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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96320 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Febbraio 23, 2011, 12:45:49 pm »

TRIPOLI E L'OCCIDENTE, AMNESIE E AMBIGUITÀ

Le colpe nostre (e degli altri)

Silvio Berlusconi ha trattato la questione libica a suo modo e con il suo stile, vale a dire con una concezione dei rapporti internazionali in cui la chiave del successo è il grado di intimità che il presidente del Consiglio riesce a stabilire con gli uomini di Stato stranieri.
Nel caso di Gheddafi questa impostazione ha prodotto risultati grotteschi e indecorosi. Abbiamo dovuto sopportare i capricci del Colonnello, i suoi ritardi, i suoi sgarbi, le sue uniformi, la tenda di villa Doria Pamphili e quella sorta di harem ideologico in cui il leader esponeva la sua filosofia a una platea di giovani donne scelte sulla base della loro avvenenza. È naturale, in queste circostanze, che la crisi del regime libico e il modo in cui Gheddafi sta trattando i suoi connazionali siano un duro colpo per la diplomazia del presidente del Consiglio e lo espongano a molte critiche. Ma non vorremmo che i grandi problemi del nostro Paese venissero trattati ancora una volta in funzione degli effetti che potrebbero avere sulle sorti politiche di Berlusconi. Se vogliamo parlare della cosa seriamente dovremmo almeno ricordare che il presidente del Consiglio ha fatto, anche se con formule talora criticabili, quello che era stato tentato con minore successo da quasi tutti i suoi predecessori.

Quando Gheddafi, nell'estate del 1970, ordinò l'espulsione dei circa 15.000 italiani che vivevano allora nel Paese, il presidente del Consiglio fu dapprima Mariano Rumor, poi Emilio Colombo, ma il ministro degli Esteri in entrambi i governi fu Aldo Moro. Qualcuno sostenne che occorresse reagire energicamente, ma nessuno riuscì a precisare che cosa si dovesse intendere per «energia». Prevalse la linea di Moro, vale a dire la convinzione che l'Italia non potesse aprire una partita simile, per qualche aspetto, a quella che la Francia aveva definitivamente perduto in Algeria otto anni prima. Come la Francia, del resto, anche noi avevamo sull'altra sponda del Mediterraneo interessi petroliferi e più generalmente economici che andavano per quanto possibile tutelati. Buona o cattiva, questa fu la linea politica di tutti i ministri degli Esteri italiani da Giulio Andreotti a Gianni De Michelis, da Lamberto Dini a Massimo D'Alema. Come in altre questioni l'Italia ha dimostrato che nella storia della politica estera soprattutto degli ultimi quarant'anni la continuità è molto più frequente della rottura. Ogni governo, quale che fosse il suo colore, ha cercato di negoziare con Gheddafi una specie di trattato di pace.

Abbiamo adottato una linea cinica e indecorosa? Forse conviene ricordare che i primi aerei dell'aeronautica militare libica, dopo il colpo di Stato, furono i Mirage francesi; che la Germania contribuì alla creazione in Libia di una industria chimica; che gli americani, dopo avere inutilmente cercato di uccidere Gheddafi nel 1986, revocarono le sanzioni non appena il Colonnello rinunciò alle sue ambizioni nucleari; che la Gran Bretagna, nell'agosto del 2009, ha liberato e restituito alla Libia, per «ragioni umanitarie», il responsabile del sanguinoso attentato del dicembre 1988 nel cielo di Lockerbie. Ora, naturalmente, nessun governo europeo può astenersi dal condannare le violente repressioni di Bengasi e di Tripoli.

Noi, in particolare, abbiamo il diritto e il dovere di alzare la voce contro Gheddafi e i suoi metodi. Ma cerchiamo almeno di farlo senza cogliere l'occasione per combattere una ennesima battaglia di politica interna. Nel momento in cui in Libia si muore lo spettacolo sarebbe particolarmente indecoroso.

Sergio Romano

23 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #91 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:07:40 pm »

IL FINTO AMICO DI TRIPOLI

Quelle parole sul nostro paese

Le parole pronunciate da Gheddafi sull'Italia possono sorprendere il presidente del Consiglio, probabilmente convinto di avere stretto con il colonnello libico un rapporto infrangibile fondato sulla reciproca ammirazione e sugli interessi comuni.

Non possono sorprendere chiunque abbia qualche familiarità con il trattamento che Gheddafi ha riservato all'Italia sin dal giorno in cui conquistò il potere a Tripoli nel 1969.

Non vi è stato momento della sua lunga dittatura in cui il Colonnello abbia rinunciato a usare il colonialismo italiano come una piaga aperta della memoria nazionale. Se ne è servito per distinguersi da Idris, il re bonario e saggio che aveva stabilito rapporti cordiali con l'Italia, aperto il Paese all'Eni nel 1959, lasciato che gli italiani vivessero indisturbati e svolgessero attività utili per il suo Paese.

Se ne è servito per dimostrare che nessuno meglio di lui incarnava l'orgoglio nazionale.

Se ne è servito anche quando investiva denaro nelle imprese italiane, riceveva i ministri italiani nella sua tenda, stringeva calorosamente la mano dei nostri presidenti del Consiglio. Si potrebbe sostenere che nulla gli importava veramente quanto la possibilità di dire ai suoi connazionali, con parecchie forzature, che all'origine dello Stato libico vi erano le sofferenze e le umiliazioni subite durante il periodo coloniale. L'anticolonialismo e la denuncia delle colpe italiane sono stati lo zoccolo del suo potere, l'argomento retorico che gli consentiva di rappresentare se stesso come l'uomo che aveva liberato i libici dallo stato di soggezione morale e psicologica in cui avevano continuato a vivere durante il regno di Idris.

Beninteso, questo non gli ha impedito di fare affari con l'Italia e con la sua maggiore compagnia petrolifera. Ma accusarlo di duplicità sarebbe sbagliato. Duplice è l'uomo che nasconde i suoi pensieri e le sue intenzioni. Gheddafi, invece, ha agito sempre su due piani egualmente visibili. Era pronto a trattare con l'Italia, ma non avrebbe mai smesso di usarla come la bestia nera del suo Paese, il nemico secolare della nazione. Ne abbiamo avuto una ennesima prova quando ha portato con sé, durante la visita a Roma, un veterano della resistenza anti-italiana e appiccicato sul bavero della sua giacca il ritratto di Omar el-Mukhtar, il leader cirenaico che il generale Graziani fece impiccare nel settembre 1931. È davvero sorprendente che questo nuovo attacco all'Italia coincida con una fase in cui il suo potere è traballante? Mai il «nemico italiano» gli è stato utile come in questo momento. Per certi aspetti l'ennesima sfuriata anti-italiana è un segno della precarietà della sua situazione.

