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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 66624 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 15, 2011, 11:24:22 am »

15/1/2011

La madre di tutte le inchieste

MICHELE BRAMBILLA

Berlusconi indagato: dov’è la novità? Sono anni che è indagato e sono anni che le inchieste e i processi contro di lui non spostano un voto perché ormai gli italiani sono tutti preventivamente schierati.

E non cambiano idea neanche se gli si punta contro una pistola. Chi detesta Berlusconi sostiene che tutti questi processi dimostrano la sua inadeguatezza, per non dire di peggio, a governare. Chi lo ama è convinto che si tratti di una congiura ordita dalle toghe rosse. Insomma l’opinione su Berlusconi è fideistica nel bene e nel male, gli italiani reagiscono «a prescindere» dalla sostanza dei fatti. Dovremmo dunque pensare che anche questa volta la tempesta giudiziaria non porterà nulla di nuovo né a Palazzo, né nell’opinione pubblica. Eppure, eppure. Adesso una novità sembra esserci. Forse addirittura una novità decisiva (in un senso o nell’altro, poi vedremo perché). La novità è la straripante sicurezza ostentata dalla Procura di Milano.

Mai si era visto un comunicato, letto dal capo dell’ufficio, così dettagliato. Mai si erano annunciate prove documentali inconfutabili (si parla perfino di foto e di filmati). Mai ci si era spinti ad allegare queste presunte prove all’invito a comparire inviato all’indagato: è come se i pm fossero sicuri che tanto ormai non c’è più nulla da «inquinare». Mai, soprattutto, una Procura si era spinta a chiedere per Berlusconi il rito immediato. Ai non addetti ai lavori va spiegato che una Procura chiede il rito immediato quando ritiene che le prove siano evidenti e definitive, e che non ci sia bisogno di altre indagini o interrogatori.

Forse è davvero una svolta, perché i casi sono due. O la Procura di Milano non ha le prove documentali che ieri ha fatto intendere di avere, oppure ce le ha davvero. Nel primo caso, non soltanto il premier verrebbe assolto con l’aureola del martire, ma i pm in questione dovrebbero cambiare mestiere e calerebbe una pietra tombale su tutta la cosiddetta «via giudiziaria» usata, secondo i berlusconiani, per sconfiggere il nemico della sinistra. Nel secondo caso, Berlusconi sarebbe invece in difficoltà come mai è stato prima.

Perché siamo così tranchant? Per due motivi. Il primo è che in tutti i precedenti processi l’impianto accusatorio era tale da lasciare lo spazio - ai fan pro o contro Berlusconi - per assumere comunque una posizione colpevolista o innocentista. Una posizione, beninteso, ideologica, non fondata sulla conoscenza delle carte (figuriamoci se gli elettori leggono tutte le carte di un processo). Adesso invece la Procura parla di una «pistola fumante», e quella o c’è o non c’è. Se c’è, anche i berlusconiani più inossidabili non potranno negare l’evidenza del reato. Se non c’è, anche gli anti-berlusconiani più accaniti non potranno negare che la Procura, annunciando prove schiaccianti che non ci sono, ha commesso una grave ingiustizia e alimentato sospetti di una manovra politica.

Il secondo motivo è forse ancora più forte. Senza nulla togliere ovviamente alla gravità di altri reati contestati a Berlusconi, come la corruzione o la frode fiscale, non c’è dubbio che da un certo punto di vista ciò che gli viene contestato adesso colpisce ancora di più l’opinione pubblica. È inutile che qualcuno dica che nella propria camera da letto ciascuno può fare ciò che vuole. Un presidente del Consiglio non è un «ciascuno» qualsiasi, e se organizza feste con escort in vari palazzi, è diverso che se le organizza il signor Pincopallino. Se poi a queste feste fa sesso a pagamento con minorenni (è un reato) e poi telefona alla questura per far liberare una di queste, arrestata per furto, e la spaccia per nipote di un altro capo di Stato estero, allora è ancora più diverso.

Gli italiani si sono assuefatti a certi costumi sessuali? Fino a un certo punto. E poi, potrebbero i centristi appoggiare il governo in cambio di una politica di sostegno alla famiglia, se saltassero fuori certe foto e certi filmati? E la Chiesa, che cosa direbbe la Chiesa? Ci sarebbero ancora monsignori a discettare sul dovere di «contestualizzare»? Accuse del genere, se fossero provate, non sarebbero gossip ma questioni politiche gravi. Vista dall’altra parte, se accuse tanto scabrose si rivelassero infondate o anche solo non dimostrabili, sulla Procura di Milano cadrebbe la colpa di un inaudito colpo basso.

Ecco perché, forse, questa potrebbe essere la madre di tutte le inchieste su Berlusconi. In un senso o nell’altro, potrebbe essere la parola fine a una guerra che da più di quindici anni condiziona la politica italiana, rallentandone quando non paralizzandone l’attività. Più che un’ipotesi è una speranza, perché - lo ripetiamo per l’ennesima volta - il Paese ha altre necessità che non quella di avere un premier impegnato più a duellare con la magistratura che a governare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8296&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 19, 2011, 12:26:02 pm »

Politica

19/01/2011 - LA STORIA

Da Belpietro ai ciellini tra imbarazzi e fedeltà

Cominciano i distinguo: ideali diversi. «Ma c’è accanimento giudiziario»

MICHELE BRAMBILLA

MILANO
C’ è tutto un mondo che ha sempre difeso Berlusconi e che continua a difenderlo anche adesso. Però fa un po’ più fatica di prima. In alcuni casi non riesce a nascondere un certo imbarazzo. Ad esempio ieri il quotidiano Libero ha confermato di stare dalla parte del premier, tuttavia con qualche se e con qualche ma. L’editoriale è stato affidato a Giampaolo Pansa e intitolato con una domanda retorica: «Può governare un premier braccato dai pm?».

La risposta che Pansa si dà è: no, non può. Ma attenzione: Pansa non dà tutta la colpa ai pm. Dice che non sa se le accuse siano fondate oppure no, però aggiunge che «già adesso il caso Ruby presenta alcune certezze inquietanti». La prima «è la presenza di questa ragazza senza arte né parte nella residenza del premier ad Arcore». Poi quella di «almeno altre quindici ragazze… Perché erano state invitate dal premier?».

Sbaglia chi parla di indebita intromissione in questioni private: «La telefonata di Berlusconi alla questura di Milano per tirarla fuori (Ruby, ndr) dai guai annulla da sola la privacy del premier». Pansa dice anche che l’accusa è «molto ardua da smontare» e dal tutto emerge uno «stile di vita del premier che non mi sembra consono a un capo di governo». Da qui il suggerimento finale a Berlusconi: «quello di ritirarsi e di godersi la vita».

Certo, a Pansa risponde il direttore Maurizio Belpietro, il quale sostiene che se Berlusconi cade su questa storia si spalanca la via a una dittatura dei pm. Però non è tranchant («Può darsi che tu veda giusto», dice a Pansa) e riconosce che «certo, Berlusconi ha sbagliato». Insomma, su Libero quanto meno c’è dibattito e le certezze sono un po’ meno granitiche di un tempo. «Scagli la prima pietra», ha detto ieri Roberto Formigoni, aggiungendo: «C’è qualcuno che è senza peccato?».

Certo che no. «Credo che dovremmo riporre tutti le nostre pietre in tasca. O meglio, dovrebbero farlo tutti quelli che le stanno tirando», ha detto ancora il governatore. Soprattutto da parte di un certo mondo cattolico, il ricorso all’episodio evangelico di Gesù con l’adultera in questi casi è sempre buono. Però Formigoni, pur chiedendo il rispetto della privacy, non ha potuto trattenere un giudizio su quanto emerge dalle telefonate degli habitué di villa San Martino: «Quello che sta venendo a galla non è qualcosa di confortante».

Al contrario è qualcosa, ha precisato, che lo induce «alla malinconia». Ciellino come Formigoni è Mario Mauro, presidente dei deputati del Pdl al Parlamento europeo. La sua formazione lo porta a diffidare dei moralismi e a non credere che la verità sia tutta bianca o tutta nera.

«Ci sono due facce della stessa medaglia», ci dice, e spiega come la prima faccia sia rivolta a vedere «l’ennesimo capitolo di quella brutta storia che è il conflitto tra due poteri dello Stato». Insomma: non c’è dubbio per Mauro che «alcuni magistrati da anni stiano perseguendo finalità politiche abusando del loro potere». Contestare la concussione a Berlusconi per la telefonata in questura, secondo Mauro, «è come contestare l’associazione mafiosa ad Andreotti».

Ciò premesso, però, «resta il fatto di queste telefonate - continua Mauro - che descrivono un mondo che mi fa dire che i miei ideali di vita non sono quelli di Berlusconi. Quello che mi hanno insegnato mi ha fatto sperimentare un modo diverso per passare felicemente una serata». Sono fatti privati, i festini a luci rosse? «La politica non ha istituzionalmente il compito di educare.

Però la stessa testimonianza personale è di per sé educativa o diseducativa», risponde Mauro, e non sono parole leggere per il premier. Ma non è solo la componente cattolica del Pdl ad avere qualche perplessità. Di Libero abbiamo detto. Ieri un quotidiano aveva collegato al caso Ruby una frase pronunciata da Letizia Moratti a un convegno: «Da donna provo amarezza per un atteggiamento (la prostituzione, ndr) che può derivare da problemi personali, che io non mi permetto di giudicare.

Da sindaco, credo che le istituzioni debbano mettere in campo politiche che aiutino chi ha commesso errori o è incorso in comportamenti contrari alla dignità delle donne». Ma il sindaco di Milano ha subito smentito l’interpretazione di quella frase «rilasciata a margine di un convegno dedicato alle donne, decontestualizzata, manipolata e strumentalizzata per fini politici per attaccare il capo del governo al quale esprimo la mia vicinanza e solidarietà personale e politica».

