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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96227 volte)
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« inserito:: Giugno 10, 2007, 10:42:31 pm »

Una crisi grave e le riforme che non arrivano

Se la politica è solo potere

di Sergio Romano

 
Qualche giorno fa abbiamo scritto che l'Italia d'oggi ricorda quella del 1992: lo stesso disgusto per gli affari dei partiti, la stessa noncuranza della classe politica per i segni della tempesta che si sarebbe abbattuta di lì a poco sulla sua testa. Qualcuno ha osservato che il confronto è improprio. Non esiste un partito, come allora la Lega, pronto a cavalcare l'indignazione popolare. E non esiste un gruppo di procuratori convinti di poter provocare, con gli strumenti della loro professione, la rivoluzione morale del Paese. È vero. I confronti sono quasi sempre parziali e imperfetti. Ma a me sembra che la situazione sia per certi aspetti peggiore e proverò a spiegarne le ragioni.

Nel 1992 molti italiani capirono che la crisi non era un semplice incidente di percorso e che non poteva essere risolta con la formazione di un nuovo governo e la nascita di qualche nuovo partito. La corruzione e gli scandali erano i sintomi esterni di una crisi costituzionale che aveva investito l'intero sistema politico. La Carta era invecchiata e la Costituzione materiale aveva progressivamente creato un Paese in cui il potere dello Stato e degli organi autorizzati a esercitarlo era stato usurpato da partiti, sindacati, interessi corporativi, famiglie professionali e criminali, istituzioni pubbliche non legittimate da un pubblico mandato come, per l'appunto, l'ordine giudiziario. Il fatto stesso che un organo tecnico come la Banca d'Italia abbia fornito al Paese, da allora, due presidenti del Consiglio, un presidente della Repubblica, due ministri del Tesoro e un ministro dell'Economia, dice meglio di qualsiasi analisi quanto grave e profonda fosse la malattia del sistema politico italiano.

Non bastava quindi cambiare governi. Occorreva rifare la Costituzione. Furono inutilmente create due commissioni bicamerali. Vennero esaminati e dibattuti tutti i sistemi costituzionali delle maggiori democrazie occidentali. Fu tentata la strada parlamentare con una riforma costituzionale del centrosinistra e una riforma più incisiva del centrodestra. Ma la prima è parziale e difficilmente applicabile, mentre la seconda è stata distrutta da un voto popolare frettoloso e disinformato. Il risultato è zero. La classe politica ha buttato via quindici anni della Repubblica per girare attorno a un problema che non aveva alcuna intenzione di affrontare con metodo e coraggio. Non è tutto. Quindici anni dopo gli scandali di Tangentopoli scopriamo che questa classe politica sta facendo esattamente il contrario di ciò che dovrebbe fare. Anziché lavorare al governo del Paese e alla riforma dello Stato occupa il potere come un territorio conquistato e sta elargendo a se stessa, come certi ecclesiastici alla vigilia della Riforma, sinecure, prebende, manomorte e vitalizi. Anziché suscitare rispetto per le istituzioni e incarnare la dignità della cosa pubblica, preferisce la piazza o gli studi televisivi al Parlamento. E quando decide di partecipare a una seduta, tratta l'Aula come un chiassoso refettorio scolastico. Certe esibizioni parlamentari degli scorsi giorni dimostrano che parecchi politici hanno ormai perduto il senso della realtà e non capiscono quali sentimenti questi spettacoli stiano suscitando nella società italiana.

Danno la sensazione di pensare che la politica sia rissa, alterco, scambio d'ingiurie o, più semplicemente, dichiarazioni irresponsabili e irriflessive, rilasciate a caldo di fronte a un microfono per segnare un punto contro l'avversario del momento. Si battono per la conquista o la conservazione del potere, e non si rendono conto che stanno perdendo il Paese.


10 giugno 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 09, 2009, 11:14:44 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 17, 2007, 11:43:03 am »

Gli intrecci tra finanza e politica

Minimizzare è un errore

di Sergio Romano


Massimo D’Alema ha ragione quando deplora queste intercettazioni telefoniche, appese come panni sporchi alle finestre del Paese di fronte allo sguardo «trascurato» della magistratura. Non è bello che una conversazione privata, soprattutto se non contiene indizi di reato, venga ascoltata, trascritta e gettata in pasto alla pubblica opinione. È grave che queste intrusioni surrettizie nella vita privata degli italiani stiano diventando lo strumento preferito della magistratura inquirente. Ed è ancora più grave che servano ad accrescere l’instabilità politica di un’Italia già così faziosa e litigiosa.

Ma temo che il vicepresidente del Consiglio, in questo caso, non abbia colto il punto. Certe intercettazioni assomigliano a una delazione anonima e dovrebbero suscitare un moto di sdegno. Ma se apro una lettera anonima e scopro che contiene informazioni importanti per la sicurezza e il buon governo del Paese, debbo forse stracciarla per ragioni di principio? Posso deplorare l’uso eccessivo delle intercettazioni e il modo in cui vengono divulgate. Posso auspicare una legge che protegga la vita privata degli italiani da questi pubblici linciaggi. Ma non posso ignorare che la lettura di certe conversazioni e di alcuni verbali d’interrogatorio (come quello di Stefano Ricucci sui legami esistenti fra le scalate dell’estate del 2005) ha spalancato le finestre del palazzo e ha rivelato l’esistenza di rapporti su cui è necessario fare chiarezza.

Abbiamo scoperto anzitutto che esiste al vertice del Paese, fra gli uomini della politica e quelli degli affari, una familiarità non meno «indecente» dello spettacolo a cui D’Alema ha fatto riferimento nella sua intervista al TG5. Quando trattano con i loro amici, alcuni leader di partito, membri del governo e parlamentari parlano il linguaggio del bar, della caserma e dello stadio. Non è semplicemente una questione di stile e di buona educazione. Il linguaggio, in questo caso, dimostra che non hanno il sentimento della loro dignità e della distanza che dovrebbe sempre esservi, anche in un sistema democratico, fra coloro che rappresentano interessi pubblici e coloro che rappresentano interessi privati.

Abbiamo scoperto, in secondo luogo, che alcune conversazioni vanno molto al di là della semplice informazione. Posso capire che un uomo politico non voglia apprendere dai giornali, all’ultimo momento, la notizia di una fusione o di una acquisizione che modifica il panorama della finanza nazionale. Ma vi sono circostanze in cui sembra diventare un interessato collaboratore. Accade quando il segretario dei Ds Piero Fassino chiede al presidente di Unipol Giovanni Consorte come comportarsi con il presidente della Banca Nazionale del Lavoro Luigi Abete quando questi gli farà visita, di lì a poco.

Accade quando il senatore Nicola Latorre accetta di trasmettere a Fassino i ringraziamenti dell’immobiliarista Stefano Ricucci per un non specificato favore. E accade infine quando D’Alema sembra essere il tramite di un contatto fra Consorte e il parlamentare europeo dell’Udc Vito Bonsignore per una questione di azioni della Bnl detenute da un’azienda della famiglia di quest’ultimo. È probabile che in nessuno di questi casi vi sia l’ombra di un illecito. Ma l’opinione pubblica ha il diritto di chiedersi se e quali interessi si nascondessero dietro una tale pasticciata confusione di ruoli. Non è tutto.