Potremmo alzare le spalle e compatirlo se non avessimo il sentimento di avere contribuito al suo disprezzo. Ho sempre pensato che l'Italia avesse un interesse, non soltanto economico, a seppellire il passato. Tutti i maggiori Paesi coloniali (la Francia in Algeria, la Gran Bretagna in India, la Spagna in Marocco) hanno sacrificato un po' del loro orgoglio e riconosciuto le loro colpe. L'Italia e la Libia vivono nello stesso mare, hanno economie complementari, e la conflittualità permanente non può giovare né all'una né all'altra. L'accordo con la Libia è stato voluto da tutti i governi italiani. Ma sarebbe stato preferibile raggiungere l'obiettivo con lo stile di Giulio Andreotti, tanto per fare un esempio, piuttosto che con quello di Silvio Berlusconi.

Dopo l'ultimo discorso di Gheddafi, il ricordo del suo trionfale viaggio a Roma diventa insopportabilmente penoso.

Sergio Romano

03 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #92 inserito:: Marzo 19, 2011, 10:59:08 am »


Senza Ambiguità

Ecco un primo elenco delle anomalie della crisi libica ormai affidata alle armi. Nelle ultime settimane l'Europa è stata considerata inetta e impotente, ma due membri dell'Ue, la Francia e la Gran Bretagna, hanno adottato una posizione più avanzata di quella di Barack Obama e del suo segretario alla Difesa Robert Gates, ostile alla creazione di una no-fly zone. La Francia di Nicolas Sarkozy è stata il partner privilegiato dei regimi autoritari dell'Africa settentrionale (Mubarak era il vicepresidente dell'Unione Mediterranea, creatura del capo dello Stato francese), ma è diventata il più autorevole protettore dei ribelli libici. L'Ue si è divisa, come all'epoca della guerra irachena, ma la principale vittima della rottura è stato, in questo caso, l'asse franco-tedesco.

La Lega Araba aveva già chiesto da qualche giorno la creazione di una no-fly zone, ma non ha pronunciato parola sull'intervento militare dell'Arabia Saudita nel Bahrein. La risoluzione dell'Onu ha avuto per effetto l'annuncio libico di una tregua (forse apparente ed effimera), ma potrebbe essere responsabile della divisione della Libia in due Stati: la Tripolitania di Gheddafi e la Cirenaica dei ribelli. Ho scritto «ribelli», senza meglio qualificarli, perché di loro ignoriamo quasi tutto.

Sono l'appendice libica della Fratellanza musulmana? Sono l'ultima incarnazione della Senussia, la congregazione religiosa a cui apparteneva il primo e unico re della Libia post-coloniale? Sono membri di tribù ostili a Gheddafi? Sono giovani democratici, ansiosi di rinnovare le istituzioni del loro Paese?

Per alcune di queste ragioni, chi scrive è stato contrario all'instaurazione di una no-fly zone. Ma le preferenze personali sono irrilevanti. Ciò che conta ora è quanto l'Italia farà, soprattutto una volta scoppiato il conflitto. Negli scorsi giorni ho capito la prudenza e la reticenza del governo, schiacciato fra i suoi interessi petroliferi, i rapporti speciali instaurati dal trattato del 2008 e l'impossibilità di giustificare la politica di un tiranno che combatte contro i suoi sudditi. Oggi la prudenza, la reticenza o la semplice acquiescenza alla risoluzione dell'Onu dimostrerebbero che l'Italia è ormai soltanto un collaboratore di iniziative sulle quali non ha la benché minima influenza.

Ha delle responsabilità, anche storiche, e deve assumerle. Se si considera tenuta a collaborare con la Francia e la Gran Bretagna (come è emerso dall'ultimo consiglio dei ministri), lo faccia almeno con le sue idee e con i suoi progetti. Se ha canali di mediazione, li usi.
La richiesta di utilizzazione delle sue basi può essere il momento in cui confrontare le reciproche esigenze. Non basta.

Se la divisione della Libia è un rischio, la rottura del fronte europeo è, per noi, un male peggiore. Le reali posizioni dell'Italia sono probabilmente vicine a quelle della Germania. Si serva di questa affinità per tentare la ricomposizione del fronte europeo.

Ho parlato dell'Italia, non del governo, perché questo non è un terreno su cui si possano combattere le interminabili guerre fratricide della politica italiana. Il governo non può ignorare l'opposizione e questa ha l'obbligo morale, oltre che politico, di rispondere a tono, come del resto è accaduto ieri in Parlamento. Gli interessi in gioco sono nazionali e devono essere difesi dall'intero Paese.

Sergio Romano

19 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #93 inserito:: Aprile 06, 2011, 03:46:49 pm »

LA DEBOLEZZA DEL PARLAMENTO

Contino le aule non le piazze

Sui cannoni di un tempo si leggeva spesso, scolpita nel bronzo, la frase «ultima ratio regum».
Significava che le armi erano l'ultimo, decisivo argomento di cui i re si sarebbero serviti per far valere le loro ragioni. Sui cannoni della moderna democrazia italiana dovrebbe leggersi invece che l'ultima ratio del governo, dell'opposizione e più generalmente di qualsiasi movimento politico, è la piazza, vale a dire una folla di cittadini radunati per sostenere il potere o per abbatterlo.

Attenzione. Le grandi manifestazioni popolari appartengono alla storia delle democrazie. Ma con qualche eccezione (il milione di francesi che scese lungo gli Champs Elysées, nel maggio del 1968, per puntellare la repubblica di De Gaulle contro la rivoluzione studentesca) servono soprattutto a protestare contro una legge particolare, a chiedere la revoca di un provvedimento, un salario decoroso, un migliore contratto di lavoro. Nella seconda repubblica italiana la ratio è diversa. La grande manifestazione è una specie di artifizio teatrale che trasforma la piazza in un grande studio televisivo. Non serve a contare le teste; a questo penseranno i portavoce degli organizzatori sparando sulle pagine dei giornali cifre improbabili. Serve a creare l'«effetto popolo» per la grande massa di coloro che leggono la politica sugli schermi della televisione.

Quando Boris Eltsin salì su un carro armato, di fronte alla Casa bianca del Parlamento russo, per denunciare il colpo di Stato dell'agosto 1991, la folla intorno a lui non contava, probabilmente, più di duecento persone ed era composta in buona parte da passanti incuriositi. Ma bastarono le telecamere della Cnn per trasmettere al mondo l'immagine di un grande movimento popolare, sceso in piazza contro il partito comunista dell'Unione Sovietica.

