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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96378 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Febbraio 04, 2010, 10:09:01 am »

UNA COSTANTE DEL COSTUME NAZIONALE

L'ossessione del complotto


E’ accaduto che la fotografia di un uomo politico, scattata negli anni in cui era magistrato e apparsa ora sul Corriere, abbia generato l’ultimo complotto italiano. Ed era accaduto anche giorni prima per le ricostruzioni sulle rivelazioni di una famosa escort, apparse anch’esse sul Corriere. Nulla di nuovo. La storia degli ultimi decenni, dalla caduta del fascismo a oggi, è una lunga lista di complotti. Non c’è avvenimento, piccolo o grande, dietro il quale non sia stata immaginata la mano di un regista occulto, di un burattinaio, di un «grande vecchio».

Non esistono storie plausibili, comprensibili, ricostruibili con il filo della logica e con i normali strumenti di un’indagine giornalistica o giudiziaria. Esistono soltanto imbrogliate strategie manipolate da personaggi misteriosi e potenti: i servizi, i poteri forti, le logge, le mafie. I fatti, grandi e piccoli, passano in secondo piano. Poco importa che non sia generalmente possibile provare l’esistenza di un complotto e risalire ai suoi responsabili. Il «bello » di queste vicende è che sono tanto più credibili quanto più difficilmente dimostrabili.

Le intenzioni oscure e la trama improbabile confermano la suprema abilità del regista. Quando mette radici nell’immaginazione collettiva il complotto non muore mai. Il fenomeno non è esclusivamente italiano. Un episodio della vita di François Mitterrand (alcuni colpi di pistola esplosi contro l’uomo politico francese nei giardini dell’Observatoire) ha appassionato la Francia per qualche decennio. L’assassinio di John Kennedy è un copione continuamente scritto e riscritto. Persino gli attentati dell’11 settembre (un avvenimento che il mondo ha visto in diretta) sarebbero una scatola cinese dove il complotto islamista nasconde un altro complotto ordito all’interno dello Stato americano. La fantapolitica aguzza l’immaginazione degli scrittori, piace ai lettori e, naturalmente, agli editori. Esiste un mercato del complotto che è diventato in questi anni sempre più vasto e proficuo.

Ma nel mercato italiano la moneta si è progressivamente inflazionata e il grafico nazionale dei complotti segnala una brusca impennata. La ragione è più psicologica che politica. Molti italiani diffidano delle istituzioni e credono che la scaltrezza, l’intrigo, la congiura abbiano nelle vicende politiche una parte essenziale. Alle storie complicate, ma spiegabili razionalmente, preferiscono quelle in cui il sospetto è più seducente di qualsiasi prova. Credono di essere scaltri e sono in realtà ingenui, se non addirittura infantili. Credono di avere afferrato il bandolo della matassa e sono diventati creduli ascoltatori di favole. Questa propensione alle favole complottistiche ha l’effetto di peggiorare ulteriormente la qualità del dibattito politico.

Quando un premier, un ministro, un parlamentare o un uomo di partito desiderano sottrarsi a un’accusa o sfuggire a un confronto puntuale sulle loro responsabilità, la migliore difesa è quella di invocare il complotto. E se possono dirottare l’attenzione della pubblica opinione verso una potenza straniera, tanto meglio. La denuncia del complotto, in altre parole, serve a occultare i fatti, a nascondere la realtà, a parlare d’altro. Per evitare che questo accada i giornali hanno un compito e una responsabilità: riferire e controllare tutto, senza nascondere nulla, e tirare gli uomini politici per la giacca convincendoli a raccontare fatti, non favole.

Sergio Romano

04 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #61 inserito:: Febbraio 11, 2010, 10:32:36 am »

Emergenza e regole


Spero che Guido Bertolaso sia vittima di uno di quegli incidenti di percorso che appartengono, soprattutto in Italia, alla vita di chiunque abbia una forte esposizione pubblica. Sappiamo che molti burocrati evitano i problemi di giustizia, ordinaria o amministrativa, palleggiando le loro carte da un ufficio all’altro. Non vorremmo che questa vicenda avesse l’effetto di confermarli nelle loro abitudini. Non vorremmo continuare a essere il Paese in cui procrastinare è il miglior modo per non finire in un’aula di tribunale. Bertolaso si è dimostrato un efficace organizzatore, non si è sottratto alle sue responsabilità e ha avuto il merito di offrire subito le sue dimissioni: un gesto poco abituale in un Paese dove dimettersi, dopo la breve parentesi di Mani Pulite, continua a essere l’eccezione piuttosto che la regola.