Dalla lettura di queste intercettazioni gli italiani hanno appreso che nei tre grandi arrembaggi del 2005 (alla Bnl, alla Banca Antonveneta e alla Rcs-Corriere della Sera) gli stessi finanzieri facevano i loro affari ora con la sinistra, ora con la destra. E hanno il diritto di chiedersi se i grandi partiti siano sempre pronti a litigare in pubblico, ma sempre altrettanto disposti a perdonare le loro rispettive colpe in privato.

17 giugno 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Agosto 06, 2007, 11:04:17 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 29, 2007, 12:04:17 pm »

Veltroni e la riforma della Costituzione

Il paradosso italiano

di Sergio Romano


Per candidarsi alla guida del Partito democratico, Walter Veltroni avrebbe potuto limitarsi al discorso di Torino: un buon programma, pieno di indicazioni interessanti e condito di qualche inevitabile enfasi retorica. Ma con l’articolo apparso nel Corriere del 24 luglio ha preferito dire al Paese che i problemi dell’Italia sono anzitutto costituzionali. Non è sufficiente, e neppure onesto, proporre soluzioni economiche e sociali quando l’autore del programma sa che il sistema politico non gli permetterà di realizzarle. Se la democrazia italiana attraversa una fase difficile e i suoi esponenti stanno perdendo il consenso della nazione, molto è dovuto al divario che separa ormai le promesse dai risultati, le parole dai fatti.

L’elettore è stanco di partiti e governi che gli garantiscono programmi attraenti e gli servono ogni giorno compromessi mediocri o, peggio, l’opposto di quello che avevano preannunciato. Veltroni ha avuto il merito di comprendere che il programma economico e sociale andava completato con un programma di riforme istituzionali. Anziché attendere un altro momento o un’altra sede, ha deciso che non si può essere candidati alla guida di un partito, in questo momento, e trascurare il nodo cruciale della crisi italiana, la causa della distanza che ci separa ormai dalle maggiori democrazie occidentali. Dietro i molti problemi che non riusciamo a risolvere, se non con misure insufficienti e grande ritardo, vi sono il bicameralismo perfetto, l’insabbiamento in Parlamento delle misure governative, gli scarsi poteri del premier, le norme che favoriscono la proliferazione dei gruppi parlamentari e la piaga dei piccoli partiti, per i quali sopravvivere è più importante che governare. In queste condizioni un altro programma di 281 pagine sarebbe un’offesa al buon senso degli italiani. Veltroni, naturalmente, ha corso un rischio.

Puntualmente, nei giorni seguenti, sono giunte le prime reazioni negative: un articolo di Andrea Fabozzi sul manifesto del 26, in cui è detto che la cura somministrata dal sindaco di Roma assomiglia a una «dose di veleno», e un editoriale di Piero Sansonetti su Liberazione dello stesso giorno, in cui la riforma costituzionale è definita «gollista». Vi saranno altre reazioni, certamente, anche sul versante opposto. Chiunque sostenga che l’Italia ha bisogno di essere governata verso la modernità è inevitabilmente destinato a scontrarsi con coloro a cui questo sistema politico offre una quota di potere assurdamente superiore alle loro dimensioni. Esistono tuttavia anche quelli che riconoscono la necessità di una grande riforma, che l’hanno più volte auspicata e che hanno addirittura, come l’ultimo governo di centrodestra, cercato di realizzarla.

Si chiamano, per restare nell’orbita dei leader, Amato, Berlusconi, D’Alema, Fassino, Fini, Prodi, tutti convinti, per averne fatto diretta esperienza negli anni passati al governo, che il sistema politico italiano è uno dei peggiori in Europa e certamente il meno adatto a tenere il passo con quelli dei nostri maggiori partner. Ma l’ennesimo paradosso italiano vuole che ciascuno di essi, quando è messo alle strette, scelga di tirare avanti alla giornata con i propri alleati, anche se ostili alle riforme, piuttosto che ricercare un accordo più largo con coloro che le desiderano.

Esiste insomma un «partito della nuova Costituzione» che rappresenta la maggioranza del Paese ma è tenuto in ostaggio da una minoranza conservatrice di sinistra e di destra. Oggi, dopo l’articolo di Veltroni, c’è sul tavolo delle riforme il suo decalogo. E’ ora che gli altri accettino di sedersi e lavorare insieme alla modernizzazione del sistema politico.

29 luglio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 06, 2007, 10:16:18 am »

La forza di Prodi

di Sergio Romano 


Le ultime dichiarazioni di Romano Prodi ricordano quelle con cui Silvio Berlusconi elencava i meriti del suo governo e prometteva che avrebbe tirato avanti sino alla fine della legislatura. Ma il presidente del Consiglio non ha torto. È parso parecchie volte sul punto di cadere, ma ha superato una crisi e ne ha sfiorate altre senza perdere l’equilibrio. Come ha ricordato Massimo Franco sul Corriere di ieri, Prodi e il leader dell’opposizione si reggono a vicenda.
Senza l’ombra incombente del secondo, il primo, forse, sarebbe già stato abbandonato da una parte della sua maggioranza.

Senza un governo traballante che sembra sul punto di crollare da un momento all’altro, Berlusconi comincerebbe a sentire sul collo il fiato caldo di coloro che hanno una gran voglia di rimettere in discussione la sua leadership. In altre parole Prodi può manifestare sicurezza perché in una democrazia dei partiti, come è ancora quella italiana, le crisi scoppiano generalmente quando i registi, dietro le quinte, hanno le grandi linee di un progetto e ritengono giunto il momento di metterlo in cantiere. Oggi nessuno sembra avere una soluzione di ricambio. La sinistra massimalista parla per mettere agli atti le sue posizioni radicali. Ma non vuole rendersi responsabile del ritorno di Berlusconi al governo ed è pronta a negoziare qualche compromesso.

Organizzerà dimostrazioni e continuerà a proclamare il suo dissenso, ma farà del brinkmanship, come veniva chiamata, durante la guerra fredda, l’arte di spingersi sino al ciglio del burrone e di fermarsi al momento opportuno. Buona parte del Parlamento, d’altro canto, non vuole elezioni anticipate. Il presidente della Repubblica non desidera che gli italiani tornino alle urne con questa pessima legge elettorale. L’accordo su una nuova formula è ancora lontano. E Berlusconi ha continuamente oscillato in questi mesi fra due proposte egualmente impraticabili: un governo di larghe intese e le elezioni anticipate. Esiste sempre, naturalmente, la possibilità di una crisi al buio, provocata da un errore di calcolo o da un incidente di percorso. Ma per ora, e sino a quando non esisterà un’alternativa, Prodi può restare a Palazzo Chigi.

Qualcuno, teoricamente, potrebbe suggerire un altro governo di centrosinistra con un nuovo presidente del Consiglio. Ma esiste una persona disposta ad accollarsi l’onere di guidare una maggioranza così risicata e litigiosa? Chi aspira alla successione di Prodi preferisce ereditare la carica in altre circostanze. Vi sono situazioni in cui la debolezza può produrre una sorta di temporanea invulnerabilità. Se la stabilità è un obiettivo desiderabile, Prodi, nei limiti in cui la parola può applicarsi alla politica italiana, è «stabile» e può compiacersene. Ma la stabilità è una virtù soltanto quando permette di affrontare i problemi maggiori, quelli per cui occorrono continuità e coerenza.