L’irritazione è forte soprattutto perché Letizia Moratti e il suo staff non hanno alcuna intenzione di entrare in questa vicenda. «E’ un dibattito che non ci appassiona», fanno sapere. Di certo il mondo di Letizia Moratti è lontano anni luce da quello di Ruby Rubacuori, e pure da quello di Lele Mora. E la Lega? Il fedele inossidabile alleato Lega? Bossi ha minimizzato, ha detto che queste cose alla fine «portano voti a Silvio», ma poi non ha più parlato, e neanche i colonnelli e i ministri ieri hanno messo la faccia per Ruby. Hanno fatto parlare il capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, il quale ha detto che questa storia preoccupa «perché distoglie l’opinione pubblica dai temi veri», e che «bisogna andare avanti con le riforme».

Non ha parlato di un complotto contro il premier, non ha attaccato i giudici: dettagli che in politica sono sostanza. Nella Lega il fastidio è tangibile: non tanto per una questione morale, quanto perché si è sempre più convinti che i problemi personali del premier, e la paralisi che ne deriva, impediscono alla Lega di portare a casa ciò che ha promesso ai suoi elettori. Insomma c’è tutto un centrodestra che resta un centrodestra, ma non dà l’impressione di essere disposto a morire per il bunga bunga.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/384956/
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 27, 2011, 11:58:03 pm »

27/1/2011

L'amara vittoria del Premier


MICHELE BRAMBILLA

Bondi non è stato sfiduciato, e resterà ministro. La Camera l’ha salvato con 314 voti. Coloro che gli contestavano la gestione dei beni culturali, e i crolli a Pompei, si sono fermati a quota 292.

Questi i freddi dati di cronaca. Ma se non vogliamo prendere in giro i lettori (e gli elettori), dobbiamo aggiungere che, benché la giornata parlamentare di ieri ruotasse attorno a questa votazione, del ministro Bondi e tanto meno dei crolli a Pompei ieri alla Camera non importava niente a nessuno. L’attacco a Bondi era in realtà un attacco al governo; e la difesa di Bondi una difesa del governo.

E dunque da un certo punto di vista si può dire che ieri Berlusconi ha ottenuto una nuova vittoria. Il voto di sfiducia al ministro dei Beni culturali era stato annunciato come una specie di giorno del giudizio. Il quarto, dopo quelli in cui s’è votato sul sottosegretario Caliendo (4 agosto scorso), sui cinque punti del programma (29 settembre), e sul governo rimasto orfano dei finiani (14 dicembre). Tutte prove di ribaltone, e tutti fallimenti. Il governo Berlusconi ha sempre dimostrato di avere i numeri per resistere. Magari con difficoltà; ma comunque resiste.

Ma può per questo Berlusconi dirsi tranquillo? È evidente a tutti che, come dicevamo, nonostante le apparenze Bondi e le sue politiche culturali ieri non erano i protagonisti della scena ma solo comparse. Così come comparse erano i pur volonterosi parlamentari presenti al voto. I veri protagonisti della giornata politica erano altri personaggi: quelli di cui si occupano le nuove 227 pagine che la Procura di Milano ha inviato alla Camera sull’ormai celeberrimo «caso Ruby». Sarà anche sgradevole dirlo perché le istituzioni ne escono mortificate: ma è evidente a tutti che il futuro del governo ormai non dipende più da quello che succede alla Camera e al Senato, ma da quello che i magistrati accertano e che i giornali pubblicano. Nella Prima Repubblica a un certo punto si cominciò a dire che la politica non la si faceva più in Parlamento ma nelle segreterie dei partiti. Oggi non la si fa più nemmeno nelle segreterie dei partiti, ma nei tribunali e nella coscienza dell’opinione pubblica.

Berlusconi non può tirare il fiato per il voto di ieri alla Camera, perché le nuove carte della Procura sono ben più preoccupanti per lui che non la perdita di un ministro. Già quello che si era letto nelle prime trecento pagine era a dir poco imbarazzante. Quello che comincia a trapelare dalle carte di ieri è ancora peggio. È desolante, sconfortante. A inchiesta iniziata e perfino a inchiesta ormai pubblica, non si è placato il giro di telefonate con cui si comunicavano compensi alle ragazze, assegnazioni di appartamenti, convocazioni di riunioni ad Arcore per stabilire una linea difensiva. Colpiscono in particolare le frasi pronunciate (e naturalmente intercettate) da Nicole Minetti, la consigliera regionale della Lombardia accusata di aver fatto da maîtresse. A scandalo scoppiato si sfoga, dice che si vuole dimettere, che vorrebbe avere una vita normale - fidanzarsi, sposarsi, avere figli - e non sa come fuggire dal pasticcio in cui s’è cacciata. Dice cose terribili sul premier, che accusa di averla messa nei guai e poi scaricata.

Non sappiamo se tutto questo comprenda dei reati. Ma sappiamo che in questi ultimi dieci giorni il presidente del Consiglio - e tutta una sfilza di testimoni interrogati dai suoi avvocati - hanno assicurato che non solo non ci sono reati, ma anche che non c’è neppure nulla di indecoroso. Ci hanno parlato di serate innocenti, di allegre canzoni, di film visti con un lettore dvd come fanno dopo cena milioni di piccoli borghesi. E invece il quadro che emerge è tutt’altro, e riesce davvero difficile (per non dire altro) sostenere a oltranza la tesi dell’equivoco, della millanteria, dello scherzo telefonico.

Non è tanto una questione morale, quanto una questione di credibilità politica. L’inchiesta di Milano sembra raccontarci il crollo di una classe dirigente, un crollo al cui cospetto quelli di Pompei contestati al povero Bondi sono ben poca cosa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8340&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 02, 2011, 05:31:41 pm »

Politica

02/02/2011 - IL CASO

Garibaldina e leghista la doppia vita di Bergamo

In città una marea di bandiere per accogliere il Presidente

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A BERGAMO

In provincia di Bergamo la Lega è il primo partito, e allo stadio s’è visto più volte questo striscione: «Bergamo nazione, il resto è meridione». Eppure oggi Bergamo accoglierà il presidente Giorgio Napolitano tutta vestita di tricolore, e sarà una grande festa dell’Unità d’Italia. Il sindaco Franco Tentorio (ex Msi ed ex An) ha chiesto ai cittadini di esporre la bandiera e Napolitano vedrà solo tre colori - il bianco, il rosso e il verde - lungo tutto il percorso del suo corteo: le vie Autostrada, Carnovali, Don Bosco, Bonomelli, Papa Giovanni XXIII, Porta Nuova, Sentierone, piazza Matteotti, largo Gavazzeni, via Tasso.

Drappi tricolori hanno già avvolto le colonne dei Propilei, Porta San Giacomo, le Mura venete. Com’è possibile? Dove sono i «trecentomila bergamaschi pronti a imbracciare i fucili per la secessione», come minacciava Bossi? Come mai dal profondo Nord arriverà oggi un anticipo della grande festa per il centocinquantenario dell’Unità? È che Bergamo nel profondo Nord è un’anomalia. Una doppia anomalia. Intanto è un’anomalia perché nell’Italia dei campanili, cioè dei Comuni, Bergamo è innanzitutto una provincia.

Anzi una «nazione», come orgogliosamente rivendicano i tifosi dell’Atalanta. Ad esempio. Un cittadino di Cantù o di Erba, che sono in provincia di Como, non diranno mai di essere comaschi; allo stesso modo uno di Busto Arsizio non dirà mai di essere un varesino, una della Val Chiavenna non dirà mai di sentirsi in provincia di Sondrio, e così via. In provincia di Bergamo, invece, sono tutti bergamaschi. Lo sono quelli del capoluogo come quelli della Val Seriana, della Val Brembana, della Valcalepio; quelli di Scanzorosciate e quelli di Almè, quelli di Brembilla e quelli di Schilpario.

Solo a Treviglio non si sentono bergamaschi, e non è un caso perché Treviglio è diocesi di Milano e nella Bergamasca è stata soprattutto la Chiesa - insieme con le montagne - a formare nei secoli il senso di identità. Dice la leggenda che il vescovo di Bergamo può perfino disobbedire al Papa, tanto è forte l’autonomia della sua terra. I bergamaschi, per dirne un’altra, sostengono di non avere un dialetto, ma una lingua. Ed è una lingua incomprensibile anche da chi abita nelle province confinanti. Ma pur essendo una «nazione» Bergamo - e qui sta la seconda anomalia - conserva per l’Unità d’Italia una sacra venerazione. Non a caso nel suo stemma è scritto «Città dei Mille».

Nessun’altra città ha dato tanti uomini alla spedizione: 174. Perfino l’attuale presidente della Provincia, Ettore Pirovano, leghista duro e puro («Sono stato secessionista convinto», ammette) ha un garibaldino fra i suoi ascendenti: si chiamava Giovan Battista Asperti e a 18 anni si arruolò con i Mille. Guai a toccarli, qui a Bergamo, i Mille. Il 15 maggio 1860 a Calatafimi il bergamasco Francesco Nullo, nel momento più duro della battaglia, chiamò a raccolta i suoi compaesani: «Ché i bergamasch, töcc inturen a me». Arrivarono in un’ottantina e partirono all’assalto con la baionetta sfidando i fucili dell’esercito borbonico.