Il responsabile della Protezione civile ha diritto, non soltanto per ragioni di principio, alla presunzione d’innocenza. Ma il caso suggerisce alcune considerazioni strettamente collegate. In primo luogo l’area della «Protezione civile» si è straordinariamente allargata sino a comprendere avvenimenti, come il vertice della Maddalena o una grande gara sportiva, che non dovrebbero essere considerati emergenza.

Questa prassi ha modificato il profilo pubblico di Bertolaso e, forse, il suo stile. Da amministratore dell’emergenza è diventato sottosegretario, ministro in pectore e zar (come dicono gli americani in questi casi) di un territorio dai confini molto imprecisi. Ho personalmente difeso le sue dichiarazioni sul contributo degli Stati Uniti alla tragedia di Haiti perché mi sono parse realistiche e fondate. Ma il fatto che fossero condivisibili non autorizza il rappresentante dell’Italia a prendere pubbliche posizioni che potrebbero pregiudicare i rapporti della sua organizzazione con il Paese che, piaccia o no, avrà nell’isola il ruolo maggiore.

La colpa non è interamente di Bertolaso. Le trasformazioni subite dalla Protezione civile in questi ultimi tempi appartengono alla filosofia e allo stile del governo Berlusconi. Il presidente del Consiglio ha la mentalità di un imprenditore, il gusto delle realizzazioni rapide, la voglia di lasciare sul Paese un segno visibile della sua presenza al potere. Se avesse messo queste qualità al servizio di grandi riforme istituzionali e amministrative, ne saremmo tutti, indipendentemente dal nostro voto, felici.

Ma quando vuole realizzare opere pubbliche e si scontra con le esasperanti lentezze di un Paese invecchiato, Berlusconi cede spesso alla tentazione di aggirarle creando, volta per volta, percorsi speciali e autorità straordinarie. Il metodo presenta almeno due inconvenienti. Si perde di vista, in questo modo, il disegno organico che dovrebbe ispirare la riforma dello Stato. E si aprono zone grigie in cui il pericolo dell’illegalità diventa maggiore. Corriamo il rischio di passare da una situazione in cui non si fa niente a una situazione in cui tutto può essere materia di sospetti e indagini.

Mi auguro che Bertolaso esca bene da questa vicenda, ma anche e soprattutto che il governo rinunci alle scorciatoie e affronti apertamente, in Parlamento, il problema del buon funzionamento di uno Stato moderno.

di SERGIO ROMANO

11 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #62 inserito:: Febbraio 20, 2010, 11:13:34 am »

SE C’E’ EMERGENZA, AGIRE SUBITO

Il segnale necessario


Non conosciamo ancora il testo del disegno di legge contro la corruzione di cui il governo ha approvato ieri una bozza. Peccato.

Il governo avrebbe dovuto agire con la rapidità di cui sa dare prova in altre circostanze che riguardano i processi. Ma il fatto che tre ministri — Alfano, Calderoli e Brunetta — abbiano l’incarico di lavorare insieme per mettere a punto uno strumento più efficace di quelli che già esistono nei nostri codici è pur sempre un buon segnale. Dimostra che il governo è finalmente uscito dallo stato di benevola indifferenza con cui commentava questi episodi e soprattutto, speriamo, che potrebbe smettere di vedere in ogni azione giudiziaria un segno della ostilità dei magistrati nei suoi confronti. La parola «pirla» con cui Umberto Bossi ha bollato un consigliere municipale milanese ricorda la parola «mariuolo » con cui Bettino Craxi, 18 anni fa, definì il presidente del Pio Albergo Trivulzio e lascia intravedere una sorta di benevola noncuranza.