L’Italia ha bisogno di un governo che promuova la riforma delle istituzioni, realizzi grandi infrastrutture, riduca drasticamente i costi della politica, riformi lo Stato assistenziale senza usare per le pensioni il metodo del contagocce, rinunci ad aumentare le entrate con la pressione fiscale anziché con la riduzione della spesa pubblica. Un governo «stabile » che non riuscisse in questo compito assomiglierebbe al lungo governo di Silvio Berlusconi: un’esperienza che èmeglio non ripetere.

05 agosto 2007
 da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 19, 2007, 03:23:04 pm »

La Biagi e gli attacchi di sinistra ad Angius

Le leggi dettate dall'ideologia

di Sergio Romano

 
Gavino Angius, senatore di Sinistra democratica (il gruppo che si è staccato dai Ds di Piero Fassino e non intende collaborare alla creazione del Partito democratico) ha dichiarato al Corriere che l’attacco di Rifondazione comunista contro la legge Biagi sul mercato del lavoro è «sbagliato e strumentale (...) figlio di una degenerazione propagandistica che ha del grottesco».

Non è vero, secondo Angius, che quella legge abbia prodotto un’ondata di precariato: «In questi anni il lavoro regolare, ancorché flessibile, è aumentato per milioni di giovani. Merito della legge Treu e in parte anche della Biagi. In questo modo si è contrastato in parte il lavoro nero. Perciò eliminare queste leggi sarebbe un’operazione folle».

Nella sostanza questi paiono argomenti ragionevoli, sostenuti nelle scorse settimane da studiosi e uomini politici di diverso colore, spesso con dati comparativi sulla situazione italiana e quella di altri Paesi dell’Unione Europea.

I sostenitori di tesi opposte dovrebbero replicare con altri argomenti e soprattutto con altri dati statistici.

Ma le parole di Angius al Corriere hanno il vizio di provenire da un senatore di sinistra, vale a dire da un uomo che dovrebbe affermare esattamente l’opposto. Scatta così ancora una volta il meccanismo delle contrapposizioni ideologiche e soprattutto dei sospetti.

Con un articolo di Rita Gagliardi, Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, si chiede quali siano le reali intenzioni di Angius. E’ «uno spregiudicato uomo di manovra »? E’ una quinta colonna del Partito democratico? E’ un tenace avversario della «Cosa Rossa», la nuova formazione che dovrebbe nascere dall’incontro tra Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica? Appartiene a quella schiera di socialdemocratici europei (Blair e Brown, per esempio) che sono diventati centristi, liberisti, social- liberali? Non si rende conto che la battaglia contro la legge Biagi è «una grande insostituibile battaglia di civiltà»?

Nulla di nuovo, soprattutto in un Paese in cui i principi sono più importanti delle soluzioni, gli slogan contano più degli argomenti e le leggi sono buone soltanto quando si conformano ai dettati dell’ideologia. In queste eterne «grandi manovre» tra forze che si fanno e si disfano in nome del Vero e del Giusto, Treu e Biagi sono soltanto campi di battaglia, munizioni per la lotta, strumenti per mettere alla prova l’ortodossia del dissidente e dell’eretico.

La vittima di questa ennesima faida italiana è l’economia nazionale. Dovremmo parlare delle ragioni per cui una legge, probabilmente utile negli anni Settanta (lo Statuto dei lavoratori), sia poco adatta a regolare un mercato che le nuove tecnologie e la globalizzazione hanno radicalmente cambiato.

Dovremmo chiederci quale siano le esigenze del Paese oggi e come sia possibile conciliare la domanda di stabilità dei lavoratori con il bisogno di flessibilità delle imprese.

Dovremmo verificare i risultati di una legge con le cifre alla mano, fare i necessari aggiustamenti, tenere d’occhio i risultati piuttosto che gli schemi intellettuali.

Ma la politica italiana, a sinistra come a destra, preferisce i proclami ideologici e le reciproche accuse. Divinizzata dalla destra al di là dei suoi meriti, la legge Biagi viene ora demonizzata da una sinistra massimalista che ignora i suoi risultati e non tiene conto dei suoi limiti. Questa politica non vuole cittadini elettori. Vuole soltanto seguaci credenti e obbedienti, sempre pronti a manifestare e a contro-manifestare. Peccato che altri Paesi nel frattempo abbiano altri metodi di lavoro e allunghino con il loro passo la distanza che li separa dall’Italia.

19 agosto 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 16, 2007, 11:47:30 am »

Il nemico in casa

di Sergio Romano
 

Che cosa faceva Beppe Grillo ieri alla festa milanese dell’Unità?

Il comico genovese non è soltanto il fustigatore della politica italiana. A Bologna ha dichiarato che non vuole fondare un partito. Vuole distruggerli tutti. Nel suo sito e nelle sue performance non ha fatto distinzioni e non ha trattato gli esponenti dei Ds meglio di quelli di altri partiti. Che cosa faceva dunque, con un suo spettacolo, alla festa annuale di un organismo che è pur sempre, nelle ossa e nel sangue, l’erede del Pci, vale a dire di un partito che fu contemporaneamente, per i suoi fedeli, Dio, patria e famiglia? Un incidente di calendario? È possibile.

Gli organizzatori della Festa lo avevano invitato verosimilmente prima del V-day e hanno forse ritenuto che la cancellazione dell’evento sarebbe stata interpretata come una manifestazione di stizza o codardia. Beppe Grillo, dal canto suo, potrebbe avere deciso di accettare la sfida e stare al gioco. È un provocatore, conosce l’arte del palcoscenico, e ha scommesso con se stesso che avrebbe conquistato e sedotto persino i diessini milanesi. Un comico in tournée sceglie il suo itinerario secondo le dimensioni, l’acustica e la notorietà dei teatri in cui dovrà recitare. La Festa dell’Unità è stata per molti anni il Circo Massimo della politica italiana. Grillo ha scelto il teatro e il suo pubblico, non l’impresario. E ha vinto la scommessa. Eppure dietro l’invito dell’impresario potrebbero esservi motivi su cui vale la pena di spendere qualche riflessione.

Come tutti i partiti, anche i Ds sono preoccupati da un fenomeno che sta strappando al loro controllo una parte importante della società. Ma hanno un particolare motivo d’inquietudine. Fin dalla sua nascita, il partito da cui provengono si è considerato depositario di una grande promessa e titolare della opposizione al sistema politico ed economico. Quando un altro partito ha cercato di conquistare le masse, i comunisti hanno difeso il monopolio della protesta e hanno combattuto duramente i concorrenti. Il loro scontro con la socialdemocrazia e con il fascismo, negli anni Trenta, fu politico e strategico ancor prima che ideologico. Non potevano tollerare che un altro partito s’impadronisse delle piazze, delle fabbriche, del cuore delle ultime generazioni.

