere la manovra. Noi - le regioni, le province, i comuni - siamo tutti sulla linea generale di questa manovra».

Però Renzi ha detto che le sue parole sono state offensive. 
«Non credo si riferisse a me. Forse a qualche altro presidente di regione, che magari ha un po’ esagerato».

Dicono che il premier abbia un carattere non facile, di quelli che non amano essere contraddetti. 
«Non è che abbia poi avuto grandi frequentazioni con lui, e quindi non saprei dire molto sul suo carattere. Certo ha dei toni un po’ forti: ma fanno parte del personaggio, e lui fa anche bene a fare così. Per quanto mi riguarda, quando sento toni da battaglia non mi tiro indietro. Anzi, alla mia età è l’unica cosa che mi rianima».

À la guerre comme à la guerre? 
«Senta, ho fatto il sindacalista, so che c’è un momento dello scontro e un momento dell’accordo».

Eh ma con i sindacati Renzi non è che parli molto. Ha presente che cosa dice della concertazione? 
«No alla concertazione, lo affermo anch’io. Però se noi delle regioni e il governo avessimo potuto lavorare insieme a questa manovra, non saremmo arrivati a questo punto».

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/18/economia/chiamparino-lamico-matteo-mi-ha-deluso-da-lui-neppure-un-sms-ttHBKWI9HilrewVCoRWXzO/pagina.html
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« Risposta #129 inserito:: Ottobre 29, 2014, 07:02:20 pm »

Le torbide conseguenze dei sospetti

29/10/2014
Michele Brambilla

Il Presidente della Repubblica ha dunque risposto ieri, nel tanto atteso interrogatorio al Quirinale, alle domande dei magistrati e degli avvocati impegnati nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Per la precisione ha risposto a «tutte» le domande: aveva detto di non avere nulla da nascondere, e nulla ha nascosto. Va aggiunto che c’è un terzo «nulla» di cui parlare, ed è il nulla che seguirà dal punto di vista giudiziario, visto che c’era pure un quarto «nulla», e cioè il punto di partenza. Il Presidente della Repubblica - come spiega bene Francesco La Licata nella sua analisi - non sapeva e non sa alcunché su questa trattativa, ammesso che una trattativa ci sia stata e ammesso (e non concesso) che siano stati fatti regali alla mafia.

Tuttavia, al nulla che seguirà sul piano giudiziario si affiancherà purtroppo qualcosa di concreto: il fango lasciato sulle istituzioni da una campagna dissennata.

Facciamo un esempio. Pochi minuti dopo la fine della deposizione al Quirinale, molti organi di informazione stranieri hanno titolato, sui loro siti web, più o meno così: «Giorgio Napolitano ascoltato come testimone in un importante processo di mafia». Una semplificazione giornalistica, certo: ma una semplificazione alla quale i colleghi stranieri sono stati indotti dalla «Disinformatia» messa in scena qui da noi in Italia; e una semplificazione drammatica perché questo è purtroppo quel che rischia di rimanere non solo negli archivi dei giornali stranieri ma anche nella memoria di tanti italiani: che il Presidente della Repubblica è stato sentito come testimone «in un importante processo di mafia». E che magari sapeva chissà quante e quali cose che per anni ha taciuto.

Naturalmente non è così, e infatti Napolitano ieri non ha avuto alcuna difficoltà nel rispondere alle domande dei magistrati e degli avvocati. Ma chi ha messo in piedi la campagna mediatica che ha portato alla deposizione del Quirinale proprio questo si prefiggeva: insinuare sospetti, lasciare qualche macchia.

Non c’è nulla di illecito, ovviamente, in ciò che hanno fatto i giudici di Palermo, e non c’è nulla di sbagliato neppure nel tentare di approfondire - non solo nelle aule di giustizia, ma anche sui media - quello che è successo in Italia durante gli anni delle stragi mafiose. Anzi, cercare la verità è doveroso. Ma sul ruolo di Giorgio Napolitano tutto un mondo di sedicenti paladini della giustizia ha giocato una subdola campagna fatta di allusioni e sottintesi, mirando in fondo a creare confusione sulla vera veste in cui il Capo dello Stato veniva sentito dai giudici: testimone o imputato?