Quando è usata dall'opposizione e soprattutto dal governo, la piazza è davvero un'ultima ratio e presenta almeno tre gravi inconvenienti.
In primo luogo dimostra che ciascuno dei due maggiori pilastri della democrazia rappresentativa ha smesso di contestare l'avversario nei luoghi deputati della politica nazionale e ha deciso che il miglior modo per sopraffarlo è quello di sparare i suoi cannoni mediatici nelle piazze del Paese. In secondo luogo deprezza il valore della rappresentanza democratica conquistata nelle urne. Per governare o battersi contro le leggi dell'esecutivo, la maggioranza e l'opposizione non hanno bisogno di portare la gente nelle piazze. Se lo fanno esercitano un loro sacrosanto diritto, ma dimostrano di non credere né all'utilità del confronto né alla propria legittimità democratica.

E in terzo luogo, infine, le piazze mediatiche trasmettono alla società il sentimento che il sistema non è più in grado di risolvere con gli strumenti della democrazia i problemi del Paese. Se centomila italiani scendono nelle strade per rispondere all'appello del loro schieramento preferito, altri italiani, molto più numerosi, giungeranno alla conclusione che le elezioni sono inutili e che il Parlamento, come è accaduto negli scorsi giorni, è soltanto un'altra piazza italiana, vale a dire un luogo dove si grida invece di parlare.

Il governo e l'opposizione non si sorprendano quindi se non potranno più contare sulla fiducia e sulla stima del Paese.

Sergio Romano
06 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #94 inserito:: Aprile 13, 2011, 11:22:53 am »

COME FARCI MALE DA SOLI


Euroscettici Autolesionisti

L'euroscetticismo non è un fenomeno soltanto italiano. Ha cominciato a manifestarsi durante gli anni Novanta quando l'Unione europea, per tenere il passo con l'economia globalizzata, ha cercato d'imporre ai suoi membri alcune regole economiche e sociali che avrebbero intaccato i poteri delle corporazioni conservatrici, dalle più potenti alle più umili, e ci avrebbero permesso di stare sul mercato con i grandi protagonisti della economia mondiale. Non vi è Paese in cui i governi, negli ultimi dieci anni, non abbiano cercato di compiacere i loro elettori meno europeisti riconquistando i poteri che stavamo progressivamente delegando a una comune autorità super-nazionale.

Ma il fenomeno è particolarmente sorprendente in Italia, un Paese che ha partecipato all'atto di fondazione e ha vantato per molti anni una consistente maggioranza europeista. Abbiamo creduto nell'unità europea perché ci permetteva di riemergere dalla sconfitta, dava un senso alla nostra tardiva e imperfetta unità nazionale, ci spronava a fare ciò che da soli, probabilmente, non saremmo riusciti a realizzare. Esistono forse motivi che rendano queste scelte meno necessarie oggi di quanto fossero quando partecipammo alla creazione della Ceca e del Mercato comune?

È certamente vero che nella crisi dell'immigrazione tunisina non abbiamo avuto la solidarietà a cui ritenevamo di avere diritto. Ma se vogliamo evitare di sprofondare nella politica dei risentimenti e dei rancori, dovremmo chiederci se l'Italia non stia pagando in questo caso il prezzo di una politica europea troppo tiepida, scontrosa, quasi sempre priva di iniziative coraggiose (gli eurobond di Giulio Tremonti sono una apprezzabile eccezione). Saremmo stati più autorevoli e credibili se il governo non avesse permesso alla Lega di offendere l'Europa con le sue sortite e avessimo approvato, tanto per fare un esempio, la direttiva del 2008 sui rimpatri: una norma che ci avrebbe permesso di evitare alcuni degli errori commessi a Lampedusa e di presentarci a Bruxelles con una posizione più forte.

Il rischio ora è che la crisi tunisina rinforzi la corrente anti-europea della politica italiana. Non credo che arriveremo al punto di mettere in dubbio la nostra partecipazione alla Ue. Ma agli euroscettici che parlano con leggerezza di una tale prospettiva chiedo se si rendano conto di ciò che l'Italia perderebbe in termini di stabilità monetaria, di credibilità finanziaria e di autorevolezza politica. Siamo quello che siamo perché abbiamo alle nostre spalle, quando andiamo nel mondo, una moneta unica, un mercato unico, una poltrona nel consiglio d'amministrazione della più grande potenza commerciale del mondo. Sono certi, gli euroscettici, che saremmo meglio in grado di negoziare gli accordi sul controllo dell'emigrazione con i Paesi dell'Africa del Nord?

Se vogliamo rimediare a questo clima di euroscetticismo e di apatia, il governo deve prendere una iniziativa che colga l'attenzione di Bruxelles. Nelle prossime ore verrà in discussione al Consiglio dei ministri il Piano nazionale delle riforme, a cui hanno lavorato Tremonti e Maurizio Sacconi. È una buona occasione per dimostrare che l'Italia non vuole lasciarsi distanziare dai suoi maggiori partner europei. Bruxelles lo capirebbe e ne prenderebbe buona nota.

Sergio Romano

13 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #95 inserito:: Aprile 29, 2011, 06:38:00 pm »

VIRTÙ E DIFETTI NEL CONFRONTO TRA I DUE PAESI



Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy si assomigliano. Soffrono dello stesso narcisismo. Concepiscono la politica come un palcoscenico dove vi è posto per un solo attore e reagiscono alle critiche della stampa come a un insulto. Confondono la sfera pubblica con la sfera privata e l’interesse personale con il bene generale. Credono che i vertici internazionali siano un club e vedono nell’avversario politico un nemico. Hanno la segreta convinzione che i loro difetti siano le loro virtù. Sono dunque fatti per intendersi? No. Due uomini politici possono trovare solidi punti d’intesa quando sono legati da una comune visione o ideologia, come accadde fra Alcide De Gasperi e Robert Schuman, Bettino Craxi e François Mitterrand. Ma quando hanno caratteri eguali e interessi diversi, la somiglianza crea più conflitti che intese.

Se Berlusconi e Sarkozy hanno trovato qualche accordo nel loro ultimo incontro, questo si deve soprattutto alla comune constatazione che lo scontro permanente fra i due Paesi avrebbe finito per danneggiare entrambi. Come tutti i grandi giocatori, tuttavia, detestano i pareggi e vorrebbero alzarsi dal tavolo soltanto dopo avere vinto la partita.

Possiamo, dopo il vertice romano, parlare almeno di pareggio? Credo che occorra anzitutto sgombrare il campo dai reciproci vittimismi e dal ricorso agli artifici retorici con cui i due Paesi infarciscono spesso i loro rapporti. L’Italia non è una colonia francese e la Francia non potrebbe colonizzare la penisola neppure se lo volesse. Le sue industrie fanno in Italia ciò che le industrie italiane farebbero volentieri (e in alcuni casi hanno fatto) al di là delle Alpi. Le due diplomazie possono collaborare o rubarsi il posto a tavola, a seconda delle circostanze e degli interessi, esattamente come accade tra Francia e Gran Bretagna o Francia e Germania. Né più né meno.