È probabile che non abbiano dimenticato la brutta esperienza della contestazione, alla fine degli anni Sessanta, quando temettero di perdere la federazione giovanile e i sindacati. Non vorrebbero che Grillo fosse, con nuovi ceti sociali, l’antesignano di un nuovo «sessantotto », e temono i suoi comizi più di qualsiasi altro partito. Ma i comunisti e i loro eredi hanno sempre dato prova di un robusto e spregiudicato realismo politico. In Germania, durante la Repubblica di Weimar, il partito comunista tedesco scese in piazza, soprattutto a Berlino, insieme al partito nazional- socialista. Da Mosca, quando si accorse che Mussolini, con la guerra d’Etiopia, aveva conquistato il consenso della grande maggioranza degli italiani, Togliatti lanciò un messaggio ai «fratelli in camicia nera». Alla fine del 1946, mentre il movimento dell’Uomo Qualunque sembrava destinato a grandi successi, lo stesso Togliatti esplorò la possibilità di una intesa con il suo fondatore, Guglielmo Giannini (teatrante, anch’egli, come Grillo).
E Massimo D’Alema, nel febbraio 1995, disse che la Lega era «una costola della sinistra». Vizio o virtù, il «dialogo con il nemico», quando il concorrente non può essere eliminato con altri mezzi, appartiene alla cultura politica dei comunisti. E sopravvive, a quanto pare, nel patrimonio genetico degli eredi.
 
16 settembre 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 24, 2007, 10:56:45 pm »

Kabul, Roma e l'opinione pubblica Una guerra dimenticata

di Sergio Romano


Nulla di ciò che accade in Afghanistan è facilmente decifrabile. Conosciamo male il nemico. Non sappiamo dove corrano le frontiere che separano i talebani e i mujaheddin dai narcotrafficanti e dal banditismo. Conosciamo solo approssimativamente la dislocazione delle truppe. Vediamo immagini di battaglie riprese in località sconosciute e filtrate attraverso le maglie della censura militare. Anche il rapimento di due italiani solleva domande a cui è difficile rispondere. Quale era la missione delle persone rapite? Chi sono i loro rapitori? Sono vittime di un'operazione bellica o «commerciale»? Sono cadute nelle mani di combattenti o ricattatori? Molto di ciò che è accaduto e accadrà nelle prossime ore rimarrà coperto dal segreto od oscurato da notizie senza paternità e da rivendicazioni strumentali.

Su un punto, tuttavia, è possibile fare sin d'ora chiarezza. La guerra che si combatte da più di due anni in Afghanistan non è quella che gli Stati Uniti credettero di avere vinto nell'ottobre del 2001. Quando Bush decise di entrare nel Paese per stanare Osama Bin Laden e distruggere il regime che lo aveva ospitato, il segretario della Difesa Donald Rumsfeld mise in campo un contingente relativamente modesto e si servì di formazioni locali che avevano ambizioni e obiettivi diversi da quelli di Washington.
La spedizione, in apparenza, fu un brillante blitzkrieg. Terminate rapidamente le operazioni militari, gli americani fecero incetta di sospetti per le prigioni di Guantanamo, ereditarono la vecchia base sovietica di Bagram a 60 km da Kabul e tornarono a casa lasciando un contingente che avrebbe dovuto «prosciugare » il territorio e catturare Bin Laden. Da quel momento la presidenza Bush, impegnata nella preparazione della guerra irachena, dedicò al controllo dell'intero Paese e alla sua ricostruzione politico-economica un'attenzione complessivamente distratta. Cominciò allora una fase in cui le responsabilità politiche per il futuro dell'Afghanistan passarono gradualmente agli europei e quelle militari, ancora più gradualmente, alla Nato.

Ma il vuoto lasciato dall'imprevidenza americana non tardò nel frattempo a riempirsi. Tornarono i talebani, soprattutto attraverso la frontiera pachistana. Tornarono i narcotrafficanti, che i talebani, nell'ultima fase del loro regime, erano riusciti ad allontanare. E ricominciarono su larga scala la coltivazione dei papaveri e la produzione di oppio. Il contingente della Nato si compone oggi di circa 30.000 uomini. I comandanti sul terreno e il segretario generale della Nato a Bruxelles non smettono di chiedere ai membri dell'organizzazione un impegno maggiore. Ma non sembra che queste richieste, per almeno tre ragioni, possano essere soddisfatte.
In primo luogo perché tutti i maggiori Paesi dell'Alleanza sono già impegnati con le loro truppe in altre zone, dal Kosovo al Libano. In secondo luogo perché i bilanci nazionali hanno altre priorità. E in terzo luogo infine perché la seconda guerra afghana non piace alle opinioni pubbliche europee. Le tre ragioni valgono particolarmente per l'Italia che è in Afghanistan con 2.500 uomini, ma non partecipa, come del resto altri Paesi, alle operazioni di combattimento ed è soggetta, per questa ragione, a continue pressioni americane. È probabile che l'episodio delle ultime ore renda ancora più evidente il disagio di una coalizione che è da tempo, sulla questione afghana, visibilmente spaccata. Ma ci piacerebbe che almeno in questa vicenda l'opposizione rinunciasse a «fare il suo mestiere» e aiutasse il governo a tenere la rotta con equilibrio e fermezza. La partita che si gioca a Kabul concerne l'intero Paese e la sua credibilità internazionale.


24 settembre 2007
 
DA CORRIERE.IT
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 28, 2008, 11:23:06 am »

La crisi di governo

Non perdere altro tempo

di Sergio Romano


È molto difficile, salvo un nuovo «miracolo italiano», che il presidente della Repubblica riesca a indirizzare la crisi verso la formazione di un governo «tecnico ». È un’amara constatazione.

Avremmo evitato il ritorno alle urne con una pessima legge elettorale e chiuso alcuni capitoli che rischiano di restare aperti, Dio sa per quanto tempo: dall’approvazione di un nuovo sistema di voto alla Tav e alla soluzione del caso Alitalia. Ma il primo a non esserne sorpreso, probabilmente, sarà l’uomo che lo ha maggiormente desiderato. Giorgio Napolitano temeva che il governo Prodi cadesse al Senato e sapeva che il duello, in tal caso, avrebbe avuto un vincitore, vale a dire una persona o un partito che possono, grazie alla loro vittoria, chiedere una soluzione della crisi conforme ai loro interessi.

Ma Prodi, anziché dimettersi, ha insistito per andare in Parlamento (anche le decisioni corrette possono essere talvolta inopportune) ed è accaduto esattamente ciò che il capo dello Stato temeva. Il vincitore è Silvio Berlusconi, il leader che chiede da un anno e mezzo lo scioglimento delle Camere e a cui pochi nel suo campo sono capaci di tagliare la strada. Potrebbe il capo dello Stato chiedere a un uomo di sua scelta di presentarsi alle Camere con un «governo del presidente»? Forse, ma correrebbe il rischio di creare una situazione simile, per qualche aspetto, a quella provocata da Giovanni Gronchi nel 1960 quando volle la formazione di un ministero presieduto da Fernando Tambroni. I governi di transizione, destinati a calmare le acque e a preparare tempi migliori, hanno un senso soltanto quando possono contare in Parlamento su una comoda maggioranza, possibilmente trasversale.

Se Berlusconi rifiuta di appoggiarlo, il governo è tutto fuorché quello che il presidente della Repubblica desiderava per il Paese. È naturale chiedersi a questo punto se valga la pena di prolungare il rito delle consultazioni e delle esplorazioni. È accaduto in altri Paesi, ma lo scandalo di Napoli, alcune vicende giudiziarie e il volgare spettacolo del Senato hanno fatto crollare le quotazioni dell’Italia alla Borsa della politica europea. Se i nostri guai e i nostri errori ricadessero soltanto sulle nostre teste, l’Europa ci starebbe a guardare, scandalizzata e divertita. Ma siamo nell’Ue, nella Nato, nel condominio dell’euro, e siamo impegnati in vicende che richiedono un esecutivo nella pienezza delle sue funzioni.