Il governo farebbe bene a ricordare che Mani pulite fu anche dovuto al consenso suscitato dalle iniziative della Procura di Milano e alla collaborazione degli indiziati. Gli industriali parlarono, anche a costo di incriminare se stessi, perché il peso delle tangenti era diventato insopportabile. Oggi il clima, per certi aspetti, è simile a quello di allora. I reati di corruzione sono sempre gravi e deprecabili. Ma diventano particolarmente intollerabili quando la crisi colpisce le industrie, crea disoccupazione, obbliga tutti a ridurre i consumi e a privarsi di una parte del benessere conquistato con fatica. Se il governo lo ha capito, meglio tardi che mai. E se lo ha capito grazie all’approssimarsi di elezioni che si annunciano più difficili di quanto il presidente del Consiglio avesse previsto, questo dimostra che la democrazia italiana, nonostante il pessimismo di molti, è ancora in buona salute.

Penso che il governo dovrebbe spingersi più in là e rendersi conto che non esiste soltanto il denaro rubato, ma anche quello mal guadagnato.
La rabbia degli italiani non concerne soltanto le mazzette e le tangenti. Investe nella stessa misura quella parte del ceto politico che nel corso di questi anni si è comportata non diversamente dai dirigenti delle grandi istituzioni finanziarie che sono responsabili della crisi. Mentre banchieri e gestori di fondi si attribuivano gratifiche che non tenevano alcun conto degli effetti delle loro acrobatiche speculazioni, la classe politica si è regalata salari superiori a quelli dei loro colleghi europei, doppi incarichi, seggi in consigli di amministrazione e una pioggia di «competenze accessorie ».

Questo arrembaggio allo Stato e alle sue risorse è oggi, dopo i molti libri apparsi sull’argomento (fra cui quelli di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella), uno dei fenomeni meglio documentati della vita italiana. Ma la classe politica, così loquace e polemica in altre circostanze, ha reagito al modo in cui Agostino Depretis, presidente del Consiglio nei primi decenni del Regno, reagiva alle crisi internazionali: apriva l’ombrello e aspettava che la bufera passasse.

Ebbene, l’ombrello è rotto. Il governo, come l’opposizione, farebbe bene a rendersi conto che gli italiani non fanno troppe distinzioni fra il denaro rubato e quello mal guadagnato: l’uno e l’altro vengono dalle loro tasche.

Sergio Romano

20 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #63 inserito:: Febbraio 28, 2010, 08:26:07 pm »


DOPO UNA SETTIMANA DI SCANDALI E ACCUSE

Un consiglio al cavaliere

Alla fine di una delle peggiori settimane della storia nazionale molti italiani e moltissimi stranieri pensano probabilmente che l’Italia sia un malato terminale. La principale funzione delle sue industrie sarebbe quella di riciclare denaro sporco. La Protezione civile servirebbe ad arricchire costruttori cinici e spregiudicati. I suoi senatori sarebbero schiavi della malavita. E i magistrati, secondo il presidente del Consiglio, sarebbero «talebani». Qualcuno pensa che questa immagine del Paese sia fabbricata nelle redazioni dei giornali.
Ma i giornalisti, come disse un loro vecchio collega americano, James Reston, non fabbricano le notizie; si limitano a consegnarle al mattino, come i lattai consegnano il latte.

Eppure non ha torto chi pensa che dietro questo ritratto dell’Italia vi sia un altro Paese dove le industrie cercano di superare la crisi, gli uomini e le donne della Protezione civile fanno un eccellente lavoro, le banche stanno molto meglio di parecchi istituti europei e americani e i conti pubblici, considerate le circostanze, sono sotto controllo. Potremmo cominciare a parlare anche del Paese che funziona e dei modi per renderlo migliore?

Credo che questa responsabilità spetti anzitutto al presidente del Consiglio. Nella settimana degli orrori vi è stata anche una sentenza della Corte di cassazione che mette almeno un punto fermo a uno dei suoi peggiori incubi giudiziari. Non voglio entrare nel merito della vicenda, è già stato fatto su questo giornale da Luigi Ferrarella. Mi limito a osservare che Silvio Berlusconi può rinunciare al duello quotidiano con la magistratura e i suoi oppositori. Dovrebbe quindi rendersi conto che questi duelli hanno enormemente contribuito, al di là delle sue intenzioni, a creare l’immagine di un Paese allo sbando dove le notizie cattive oscurano le notizie buone. È stato eletto con un programma che la maggioranza degli italiani ha considerato più modernizzatore e liberale di quello dei suoi avversari. È ora che torni a quel programma e spieghi ai suoi connazionali come intende utilizzare i tre anni che lo separano dalla fine della legislatura.