Esiste tuttavia una fondamentale differenza. Quando agiscono in Francia, soprattutto sul piano economico, gli italiani trovano di fronte a sé aziende e istituzioni che rispondono alla politica di un governo generalmente unito e solidale. Quando agiscono in Italia, i francesi hanno spesso l’occasione di sfruttare le divisioni e i bisticci italiani. Tralascio gli esempi storici di questa vecchia maledizione italica e mi limito a ricordare che i recenti successi di grandi gruppi francesi nella penisola sono molto spesso dovuti all’incapacità dei concorrenti italiani di trovare un accordo.

Come nel caso di Carlo VIII (il re di Francia che nel 1492 scese nella penisola per rispondere all’appello di Ludovico Sforza), i francesi vincono perché qualcuno in Italia considera la vittoria dello straniero preferibile al successo del concorrente italiano. È accaduto nel caso di Mediobanca, Edison, Assicurazioni Generali, Banca nazionale del lavoro, oggi forse Parmalat, domani forse Alitalia. Accade quando il governo è incapace di fare fronte comune. Accade quando gli industriali preferiscono litigare piuttosto che lavorare insieme. Accadde quando le opposizioni preferiscono mandare a casa il governo piuttosto che dargli una mano a vincere una partita nazionale. Rimproverare la Francia in questi casi è soltanto l’alibi che ci permette di ignorare le nostre responsabilità e di non trarre da ciò che è accaduto una lezione per il nostro futuro.

Sergio Romano

28 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #96 inserito:: Maggio 15, 2011, 10:58:03 am »

CAMPAGNA DEBOLE, CONFRONTO STERILE

Quel dibattito che non c'è stato

Per consolare il lettore, dopo alcuni spettacoli offerti dalla classe politica negli scorsi giorni, posso dire soltanto che non ricordo elezioni locali a cui non sia stata attribuita una valenza politica. Predichiamo bene cercando di ricordare a noi stessi che i candidati andrebbero scelti sulla base delle loro capacità amministrative e organizzative. Ma razzoliamo male lasciandoci influenzare da criteri di lealtà e appartenenza. Nulla di nuovo quindi. Anche questa volta l'assordante rumore della politica ha soffocato qualsiasi confronto di idee e di progetti. Ma due circostanze hanno reso l'atmosfera più surriscaldata e l'aria più irrespirabile.

La prima è il clima politico del Paese. Le elezioni hanno coinciso con una delle fasi più litigiose della politica nazionale. Non è facile votare spassionatamente per un sindaco o un consiglio municipale quando la maggioranza e l'opposizione si comportano come se fossero in guerra e sembrano andare continuamente a caccia di temi su cui alzare il volume e dividere maggiormente il Paese. Parafrasando Indro Montanelli non dovremmo, per conservare un po' di buon senso e di equilibrio, turarci il naso ma tapparci le orecchie.

La seconda circostanza, direttamente collegata alla prima, è la decisione del presidente del Consiglio di trasformare queste elezioni in un referendum sulla sua persona. In linea di principio, nulla da eccepire. Tutte le divergenze, da quelle sulla riforma giudiziaria a quelle sulla composizione della maggioranza, ruotano intorno alla personalità e ai casi di Silvio Berlusconi. Tutti i progetti di legge vengono letti e scrutati alla luce degli effetti che potrebbero avere sul presidente del Consiglio. Persino le condizioni della economia sono buone o pessime a seconda delle simpatie politiche di chi le giudica. Se la materia del contendere è Berlusconi non sorprende che un uomo battagliero e coraggioso (due caratteristiche che gli vanno riconosciute) abbia colto l'occasione per mettere se stesso al centro della scena politica e chiedere un voto popolare di fiducia. L'opposizione, dal canto suo, non poteva che accettare la sfida e giocare la partita con le stesse regole dell'avversario. Il risultato, tuttavia, è una campagna elettorale in cui i temi della contrapposizione politica hanno offuscato quelli della buona amministrazione e in cui sono state fatte promesse che sarebbe stato meglio non fare. Non ci è stato chiesto di giudicare se un programma era meglio dell'altro. Ci è stato chiesto di dire col voto se siamo berlusconiani o antiberlusconiani.

Dovremmo evitare che questo accada là dove vi sarà un secondo turno. Vi saranno allora due candidati. Non chiediamo a ciascuno di essi che cosa pensi di Berlusconi e delle sue vicende giudiziarie. Chiediamo piuttosto a entrambi che cosa intendano fare per migliorare la vita delle loro città. Dopo tutto è per questo che andiamo a votare.

Sergio Romano

15 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #97 inserito:: Maggio 17, 2011, 05:10:20 pm »

LA VITTORIA DI OBAMA

Sollievo e speranza


La soddisfazione del presidente degli Stati Uniti e la gioia con cui i suoi connazionali hanno salutato la morte di Osama Bin Laden sono comprensibili. A Barack Obama è riuscito ciò che il suo predecessore aveva più volte auspicato e inutilmente tentato.
L'America non voleva soltanto combattere il terrorismo. Voleva anche e soprattutto colpire l'infame, vendicare i morti, dimostrare che nessuno può impunemente sfidare la sua potenza. La morte di Bin Laden non le restituisce i suoi figli, ma salda un conto aperto nel suo cuore e in quel senso biblico della giustizia che è proprio di una parte importante del Paese.

Vi saranno anche conseguenze politiche. Il presidente Obama ha ottenuto un risultato che gioverà alle sue fortune elettorali. I servizi americani hanno riscattato alcuni insuccessi del passato e dimostrato la loro forza. I nemici dell'America sanno di potere essere colpiti anche là dove le precauzioni e l'omertà dell'ambiente sembravano garantire la massima sicurezza.

Ma l'operazione di Abbottabad suggerisce altre considerazioni. In primo luogo la vicenda ha dimostrato che Osama Bin Laden non si è nascosto in una grotta, ma in una vistosa residenza, a un'ora dalla capitale pachistana, nel cuore del Paese che è stato (o sarebbe dovuto essere) il principale alleato degli Stati Uniti nella lotta contro i talebani e il terrorismo islamico. Dopo avere reso onore alla sagacia e all'efficienza dei servizi americani qualcuno potrebbe chiedersi perché la caccia a Bin Laden sia durata dieci anni e quanto del tempo trascorso sia dovuto alla modesta e riluttante collaborazione del Pakistan.