I nostri partner si chiedono ormai se questo Paese ingovernabile, chiassoso e rissoso, sia un accettabile compagno di lavoro. Forse è meglio chiudere questa brutta partita con nuove elezioni, il più presto possibile. La legge elettorale è pessima, ma gli italiani possono pur sempre servirsene per fare una scelta di campo e dire, ad esempio, quale sia oggi il peso del Partito democratico nella politica nazionale. Chiunque vinca vi saranno ancora coalizioni imperfette, eterogenee e litigiose, ma vi sono circostanze in cui la rapidità ha il vantaggio di dimostrare che i meccanismi della democrazia funzionano e che la decisione, in ultima analisi, spetta agli elettori.

28 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 10, 2008, 08:01:30 pm »

NUOVO SCENARIO POLITICO

Il cambiamento in tempi rapidi

di Sergio Romano


L’Economist scrive che i tempi della politica italiana possono essere sorprendentemente rapidi o atrocemente lenti. La prima definizione, in questi giorni, ha l’aria di essere più calzante della seconda. La «costrizione provvidenziale» (come Paolo Mieli ha definito la decisione del Partito democratico di «correre » da solo) sembra avere già prodotto un effetto altrettanto provvidenziale. Ha indotto Silvio Berlusconi a creare con Gianfranco Fini un partito unico del centrodestra. Il «Popolo delle libertà» stringerebbe un patto federale con la Lega (un partito territoriale di cui occorre riconoscere l’identità), ma assorbirebbe nelle sue liste, senza diritto di simbolo, buona parte di quell’ameba politica che si è divisa e suddivisa sino a creare un fastidioso e paralizzante pulviscolo parlamentare. Se l’espressione non fosse stata usata in un altro contesto (Charles Maurras se ne servì per definire la morte della Terza Repubblica francese nel 1940) direi che questa è una «divina sorpresa ». La classe politica è riuscita a rinviare di un anno il referendum sulla legge elettorale, ma sembra comportarsi come se il popolo italiano ne avesse approvato lo spirito. Persino il no dell’Udc di Casini potrebbe contribuire alla semplificazione del quadro politico. Walter Veltroni farebbe bene a non schernire con espressioni irridenti («maquillage») un evento di cui è lui stesso in parte responsabile.

Quando andremo alle urne potremmo dunque trovarci di fronte a un ventaglio di scelte composto da cinque partiti: il Partito democratico, il Popolo delle libertà, la Lega, una «Cosa rossa» e una «Cosa bianca». Assomiglieremmo alla Germania dove la partita si gioca fra cristiano- democratici, social-democratici, la sinistra di Oskar Lafontaine, i verdi e i liberali. Ho usato il condizionale perché l’esecuzione di un progetto può svuotarlo delle sue virtù iniziali. Molto dipende dai patti che Veltroni e Berlusconi potrebbero stringere con qualche partito minore. Molto dipende soprattutto dalla fermezza con cui Berlusconi riuscirà a impedire che le reclute arruolate nel nuovo partito ne escano dopo le elezioni per costituire i loro gruppi parlamentari. Perché Berlusconi e Veltroni non si impegnano sin d’ora a scrivere insieme regolamenti parlamentari che precludano questa prospettiva?

Attenzione, tuttavia. La semplificazione del quadro politico è importante e renderebbe l’Italia più simile alle maggiori democrazie europee, dove i due primi partiti, come ha ricordato Marcello Pera sulla Stampa qualche settimana fa, rappresentano insieme una percentuale che oscilla fra il 60 e il 70% dell’elettorato. Ma è soltanto metà dell’opera. Non basta eliminare l’ameba. Occorre anche riscrivere le regole invecchiate di una Costituzione che rende il Paese ingovernabile.

Se le due Camere hanno le stesse funzioni e il presidente del Consiglio non ha neppure il diritto di sbarazzarsi di un ministro indisciplinato e inefficiente, le elezioni non avranno mai un vincitore e l’Italia non avrà mai un governo. Abbiamo già constatato che le riforme fatte da una sola parte sono mediocri o non riescono a superare il passaggio del referendum confermativo. Veltroni e Berlusconi hanno ambedue interesse a far giocare il Paese con regole nuove e dovrebbero scriverle insieme.

10 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 23, 2008, 11:26:18 pm »

AEREI ED ELEZIONI

Il doppio gioco della politica


di Sergio Romano


Con un ultimo sussulto l’Alitalia morente ha sparigliato le carte della campagna elettorale. Romano Prodi è uscito dall’ombra ed è ridiventato un protagonista della politica nazionale. Silvio Berlusconi ha afferrato la questione al balzo ed è riuscito a cavalcare contemporaneamente il cavallo dell’orgoglio nazionale e la tigre delle frustrazioni padane. Walter Veltroni è ai margini della scena, troppo prossimo agli interessi di Fiumicino per apparire credibile agli elettori del Nord. Alla borsa dei valori nazionali le privatizzazioni scendono e il colbertismo (definizione dotta di statalismo) riprende quota. Con una sorta di doppio salto mortale destra e sinistra sembrano essersi scambiati i ruoli. La sinistra crede nelle virtù del mercato e non nasconde di essere favorevole alla soluzione Air France. La destra «liberista» ritiene che gli interessi del Paese richiedano in molte circostanze l’intervento dello Stato.

Nei prossimi giorni molti continueranno a chiedersi quali effetti tutto questo possa avere sull’esito della campagna elettorale. Riuscirà la destra ad apparire più credibile della sinistra? Potrà la sinistra dimostrare che la sua gestione del caso Alitalia è stata in ultima analisi più saggia ed efficace di quella del governo Berlusconi? Credo che occorra diffidare dei dibattiti in cui si parla di tutto fuorché degli aspetti cruciali della questione. Molto di ciò che è stato detto in questi giorni serve forse a segnare un punto e a mettere in difficoltà l’avversario, ma non serve né al futuro dell’azienda né al confronto elettorale. Chi dovrà occuparsi di Alitalia nelle prossime settimane farà bene a tenere in bella vista almeno quattro promemoria. Il primo promemoria concerne il rapporto con le organizzazioni sindacali. Può darsi che l’offerta di Air France sia avara e ingorda. Ma una delle condizioni poste dal suo amministratore delegato (le organizzazioni sindacali debbono accettare e sottoscrivere formalmente il piano di salvataggio) vale per chiunque debba occuparsi dell’azienda.

Non è possibile risanare una impresa che deve buona parte delle sue condizioni fallimentari a un gretto sindacalismo corporativo e in cui nove sigle sindacali hanno il diritto di sedere a un tavolo negoziale che produrrebbe inevitabilmente un mediocre compromesso. Chi sostiene che esistono soluzioni di ricambio (come ha fatto Berlusconi), ma omette di ricordare che la condizione voluta da Air France è sacrosanta, dice nella migliore delle ipotesi una mezza verità. Il secondo promemoria concerne le regole del mercato dell’aria. La disputa fra colbertisti e privatizzatori è in buona parte irrilevante. Niente vieta allo Stato, in linea di principio, la proprietà di una linea aerea. Ma chiunque gestisca l’azienda dovrà ricordare che non sarà possibile contare su aiuti pubblici (Bruxelles non li autorizzerebbe), che i consumatori europei non intendono rinunciare ai vantaggi delle linee aeree low cost, che la liberalizzazione dei collegamenti e la politica dei cieli aperti sono una realtà a cui non è possibile sottrarsi.