Penso alle riforme istituzionali, anzitutto, ma anche alla riforma fiscale, a quella della pubblica amministrazione, alla lotta contro la corruzione, alle infrastrutture, alla Tav, al nucleare, ai porti, al Sud, alla ricerca scientifica. Non gli chiediamo di risolvere tutti i nostri problemi da un giorno all’altro. Gli chiediamo di innalzare il tono del dibattito nazionale e di coinvolgere in questa nuova fase tutti i suoi connazionali, anche quelli che non hanno votato per lui. Rinunci, per favore, a parlarci della magistratura «cattiva» e cerchi piuttosto di riformare l’ordine giudiziario in un clima di maggiore distensione e collaborazione. Rinunci a definire «comunisti» i suoi critici e tenga conto delle loro opinioni quando sono utili all’interesse generale del Paese. Faccia, insomma, quello che aveva promesso di fare. Ha di fronte a sé tre anni. Non sono pochi.

Sergio Romano

28 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #64 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:07:27 am »

UNA STRANA CAMPAGNA ELETTORALE

Piazze piene e idee vuote


La piazza e le grandi manifestazioni popolari appartengono alla democrazia e ne dimostrano la vitalità. Ma siamo davvero sicuri che la elezione di buoni amministratori regionali in un Paese desideroso di essere federale esiga due grandi raduni di massa a una settimana di distanza? Abbiamo creato le Regioni perché volevamo accorciare la distanza fra i cittadini e i loro rappresentanti.

Abbiamo modificato il titolo V della Costituzione perché volevamo che le Regioni avessero maggiori competenze. Abbiamo approvato il principio del federalismo fiscale perché vogliamo che ogni Regione sia responsabile delle proprie spese e gli elettori apprendano a scegliere rappresentanti onesti, capaci, attenti all’uso del pubblico denaro. Se queste riforme hanno un senso, le campagne elettorali dovrebbero concernere i cittadini delle singole regioni e offrire all’intero Paese un quadro aggiornato del modo in cui ciascuna di esse affronta la crisi. Vorremmo sapere, ad esempio, perché le Regioni in cui la spesa sanitaria è minore sono spesso quelle in cui i cittadini sono meglio trattati. Vorremmo conoscere i motivi per cui a spese particolarmente elevate corrisponda una cronica mancanza di servizi essenziali.

Vorremmo ascoltare la voce di candidati che spiegano ai loro elettori quale programma intendano applicare se saranno eletti. Avremo invece una grande manifestazione di centro-sinistra oggi a Roma e una grande manifestazione di centro-destra domenica prossima a Milano. Queste due manifestazioni nazionali hanno già avuto alcuni effetti perniciosi. In primo luogo hanno interamente oscurato il dibattito pre-elettorale sui contenuti delle diverse candidature. Si parla di tutto, fuorché di ciò che le Regioni hanno il diritto e il dovere di fare in materia di salute, sicurezza, occupazione, pubblica istruzione. In secondo luogo hanno rimesso indietro l’orologio della politica italiana. Il centro-sinistra scende in piazza con una formazione simile a quella dell’Unione: un cartello delle contraddizioni in cui chi rispetta e apprezza il ruolo moderatore del presidente della Repubblica sfila insieme a chi ne vorrebbe l’impeachment.

La sinistra sembra avere dimenticato che questa alleanza di comodo fra partiti profondamente diversi fu il principale motivo della caduta del governo Prodi nel 2008. Un avversario comune non basta a creare un programma comune. Il centro-destra, dal canto suo, soffre di una stessa malattia. Mentre la sinistra si mobilita contro Berlusconi, il leader del Pdl chiama a raccolta il suo popolo contro i comunisti, i magistrati faziosi, gli occulti registi di un complotto anti-governativo. Siamo alle solite. Invece di essere invitati a scegliere fra amministratori e programmi, siamo chiamati a scegliere fra il Bene e il Male, fra la dittatura strisciante della destra e l’incurabile comunismo della sinistra. Viene naturale chiedersi se i partiti si occupino di queste cose perché non sanno occuparsi d’altro. Dicono di parlare a cittadini democratici e consapevoli, ma non chiedono un voto: chiedono un atto di fede. Anche le astensioni, in questo caso, avranno un significato.