In secondo luogo il leader ucciso nelle scorse ore non era, e forse non è mai stato, l'amministratore delegato di Al Qaeda Inc, una grande multinazionale che dirige decine di filiali sparse per il mondo e ne muove le pedine sullo scacchiere globale. È il fondatore dell'impresa, il titolare del marchio, il profeta, l'ispiratore, il suo genio malefico. Ma non è il suo comandante in capo. Esistono le filiali, ma sono autonome e usano il marchio per meglio reclutare i loro adepti e dare risonanza mondiale alle loro imprese. Esiste Ayman Al Zawahiri, il medico egiziano che è stato in questi anni l'ideologo dell'organizzazione. Esiste l'islamismo somalo, capace di mantenere il Paese in uno stato di perenne anarchia. Esiste Anwar Al Awlaki, leader di Al Qaeda nella penisola araba, vale a dire nella regione più potenzialmente esplosiva del Medio Oriente. Esistono i guerriglieri islamisti dello Yemen. Esiste Al Qaeda nel Maghreb, una organizzazione corsara che usa il deserto come base e retrovia per le sue scorribande. Ed esistono gli irregolari, i terroristi solitari, gli aspiranti al martirio. Non è escluso che per molti di questi la morte di Osama Bin Laden sia addirittura la scintilla che può maggiormente infiammare le loro tentazioni suicide. Ed è persino possibile che molti rifiutino di credere alla sua morte e preferiscano costruire sulla vicenda di Abbottabad il mito, caro agli sciiti, dell'Imam nascosto.

In ultima analisi il fatto più positivo, nella lotta contro il terrorismo islamista, non è la morte di Bin Laden, ma l'apparizione nelle piazze arabe di un popolo nuovo, composto da giovani che non sembrano affidare all'Islam la soluzione di tutti i problemi e, pur essendo buoni musulmani, considerano il voto, nelle questioni terrene, più efficace del Corano. Sono loro i migliori nemici di Al Qaeda.

Sergio Romano

03 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #98 inserito:: Maggio 19, 2011, 06:02:16 pm »

DUE LEADER IN DIFFICOLTA'

La possibilità di un divorzio


Per Silvio Berlusconi le ultime dichiarazioni di Umberto Bossi sono solo parzialmente rassicuranti. Gli avrà fatto piacere apprendere che il leader della Lega non intende approfittare dei mediocri risultati di Milano e Bologna per mettere in discussione la sorte del governo.
Ma avrà notato che certe parole («abbiamo sbagliato campagna elettorale... non ci faremo trascinare a fondo») esprimono amarezza e, implicitamente, un giudizio negativo sullo stile del presidente del Consiglio. Berlusconi non può ignorare che il matrimonio di convenienza fra la Lega e Forza Italia ha sempre nascosto una fondamentale differenza fra le strategie dei due leader.

Bossi ha sempre pensato soprattutto alla conquista del Nord.
A un certo punto, nella seconda metà degli anni Novanta, quando credette che l'Italia avrebbe fallito l'operazione euro, si spinse sino a prospettare l'ipotesi della secessione. Abbandonò l'idea non appena capì che il progetto, dopo il successo della politica di Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi, sarebbe stato poco realistico. Ma continuò a concentrare tutta la sua attenzione sul Nord e stipulò un patto di governo con Berlusconi per due ragioni. Perché sperava, in primo luogo, che la collaborazione gli avrebbe permesso di realizzare il suo progetto federalista e perché sapeva, in secondo luogo, di potere contare sull'amicizia vigilante di Giulio Tremonti.

Berlusconi aveva altre ambizioni e strategie.
Voleva essere un leader nazionale e sapeva che nessuno può governare l'Italia senza i voti del Sud: una esigenza che ha costretto quasi tutti i governi italiani ad accettare compromessi inconfessabili con i partiti clientelari del Meridione. Fra i due leader, quindi, vi è sempre stato un conflitto potenziale, acuito dal fatto che molti dei loro rispettivi elettori provengono dalle stesse regioni, hanno la stessa matrice sociale e possono passare senza troppe difficoltà da un partito all'altro.

Non può sorprendere Berlusconi, quindi, il fatto che Bossi, in questo momento, s'interroghi sull'utilità del matrimonio.
Perdere Milano, per il leader della Lega, sarebbe ancora più grave di quanto non sia per Berlusconi. Dimostrerebbe che le radici della Lega nel Nord, dopo tanti sforzi e tanto impegno, sono ancora fragili. Il secondo turno di Milano assume così una maggiore importanza nazionale. Non ci dirà soltanto il nome del sindaco scelto dai milanesi. Aprirà una nuova fase nei rapporti fra Bossi e Berlusconi, e forse, in prospettiva, la possibilità di un divorzio.

La fase coincide con un periodo in cui i due leader dovrebbero anche chiedersi, nell'interesse del Paese, come intendono concludere la loro vita politica, quali ricordi desiderano lasciare del loro lavoro, chi debba ereditarne la parte incompiuta. In altri Paesi, più felici del nostro, questo avverrebbe grazie a meccanismi ben collaudati come quello che ha promosso il giovane Ed Miliband alla guida del partito laburista britannico dopo il ritiro di Gordon Brown. Ma in Italia esistono partiti personali creati e diretti da uomini che ne sono, per certi aspetti, proprietari. Ci piacerebbe che questi uomini pensassero seriamente alla loro successione e al futuro dei loro partiti.
Anche per rispetto degli elettori, oggi un po' smarriti.

Sergio Romano

19 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #99 inserito:: Maggio 29, 2011, 05:38:20 pm »

SERIETÀ E RISPETTO DELLE ISTITUZIONI

Il ritratto di un Paese

La Spagna non gode di buona salute e il suo governo subisce una dolorosa sconfitta elettorale.
La Gran Bretagna paga il prezzo di una politica che ha sacrificato l'industria sull'altare della finanza. La Francia ha un presidente impopolare, un ex presidente lungamente indagato per abuso di fondi pubblici, un ministro degli Esteri tornato agli affari dopo una sentenza penale che lo ha reso ineleggibile per qualche tempo.
La Germania è governata da una coalizione traballante che ha totalizzato parecchie sconfitte nelle elezioni regionali degli scorsi mesi.
E il presidente degli Stati Uniti, nonostante il successo dell'operazione Bin Laden, è ancora tenacemente accusato di avere contraffatto il suo certificato di nascita e progettato, con la sua riforma sanitaria, la strage delle fasce più anziane della società americana.