Chiunque diventi proprietario dovrà essere in condizione di sopravvivere in un mondo in cui le vecchie riserve di caccia stanno scomparendo. Il terzo promemoria concerne l’Italia settentrionale. Non è necessario essere leghisti per sapere che queste sono le regioni da cui dipende in larga parte lo status europeo del Paese. Il giorno in cui i loro cittadini fossero costretti a fare scalo, per i viaggi transcontinentali, in una capitale europea, e continuassero a constatare che i loro collegamenti ferroviari con l’Europa centro-occidentale dipendono dal consenso di gruppi locali e piccoli partiti, l’Italia sarebbe ancora meno unita di quanto sia stata in questi anni. E la Lega avrebbe buone possibilità di assumere la rappresentanza del Nord. Quarto promemoria. I sindacati hanno molte responsabilità, ma Alitalia non sarebbe sull’orlo del fallimento e Malpensa non rischierebbe la retrocessione se la politica italiana del traffico aereo non fosse stata dettata da calcoli elettorali, pratiche clientelari e ambizioni municipali rappresentate a Roma da parlamentari locali. Forse occorrerebbe chiedere alla classe politica un impegno simile a quello che l’amministratore delegato di Air France vorrebbe dai sindacati: provate, almeno per una volta, a rappresentare l’interesse generale anziché quello delle vostre clientele e dei vostri collegi.

23 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 13, 2008, 02:49:08 pm »

IL VOTO E LE EMERGENZE

Un disegno nazionale

di Sergio Romano


Sul Corriere di ieri Pierluigi Battista ha scritto che i due maggiori partiti dovrebbero smetterla di considerarsi nemici e imparare a trattarsi come pezzi complementari di uno stesso Paese. Durante la campagna elettorale vi sono stati dapprima segnali positivi, poi, soprattutto negli ultimi giorni, qualche sgradevole ricaduta nei vizi della politica concepita come guerra fra nemici giurati e inconciliabili. Riprendo il filo degli argomenti di Battista e aggiungo qualche considerazione sui motivi per cui il Pd e il Pdl, quali che siano i risultati del voto, hanno in realtà un’agenda comune e dovrebbero comportarsi di conseguenza.

Il primo punto all’ordine del giorno è l’emergenza istituzionale. Non è possibile che un Paese, ormai per molti aspetti federale, continui a essere governato al centro da due Camere che fanno con estenuante lentezza le stesse cose e da un premier che non ha i poteri dei suoi colleghi europei. Non è possibile che le Camere continuino a essere elette con una legge che favorisce la proliferazione di piccole formazioni politiche, costituite per gestire piccole fette di potere e destinate a sopravvivere soltanto a spese della coerenza e dell’efficienza dello Stato. Dopo 15 anni di tentativi falliti, sappiamo che nessuna riforma costituzionale e nessuna buona legge elettorale verranno adottate finché le piccole formazioni saranno in grado di ricattare in Parlamento i partiti maggiori delle rispettive coalizioni.

Il Pd e il Pdl hanno quindi interessi comuni e avranno nella prossima legislatura, se non commetteranno l’errore di accentuare le proprie divergenze, l’occasione per fare insieme, in materia di riforme istituzionali e legge elettorale, ciò che nessuno dei due potrebbe fare da solo. Vi è stata in questi ultimi tempi un’evidente tendenza verso il bipartitismo. Cerchino di usare la legislatura per consolidarla. Il secondo punto all’ordine del giorno è l’emergenza economica. Chi avrà il compito di governare l’Italia erediterà un Paese esangue, stagnante, privo di infrastrutture moderne, oberato da un’enorme spesa pubblica e da un’alta pressione fiscale, condannato a essere il ventre molle delle molte crisi (da quella dei mutui a quella dell’inflazione agro-alimentare) che si stanno abbattendo sull’economia mondiale.

Spero che il prossimo governo non perderà il suo tempo, come è accaduto in questi ultimi anni, raccontando ai suoi connazionali che la colpa è dei governi precedenti. Non è vero. La responsabilità è di tutti noi: governo, partiti, sindacati, società civile. Molti dei problemi che ci affliggono sono importati dall’esterno e molte leve del potere economico sono state trasferite a Bruxelles o a Francoforte. Ma esistono problemi, dalla costruzione delle infrastrutture alla riduzione della spesa pubblica, che soltanto noi possiamo affrontare e risolvere. Anche questo è un campo in cui ogni governo, senza eccezioni, si è dimostrato inferiore alle esigenze della nazione. Oggi il Pd e il Pdl hanno la possibilità di fare, lavorando insieme, alcune delle cose di cui il Paese ha urgente bisogno per ricominciare a produrre e a crescere. I sacrifici saranno più sopportabili e gli ostacoli più facilmente sormontabili se il Paese avrà la sensazione di rispondere a un disegno nazionale, condiviso dalle due maggiori forze politiche.

13 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 27, 2008, 07:13:12 pm »

FEDERALISMO POLITICO

La Baviera e la Padania


di Sergio Romano


Due sindaci di sinistra — Sergio Cofferati e Massimo Cacciari — propongono la nascita di un Partito democratico del Nord. Walter Veltroni sostiene invece che il partito debba continuare ad avere carattere nazionale. Altri osservano che esistono in Italia, come in diverse nazioni europee, partiti regionali (la Lega, l'Svp della provincia di Bolzano e l'Union Valdôtaine) che mandano i loro rappresentanti al Parlamento nazionale. Ma non esistono e non dovrebbero esistere partiti nazionali che si spogliano delle loro funzioni in una parte del Paese per lasciarle a un partito fratello. Non è esatto. Come viene ricordato in occasione di ogni elezione tedesca vi sono nella Repubblica Federale di Germania due Democrazie cristiane: la Cdu nazionale di Angela Merkel e la Csu bavarese. Nei 59 anni passati dalla costituzione dello Stato tedesco le due Dc si sono spesso punzecchiate, soprattutto quando il leader del partito bavarese era Franz Josef Strauss, personaggio sanguigno, intemperante, controverso e tuttavia ciecamente amato dai suoi elettori. Complessivamente però la collaborazione ha funzionato e ha regalato al Paese, insieme ad altri fattori, governi lunghi e stabili.

Perché non dovrebbe accadere anche in Italia? Prima di rispondere alla domanda, tuttavia, occorre ricordare le ragioni per cui i bavaresi hanno la loro Dc, diversa da quella del resto del Paese. La Baviera fu per molto tempo, dopo la Prussia, il più importante regno germanico e conservò alcune caratteristiche della sovranità (il re, la presenza di un corpo diplomatico straniero nella sua capitale) sino al 1918. Si potrebbe sostenere quindi che l'esistenza di due partiti democristiani in Germania rifletta le particolari circostanze dell'unificazione tedesca. Mentre il Piemonte sconfisse gli Stati preunitari e li cancellò dalla carta geografica, Bismarck persuase i sovrani tedeschi a unirsi sotto il primato della Prussia in una sorta di confederazione. Una situazione simile avrebbe potuto verificarsi anche da noi se il re di Napoli o il Granduca di Toscana avessero accettato il primato dei Savoia, ma conservato contemporaneamente un ruolo, sia pure minore, nell'ambito del nuovo Stato italiano. Avremmo avuto alla Camera dei deputati, probabilmente, una corrente dei liberali napoletani o toscani, uniti da un patto di collaborazione con i rappresentanti liberali del resto della penisola.