Parallelamente a questa campagna mediatica ne è stata portata avanti un’altra, non accessoria ma del tutto funzionale alla prima, della quale è stata indispensabile stampella. Cioè s’è detto e scritto che, mentre i pm di Palermo cercavano di scoprire le inconfessabili verità, c’era tutta una stampa di regime che quelle verità le voleva seppellire per sempre. È una tattica ormai consumata: chi la pensa diversamente da me non è, appunto, qualcuno che la pensa diversamente: è uno che la pensa come me ma non lo dice perché è un traditore dell’informazione, un prezzolato, un servo. Come si delegittima il nemico, si delegittima - e sul piano personale - anche chi il nemico non lo attacca o addirittura lo difende.

Tutto questo, insomma, è il vero lascito torbido, le vere macerie lasciate da questa campagna contro il presidente Napolitano e più in generale da campagne che in Italia si ripetono ormai da anni, promosse da gruppi che si autodefiniscono «gli onesti», «i migliori». Sono gruppi che diffondono fra gli italiani l’idea che - a parte loro, naturalmente - tutto sia marcio, tutto corrotto, tutto senza speranza. Gruppi che hanno un bisogno vitale di sempre nuovi bersagli: eliminato uno, avanti con il prossimo. E che cosa abbiano prodotto questi veleni, nella politica e nel Paese, lo vediamo ormai da anni: quali frutti e quali tribuni.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/29/cultura/opinioni/editoriali/le-torbide-conseguenze-dei-sospetti-wU0G6KVG47QIoNWSJ1dMhJ/pagina.html
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« Risposta #130 inserito:: Novembre 12, 2014, 04:09:40 pm »

Italia unita solamente nelle divisioni
12/11/2014

Michele Brambilla

La Regione Veneto avvia pratiche formali per staccarsi dall’Italia. «La consultazione sull’indipendenza del Veneto, anche alla luce di quanto accaduto in Catalogna, è un punto da cui non si torna indietro», ha detto il governatore Zaia. In effetti i 2,3 milioni di catalani andati alle urne e soprattutto il risultato (80% di «sì» all’addio a Madrid) sono dati incoraggianti. 

E così la Regione ha deciso di presentare un comitato referendario sotto la supervisione dell’assessore al bilancio, Roberto Ciambetti.

Insomma si vuole una votazione che abbia l’imprimatur della Regione, in modo da dare un seguito ufficiale a quella del tutto privata condotta nei mesi scorsi dal movimento Plebiscito.eu. Ricordate? Gianluca Busato, il Casaleggio dei separatisti, aveva detto che due milioni di veneti avevano scelto on line di staccarsi da Roma. È vero che quella consultazione fu contestatissima, e che secondo alcuni i votanti non furono più di centomila: tuttavia, non c’è dubbio che la voglia di indipendenza del Veneto sia reale, come hanno accertato diversi sondaggi della Demos & Pi di Ilvo Diamanti, l’ultimo dei quali attribuisce un 53 per cento ai separatisti.

Il Veneto dunque se ne va? Calma. C’è modo e modo di andarsene. Infatti, la stessa Regione - nel dubbio, nell’incertezza - sta pensando di fare non uno, ma due referendum: uno sull’indipendenza e uno sull’autonomia, perché i veneti insofferenti verso Roma si dividono in due categorie, i falchi e le colombe.

Ma in fondo anche i falchi indipendentisti non sono poi così uniti. Noi Veneto indipendente, Pasque veronesi, Raixe venete ed Europa Veneto faranno parte del comitato regionale per il referendum. Invece Indipendenza veneta non ne riconoscerà la legittimità, così come Plebiscito.eu (quelli del referendum on line): Busato ha detto che quello di Zaia è un referendum leghista e «la politica della Lega, da 25 anni a questa parte, ha portato solo ad affamare ancora di più i veneti». Resta poi da sentire il parere di Governo veneto, di Veneti indipendenti, di Prima il Veneto, di Veneto Stato e della Liga veneta repubblicana. Pare siano già in programma, dopo la proclamazione dell’indipendenza del Veneto, altri sette-otto referendum per ritagliarsi ciascuno un proprio territorio.

D’altra parte siamo in Italia e prima delle regioni vengono i campanili. I bergamaschi non sopportano i bresciani, leccesi e baresi sono come cani e gatti e a Cuneo e ad Alba - che pure sono nella stessa provincia - i vecchi raccontano che prima della legge Merlin la casa di tolleranza di Cuneo era in via Alba e quella di Alba era in via Cuneo.