Ecco alcuni degli acciacchi che affliggono le maggiori democrazie moderne. Ma a nessuno passerebbe per la mente di pesare e valutare questi Paesi sulla base delle loro attuali disavventure. Le condizioni economiche della Gran Bretagna non hanno privato il premier David Cameron dell'omaggio che Barack Obama ha reso negli scorsi giorni alle tradizioni e alle istituzioni britanniche.
Il clamoroso scandalo di Dominique Strauss-Kahn (il presidente del Fondo monetario internazionale arrestato per violenze sessuali) non ha impedito a Nicolas Sarkozy di proporre, con il sostegno occidentale, una candidatura francese alla sua sostituzione. I tentennamenti opportunistici di Angela Merkel non hanno scalfito l'immagine della Germania nel mondo.

Le stesse regole non valgono evidentemente per l'Italia. Mario Draghi sarà governatore della Banca centrale europea perché, come si scrive a Berlino, «sembra tedesco». Sergio Marchionne ha salvato la Fiat e comprato la Chrysler perché è svizzero-canadese. Vecchi stereotipi stranieri di cui non riusciamo a sbarazzarci? Forse. Ma in altri tempi, nonostante i suoi vizi e le sue debolezze, l'Italia ha avuto un altro volto; e il mondo riusciva a distinguere la sua mediocre politica dal dinamismo delle sue imprese, dalla genialità dei suoi innovatori, dalla solidità delle sue istituzioni più affidabili, dalle qualità umane della sua società. Non credo che queste doti siano scomparse e che il Paese sia irrimediabilmente condannato al declino. Credo piuttosto che queste doti siano finite dietro uno schermo sul quale vanno in scena i bisticci triviali e le baruffe volgari della classe politica, la stupefacente leggerezza con cui i leader e i loro partiti formulano progetti assurdi e promettono ciò che non possono o non intendono mantenere. Come nel mondo dell'informazione, dove le notizie cattive finiscono per avere il sopravvento sulle notizie buone, così l'Italia della cattiva politica nasconde quella che non ha mai smesso di lavorare seriamente.

Naturalmente non tutti hanno le stesse colpe e quelle del governo sono sempre necessariamente maggiori di quelle dell'opposizione.
Ma i danni, comunque, colpiscono tutti gli italiani. Per colpa della cattiva politica l'Italia sta perdendo il suo credito internazionale proprio nel momento in cui, anche per la sua collocazione geografica, ne avrebbe maggiormente bisogno. La celebrazione del 2 giugno, alla presenza di molti ospiti stranieri, è ormai prossima. Un soprassalto di serietà, dignità e concordia istituzionale, di qui ad allora, potrebbe essere un segnale per il Paese e per quanti lo osservano e giudicano dall'esterno.

Sergio Romano

29 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_29/
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« Risposta #100 inserito:: Luglio 10, 2011, 04:05:47 pm »

REMARE CONTRO SE STESSI

La speculazione e i panni sporchi

Sembra che i rapporti fra Tony Blair e Gordon Brown, quando il primo era capo del governo e il secondo cancelliere dello Scacchiere, fossero pessimi. Avevano concluso un accordo: Blair se ne sarebbe andato durante il suo terzo mandato e Brown sarebbe diventato primo ministro con un certo anticipo rispetto alle elezioni successive. Ma Blair resistette più del previsto e trasformò la sua uscita di scena in una lunga e lentissima marcia trionfale. Vi furono probabilmente discussioni e baruffe. Ma in pubblico i due uomini politici si comportarono come se fossero legati da imperitura amicizia. Ipocrisia? Forse, ma anche e soprattutto buon senso. Sapevano che se avessero sciorinato in pubblico i panni sporchi delle loro relazioni personali, lo spettacolo delle loro intemperanze avrebbe nuociuto al prestigio del governo.

È inutile pretendere dai politici italiani il galateo dei loro colleghi britannici. Ogni Paese ha i suoi gusti, il suo stile, la sua opinione pubblica. Ma quello che è accaduto negli scorsi giorni non ha, anche da noi, precedenti. Il presidente del Consiglio ha detto che il suo ministro dell'Economia «non fa gioco di squadra», crede di essere un genio, è convinto che tutti gli altri siano dei cretini. In uno sketch separato il ministro dell'Economia ha definito infatti «cretino», sia pure a mezza voce, un collega di governo che partecipava con lui alla stessa conferenza stampa. E sul problema della clausola che avrebbe permesso all'azienda del premier di ritardare l'eventuale pagamento di una grossa ammenda, Berlusconi e alcuni suoi ministri hanno fatto dichiarazioni con cui si accusavano a vicenda, in sostanza, di avere mentito. Il governo si è ripetutamente battuto (a mio avviso con ragione) contro l'uso improprio e spregiudicato delle intercettazioni telefoniche. Ma a che cosa serve ascoltare le conversazioni private dei suoi membri quando è più che sufficiente ascoltare o leggere i loro interventi pubblici?

Questi episodi potrebbero essere i sintomi di un progressivo sfaldamento della maggioranza. Quando il futuro di un patto di governo diventa incerto, i freni inibitori dei soci tendono ad allentarsi. Se questo avvenisse in una fase in cui la legislatura sta per concludersi, poco male. Ma il Pdl e la Lega non sono pronti a nuove elezioni, l'opposizione non sembra volerle con sufficiente fermezza e lo scioglimento delle Camere a breve termine, salvo imprevedibili incidenti di percorso, appare per il momento improbabile. Il rischio, quindi, è che questo indecoroso spettacolo vada in scena ancora per parecchi mesi. L'Italia non può permetterselo. La lentezza con cui l'eurozona sta affrontando la crisi greca ha avuto per effetto il progressivo allargamento dell'area dei Paesi vulnerabili. La speculazione va a caccia di carne fresca e ha messo gli occhi sull'Italia. La manovra del ministro dell'Economia è probabilmente la migliore delle risposte possibili, ma il bisticcio delle scorse ore fra Berlusconi e Tremonti verte per l'appunto sul suo rigore e incoraggia coloro che sono pronti a scommettere sul suo annacquamento. Non basta. Se il differenziale fra i bond italiani e quelli tedeschi aumenta, i dati su cui la Finanziaria è stata calcolata verranno rapidamente superati dagli avvenimenti. Una delle accuse preferite da Silvio Berlusconi è quella indirizzata contro chi «rema contro». Che cosa dire di un governo che rema contro se stesso?