Non li abbiamo avuti perché il Risorgimento rinunciò alla prospettiva confederale e imboccò risolutamente la strada francese dell'Italia «una e indivisibile». Non basta. Il partito del Nord, se esistesse, rappresenterebbe una regione — la Padania — che non ha mai avuto, se non per brevissimi periodi, una configurazione statale. Il Pd del Nord appare quindi, a prima vista, ingiustificato e privo di qualsiasi legittimità storica. Eppure, il fatto che a qualcuno sia passato per la mente di avanzare una tale proposta è indice delle condizioni in cui è oggi lo Stato italiano. Alcuni esponenti del Pd hanno capito che la Lega non è facilmente classificabile con le solite categorie tradizionali (destra e sinistra) della politica nazionale. Vuole rappresentare gli interessi del Nord e riesce ad attrarre voti provenienti da ceti sociali diversi.

Per battere la Lega occorre accettare il confronto sul suo terreno, ascoltare le lagnanze che hanno conferito popolarità alla sua linea politica e dare risposte diverse ma egualmente convincenti. Chi propone la creazione del Pd del Nord teme che il Partito democratico sia inevitabilmente costretto a pensare in termini nazionali e non riesca quindi a scalzare la Lega dalle posizioni che ha progressivamente conquistato in questi anni. Ma non sarebbe giunto a queste conclusioni se non avesse compreso che è inutile continuare a proclamare l'indivisibilità di un Paese in cui esistono livelli di vita, mentalità sociali e culture politiche così profondamente diverse. Abbiamo istituzioni nazionali, leggi nazionali, statistiche nazionali e partiti nazionali. Ma tutti sanno, anche se preferiscono dirlo sottovoce, che le leggi buone per il Nord non sono buone per il Sud e viceversa. Suppongo che lo sappia anche Walter Veltroni. Ma il leader del Partito democratico sa anche che il Pd del Nord, se esistesse e facesse coscienziosamente il suo mestiere, dovrebbe «pensare settentrionale» e dissentire dalla casa madre ogniqualvolta questa si considerasse obbligata a tenere conto di altri interessi regionali. E Veltroni, in tal modo, perderebbe rapidamente il controllo del partito nelle regioni più prospere del Paese. Ma non ha senso continuare a parlare di federalismo italiano senza ammettere che anche i partiti politici possano essere «federali».

27 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Maggio 04, 2008, 10:26:02 pm »

DALLA CASTA ALLA DERIVA

Democrazia sotto ricatto


di Sergio Romano


Fra «La casta», apparso nella primavera dell'anno scorso, e «La deriva », l'ultimo libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, esiste una importante differenza. «La casta » è la radiografia di una classe politico-amministrativa (secondo gli autori 179.485 persone) che ha usato il potere per distribuire a se stessa uno strabiliante numero di favori, prebende e privilegi, spesso in evidente contraddizione con le ricette che i suoi membri applicavano al resto del Paese. L'apparizione del libro suscitò uno scandalo che ha alimentato il dibattito politico italiano sino alle ultime elezioni. Ma qualcuno, con una buona dose di realismo amorale, avrebbe potuto sostenere che l'indebito arricchimento dei governanti non comporta necessariamente il declino del Paese e l'impoverimento dei cittadini. Vi sono stati ministri, governatori e sindaci corrotti che hanno adottato buone leggi, fatto eccellenti riforme, costruito importanti infrastrutture e migliorato la vita dei loro compatrioti.

«La deriva» dimostra che in Italia è accaduto esattamente il contrario. Il governo dei ricchi ha reso il Paese più povero, più ingiusto, meno educato, meno assistito e curato, meno intraprendente e meno dotato di servizi moderni di quanto fosse negli anni in cui i suoi uomini politici erano più sobri. Siamo al 46˚posto nella lista dei Paesi più competitivi. Il nostro commercio internazionale ha perso quote di mercato (nell'Unione Europea meno 11,8% dal 2001 al 2006). La produttività del lavoro, nello stesso periodo, è cresciuta dell' 1% contro l'8,6% in Francia e il 7,7% in Germania. Da noi l'avvio di un'attività economica richiede 16 procedure e 66 giorni contro 8 procedure e 31 giorni nei Paesi Bassi. In poco più di trent'anni siamo scesi dal terzo al dodicesimo posto nella classifica delle autostrade europee. Il numero dei container che passano attraverso i sette maggiori porti della penisola è più piccolo (un milione di meno) di quello dei container trattati dal porto di Amburgo. La migliore università pubblica italiana è al 173˚posto nella graduatoria dei migliori atenei del mondo. Gli italiani che usano Internet nei rapporti con la pubblica amministrazione sono il 17% dei cittadini fra i 16 e i 74 anni contro il 43% della Germania, il 41 della Francia, il 38 della Gran Bretagna e il 26 della Spagna. Il tasso di occupazione femminile (46,3%) è inferiore a quello della Grecia. Nella classifica dei Paesi che maggiormente attraggono investimenti stranieri l'Italia è agli ultimi posti. Dati analoghi emergono dalle statistiche comparate su ferrovie, Alta velocità, metropolitane, inceneritori, rigassificatori, energie alternative. Se v'imbattete in una qualsiasi classifica è inutile che cerchiate l'Italia in cima alla pagina: la troverete soltanto spostando lo sguardo verso il basso.

Dopo avere chiuso il libro di Stella e Rizzo il lettore constaterà che le ragioni di questa deriva sono apparentemente diverse, ma in realtà quasi sempre le stesse. Quando un ministro riformatore o un parlamentare coraggioso tentano di rendere il sistema più flessibile, più competitivo e più dinamico, qualcuno si oppone.

I sindacati della scuola non vogliono che il lavoro dei docenti venga soggetto a periodiche verifiche. I sindacati della funzione pubblica respingono le note di qualifica come vessatorie. Gli ordini professionali difendono strenuamente i loro privilegi e proteggono i loro soci anche quando dovrebbero espellerli. Le popolazioni locali vogliono le grandi opere pubbliche purché non vengano costruite sul loro territorio. Ogni riforma trova sulla sua strada una corporazione o una lobby che è perfettamente in grado di fare deragliare il treno della modernità. Ogni tentativo riformatore si conclude con un mediocre compromesso che ne riduce l'efficacia e ne aumenta i costi.
I partiti, dal canto loro, contribuiscono alla generale inefficienza del sistema disseminando i loro clienti e seguaci in tutte le branche della vita pubblica. E il cliente, una volta insediato in un posto di comando, conserva il potere fornendo voti e favori al suo protettore. In questo vuoto di moralità politica le famiglie criminali sono riuscite a conquistare regioni dove influiscono direttamente o indirettamente sulle scelte elettorali di una parte considerevole della popolazione. Il vero protagonista del libro di Stella e Rizzo è una gigantesca macchina clientelare che scambia voti contro favori e denaro, paralizza i riformatori, ricatta i governi, impedisce all'Italia di crescere.