 

Ma poi non è solo questione di campanili. È che nel nostro popolo c’è un’irrefrenabile propensione a dividersi anche quando si combatte per la stessa causa. Il partito che ci ha governato per mezzo secolo era famoso per le sue correnti: degasperiani, dossettiani e vespisti (che non erano seguaci di Bruno Vespa); poi Iniziativa popolare da non confondersi con Alleanza popolare e con Iniziativa democratica, la quale era a sua volta cosa diversa da Impegno democratico; quindi gli andreottiani e i pontieri, i fanfaniani e i basisti, i dorotei e i morotei.

Perfino gli anni di piombo segnarono la nostra straordinaria diversità. In Germania i terroristi si raccolsero tutti nella Raf: Rote Armee Fraktion. In Italia si contarono 71 sigle: le Brigate rosse e le Brigate comuniste, i Nap e i Gap (anzi di Gap ce n’erano due: Gruppi armati proletari e Gruppi d’azione partigiana). Poi Guerriglia rossa, cosa diversa rispetto a Guerriglia comunista e anche a Guerriglia proletaria; i Comitati comunisti rivoluzionari che avevano una linea molto, molto differente dai Comitati organizzati per la liberazione, i quali a loro volta avevano obiettivi divergenti rispetto ai Comitati proletari. Quindi il Fronte armato rivoluzionario operaio, il Fronte comunista combattente, il Fronte popolare per la liberazione. Poi - dopo i Gruppi, i Comitati e i Fronti - c’erano le Formazioni: quella comunista armata e quella comunista combattente, il che farebbe supporre che la seconda combatteva senza armi. Dimenticavamo Prima linea.

Questa è l’Italia, insomma: un Paese unito solo nel dividersi. E anche chi ora vuole andarsene, in fondo, si dimostra molto italiano.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/12/cultura/opinioni/editoriali/italia-unita-solamente-nelle-divisioni-CW5hKGllmHLaR9iRdr4A0M/pagina.html
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« Risposta #131 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:24:27 pm »

La lezione dell’ex sindaco anti-amianto
Con un’ordinanza bloccò la riapertura dell’Eternit a Casale. Contro tutti e tutto

01/12/2014
Michele Brambilla

In questi giorni in cui, dopo la prescrizione che ha salvato l’ultimo proprietario della Eternit, si è tanto parlato - anche a sproposito - della distinzione fra diritto e giustizia, sarà bene far tesoro della lezione di Riccardo Coppo, l’ex sindaco di Casale Monferrato scomparso ieri.

Coppo non era un rivoluzionario. Era un democristiano. Ma nel 1987, forzando la legge, da sindaco fece un’ordinanza con la quale vietava, all’interno del Comune di Casale, la lavorazione, la commercializzazione e l’utilizzo di qualsiasi manufatto che contenesse l’amianto. Perché la fece? La Eternit di Casale era chiusa l’anno prima, ma una società francese si era offerta di riaprire lo stabilimento e riprendere la produzione. Coppo impedì questa operazione con la sua ordinanza, mettendosi contro tutti: la legge appunto, perché un’ordinanza del genere sarebbe stata di competenza dello Stato e non di un Comune; i molti casalesi che erano rimasti senza lavoro dopo la chiusura dell’Eternit, e che andavano sotto casa sua a contestarlo gridandogli «adesso dai tu da mangiare ai nostri figli?»; e persino molti suoi amici, i quali pensavano che mettendosi contro il diritto Coppo avrebbe compromesso la giusta battaglia contro l’amianto.

Ma oltre che un giudice a Berlino, ci deve essere evidentemente anche una Giustizia nella Storia, e così non solo la fabbrica non riaprì: ma lo Stato si dovette sottomettere all’evidenza dei fatti, recependo l’ordinanza di Coppo che diventò legge nazionale nel 1992. Così oggi tutti gli italiani devono ringraziare la forzatura delle regole imposta da questo sconosciuto piccolo grande eroe, che ci ha insegnato che se il diritto è in contrasto con la giustizia, va cambiato il diritto, non la giustizia. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/01/cultura/opinioni/editoriali/la-lezione-dellex-sindaco-antiamianto-xzV065gSdie7WgSne3So6H/pagina.html
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« Risposta #132 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:30:01 pm »

La ½ Porzione
Allergie alimentari, l’Europa smetta di ossessionarci
03 dicembre 2014