Gaspare Tibelli e Luigi Biffi caddero centrati in pieno petto: il primo aveva 17 anni, il secondo ne avrebbe compiuti 14 dopo dieci giorni. Sono rimasti nella memoria come esempio della generosità dei bergamaschi, sempre presenti ovunque ci sia bisogno. Oggi al Teatro Donizetti la professoressa Matilde Dillon Wanke illustrerà a Napolitano il progetto di raccolta dei diari dei Mille. «Come accoglieremo il Presidente? Alla bergamasca», dice Ettore Ongis, direttore dell’Eco di Bergamo. «Con concretezza, senza enfasi, ma con profondo rispetto istituzionale.

La nostra gente riconosce in lui un portatore di valori ancora attuali». Secondo Ongis Napolitano è perfino un po’ bergamasco: «Dal punto di vista del carattere ci assomigliamo molto: per il senso della misura, la discrezione e l’equilibrio. Anche il presidente della Provincia, che è leghista, riconoscerà a Napolitano il suo ruolo di garante super partes». Certo, l’anima nordista farà comunque sentire la sua voce («Verrà sottolineata la necessità di uno scatto in avanti per rilanciare il sistema Paese», dice Ongis), ma sarà ugualmente una trionfale festa tricolore com’è stata l’anno scorso l’adunata degli alpini.

Nel pomeriggio il Presidente sarà in visita all’Eco di Bergamo, che qui - più che un giornale - è un’istituzione, un tempio della bergamaschità. Monsignor Andrea Spada, che ne fu direttore per cinquantun anni, diceva sempre ai suoi giornalisti: «Ricordatevi che sull’Eco anche la politica estera va declinata in bergamasco». È la forza di un’identità. Ma un’identità che non porta a chiudersi e anzi fa pure qualche miracolo, come quello che vedremo oggi a pranzo, quando Giorgio Napolitano sarà seduto a fianco di Mirko Tremaglia. Un uomo del Sud e un uomo del Nord, un ex comunista e un ex fascista di Salò affratellati dall’Unità d’Italia.

da lastampa.it/politica
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 05, 2011, 09:43:18 am »

5/2/2011

Il circolo vizioso della riforma


MICHELE BRAMBILLA

Atteso da anni come panacea di tutti i mali, il federalismo rischia ora di diventare il pasticciaccio brutto del Nord. E di mandare in crisi sia la destra, sia la sinistra sia soprattutto i cittadini padani. Vediamo di capire perché, procedendo con ordine visto che la questione è complessa e non sappiamo - tra gli arzigogoli della politica e le inevitabili semplificazioni giornalistiche - quanto sia arrivato davvero ai cittadini.

Dunque. L’altro ieri alla Commissione bicamerale è stato respinto un «pezzo» del federalismo; il governo ha cercato di farlo passare ugualmente con un decreto, che ieri il Presidente della Repubblica ha però dichiarato irricevibile, chiarendo che una cosa del genere deve passare dal Parlamento. E infatti si tornerà a discuterne alle Camere. Ulteriore chiarimento per i non addetti ai lavori: una riforma passata alla Bicamerale avrebbe avuto il marchio di un riforma condivisa; una che invece passa alle Camere con un voto di maggioranza ha quello della riforma di parte.

Che cosa significa tutto questo? Che il federalismo è stato bocciato, oppure che passerà solo con i voti di Pdl e Lega? E che il Presidente della Repubblica si è messo di traverso?
Questi sono i messaggi passati in questi giorni, ma la realtà è più complessa.
Innanzitutto quello che è stato respinto l’altro ieri alla commissione bicamerale non è «il federalismo», come sta passando di bocca in bocca, ma solo uno degli otto decreti attuativi del federalismo, e per la precisione la riforma del fisco municipale, che degli otto decreti non è certo il più importante (molti più effetti avrà quello sulla sanità).

Comunque. La bocciatura alla bicamerale e poi l’intervento del Presidente della Repubblica hanno scatenato l’ira del popolo leghista. Che è furibondo non solo con «la vecchia politica», ma anche con Berlusconi. Tra giovedì e ieri decine di ascoltatori di Radio Padania si sono sfogati dicendo di non poterne più di un’alleanza, quella con Berlusconi appunto, che non porta mai a risultati concreti. Anche i deputati leghisti erano lividi.

Ieri l’ordine di scuderia è stato quello di gettare acqua sul fuoco. Il ministro Calderoli è andato a Radio Padania a tranquillizzare la base, a dire che quella di Napolitano «è solo un’interpretazione» e che tutto si risolverà in Parlamento «in dieci o quindici giorni». Ma i vertici leghisti sanno bene che la base è in fermento e se i capi fanno i pompieri per non rompere con il Quirinale, i tiratori scelti si incaricano di far sapere che la Lega è combattiva come sempre: Borghezio ha detto che «Napolitano non è più ispirato dal pensiero di Carlo Cattaneo ma dagli eterni azzeccagarbugli della politica italiana», e Gentilini ha aggiunto che sono state «le grandi ideologie del passato a far decidere Napolitano per il diniego». Mostrandosi così in sintonia con il popolo duro e puro. Ieri sera, pur dopo l’intervento al valium di Calderoli, i microfoni di Radio Padania si sono riaperti al pubblico e il primo degli intervenuti è stato telegrafico: «Va bene rispettare il Capo dello Stato, ma non dimentichiamoci che è un comunista».

La Lega quindi è inquieta. Ma, dicevamo, anche la sinistra è preoccupata. In Parlamento è infatti scontato che il Pd voterà contro al decreto sul fisco municipale. Lo farà in modo convinto. Ma mettendo in difficoltà i suoi deputati del Nord, che si chiedono con quale faccia si presenteranno alla prossima campagna elettorale, nei loro collegi, dopo aver votato contro il federalismo. Ci confidava ieri un parlamentare Pd: «Per spiegare perché quel decreto è una boiata dovremmo parlare per ore, portare dati e documenti. E invece purtroppo ormai si ragiona per slogan, e lo slogan che passa è che il Pd vota contro il federalismo. E quindi contro il Nord».

Ma siccome la vicenda è tutta un susseguirsi di paradossi, anche per i cittadini del Nord il federalismo rischia, come dicevamo, di diventare motivo più di scontentezza che di liberazione. Adesso c’è sconcerto perché si ha la sensazione che i soliti «poteri forti» ostacolino le riforme. Ma poi, se e quando il decreto sul fisco municipale passerà, il primo impatto sul Nord sarà deludente per non dire devastante. «I Comuni - ci confessava ieri un importante sindaco leghista - dovranno tagliare i servizi. E i cittadini si vedranno aumentate le tasse». Sulle case, sul turismo, perfino sulla piccola e media impresa. Questo perché gli effetti benefici del federalismo, secondo le stesse previsioni della Lega, si vedranno tra alcuni anni, ammesso che si vedranno.

Insomma per adesso il federalismo, che nelle intenzioni di Calderoli doveva essere una riforma condivisa, ha accentuato lo scontro istituzionale. Tra un po’ dovrebbe mandare in crisi il Pd nel Nord, e tra un po’ ancora dovrebbe deludere chi l’aspettava come la manna dal cielo. Un circolo vizioso, dal quale si potrebbe uscire solo con un diverso clima politico.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 07, 2011, 12:00:54 pm »

7/2/2011

Attacco al cuore del berlusconismo

MICHELE BRAMBILLA

Come hanno osato arrivare proprio fin lì, fino a Villa San Martino di Arcore? Silvio Berlusconi deve aver gridato al sacrilegio, e se così fosse sarebbe una sorta di contrappasso.

E già, perché è probabile che al sacrilegio abbiano gridato – leggendo le cronache del caso Ruby – anche le anime dei monaci benedettini che abitarono quella dimora prima che i conti Giulini, a metà del Settecento, l’acquisissero e la ristrutturassero per farne una villa padronale.

«Un sacrilegio», deve aver pensato il premier, perché in politica le manifestazioni di protesta sono da mettere in conto ma c’è sempre stato un codice non scritto secondo il quale non si va a strillare sotto casa. E un sacrilegio soprattutto perché non c’è luogo più sacro al Cavaliere che Arcore; non c’è luogo più simbolico del berlusconismo di questo piccolo paese della Brianza di cui nessuno conosceva l’esistenza prima che ci arrivasse Berlusconi.

Si dice «ad Arcore» per dire chez Silvio così come si dice «oltre Tevere» per dire il Vaticano e «l’appartamento» per dire il Papa. Arcore, poi, sta a Berlusconi ancor più di quanto piazza Gesù stava alla Dc, le Botteghe Oscure al Pci, l’hotel Raphaël a Craxi, Palazzo Venezia a Mussolini. Perché la Dc era anche altrove, era anche l’Azione cattolica e le sacrestie; il Pci era anche le cellule e le cooperative; Craxi era anche e soprattutto la Milano da bere; Mussolini era anche la Romagna, Predappio e la Rocca delle Caminate. Berlusconi, invece, è Arcore: è la Brianza operosa e produttiva, i capannoni e le fabbrichette, il «paghi mi», la villa nel verde. Berlusconi è nato e cresciuto a Milano ma è brianzolo dentro. Brianzolo è il popolo delle piccole e medie imprese cui ha dato voce e speranza. Brianzola è la filosofia della «politica del fare» contrapposta a quella delle chiacchiere.

Lo stesso acquisto di Villa San Martino è uno spaccato del berlusconismo: della capacità di fare affari, di avere successo. Berlusconi la comperò nel 1974 dall’erede dei conti Casati Stampa, coinvolti in una storiaccia di sesso. Camillo Casati Stampa di Soncino si uccise nel 1970 dopo aver assassinato la moglie Anna Fallarino e il di lei amante Massimo Minorenti. La villa finì alla giovane Anna Maria Casati Stampa che ne affidò la vendita al suo legale, un avvocato che si chiamava Cesare Previti. Valutata un miliardo e settecento milioni, Villa San Martino venne acquistata dal futuro premier a cinquecento milioni.