Non è vero che la situazione sia ormai senza scampo. È ancora possibile rompere questo circolo vizioso e liberare la democrazia ricattata dalle corporazioni. Ma è necessario uno sforzo nazionale, vale a dire molto più di una semplice maggioranza di governo. E occorre un governo che dimostri di averlo capito sin dal primo giorno del suo lavoro.



04 maggio 2008

DA corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Maggio 25, 2008, 06:00:07 pm »

Il dialogo sbagliato


di Sergio Romano


A Napoli, dopo il Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi ha parlato di «tempo scaduto», ha promesso che il problema dei rifiuti urbani della città sarebbe stato trattato «come un terremoto o una eruzione vulcanica ». E ha aggiunto che le aree individuate per le discariche sarebbero state considerate «zone di interesse strategico nazionale». Poco importa, a questo punto, che i militari vengano automaticamente impiegati per la custodia dei siti o chiamati soltanto in caso di necessità, come sembra di doversi dedurre dall'ultima redazione delle norme. Se non sono semplici grida retoriche, le parole del presidente del Consiglio significano che le località individuate dal governo ed elencate nel decreto pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale, sono l'equivalente di una installazione militare. Fu chiaro sin dal primo annuncio, quindi, che il governo aveva alzato di uno scalino la soglia simbolica della sicurezza e detto implicitamente al Paese che questa è un'operazione di Stato nell'interesse dell'intera comunità nazionale. Chi si mette di traverso con manifestazioni violente o cerca d'impedire il funzionamento delle discariche sfida lo Stato e va trattato di conseguenza.

Non potevamo sperare, naturalmente, che il piano del governo sarebbe bastato a zittire i manifestanti. E non potevamo neppure sperare che l'intera classe politica avrebbe immediatamente rinunciato al vecchio gioco dei dubbi, delle reticenze, dei distinguo e delle approvazioni con riserva. Sapevamo che i «tribuni della plebe» non avrebbero esitato a «tastare» la fermezza del governo. E potevamo facilmente immaginare che qualche uomo politico, fiutando il vento, avrebbe cominciato a manifestare il proprio dissenso. Esiste un «fronte del no» di cui fanno parte l'egoismo municipale, interessi affaristici, la camorra, il massimalismo anti-istituzionale e, perché no?, parecchi uomini politici a cui non spiacerebbe che il nuovo governo scivolasse subito su una buccia di banana. Tutto questo, ripeto, era prevedibile e scontato.

Non sarebbero prevedibili e scontati invece il cedimento del governo e l'annacquamento del piano di Napoli. Se il governo facesse un passo indietro, si affidasse a un mediatore e aprisse trattative, la fermezza degli scorsi giorni sembrerebbe una vuota bravata e Berlusconi perderebbe d'un colpo solo il credito conquistato anche sul piano internazionale.

È stata pronunciata più volte, nella giornata di ieri, la parola «dialogo»: una espressione che ricorre frequentemente nel linguaggio politico italiano e che significa ormai patteggiamento e compromesso. Ci piacerebbe che venisse sostituita, in questo caso, con la parola informazione. Dopo le estenuanti trattative e i nulla di fatto degli scorsi anni vi è ancora spazio per correzioni e aggiustamenti.
Ma l'utilità del dialogo si è esaurita. L'informazione, invece, è necessaria. Occorrerà spiegare continuamente ai cittadini, fin nelle sedi più piccole e periferiche, le intenzioni del governo, il progresso dei lavori, i cambiamenti che saranno resi necessari dalle circostanze in corso d'opera. E occorrerà cercare di mitigare gli inconvenienti tenendo conto delle loro esigenze. Ma di «dialogo», nel senso che la parola ha acquisito nel gergo della cattiva politica italiana, a Napoli non c'è bisogno.


25 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:47:05 pm »

MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE

Il prezzo della rottura


di Sergio Romano


L’insistenza con cui si parla della necessità di un dialogo fra maggioranza e opposizione è soltanto un altro sintomo del malessere della democrazia italiana. Quando David Cameron, leader dei conservatori britannici, prende la parola ai Comuni, è duro, sferzante e, nella migliore delle ipotesi, ferocemente ironico. Quando Oskar Lafontaine parla del governo Merkel, non misura parole e giudizi. Quando i socialisti francesi parlano di Nicolas Sarkozy, i toni sono aspri e taglienti.

Nei buoni sistemi democratici, le opposizioni non hanno l’obbligo di dialogare. Debbono attaccare il governo, demolirne i programmi e, quando ne condividono gli obiettivi, dimostrare che il risultato può essere raggiunto con altri mezzi più idonei allo scopo. Ciò che davvero serve in democrazia non è il dialogo (parola di cui si è fatto in questi mesi un uso stucchevolmente retorico), ma un altro fattore, questo sì assolutamente indispensabile. Occorre che maggioranza e opposizione si riconoscano rispettivamente legittime e che nessuno dei due leader neghi all’altro il titolo di rappresentare politicamente e moralmente la parte del Paese che gli ha dato fiducia.

Negli ultimi 15 anni è accaduto il contrario. La sinistra ha considerato Berlusconi un’inaccettabile anomalia, un cattivo scherzo della storia nazionale, un pregiudicato in attesa di giudizio, una reincarnazione light del fascismo. E Berlusconi l’ha ripagata di questi giudizi definendola semplicemente e sprezzantemente «comunista». Più recentemente è parso che il clima potesse cambiare. Dopo essersi liberati di alcuni dei loro più ingombranti alleati e avere fatto un buon uso di una pessima legge elettorale, Berlusconi e Veltroni sembravano disposti a considerarsi semplicemente avversari, divisi dalle loro rispettive ambizionima uniti dall’appartenenza allo stesso sistema nazionale. Non mi aspettavo che avrebbero «dialogato».

Speravo tuttavia che avrebbero capito la necessità di aprire insieme una strada su cui nessuna maggioranza dovrebbe avventurarsi da sola: quella delle riforme istituzionali e di una migliore legge elettorale. Sono bastate poche settimane perché il tempo girasse nuovamente al peggio. Ne conosciamo le ragioni. Berlusconi non è ancora uscito dal tunnel del suo percorso giudiziario e crede lecito usare il potere per assicurarsi l’immunità. Qualcuno continua a pensare che esista una via giudiziaria alla soluzione dei problemi italiani. E Veltroni è circondato da persone che vorrebbero fargli pagare la sconfitta. Insomma, Berlusconi, perché è forte, crede di non avere bisogno di nessuno; e Veltroni, perché è debole, rischia di non poter fare a meno dei molti che cercano di trascinarlo all’indietro nella strategia di un’alleanza antiberlusconiana pilotata dalla sinistra giustizialista, massimalista e «girotondina».

È uno spettacolo già visto, che la grande maggioranza del Paese non ha alcuna voglia di rivedere. Mi chiedo se i politici dei due campi si siano resi conto dell’effetto che questa «guerra civile fredda» sta producendo sulla società. Gli italiani si lasciano apparentemente convincere dall’uno o dall’altro dei due campi, ma dopo avere votato per la destra o per la sinistra provano per entrambe gli stessi sentimenti di sfiducia e disprezzo. Una democrazia in cui gli elettori detestano gli eletti: ecco ciò che l’Italia corre il rischio di diventare.

22 giugno 2008

da corriere.it
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