Sergio Romano

10 luglio 2011 12:03© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_10/romano_speculazione-panni-sporchi_ffe81dfa-aac2-11e0-a2e7-98abda3c461e.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Luglio 23, 2011, 05:42:37 pm »

Un paradosso tutto italiano

L'interminabile crisi del sistema politico italiano sembra avere prodotto un nuovo paradosso. Se il governo chiede un voto di fiducia, le Camere gli garantiscono una maggioranza favorevole e permettono al presidente del Consiglio di affermare che resterà a Palazzo Chigi sino al 2013. Ma quando il governo, senza chiedere la fiducia, cerca di cogliere un obiettivo preciso e concreto, il risultato rischia di essere una sonora sconfitta. È accaduto recentemente quando si è votato sul decreto rifiuti o sull'arresto di due parlamentari indagati dalla magistratura. Potrebbe accadere martedì quando si voterà sulle missioni militari italiane all'estero. Il governo sopravvive quando chiede fiducia, ma perde quando cerca di governare, vale a dire di fare ciò per cui è stato costituito. La responsabilità del paradosso è soprattutto della maggioranza, in cui esistono gruppi che manifestano in questo modo il loro malumore per il governo e il suo leader. Ma anche l'opposizione, pur dichiarando di volere le elezioni, sembra preferire la fase intermedia di un governo di transizione che eviterebbe la brusca fine della legislatura.

Tradotta in chiaro, questa anomalia significa che né la maggioranza né buona parte dell'opposizione vogliono lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate. Una frazione della maggioranza comincia a pensare che Berlusconi sia un handicap, non una risorsa, e glielo fa capire facendogli mancare il voto ogniqualvolta ne ha l'occasione. L'opposizione, dal canto suo, assiste con piacere al declino del presidente del Consiglio e all'impotenza dell'esecutivo. Ma l'una e l'altra vedono nelle elezioni anticipate un possibile rischio. Non sono pronte alla prova dei numeri di una pessima legge elettorale, temono un risultato mediocre, sono preoccupate (l'opposizione in particolare) dalla possibilità che il voto si disperda tra formazioni minori, poco «disciplinate» e affidabili, ma capaci di calamitare i rabbiosi consensi di una parte crescente della società italiana.
Il risultato è l'esatto opposto di ciò che sta accadendo in un altro Paese dell'Unione europea. Dalle elezioni del giugno dell'anno scorso il Belgio non ha un governo espresso dal Parlamento; ma quello che dovrebbe limitarsi agli affari correnti ha assicurato una buona gestione dell'economia nazionale. Sul futuro dello Stato incombe il grande problema irrisolto dei rapporti tra valloni e fiamminghi, con tutte le incognite costituzionali che questo comporta. Ma non vi è un vuoto di potere, e chi amministra temporaneamente la cosa pubblica sembra avere l'autorità necessaria per fare fronte a tutti i problemi del momento. L'Italia, invece, ha un governo che può contare, almeno numericamente, su una maggioranza sufficiente, ma soffre di un vuoto di potere che si riflette sulla sua capacità di fare fronte alla crisi economica, alle tempeste finanziarie e alle sue responsabilità internazionali soprattutto là dove ha mandato i suoi soldati.

Non è possibile che questa situazione e lo stallo che ne consegue si protraggano indefinitamente. Un governo che non governa perché una fronda interna glielo impedisce, e una opposizione che non pare pronta (con quale formula?) a tentare di sostituirlo, sembrano afflitti da una intollerabile schizofrenia. Troppo ansiosi per il proprio futuro, appaiono incapaci di comprendere che stanno pregiudicando quello dell'Italia. È tempo che ciascuno dei due si assuma le proprie responsabilità, faccia le proprie scelte e le spieghi con chiarezza al Paese.

Sergio Romano

22 luglio 2011 08:38© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_22/romano-sistema-politico_cc5cce1c-b423-11e0-a808-3da11ae54dd1.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Luglio 28, 2011, 11:57:01 am »

UN CHIARIMENTO NECESSARIO

Quel che Tremonti non ha detto


I pagamenti in nero sono il male oscuro dell'economia nazionale. Quanti italiani possono affermare di non avere mai ceduto alla tentazione, magari per spese modeste e cose di poco conto? Quanti possono lanciare la prima pietra senza peccare d'ipocrisia? Ma la colpa è molto più grave se attribuita a persone che hanno l'obbligo istituzionale di esigere correttezza fiscale, di fissare le regole e di punire coloro che non le osservano.

Temo che il caso del ministro dell'Economia, se i sospetti delle scorse ore sui pagamenti effettuati per l'affitto del suo appartamento romano avessero qualche fondamento, apparterrebbe a questa categoria. Giulio Tremonti è stato in questi anni il custode dei conti pubblici, il cane mastino della finanza nazionale. Ha esercitato le sue funzioni con un rigore e una tenacia che hanno suscitato l'approvazione di Bruxelles e contribuito alla credibilità dell'Italia nelle maggiori istituzioni internazionali. Alcuni colleghi di governo lo accusano di averlo fatto con criteri automatici (i «tagli lineari») che non tengono alcun conto delle differenze che certamente esistono fra i diversi contribuenti e i diversi organi pubblici colpiti dalla stretta fiscale. Ma chiunque abbia la benché minima familiarità con le abitudini politiche nazionali sa che cosa accade quando un progetto di legge finanziaria diventa materia di negoziati estenuanti e di ritocchi progressivi. Può darsi che Tremonti abbia messo nell'operazione alcuni tratti del suo «cattivo carattere» e una certa dose di narcisismo intellettuale. Ma nessun osservatore in buona fede può dimenticare quali sarebbero in questo momento le condizioni della finanza italiana sui mercati internazionali se la sua volontà non avesse prevalso.

Il suo stile, tuttavia, gli ha creato nemici a cui non spiacerà sostenere, nei prossimi giorni, che anche il cerbero dei conti pubblici ha il suo tallone d'Achille. Il caso del ministro che paga in nero per un appartamento forse addirittura al centro di un'imbrogliata vicenda di favori e appalti rischia di diventare l'arma preferita dei suoi avversari. Qualcuno potrebbe persino sostenere che Tremonti è il nostro Murdoch. Se il magnate della stampa anglo-americana pretende di censurare i governi dall'alto della sua cattedra, ma compra le notizie corrompendo la polizia e intercettando le telefonate della gente, che cosa dire di un ministro dell'Economia e delle Finanze che pretende di tassare i suoi connazionali, ma accorda a se stesso un trattamento di favore?

Tremonti dovrebbe rompere la spirale dei sospetti e parlare con franchezza ai suoi connazionali. Non deve permettere che questa infelice vicenda diventi l'ennesimo scandalo della vita pubblica nazionale e contribuisca ad accrescere la sfiducia del Paese per la sua classe politica. Ci dica che cosa è realmente accaduto e, se ha commesso un errore di giudizio o un peccato di distrazione, non tema di scusarsi pubblicamente. Lo faccia per se stesso e nell'interesse di un Paese che, soprattutto in questo momento, ha bisogno di un ministro dell'Economia serio e credibile.