Era appunto il 1974. Berlusconi era ancora uno sconosciuto per il grande pubblico, uno dei tanti imprenditori del Nord che stava facendo i dané. Fu proprio in quel momento lì, fu proprio dopo aver lasciato la villa di via Rovani a Milano per Arcore che cominciò la sua ascesa anche sociale e politica. Il 1974 è anche l’anno in cui nasce il Giornale di Montanelli, di cui Berlusconi è dapprima un marginale sostenitore, poi il maggiore azionista, quindi il padrone. Indro andava lì, ad Arcore, a parlare con il suo editore, vincendo (anche per gratitudine) un’istintiva idiosincrasia antropologica.

Villa San Martino divenne la residenza di famiglia, e poi più che una residenza: un sacrario, con la costruzione del mausoleo di Pietro Cascella, con i loculi pronti per tutti i Berlusconi e per gli amici fidati. Villa San Martino ripercorre tutte le tappe di un’ascesa: dallo stalliere Vittorio Mangano ai grandi ospiti, che erano stelle di Hollywood, grandi calciatori, politici. È a Villa San Martino che Berlusconi registra nel 1994 il videomessaggio della discesa in campo ed è poi lì che si ricevono gli alleati con cui disegnare strategie.

Villa Belvedere Visconti di Modrone, che sta nel paese vicino di Macherio e che a un certo punto il Cavaliere compera per farne la sua abitazione, non ha nell’epopea berlusconiana lo stesso peso di Arcore. Berlusconi non se n’è mai innamorato veramente, tanto che dopo il divorzio da Veronica è tornato a Villa San Martino.

Da qualche anno Arcore aveva però perso buona parte della sua centralità. Per gli incontri politici Villa san Martino era stata sostituita da Palazzo Grazioli, a Roma; solo Bossi e i suoi continuavano ogni lunedì sera ad andare ad Arcore, riconoscendone il genius loci lumbard. Anche per la mondanità la villa di Arcore era finita ai margini: diciamo oscurata da Villa Certosa.

Ma se ieri il popolo viola e quelli dei centri sociali hanno scelto Arcore, è perché Arcore è tornata ad essere il cuore, il simbolo del berlusconismo. Come e perché sia tornata ad esserlo, è meglio lasciar perdere.

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« Risposta #21 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:43:50 am »

Politica

06/03/2011 -

La Lega si mette l'abito scuro

Nella fida Bergamo cena di gala con tutti i capi per festeggiare Federalismo e 25 anni del partito

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A BERGAMO

Come ci si vestirà a una cena di gala della Lega? E’ gradito l’abito scuro oppure i leghisti sono meno formali? L’addetto stampa ci toglie dall’imbarazzo: «Ma vestiti come vuoi, tanto voi giornalisti sarete in un recinto». Dice proprio così: «In un recinto».

La piccola vendetta lombarda: siamo alla Fiera di Bergamo e la Lega nella sera in cui festeggia la sua storia mette in un recinto quella categoria che nulla aveva capito, alle origini, di lei. La snobbavamo: un fenomeno folcloristico che passerà presto. Invece la Lega non solo non è passata presto, ma oggi è il più vecchio partito italiano, sta al governo e sta per portare a casa – sia pur molto riveduto e corretto – il progetto che stava alla sua ragione sociale: il federalismo. Così può far festa. Ieri sera c’erano duemila invitati e tutti i grandi capi per festeggiare i 25 anni della sezione bergamasca e, insieme, il federalismo. Ma perché proprio a Bergamo? E in questo stile poi: una cena di gala invece delle salamelle.

Daniele Belotti, capo degli ultras dell’Atalanta e assessore regionale, ce lo facciamo spiegare da lui: «Perché Bergamo rappresenta la roccaforte della Lega. E’ la terra dei duri e puri. Quella che è sempre stata la più fedele a Bossi». Più ancora di Varese, che è la culla della Lega? «Sì – ci dice Belotti – più ancora di Varese». In effetti se il Varesotto è la terra dove la Lega è nata, la Bergamasca è quella in cui la Lega è cresciuta di più. Qui – intendendo per «qui» la provincia – la Lega è avanti al Pdl di dieci punti.

Centododici sezioni, seimila tesserati, 53 sindaci su 244, Bergamo e le sue valli contengono il popolo che Bossi ha sempre invocato quando voleva far capire che tanti fucili e forconi sono pronti. Tutto cominciò appunto venticinque anni fa, per la precisione il 6 dicembre 1985, quando Bossi venne a tenere il suo primo incontro a Bergamo, al centro «Serughetti-La Porta», davanti a quattro gatti più incuriositi che altro. Due anni dopo, 1987, venne aperta la prima sezione, in via Sant’Orsola: è un anno importante, quello in cui Bossi diventa per la prima volta «senatur». Il partito era nato pochi anni prima, nel 1982, nel Varesotto. Tre i componenti: Bossi, sua moglie Manuela Marrone, l’amico Giuseppe Leoni.

Facevano un ciclostilato che si chiamava «Lombardia autonomista». Un giorno questa sorta di samizdat arrivò a Bergamo in casa di tale Enzo Innocente Calderoli, figlio di tale Guido Calderoli che alla fine degli Anni Cinquanta aveva fondato il «Movimento autonomista bergamasco»; e zio di tale Roberto Calderoli, che poi non è un tale perché adesso è ministro. Enzo Innocente lesse il ciclostile e vide che c’era un numero di telefono: lo chiamò e si sentì rispondere dalla signora Bossi. Roberto Calderoli ha così ricordato quei tempi con Anna Gandolfi dell’Eco di Bergamo: «Lo zio portava il ciclostilato a casa e con mio fratello Guido ci siamo avvicinati alla politica.

Ma ricordo anche che nello studio del nonno in via XX settembre si parlava di autonomia. Io arrivavo lì ed ascoltavo». Gli inizi non furono facili: «Ricordo un comizio a Schilpario alla fine degli Anni Ottanta. Partimmo in tre, sotto la neve, per andare in biblioteca a parlare di federalismo. Quando arrivammo, trovammo in sala solo tre persone: due erano della Digos, uno era il custode». Ma i successi arrivano rapidi e imprevedibili. Nel 1989 la Lega prende il 14,57 per cento: è il secondo partito e in nessun’altra provincia è andata così bene.

Nello stesso anno Luigi Moretti, di Nembro, primo segretario provinciale, diventa europarlamentare insieme con Francesco Speroni, di Busto Arsizio: sono i primi due leghisti ad andare in Europa. Sempre nel 1989 – il 22 novembre – da un notaio di Bergamo viene depositato lo statuto del partito federale, cioè la Lega Nord, che sarebbe nata a Pieve Emanuele, in provincia di Milano, solo il 9 febbraio 1991. Nel 1990 nasce la «Berghem fest»: è la prima festa del partito e avrà innumerevoli repliche ovunque.

Il 20 maggio dello stesso anno c’è la prima Pontida: che è in provincia di Bergamo, per chi non lo sapesse. Ogni cosa pare cominciare sempre qui nella Bergamasca: a Ponte San Pietro un consigliere comunale prende la parola in dialetto e l’aula si svuota in segno di protesta: non era mai successo prima, succederà molte altre volte poi. Nel 1994 Daniele Belotti, l’assessore atalantino, diventa il più giovane segretario provinciale della Lega.

Nel 1996 il botto: la Lega in provincia prende il 43,2 per cento dei voti. Ieri sera Bossi ha voluto premiare i tanti che negli anni hanno costruito, mattone dopo mattone, questa storia. Certo qualcuno se n’è andato. Se n’è andato Giovanni Cappelluzzo, che fu il primo presidente leghista della Provincia. Se n’è andato Cristiano Forte, segretario provinciale dal 2004 al 2006, che contesta l’alleanza con Berlusconi: «E’ una strategia che non porta a nulla e i fatti lo stanno dimostrando, quello che sta venendo avanti adesso non è federalismo ma una legge di contenimento della spesa pubblica».

Se n’è andato Silvestro Terzi, uno dei fondatori, parlamentare dal 1992 al 2001: «Lo spirito iniziale non c’è più». Se n’è andato perfino Luigi Moretti, il primo segretario provinciale e primo europarlamentare. Assicura che ha solo lasciato gli incarichi ma è ancora leghista e approva l’attuale linea soft, però avverte: «Deve essere un passaggio intermedio per arrivare all’autonomia» E’ il pensiero di tanti, forse di tutti quelli che ieri sera erano lì a festeggiare il fisco municipale sapendo che l’obiettivo di 25 anni fa era ben altro.

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« Risposta #22 inserito:: Marzo 18, 2011, 10:14:29 pm »

MICHELE BRAMBILLA

I leghisti hanno boicottato le celebrazioni o vi hanno partecipato obtorto collo.

Era scontato.

Molto meno scontato, però, era che la Lega desse una prova di disunità non solo d’Italia, ma anche di partito.


Contrariamente alla loro tradizione, infatti, dirigenti e militanti non si sono presentati compatti all’appuntamento. Già nei giorni scorsi c’erano stati alcuni segnali. Ad esempio a Milano, nel consiglio regionale, i lumbard se n’erano andati al bar mentre suonava l’inno di Mameli; però il leghista Davide Boni, che è presidente di quella assemblea, era rimasto in aula: con l’entusiasmo di chi deve pagare una cambiale, ma c’era rimasto.

Ieri poi un po’ tutto il partito ha dato l’impressione di non saper tenere la barra dritta. A Montecitorio s’è presentato un solo parlamentare leghista, tale Sebastiano Fogliato. Però i membri del governo c’erano tutti. Maroni a domanda sulla sua presenza aveva risposto «lasciatemi in pace», mostrando un certo nervosismo: però c’era. Bossi, che negli anni passati ci aveva fatto sapere quale uso avrebbe fatto del tricolore, c’era anche lui. Non ha applaudito il discorso di Napolitano, però ha detto che Napolitano ha fatto un buon discorso. Mentre suonava l’inno s’è messo a parlare con Tremonti, però si è alzato in piedi.