Di Pierluigi Battista

Quando ero ragazzo, non esistevano le allergie alimentari. Cioè, magari esistevano, ma non si chiamavano così. Le malattie cambiano definizione a seconda dei contesti culturali. Sigmund Freud credeva in una nevrosi femminile che chiamava “isteria”, ma quella definizione era legata a una certa temperie storico-culturale. Ai miei tempi (riporto legittimamente a me una locuzione molto cara ai miei nonni e ai miei genitori) non esisteva nemmeno l’anoressia adolescenziale: in compenso c’erano molti adolescenti eroinomani. Con tutto il rispetto per la celiachia e per i celiaci, apprendo con un certo disappunto l’ingiunzione europea ai ristoranti di pubblicare con grande evidenza sul menu gli ingredienti che potrebbero provocare allergie alimentari. Si vede che l’Europa sta facendo molti tentativi per rendersi odiosa e incrementare il boom elettorale della Le Pen e di Salvini.
Inoltre dovrebbero smetterla di trattare i neo-allergici come degli sciocchi. Io so benissimo di essere allergico al kiwi (“ai miei tempi” il kiwi non esisteva quasi) e non c’è bisogno di un menu vidimato dall’Unione Europea per capire che al ristorante non posso ordinare la mia adorata macedonia, che adesso tra l’altro si presenta con prevalente colorazione giallo-verde (verde intenso kiwi e verde pallidino acini d’uva) mentre, come diceva sempre mia madre, “la macedonia senza un po’ di rosso fa schifo”. Figuriamoci il kiwi.
Questa storia del menu antiallergici mette in luce due manie abbastanza nuove. La prima è la mania ossessivo-geometrica degli euroburocrati, che hanno in testa una dittatura della misura, dell’uniformità, della regolazione universale, dell’astrazione dottrinaria così totalitaria e pervasiva da dar ragione ai cupi lamenti reazionari di De Maistre sulle pretese tiranniche della neo-religione illuministica. Sento montare già una grande nostalgia per le oliere di una volta che campeggiavano con una certa leziosità artigianale sui tavoli dei ristoranti. Ora dicono che quelle oliere sono pericolosamente fuorilegge. Via quelle ampolline bombute, via quelle composizioni a quattro -olio, aceto, sale e pepe dal gusto un po’ kitsch. A un certo punto le ampolline a quattro smisero di essere rivestite di vetro trasparente e da quel momento il pepe cominciò ad essere confuso e nelle sale dei ristoranti rimbombava l’allarme: “attento, quello è l’aceto”. Niente più allarmi. Ora le vetuste oliere saranno ghigliottinate per decreto eurofobico. Niente etichetta, niente olio al ristorante.
La seconda mania culturale che traspare da questo nuovo diktat dei despoti di Bruxelles è la vittimizzazione degli allergici, che amano molto rappresentarsi come una minoranza perseguitata, come i neri dell’Alabama negli anni Cinquanta, e che dunque esigono tutele, riconoscimenti, possibilmente romanzi, film e naturalmente disposizioni europee.
Ma le allergie alimentari, appunto, non esistevano. Fossero esistite, non ci avrebbero tramandato fondamentali narrazioni evangeliche. In una vignetta uscita negli Stati Uniti si vede Gesù Cristo impegnato nel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ma subito dalla folla dei discepoli e dei seguaci s’alza forte il lamento allergico e post-carnivoro: “non posso mangiarli, sono vegano”, dice uno; “il pesce è stato testato per evitare sovrappiù di mercurio?”; “il pane è gluten-free?”. Gesù, oggi, non avrebbe fatto quel miracolo. Anche l’olio santo, senza etichetta doc, non poteva certo essere travasato in una normale oliera. Il miracolo di origine controllata, altrimenti niente: bocciato dall’Europa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://cucina.corriere.it/letture/mezza-porzione/14_dicembre_03/gli-allergici-non-sono-sciocchi-sanno-esserlo-anche-senza-europa_d0c12ae2-7b27-11e4-825c-8af4d2bb568e.shtml

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« Risposta #133 inserito:: Marzo 16, 2015, 11:43:36 pm »

Così Salvini si gioca tutto il suo futuro

10/03/2015
Michele Brambilla

Quel che più colpisce nella lotta intestina che sta lacerando la Lega in Veneto è l’incredibile tasso di autolesionismo. Si fatica a capire come un partito che pare in grande ascesa, perlomeno per la conquista della leadership nazionale del centrodestra, possa rischiare di suicidarsi mettendo a rischio l’unica Regione in cui la vittoria, alle prossime elezioni, sembra certa. Il Veneto, appunto.