Sergio Romano

28 luglio 2011 07:38© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_28/romano_quello_che_tremonti_9ff0d576-b8d8-11e0-a8dd-ced22f738d7a.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Agosto 19, 2011, 11:41:46 am »

UNA MANOVRA DEMOCRATICA

Coraggio, dimezzate deputati e senatori

   
Di tutti i peccati che la classe politica italiana non cessa di commettere, quello di avant’ieri (una seduta di Palazzo Madama a cui hanno partecipato soltanto undici senatori) è probabilmente uno dei più veniali. In altre circostanze avremmo sorriso e perdonato. Oggi fatichiamo a capire. Il problema non è la maggiore o minore presenza di parlamentari per una occasione puramente procedurale. Il vero problema è quello della totale insensibilità di una larga parte del ceto politico per i sentimenti e gli umori del Paese. Non è necessario essere osservatori di mestiere per sapere che gli italiani sono arrabbiati. Sanno che anche i politici, come certi banchieri, si sono distribuiti bonus generosi: indennità, vitalizi, rimborsi, collaboratori spesso pagati in nero, pasti semi-gratuiti, uffici semi- privati affittati nel centro di Roma a spese dello Stato, facilitazioni di varia natura. Sanno che molti politici hanno una concezione privata della loro funzione e se ne servono permeglio perseguire i loro personali interessi. Sanno che un parlamentare avvocato, tanto per fare un esempio, può continuare a esercitare la sua professione anche se questo sottrae tempo al suo incarico e lo espone a un continuo, virtuale conflitto di interessi. Credevano di avere eletto un servitore dello Stato e si accorgono di avere dato i loro voti a una corporazione.

Evidente da tempo, questa insofferenza è stata inasprita dalla congiuntura economica. La classe politica chiede ai suoi connazionali di stringere la cinghia, ma si limita a qualche modesto sacrificio. Non ha capito che non esistono soltanto i conti del bilancio statale. Esistono anche quelli della democrazia, vale a dire del rapporto fra gli eletti e gli elettori. Non ha capito che non esiste soltanto il mercato dei valori finanziari, dove gli Stati e le aziende devono dimostrare la loro serietà e credibilità. Esiste anche il mercato dei valori democratici, dove ogni uomo politico deve rendere conto dei voti ricevuti e provare la sua affidabilità.

Per raddrizzare il Paese non basta quindi una manovra finanziaria. Occorre anche una manovra democratica, vale a dire un pacchetto di misure che serva a spegnere i sentimenti di rabbia e disprezzo che molti italiani provano per i loro rappresentanti. Se il problema maggiore, come sembra, è quello del Parlamento, converrebbe cominciare, il più rapidamente possibile, dal numero dei parlamentari. In altre circostanze avrei preferito che il dimezzamento del Senato coincidesse con una più precisa definizione delle sue funzioni in uno Stato federale e quello della Camera con una migliore ripartizione della funzione normativa tra il governo e il Parlamento. Oggi, se la classe politica vuole dare un segno di attenzione per i malumori della società, le circostanze impongono misure più rapide e quindi un progetto di legge sottoscritto dal governo e da tutti quei settori della minoranza che sono pronti ad approvarlo. L’iniziativa avrebbe tre effetti positivi: darebbe una risposta al Paese; dimostrerebbe che la riforma della Costituzione è una materia su cui maggioranza e opposizione possono lavorare insieme; direbbe agli speculatori che la nave Italia non ha alcuna intenzione di andare a fondo.

Sergio Romano

19 agosto 2011 09:16© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_19/romano-coraggio-dimezzate-deputati_b2328808-ca29-11e0-9ddb-a6b1d988da8e.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:14:49 pm »

Strana guerra senza vincitori

Se la guerra di Libia come sembra è terminata, sappiamo chi l'ha perduta: il Colonnello, il suo clan familiare, i profittatori del regime, le tribù alleate, gli amici internazionali che hanno scommesso sulla sua vittoria. Non sappiamo invece chi l'ha vinta. I ribelli hanno combattuto coraggiosamente, ma sono una forza raffazzonata composta all'inizio da qualche nucleo islamista, senussiti della Cirenaica, nostalgici del regno di Idris, una pattuglia democratica. Le loro file si sono ingrossate quando l'intervento della Nato è sembrato garantire una vittoria sicura. Ma il fatto che molti notabili siano stati alla finestra per parecchi mesi e abbiano cambiato campo soltanto nelle ultime settimane dimostra che il risultato della partita era incerto e che nella migliore delle ipotesi il Paese sarà governato da una coalizione di opportunisti post-gheddafiani, lungamente complici di colui che ha dominato la Libia per 42 anni.

Hanno vinto gli uomini di Stato occidentali che hanno voluto l'intervento militare? Il presidente francese aveva due obiettivi. Sperava, in primo luogo, di oscurare con un rapido successo politico-militare l'imbarazzante ricordo delle sue amicizie egiziane e tunisine. E contava di diventare il partner privilegiato della maggiore potenza petrolifera dell'Africa settentrionale. Dopo una guerra molto più lunga del previsto, Nicolas Sarkozy constaterà probabilmente che un Paese distrutto e ingovernabile è il peggiore dei partner possibili. Il primo ministro britannico ha obbedito a una sorta di tic imperiale e ha oggi altre gatte da pelare. Barack Obama non crede che la vicenda libica possa giovare alla sua rielezione e ha fatto un passo indietro non appena l'operazione è diventata troppo lunga e complicata.

Ha vinto la Nato? I suoi portavoce sosterranno che il suo ruolo è stato decisivo. Ma ha vinto, tecnicamente, soltanto per evitare che la sua uscita di campo, dopo il fallimento dell'operazione umanitaria e lo stravolgimento degli scopi iniziali dell'intervento, divenisse agli occhi del mondo la prova della sua impotenza. Qualcuno prima o dopo si chiederà se la maggiore alleanza militare del mondo abbia interesse a spendere tempo e denaro per installare al potere un partito di cui ignora la composizione e i programmi.

L'incertezza del risultato raggiunto in Libia avrà l'effetto di rendere ancora meno efficace la politica dell'Europa e degli Stati Uniti in Africa del Nord e nel Levante.

Di fronte a una transizione che si sta rivelando ovunque incerta e laboriosa, l'Occidente ha bruciato ormai la carta estrema dell'intervento militare. La Fratellanza musulmana in Egitto, Bashar Al Assad in Siria, gli Hezbollah in Libano, Ali Abdullah Saleh nello Yemen, Omar Al Bashir in Sudan e naturalmente Mahmud Ahmadinejad in Iran sanno che l'Occidente, assorbito dalle sue crisi economiche e finanziarie, potrà soltanto predicare democrazia e minacciare sanzioni: due armi che si sono dimostrate quasi sempre spuntate.

Sergio Romano

22 agosto 2011 07:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_22/romano_strana-guerra-no-vincitori_ddc64c3e-cc7c-11e0-8c25-58bcec909287.shtml
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