E ancora. Il quotidiano La Padania ieri titolava «150 anni di centralismo, che guasti», però il governatore del Veneto Luca Zaia ha partecipato alle celebrazioni con la coccarda tricolore. A Torino nessun leghista era presente in piazza Castello all’alzabandiera, però a Varese all’alzabandiera il sindaco Attilio Fontana (che è un fedelissimo di Maroni e il leader dei sindaci leghisti) c’era, e aveva perfino la fascia tricolore. Il presidente della Provincia di Bergamo Ettore Pirovano, padano e discendente di uno dei Mille, ha detto che «l’unità non può essere imposta», ma un altro importante amministratore locale della Lega, il sindaco di Verona Flavio Tosi, ha anch’egli partecipato all’alzabandiera indossando la fascia tricolore. Borghezio ha detto che le celebrazioni di ieri sono «soldi buttati» e che presto «ci saranno due Italie», ma sul balcone della sede della Lega di Varese – che del movimento di Bossi è la culla – qualcuno ha messo un tricolore.

Potremmo andare avanti a lungo. Non vogliamo dire che tutto questo dimostra una spaccatura interna sull’idea che i leghisti hanno dell’Italia. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, alla stragrande maggioranza la secessione farebbe ancora più piacere che il federalismo. No, la spaccatura non è stata sulla linea ma su come mostrarsi, come manifestarsi al Paese e alla politica in un giorno come quello di ieri.

O meglio: più che di una spaccatura, si tratta di un disorientamento. La Lega, sempre molto abile nel fiutare i sentimenti popolari, forse non si aspettava che la festa dei 150 anni avrebbe così tanto risvegliato l’amor patrio degli italiani. Già i venti milioni di spettatori per Benigni a Sanremo erano stati un segnale. Adesso sono arrivate le feste di piazze, le città imbandierate, lo straripante affetto mostrato al presidente Napolitano. Chi ha avuto modo di vedere Torino in queste ultime ore non può non essere rimasto colpito dalla partecipazione popolare al centocinquantenario. Anche in quartieri multietnici come San Salvario il tricolore era ovunque.

Di fronte a questo imprevisto, di fronte alla sorprendente constatazione che il sentimento per l’Italia non era morto ma solo sopito, la Lega s’è trovata disorientata e non ha saputo presentarsi con il consueto celodurismo. E così ha probabilmente scontentato tutti: i non leghisti, che si aspettavano un atteggiamento più dignitoso, e la sua base, che se ne aspettava uno più bellicoso.

Viceversa il presidente Napolitano è arrivato in questi giorni a livelli di consenso e credibilità pari, se non superiori, a quelli di cui godeva Pertini. E se dopo tanta politica greve, volgare e priva di contenuti gli italiani si mettono a seguire un uomo come Napolitano, forse vuol dire davvero che qualcosa sta cambiando. Di tutte le riforme, questa sarebbe quella di cui abbiamo più bisogno.

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« Risposta #23 inserito:: Aprile 01, 2011, 10:31:46 pm »

1/4/2011

La memoria corta di La Russa

MICHELE BRAMBILLA

Ignazio La Russa sta vivendo un momento difficile. Ieri è stato criticato anche dalla stampa amica: il Giornale nel titolo di prima pagina parlava di un «pasticcio» e a pagina 7 di uno «scivolone di La Russa»; quanto a Libero, il vicedirettore Fausto Carioti nell’editoriale gli ha consigliato «un corso di educazione e sopportazione». Inoltre, ha scritto che le escandescenze sono state tali da far pensare che per una volta le parti fossero invertite, e che fosse il ministro a fare l’imitazione di Fiorello. Tutti e due i quotidiani, poi, hanno dato senza alcuna reticenza - e con buona evidenza - la notizia dell’ira di Berlusconi e di gran parte del Pdl contro La Russa.

Il quale è da qualche tempo che perde le staffe. Sul web c’è tutto un florilegio delle sue reazioni sopra le righe. L’ultima era stata forse quella, alla Balotelli, contro un inviato di Annozero. Ma fra tutti questi comportamenti certamente non consoni al ruolo che La Russa riveste, ce n’è uno che colpisce in modo particolare e che dovrebbe far riflettere l’interessato. A ben guardare, nell’invettiva del ministro della Difesa contro Fini il gesto più grave non è stato il «vaffa» ma quel «stai zitto» pronunciato tenendo l’indice appoggiato al naso. Un gesto grave non solo perché rivolto alla terza carica dello Stato, ma soprattutto perché il suo autore dovrebbe ben sapere che cosa rappresenta.

Fino a una ventina d’anni fa Ignazio La Russa era uno sconosciuto politico (consigliere comunale a Milano) che di mestiere faceva l’avvocato penalista. In quegli anni facevo il cronista di giudiziaria e ricordo bene con quale schifato disprezzo molti colleghi lo evitavano anche quando aveva notizie (di processi, non di politica) da portare in sala stampa. Un giorno ce ne offrì una gustosa. Si era scoperto che i carabinieri s’erano inventati una retata in un bar che, a un controllo dei giudici, risultò chiuso nel giorno indicato nel verbale: in pratica saltò il processo e gli imputati furono tutti assolti. Era una notizia buona per le pagine di cronaca, senza alcun risvolto politico, ma in sala stampa alcuni colleghi giornalisti indirono seduta stante un’assemblea al termine della quale fu deciso che le notizie di «un fascista» non andavano pubblicate neanche se vere, punto e stop.

È solo un esempio tra le migliaia, anzi tra i milioni che si potrebbero fare per ricordare l’esilio, la chiusura nel ghetto, la cacciata nelle fogne che fu riservata ai missini per quasi cinquant’anni: dal 1946, quanto il partito fu fondato dalla cosiddetta «generazione che non si è arresa», al 1995 quando si sciolse per diventare Alleanza nazionale e rientrare nel gioco democratico. Furono pochi, pochissimi, in quei cinquant’anni, i non missini che difesero il diritto dei missini a parlare; che reagivano quando qualcuno portava l’indice al naso e diceva «stai zitto» a un esponente del Msi.

Ecco perché La Russa quel gesto non lo dovrebbe mai fare. Per coerenza con il proprio passato. Ma anche per non correre il rischio di un curioso e imprevedibile compimento di una parabola che potrebbe riportare lui, e i vecchi camerati, a rivivere l’emarginazione di un tempo. È una parabola che in qualche modo già si intravede. Perché: che fine hanno fatto gli ex missini ed ex An? Chi è andato con Fini sembra in un vicolo cieco: Fli è un partito senza grandi prospettive elettorali, indeciso su da che parte stare e diviso tra falchi e colombe.

Chi invece è rimasto nel Pdl rischia di scomparire per altri motivi. Da una parte, sta diventando sempre più un corpo estraneo e sgradito a quelli che vengono da Forza Italia. La raccolta di firme per far dimettere La Russa da ministro è partita all’interno del Pdl, non dai banchi dell’opposizione. E il mai dimenticato epiteto usato per indicare al pubblico disprezzo («fascista») è arrivato da Claudio Scajola, oltre che dai deputati d’opposizione.

Dall’altra parte non si capisce bene quale presa possa ancora avere sul suo vecchio elettorato un La Russa come quello dell’altro giorno, scalmanato nel difendere il processo breve. S’è forse dimenticato di quando guidava le fiaccolate pro Mani Pulite? O di quando, ancor prima, il suo fedele collaboratore Riccardo De Corato riforniva la Procura di Milano di esposti contro la corruzione e il malaffare? Forse sì, forse s’è dimenticato, come s’è dimenticato dei tempi infami in cui in nome della democrazia gli intimavano di tacere. E la scarsa memoria è pericolosa. Si fa in fretta a tornare in un angolo dopo aver vissuto una imprevista e insperata stagione di gloria.

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« Risposta #24 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:05:07 pm »

Politica

07/04/2011 - IL CASO

Berlusconi monopolizza il palcoscenico che non c’è

Un'avvocatessa per Ruby: in aula anche Paola Boccardi, avvocato di Ruby Rubacuori, è lei che l'ha convinta a non costituirsi a parte civile al processo contro Berlusconi

In Aula non c’erano nemmeno Ghedini e Longo.

Solo tantissimi giornalisti

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Di tutte le celebrità del processo Ruby in aula ce n’è solo una, Ilda Boccassini, e per giunta l’esercito di giornalisti arrivati da tutta Italia e da mezzo mondo la può vedere solo di nuca, e solo quando si alza in piedi al momento dell’ingresso dei giudici. Di parlarle, neanche da parlarne.

Degli altri personaggi illustri finiti in questa storia non c’è nessuno. Non c’è Berlusconi, che in sua vece manda una cortese missiva per comunicare gli improrogabili impegni. Non c’è Ruby. Non ci sono i vip chiamati a deporre dalla difesa per documentare il candore delle serate di Arcore: e cioè i ministri Gelmini e Carfagna, George Clooney, Elisabetta Canalis, Belen, Barbara D’Urso e Cristiano Ronaldo, il quale secondo i giornali starebbe per passare al Milan, forse perché se un testimone a discarico è anche dipendente dell’imputato non guasta. Non ci sono neppure gli avvocati Ghedini e Longo: come per una partita di Coppa Italia, il presidente ha scelto di schierare le seconde linee. Per fortuna non c’è neppure Lele Mora ma purtroppo non c’è neppure la Minetti.