Cerchiamo di vederci chiaro, per quanto possibile.
Intanto, va detto che la guerra non è solo fra Zaia e Tosi, cioè fra due veneti. La prima guerra, in fondo, è tra i veneti e i lombardi. È una storia antica che periodicamente riaffiora. I leghisti veneti non hanno mai accettato del tutto il fatto di prendere ordini da Milano. Primo, per ragioni storiche: nella Serenissima, i lombardi erano sudditi. Secondo, per ragioni politiche: la Liga è nata prima della Lega. Terzo, per ragioni elettorali: in Veneto, i leghisti hanno sempre preso più voti che in Lombardia.

Ciononostante, da quando la Liga veneta e la Lega lombarda si sono unite dando vita alla Lega Nord, a comandare sono sempre stati i lombardi: Bossi, Maroni e adesso Salvini. Il motivo è semplicissimo: la prima Liga, che pure aveva il copyright, si frantumò presto in decine di gruppuscoli e correnti, senza trovare un leader in grado di ricondurre tutti all’unità; mentre i lombardi un leader ce lo avevano eccome. Ruspante quanto si vuole, ma un leader.

Adesso si sta ripetendo esattamente quel che accadde allora, quando Bossi si impose sui vari Rocchetta. Salvini è il padrone assoluto del partito, e i veneti si dividono in almeno due rivoli: quello che conduce a Zaia, e quello che conduce a Tosi. Chi crede che la differenza tra il primo e il secondo sia di natura politica, cioè che uno non voglia allearsi con i centristi e l’altro sì, sopravvaluta la politica o almeno sottovaluta quanto le questioni personali la possano influenzare.

In realtà la rivalità fra Zaia e Tosi è una questione innanzitutto personale. Di reciproca antipatia – i due non si sono mai «presi» – e di ambizioni che confliggono. Zaia non ha nessuna intenzione di lasciare la poltrona da presidente della Regione, mentre a Tosi quella da sindaco di Verona sta stretta. Avrebbe voluto diventare lui il governatore del Veneto: ma c’è Zaia da confermare; oppure avrebbe voluto fare lui il segretario della Lega Nord: ma c’è il milanese Salvini.

 Ecco perché il «caso» che è scoppiato in queste settimane, e che sta facendo sognare alla candidata del Pd Alessandra Moretti, un clamoroso ribaltone, ha ben poco di politico. Anzi, il paradosso è che, se si guardassero le affinità ideologiche, Salvini dovrebbe essere più vicino a Tosi che a Zaia. I leghisti veneti, infatti, sono in fondo degli ex democristiani. Autonomisti, allergici alla sinistra quanto si vuole: ma democristiani. Il milanese Salvini è ai loro occhi qualcosa di molto simile a un fascista. I pochi veneti che sono stati alla manifestazione di Roma non hanno nascosto il loro imbarazzo per i ritratti del Duce e i saluti romani. Viceversa Tosi è sempre stato considerato, all’interno della Liga, quello che «ha portato i fascisti dentro il Comune di Verona». Quindi, in teoria, sarebbe stata più naturale una vicinanza tra Salvini e Tosi che non tra Salvini e Zaia.

Ma Salvini appoggia Zaia perché Zaia non ha altre mire che quella di guidare il Veneto, mentre Tosi è un concorrente perché ambisce a una leadership nazionale. E così le posizioni dei contendenti sembrano difficilmente conciliabili. 

Tuttavia, come dicevamo all’inizio il rischio dell’autolesionismo è grande. Il sindaco di Verona potrebbe fare una lista sua, con la quale non punterebbe a vincere, ma a molto di più: far perdere Zaia. Secondo qualche sondaggio, Tosi potrebbe portar via diversi punti alla Lega, anche un 8 per cento. Se poi dovesse passare la modifica della legge elettorale veneta con l’introduzione del doppio turno, le possibilità di far vincere la Moretti sarebbero ancora superiori.

Ecco perché ieri il vertice della Lega ha preso tempo. Salvini finora s’è mosso come l’altro Matteo, quello del Pd, e cioè mostrandosi sempre spavaldo e coraggioso fino all’azzardo. Era partito così anche nella gestione della campagna elettorale per il Veneto, dicendo che la Lega sarebbe andata da sola: ma poi ha accettato l’alleanza con Forza Italia. Adesso sembra cercare anche un accordo in extremis con Tosi. 

Vedremo se, alla fine, prevarrà il Salvini d’assalto o quello prudente; il Salvini che punta a vincere o quello che punta a stravincere. Di certo, in gioco non c’è solo il Veneto. Perché Salvini, se perde il Veneto, perde tutto il suo futuro.