Insomma ci sono solo i giornalisti, un plotone di giornalisti, per l’udienza più surreale della storia della cronaca giudiziaria. Annunciata come una specie di giorno del giudizio, attesa in mondovisione, si è risolta in nove minuti: dal processo breve all’udienza lampo. Nove minuti sono stati sufficienti ai giudici per sbrigare le formalità burocratiche e fissare la ripresa al 31 maggio, tra lo sbigottimento dei colleghi stranieri che non riescono a capacitarsi di come mai - per un processo così importante la giustizia italiana non riesca a trovare un buco un po’ meno lontano nel tempo.

Mai visto un simile scarto tra attesa e consistenza dell’evento. Il palazzo di giustizia di Milano sembra in stato d’assedio, per entrare dobbiamo sottoporci a controlli simili a quelli di un aeroporto americano nell’immediato post-11 settembre. Consegnata la borsa, svuotate le tasche e passati sotto il metal dectector, veniamo dirottati da un’altra pattuglia di carabinieri per essere censiti: nome cognome e testata di appartenenza (mai successo, neanche ai processi per terrorismo) e finalmente un prego si accomodi ma mi raccomando, in aula telefonino spento, niente foto e niente registrazioni. I colleghi delle tv se la passano peggio: non li fanno neppure entrare.

Noi della carta stampata ci dobbiamo sedere tra i banchi degli avvocati. Di solito i giornalisti in quest’aula - che è della Corte d’assise: il tribunale l’ha solo presa in prestito - vengono fatti accomodare all’interno delle gabbie degli imputati. Ma oggi le gabbie sono interamente avvolte da tende bianche e non si può entrare. «Sarebbe stato sgradevole - ci spiega un carabiniere - far sedere i giornalisti stranieri dietro le sbarre». Come dire che per i giornalisti italiani non si sente, invece, la necessità di simili riguardi.

Tanta attesa, tanta tensione, tanta paura di non trovare posto per un processo ai fantasmi. La paradossale mattinata a palazzo di giustizia mette a nudo il lato grottesco del nostro mondo dell’informazione: sapevamo tutti benissimo che non ci sarebbe stato nessuno e che non sarebbe successo niente, eppure siamo venuti lo stesso. Così, prima e dopo i nove minuti dell’«udienza di smistamento» (è questa, scopriamo, la denominazione della perdita di tempo) dentro e fuori dall’aula si assiste al seguente curioso spettacolo: ci sono i giornalisti stranieri che intervistano i giornalisti italiani e i giornalisti italiani che intervistano i giornalisti stranieri. Così in mancanza di Berlusconi, Ruby e compagnia, la star della giornata è Beppe Severgnini, il più noto fra di noi, anche all’estero. Anche l’unica contestazione del pubblico è rivolta a Severgnini: all’uscita del palazzo c’è un ringhioso signore che gli mostra la mano con le cinque dita ben aperte: beccati ‘ste pappine - gli dice - interista del c.

Eppure la surreale giornata giudiziaria-mediatica di ieri da una parte dimostra quanto sia sempre più straripante la personalità di Berlusconi: in grado di monopolizzare il palcoscenico anche quando non c’è. E dall’altra parte - chi può escluderlo - potrebbe essere un profetico anticipo di ciò che sarà questo processo: udienza a fine maggio, poi forse una a metà giugno, quindi pausa per le vacanze, ripresa a ottobre, poi magari scorporo del processo, metà al tribunale dei ministri e metà a Monza, nuovi depositi di atti e nuove citazioni, nuove udienze di smistamento e nuovo rinvio. Così diventerebbe perenne lo scarto avvertito ieri tra l’attesa e l’evento, e tutto finirebbe come sempre finisce in Italia: in un eterno stand by. Diremo forse un giorno: ma quando si saprà la verità su quella storia del bunga bunga?, e quel giorno saranno maggiorenni anche le figlie di Ruby.

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« Risposta #25 inserito:: Aprile 15, 2011, 04:32:57 pm »

15/4/2011

La politica una questione personale

MICHELE BRAMBILLA

Il presidente del Consiglio che riunisce i capigruppo di maggioranza e fissa il calendario dei prossimi impegni di governo aggiungendo – al processo breve appena messo in cassaforte – la legge sulle intercettazioni e la riforma della magistratura, è in fondo l’immagine di quella che è ormai diventata la politica italiana: una questione personale. E l’immagine è tanto più sconfortante per il Paese se si considera che più nessuno si stupisce di questa privatizzazione della vita pubblica. Ormai siamo tutti abituati, assuefatti, rassegnati. Che cos’è infatti diventata la politica italiana se non una battaglia pro o contro una sola persona, Silvio Berlusconi?

Tutto ruota attorno a lui. L’attività del governo e quella del Parlamento, le inchieste più importanti della magistratura, le manifestazioni di piazza e le battaglie dei giornali, le diatribe interne ai partiti.

Perfino la nostra tradizionale religione popolare, il calcio, ne è condizionata: ci si chiede quanti punti di gradimento valga uno scudetto, e quanti l’acquisto di Cristiano Ronaldo. Lui, lui, sempre e solo lui: in Italia non si parla d’altro e non ci si divide che sulla persona di Berlusconi.

Chi lo ama è pronto a difenderlo qualunque cosa faccia: dice che i processi sono montature delle toghe rosse, e se per caso si imbatte in una prova provata di colpevolezza, replica che così fan tutti, che c’è di male. Chi lo detesta lo ritiene responsabile di ogni male, a volte fino a rendersi grottesco. Nel film «La bellezza del somaro» di Sergio Castellitto c’è un tale che inveisce contro Berlusconi perché il distributore automatico delle bibite s’è inceppato. «Che c’entra Berlusconi?», gli domanda Laura Morante. «Berlusconi c’entra sempre», le viene risposto.

Mai nell’ Italia repubblicana una sola persona aveva così tanto occupato la scena, e così tanto monopolizzato la politica. Oggi la lotta è solo su una persona.

Ecco perché diciamo che ieri, quando Berlusconi ha riunito i capigruppo a Palazzo Grazioli, nessuno deve avere avuto un sobbalzo nel prendere atto che l’agenda del governo coincide con un’agenda personale. Sono mesi che le Camere non si occupano che delle faccende personali del premier. Così è parso normale che il presidente del Consiglio, con tutti i guai che ha l’Italia e con tutti i disastri che accadono ai nostri confini, abbia chiesto ai capigruppo una full immersion sui fatti propri: le intercettazioni telefoniche, il depotenziamento dei pubblici ministeri, la possibilità di punire i giudici.

«Abbiamo i numeri», pare abbia ripetuto il premier, ed è il ritornello tante volte sbandierato negli ultimi mesi. Sì, nonostante crisi e defezioni, il governo ha ancora i numeri. Ma per cosa li utilizza? Per portare a termine un programma? Per raccogliere il grido di aiuto lanciato da imprese e lavoratori? Per mantenere finalmente le vecchie promesse, meno tasse e Stato più leggero? Sarebbero le cose di cui il Paese ha bisogno, ma una politica ossessionata da una questione privata fa sì che i numeri servano, appunto, per risolvere una questione privata.

Nonostante la maggioranza tenga, nonostante la rotta dei suoi oppositori, Berlusconi non dà comunque, di sé e del suo governo, un’immagine vincente. Il Berlusconi di questi tempi non c’entra nulla con l’uomo che regalava un sogno agli italiani. Quel che si respira è piuttosto un clima cupo, rabbioso, di vendette e di rese dei conti. Diremmo un clima da ultimi giorni dell’impero, se non sapessimo che già tante volte si è sbagliato nel sottovalutare la vitalità di Berlusconi. Non saranno dunque gli ultimi giorni di governo di quest’uomo e della sua corte. Ma l’atmosfera crepuscolare c’è tutta, fosse anche il crepuscolo non di un leader, ma di un Paese tenuto in ostaggio da uno psicodramma.

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« Risposta #26 inserito:: Aprile 25, 2011, 12:15:36 pm »

18/4/2011

Milano, il cuore e la ragione

MICHELE BRAMBILLA

Il quartiere di Milano dov’è nato Berlusconi si chiama Isola, e se il premier non si offende e non equivoca diciamo che ai tempi era un po’ il quartiere della malavita. Una «mala» d’antan perfino un po’ romantica.

Una «mala» che aveva in una giovanissima Ornella Vanoni la sua chansonnière: un’associazione di cherubini, in confronto alla criminalità di oggi. L’Isola era un blocco enorme di caseggiati di ringhiera dai cortili comunicanti: chi non la conosceva ci si perdeva, chi la conosceva faceva perdere le tracce agli sbirri. La «mala» dell’Isola aveva un suo codice d’onore e nel primo dopoguerra un ladro che aveva ammazzato un poliziotto che lo inseguiva venne denunciato da tutti i colleghi ladri del quartiere, perché tra le regole c’era anche che un poliziotto non si tocca.

L’Isola era tuttavia popolata in gran parte da gente tranquilla che lavorava. Mamma Rosa andava a fare la spesa al mercato e il giovane Silvio già si dava da fare per diventare qualcuno: nel quartiere, oggi ristrutturato e di gran moda, c’è ancora qualcuno che ricorda quando il futuro premier arrivò un giorno con una Mercedes bianca frutto delle aspirapolveri che andava in giro a vendere. Era il primo segno dell’ascesa sociale e tutto il quartiere doveva vedere. Insomma Berlusconi è un’incarnazione tipica della milanesità, di laboriosità impegno sacrificio eccetera e basterebbe questo per capire perché Berlusconi tenga così tanto a Milano. Sente Milano come una parte si sé. Non a caso ha comprato il Milan e, se Fraizzoli non si fosse tirato indietro all’ultimo momento, qualche anno prima avrebbe comprato l’Inter. L’importante è Milano.

Silvio Berlusconi che scende in campo come ha fatto ieri al Nuovo – piazza San Babila, altro simbolo della milanesità – per appoggiare la campagna elettorale di Letizia Moratti è dunque anche questo, cuore e sentimento: chi non ci crede non ha capito l’uomo. Ma è comunque un cuore che batte dentro a un imprenditore, che come ogni imprenditore è anche calcolatore, il profitto e il risultato prima di tutto. Berlusconi scende in campo alle amministrative non solo perché queste sono elezioni dal grande significato anche politico (questo vale per tutti, anche per Torino Bologna eccetera): ma perché pensa che a Milano si gioca il futuro. È su Milano che Berlusconi sta o cade.

Dice la vulgata che questa è la capitale economica e finanziaria d’Italia, ma si tratta d’un luogo comune che rischia di far passare in secondo piano la centralità politica di Milano. Non solo perché è qui che nacquero il fascismo e la Dc (a casa dell’industriale Falck). Non c’è bisogno di sfogliare all’indietro i libri di storia, la cronaca recente ci dice che è a Milano che è nata Forza Italia e che il centrodestra ha fatto il grande balzo interrompendo, pure con il non eccelso Formentini, un’interminabile catena di sindaci di sinistra. È sempre a Milano che Berlusconi pronuncia il celebre discorso del predellino. A Milano che si prende in faccia una statuetta del Duomo. A Milano che hanno sede il Giornale, Libero e Mediaset. Milano è la città del potere berlusconiano e pure del suo contropotere, cioè di quella Procura che per il premier è sovversiva nientemeno che come le Brigate Rosse.

Quando nel 2006 Prodi costrinse Berlusconi a lasciare Palazzo Chigi, il centrodestra sembrava a pezzi. Oltre alle politiche, anche molte amministrative andarono male. Ma Milano no, non cadde: vinse Letizia Moratti, che fu allora l’ancora cui appigliarsi. Se teniamo Milano possiamo risorgere, pensò allora Berlusconi, ed è in fondo la stessa cosa, seppur rovesciata, che dice da anni Cacciari: «Se perde Milano, Berlusconi è finito».

Ecco, perdere la sua città è l’incubo del premier. Milano è stato il vento del centrodestra, la filosofia di vita e di politica da contrapporre a quella romanità che per un uomo del Nord è sinonimo di giochi di palazzo e distacco dal mondo produttivo. Dunque Berlusconi scende qui e ora in campo con il cuore e con la ragione: occorre fare qualsiasi cosa per non lasciare Milano «alle sinistre, ai magistrati, ai poteri forti».

Intendiamoci. Perdere Milano non è facile. Giuliano Pisapia, il candidato del centrosinistra, è una persona perbene, capace e stimata: ma che a Milano possa vincere un candidato che viene da Rifondazione comunista, sembra ancora fantascienza. Però Letizia Moratti fra i suoi meriti non ha quello di aver saputo tenere un buon feeling con la città; e poi c’è anche da vedere, al di là dei sondaggi che contano quello che contano, se i bunga bunga e questo incattivirsi dei toni non inducano davvero molti moderati a preferire casa propria alle urne. Anche una Moratti costretta al ballottaggio non sarebbe un bella immagine per il Pdl.

Ecco insomma perché Berlusconi si impegna personalmente in questa campagna amministrativa. Per non perdere Milano. E in fondo anche per poter far vedere che senza di lui in campo, non si vince.


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« Risposta #27 inserito:: Maggio 12, 2011, 11:04:15 pm »

Elezioni 2011

12/05/2011 - ELEZIONI 2011

Con la Letizia pasdaran vince il modello Santanchè

Addio aplomb, cambia stile ma nel nuovo ruolo pare a disagio. Carroccio defilato

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Mai avremmo immaginato di vedere Letizia Moratti come ieri. Di lei tutto si poteva dire tranne che fosse in sintonia con la politica urlata e un po’ killer dei nostri tempi.

Una politica fatta di insulti, di riesumazioni di peccati di gioventù, di dossieraggi. Il sindaco di Milano fino a ieri è stata tutt’altro e, se aveva difetti, erano di segno opposto: per quelli del suo schieramento, semmai, era troppo timida e troppo poco passionale, perfino algida, insomma inadeguata a stare sul palcoscenico, a scaldare i cuori, a strappare l’applauso; per i suoi rivali invece la freddezza era il segno di un irreale distacco dalla città e dal mondo, dai problemi della gente comune. In ogni caso – ripetiamo: fino a ieri – Letizia Moratti era, nel bene e nel male, una donna di addirittura eccessivo self control, anzi di gelido aplomb.

Ieri abbiamo vista un’altra Moratti. Alla fine del confronto su Sky con il suo rivale candidato sindaco, Giuliano Pisapia, ha colpito basso, con un’arma segreta che evidentemente aveva tenuto in serbo durante tutta la trasmissione per poter chiudere con un colpo di teatro, anzi con un colpo da pugile che avrebbe dovuto mettere ko il suo avversario. Il sindaco di Milano ha così abbandonato il suo bon ton per passare all’attacco personale. Diciamo subito che in questo ruolo Letizia Moratti è parsa evidentemente a disagio. Non era lei, e lo si è visto da com’erano contratti i suoi lineamenti e da come fosse assente, sotto i suoi panni, il sacro furore di una Santanchè. Oltretutto, dev’essere anche stata imbeccata male, perché a quanto pare il dossier sbandierato –una condanna per furto d’auto – era una patacca.

Il cambio di marcia della Moratti comunque c’è stato, ed è evidentemente un ribaltone rispetto all’inizio della campagna elettorale, quando il sindaco di Milano aveva posto un “o io o lui” alla presenza in consiglio comunale di Roberto Lassini, il candidato del Pdl che ha tappezzato Milano con i manifesti “Via le Br dalle Procure”. E forse non è un caso che il ribaltone abbia seguito di poche orel’uscita, sul Giornale, di un editoriale del direttore intitolato “Elezioni come un ring. E’ giusto suonarle”. Evidentemente nel centro destra sono convinti che per raggiungere la pancia del proprio elettorato un Lassini è più efficace di un’educata signora della Milano bene; e così è partito un ordine di scuderia. Letizia Moratti ha dovuto obbedire.

Ma perché s’è deciso questo inasprimento dei toni? Da sinistra si è subito risposto così: il centro destra a Milano è nervoso perché ha paura di perdere. Che lo dica la sinistra, è ovvio, Ma è anche plausibile? A prima vista, una sconfitta del centro destra a Milano appare quasi impossibile. Però ci sono alcuni numeri e alcuni fatti che turbano i sonni del Cavaliere, il quale sa bene quali disastrose conseguenze avrebbe per lui la perdita di Milano. Cominciamo dai numeri.

Nel 2006 Letizia Moratti vinse al primo turno con il 51,97 per cento: ma aveva nella propria coalizione l’Udc e i finiani, che ora non ci sono più. Il margine appare ancora più esiguo se lo si conteggia, anziché in percentuale, in voti: 35 mila in più del candidato del centrosinistra, che era il debolissimo Bruno Ferrante. Ma andiamo avanti. In quelle elezioni comunali, il Pdl prese il 41,8 per cento; alle politiche del 2008 è sceso al 36,9; alle regionali del 2010 al 36. Sempre alle regionali del 2010, e alle provinciali del 2009, a Milano città il candidato del centro sinistra Filippo Penati ha superato quelli del centrodestra, Roberto Formigoni e Guido Podestà.

Insomma, anche se il Cavaliere ha fatto girare un sondaggio dei suoi, che dà la Moratti vincente al primo turno con il 52 per cento, i numeri reali non sono del tutto rassicuranti. E poi c’è ci sono quelli che abbiamo chiamato “alcuni fatti”. Si potrebbe anche dire che per il momento sono, più che fatti, suggestioni.

Stiamo parlando dell’atteggiamento del tradizionale alleato, la Lega. Quanta voglia ha di impegnarsi per la Moratti? I leghisti non la amano. Bossi non è andato ai suoi comizi, al massimo ha acconsentito che lei venisse a uno dei suoi. Ma se queste sono appunto suggestioni, ci sono anche dei fatti. E i fatti dicono che in queste amministrative c’è effettivamente una prova di disimpegno da parte della Lega. In Lombardia il Carroccio propone 70 candidati sindaco e, di questi, 49 corrono da soli. In sette importanti comuni – Desio, Rho, Gallarate, Cassano d’Adda, Malnate, Nerviano e San Giuliano Milanese – la Lega ha rotto con il Pdl. Bossi in questa campagna elettorale sta privilegiando soprattutto questi comuni, è stato certamente più volte (quattro) a Gallarate che a Milano: vorrà dire qualcosa? E vorrà dire qualcosa anche quella battuta che Maroni – uno che non parla mai a caso – s’è lasciato scappare appunto a Gallarate? Ha detto che la scelta di rompere con il Pdl in quel comune – che, non dimentichiamolo, è in provincia di Varese, la culla del leghismo – “ci riporta alle origini e indica anche una possibile strada per il futuro”. Non è chiaro se la Lega lanci questi messaggi perché davvero sia tentata di rompere, oppure se si tratti delle solite strategie interne all’alleanza. Ma che Berlusconi cominci a essere irritato, l’ha scritto anche il Giornale.

Ecco insomma le preoccupazioni del centro destra. Preoccupazioni che hanno portato avanti la linea dei falchi. Una linea però rischiosa, tanto che la prima uscita della Moratti alla Gattuso pare aver prodotto un autogol.