Da - http://www.lastampa.it/2015/03/10/cultura/opinioni/editoriali/cos-salvini-si-gioca-tutto-il-suo-futuro-lvZ1jfuUUowbH2FTraIjkN/pagina.html
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« Risposta #134 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:46:36 am »

Expo, il rischio di mostrare il peggio

01/04/2015
Michele Brambilla

Tra un mese esatto comincia l’Expo e a Milano ci si sta dando da fare affinché tutto sia pronto. O meglio, affinché tutto sembri pronto. Dire che siamo indietro, infatti, sarebbe poco. Il 74 per cento dei padiglioni è ancora in costruzione, altri sono in fase di collaudo o verifica amministrativa, solo il 9 per cento è ultimato.

Così, il 26 marzo scorso è stato chiuso l’appalto per il «camouflage», modo elegante per dire camuffamento. In pratica saranno costruiti dei pannelli mobili - che sempre in modo elegante vengono chiamati «exthernal exhibition elements» - i quali serviranno a non far vedere, ai visitatori, le opere ancora incompiute, i cantieri aperti, insomma il brutto del provvisorio. L’inaugurazione del primo maggio a qualcuno ricorderà probabilmente quella della casa «a comparti mobili» del decaduto conte Mascetti in «Amici miei», con il Necchi-Duilio Del Prete che dice «pare che non c’è nulla invece c’è tutto», e il Mascetti-Ugo Tognazzi che risponde amaro «pare che c’è tutto invece non c’è nulla».

Come si sia arrivati in dirittura d’arrivo in queste condizioni, è presto detto, anche se resta un mezzo mistero, vista la fama di efficienza che ha, o meglio che aveva, Milano. Il tempo per far meglio, sinceramente, non mancava. Dell’Expo s’era cominciato a parlare addirittura nel 2006. Un paio di anni più tardi il Comune di Milano se l’era aggiudicato formalmente, grazie all’impegno della giunta Moratti. Poi, qualcosa è successo e, come sempre in questi casi, un po’ di colpa è anche della sfortuna. Infatti a un certo punto è arrivata, imprevista, la grande crisi economica, e il governo - ministro Tremonti - ha cominciato a tagliare a Milano un certo numero di finanziamenti. Poi, ancora più imprevisto, è arrivato il terremoto de L’Aquila, e i fondi per la costruzione della quarta linea della metropolitana milanese sono stati dirottati in Abruzzo.

Ma la sfortuna, come sempre, non basta a spiegare. L’amara verità è che Milano ha commesso molti errori. A cominciare dal fatto che non ha saputo fare squadra. Ci sono stati litigi infiniti, e del gruppo dirigente iniziale è rimasta solo Diana Bracco, la presidente: gli altri sono cambiati tutti. Poi ci sono stati problemi per l’acquisizione delle aree. Poi ci sono stati gli episodi di corruzione, e le inchieste. E qua verrebbe da dire: è vero che la corruzione è un virus onnipresente, ma è anche vero che quando si è in ritardo, e si forzano le procedure per gli appalti per fare in fretta, il virus prende forza.

È mancata anche, come si usa dire, «una visione d’insieme». Beppe Grillo è Beppe Grillo, e quindi esagererà anche quando dice che ci si è limitati a far palazzi «nel luogo più brutto del mondo», fra Pero e Rho, cioè fra l’autostrada e le raffinerie. Però è innegabile che un Expo si fa per mostrare al mondo un Paese intero, non un quartiere. La cultura del cibo, in Italia, è ovunque, i visitatori avrebbero dovuto avere la possibilità di raggiungere facilmente ogni regione, invece saremo ancora qui, tanto per fare un esempio, con la vergogna della Milano-Torino a due corsie, per giunta piene di curve e di camion e delimitate da paratie mobili che quando fai un sorpasso raccomandi l’anima a Dio.

Questo giornale non è, e non è mai stato, «contro» l’Expo. Anzi. Abbiamo sempre pensato che sarebbe stata una grande opportunità per metterci in mostra e per ripartire. Ma per come siamo arrivati impreparati all’appuntamento, il timore è che in mostra metteremo, oltre gli «exthernal Exhibition elementi», il peggio dell’approssimazione italiana.

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/01/cultura/opinioni/editoriali/expo-il-rischio-di-mostrare-il-peggio-gWsyK43dQXNzE89GECbI6H/pagina.html
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