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« Risposta #28 inserito:: Maggio 17, 2011, 05:13:03 pm »

Elezioni 2011

17/05/2011 - RETROSCENA

Il fantasma della Santanchè sulla sconfitta di Letizia

Malumori e rabbia per la linea "cattiva": abbiamo parlato troppo per slogan

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Alla fine Letizia Moratti ha tirato fuori le unghie. L’ha fatto a a mezzanotte meno dodici minuti, quando dopo una giornata passata chiusa in casa è andata alla sede del suo comitato elettorale, in via Romagnosi, per commentare il disastroso risultato. E nel commentarlo, appunto, ha tirato fuori le unghie: ma non come le avevano consigliato il Giornale e la Santanchè. Le unghie le ha tirate fuori non per graffiare Pisapia e il centrosinistra, ma per colpire Berlusconi e Bossi, cui ha attribuito la reponsabilità della sconfitta. Naturalmente lei smentirà e dirà che questa è una malevola interpretazione. Ma per chi l’ha sentita non c’era molto da interpretare.

La Moratti ha parlato pochi minuti, meno di cinque, ma è riuscita a ripetere un’infinità di volte che il centrodestra deve aprire «una fase nuova» e che i moderati milanesi «non si sono sentiti tutti rappresentati»; che il voto di ieri è stato «un segnale politico che dobbiamo saper cogliere». Non ha attaccato la stampa ostile, e i magistrati men che meno; non ha dato dell’estremista a Pisapia, anzi si è congratulata con la sinistra per l’ottimo risultato; non ha insomma cercato una causa «esterna» al mezzo (per ora è solo mezzo) tracollo elettorale. È stata fin troppo chiara nel ripetere più volte che, se i milanesi hanno votato così, la colpa è del centrodestra. Ed è stata fin troppo chiara anche nel far capire che questa colpa sta nell’estremizzazione, nella radicalizzazione dello scontro voluta e imposta dai falchi del Pdl; sta nelle divisioni della coalizione, cioè nelle liti più o meno conclamate tra Pdl e Lega; sta infine nella politicizzazione di queste amministrative. «Abbiamo parlato troppo per slogan», ha detto la Moratti; e ancora: «Si è parlato troppo poco dei programmi per la città e di che cosa ha fatto la giunta in questi cinque anni».

E chi ha voluto questa politicizzazione? Chi ha trasformato l’elezione del sindaco di Milano in un referendum pro o contro il capo del governo? I falchi del partito ieri sera dicevano ancora che è stato il fronte anti-berlusconiano il primo ad alzare il livello dello scontro e a dare un valore politico al voto amministrativo; ma lei no, la Moratti ha detto che è il centrodestra che «deve fare una profonda riflessione» e che deve aprire «da domani una nuova fase politica», in grado «di riaggregare tutte le forze moderate». Letizia Moratti alla mezzanotte di ieri è parsa come una donna che non ha più niente da perdere e che quindi non ha più alcun timore nel tornare a essere se stessa. Fino a sabato ha dovuto recitare una parte non sua, tirando fuori dossier per screditare l’avversario, ricorrendo all’archeologia giudiziaria, cantando e ballando sul palco, infine parlando a un comizio leghista con i toni di un Borghezio.

Tutto questo ha fatto il sindaco di Milano nei giorni scorsi, interpretando un personaggio che non le appartiene. Le hanno detto evidentemente di fare così, e di sicuro non gliel’hanno detto quelli del suo staff, ieri furibondi con la linea Giornale-Santanchè. Gliel’hanno detto i falchi del Pdl e in buona sostanza quella era la linea dello stesso Berlusconi, il quale è sceso in campo in prima persona impostando la campagna elettorale sul «pericolo comunista», sui magistrati che sono un cancro, su quelli di sinistra che non si lavano. Una strada che Letizia Moratti ha percorso obtorto collo perché le hanno fatto credere che fosse l’unica percorribile per vincere. Ma ora che s’è visto che, al contrario, certe sparate hanno stancato e spaventato tanti moderati - non è casuale il flop dell’ultrà Lassini, quello dei manifesti «Via le Br dalle Procure» - la Moratti ha deciso di svoltare. E non l’ha fatto perché s’illuda di convincere Berlusconi ad abbassare i toni e a «riaggregare» tutte le forze moderate, cioè Casini e Fini.

Letizia Moratti è una donna troppo intelligente per non capire che in due settimane è impossibile trovare una «nuova politica» in grado di far cambiare idea ai milanesi. Ed è troppo intelligente anche per non capire che, dopo le sue parole di ieri sera, sarà ancor meno amata dai leghisti - che non l’hanno mai amata - e dallo stesso Pdl, che è diviso tra chi non l’ha mai amata e chi non l’ha mai sopportata. No, non è perché si illuda di poter convertire il centrodestra che ieri sera il sindaco uscente di Milano ha parlato così. È, molto più semplicemente, perché Letizia Moratti ha deciso che, se deve tornare a casa, è meglio tornarci con la propria faccia e con la propria anima.

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« Risposta #29 inserito:: Maggio 19, 2011, 06:05:16 pm »

19/5/2011

Il grande comunicatore senza parole

MICHELE BRAMBILLA

Da tre giorni non si hanno notizie di Berlusconi. Lunedì sera il suo portavoce Paolo Bonaiuti aveva fatto sapere che il presidente avrebbe espresso le proprie valutazioni il giorno dopo, cioè martedì, «a risultati definitivi». È passato martedì, è passato pure mercoledì ma le valutazioni del presidente sul voto restano un mistero di cui è probabilmente a conoscenza solo qualche stretto collaboratore. Al popolo italiano, e perfino a quello delle libertà, non è dato sapere che cosa pensi il premier su un risultato elettorale che ha già provocato un mezzo terremoto.

È un silenzio molto strano. Berlusconi è, per definizione, il Grande Comunicatore: o, secondo il professor Alberoni, quantomeno un Grande Seduttore. In ogni caso, un uomo che ha fatto del proprio rapporto diretto con il popolo il suo principale punto di forza. Berlusconi non si è mai sottratto alla pubblica esposizione, nemmeno quando si è trovato sotto scacco. Quand'è stato in difficoltà, ha sempre chiamato a raccolta la sua gente e ha contrattaccato, si è difeso con le unghie e con i denti, insomma ha sempre parlato, magari urlato. Mai si era nascosto come pare si stia nascondendo in questi giorni.

E come pare sia intenzionato a fare anche nei prossimi, se sono vere le indiscrezioni secondo le quali Berlusconi non si farà vedere a Milano nelle due settimane (che ormai sono diventate meno di dieci giorni) che separano dal ballottaggio.

Perché il Grande Comunicatore ha deciso di non comunicare e il Grande Seduttore ha deciso di non tentare neppure la seduzione? La prima risposta, malevola, è che Berlusconi vorrebbe evitare Milano perché sente aria di sconfitta, e sulla sconfitta non vuol lasciare le impronte. La seconda, ancora più malevola, è che il premier avrebbe capito che gli conviene stare alla larga da Milano, visto che la sua personale discesa in campo a fianco della Moratti ha prodotto più danni che benefici. Saranno anche cattiverie, ma resta un silenzio che - quand'anche il premier parlasse oggi - sarebbe comunque durato troppo.

Che cosa sta insomma succedendo non solo a Berlusconi, ma a tutta la sua «macchina da guerra» mediatica? Lui tace, le sue televisioni pure. Lunedì pomeriggio negli studi di Mediaset si assisteva alla surreale scena di trecento giornalisti sintonizzati tutti su Rai, La7 e Sky perché nessun canale della Casa si occupava di ciò di cui si stava occupando tutta Italia: le elezioni. Quando poi sono arrivati i tg, Emilio Fede ha impiegato quattro minuti e venti secondi prima di dare il risultato di Milano, e il Tg5 delle venti non dev'essere stato considerato molto appetibile, visto che ha fatto il 19,28 per cento di ascolti, quasi un record negativo. Tg a parte, solo alle 23,30 l'argomento è stato preso in consegna (su Canale 5) da Alessio Vinci a Matrix. Dopo di che, s'è tornato a parlar d'altro. Martedì sera Matrix si è occupato di sballo e sesso fra i giovani, ieri sera di Melania e Avetrana.

Anche il Milan, che insieme con la tv è stato il primo grande propulsore di Berlusconi, sembra non trainare più. Ha vinto lo scudetto, ha festeggiato a Milano proprio alla vigilia delle elezioni, eppure il suo patron ha perso. Pare quasi un segno dei tempi. Paradossalmente, Berlusconi appare in difficoltà proprio sul terreno che gli era sempre stato più congeniale, quello della comunicazione. Anche l'ammissione - da parte della stessa Moratti, ma pure dell'amico Fedele Confalonieri - di aver sbagliato i toni della campagna elettorale rientra in questo nuovo, e un po' sorprendente, scenario di crisi della capacità di comunicare.

Con questo Berlusconi silente, parlano le seconde e terze linee. E spesso parlano più per far danni che per dare un contributo a una storica rimonta. Molti del Pdl accusano la Moratti e incredibilmente ripetono la panzana - sentita non so quante volte da lunedì pomeriggio ad oggi - secondo la quale il candidato sindaco avrebbe preso meno voti delle liste che la sostenevano (al contrario, la Moratti ha preso 273.401 voti, le liste della coalizione 257.777). Altri accusano i ciellini, che non si sarebbero impegnati abbastanza. Altri rovesciano sui leghisti l'accusa di freddezza. L'immagine che ne esce è quella di una nevrotica ricerca del capro espiatorio che sollevi il grande capo da ogni responsabilità; e, al tempo stesso, l'immagine di una squadra divisa, che si appresta a giocare il secondo tempo in stato confusionale.

Lui, per ora, tace. Vedremo se ancora una volta sarà capace di uno scatto dei suoi. Il primo dovrebbe essere quello di liberarsi di cortigiani di un così basso livello. Se non è troppo tardi.

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