Sergio Romano

13 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #65 inserito:: Marzo 19, 2010, 03:48:57 pm »

IL CASO FRANCESE E NOI

L'astensione fa male a tutti


Rinunciare al voto, disertare le urne è una tentazione ricorrente delle democrazie. La voglia di stare a casa o andare al mare, a seconda della stagione, scatta quando la politica delude, quando tutte le scelte sembrano, anche se per ragioni diverse, egualmente inutili, quando l'astensione pare il modo migliore per punire i partiti, le loro bugie e le loro promesse mancate. Nel caso delle prossime regionali la tentazione potrebbe essere rafforzata dall’esempio della Francia dove, in condizioni per certi aspetti analoghe, il 53,6% degli elettori è rimasto a casa.

Prima di seguire l'esempio francese, tuttavia, faremmo bene a riflettere su alcune considerazioni. Come osserva Roberto D’Alimonte («Il Sole24 Ore» del 17 marzo), l'astensionismo francese è sempre stato piuttosto elevato e ha toccato nelle regionali del 2004 la percentuale del 37,9%. Il fenomeno è dovuto, oltre che a una evidente insoddisfazione per il presidente Sarkozy e il suo partito, a due motivi concorrenti. In primo luogo l'istituto della Regione è relativamente recente. Risale all' inizio degli anni Ottanta, dopo l’elezione di Mitterrand alla presidenza della Repubblica (1981), si sviluppa gradualmente durante il decennio, crea Regioni che hanno meno poteri e responsabilità di quanti ne abbiano quelle italiane; e soprattutto non ha ancora sostituito nella mente di molti francesi il concetto profondamente radicato di una Francia «una e indivisibile » dove il potere resta saldamente concentrato nei palazzi di Parigi.

In secondo luogo esiste ormai in Francia, come in tutte le vecchie democrazie, un'alta percentuale di elettori che dimostrano, al momento del voto, una sorta di agnosticismo e delegano implicitamente agli altri il compito di scegliere il governo e le amministrazioni locali. Sono pigri e politicamente «analfabeti», non necessariamente animati da sentimenti di rabbia e frustrazione per la classe politica. Ogni Paese ha la sua storia. L'Italia ha una storia di percentuali alte che solo in questi ultimi anni sono andate progressivamente calando. E ha Regioni forti che alla fine della prossima legislatura avranno probabilmente ancora più competenze e responsabilità di quante ne abbiano attualmente. Esistono altre ragioni per cui l'astensione, tutto sommato, non è una buona idea.

L’elettore che diserta le urne manifesta il suo malumore ma lancia un segnale ambiguo, senza contorni precisi, e soprattutto contribuisce comunque a un risultato che potrebbe essere molto lontano da quello delle sue preferenze abituali. Dice no alla competizione, ma verrà comunque governato nella sua regione da un partito o dall’altro. Attraversiamo un brutto periodo e abbiamo serie ragioni per essere irritati dall'indecoroso spettacolo di una classe politica che non perde occasione per fare sfoggio della sua volgarità e della sua impudenza. Ma non dovremmo dimenticare che a ogni elettore, in qualsiasi democrazia, accade molto spesso di dovere scegliere quello che rappresenta, per la sua cultura politica e i suoi interessi, il «meno peggio ». Chi va alle urne e vota per un candidato o un partito acquista il diritto di richiamare le persone prescelte all'osservanza degli impegni presi durante la campagna elettorale. Privarsi di questo diritto, soprattutto in una fase in cui le Regioni stanno diventando sempre più importanti, è perlomeno imprudente.

Sergio Romano

19 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #66 inserito:: Aprile 08, 2010, 03:19:02 pm »

Le due Italie dei sindaci


La manifestazione dei sindaci lombardi, riuniti oggi a Milano per protestare contro le servitù imposte ai loro Comuni dal patto di stabilità, sarebbe piaciuta a Tocqueville. Quando visitò gli Stati Uniti nel 1831, lo studioso francese non giudicò la democrazia americana dal numero di coloro che votavano nelle elezioni locali e federali. Fu colpito invece dalla straordinaria prontezza con cui i cittadini di un Paese poco più che cinquantenne, riuscivano a creare dal basso in breve tempo associazioni e movimenti che si proponevano obiettivi locali, pratici e concreti. Non avevano programmi ideologici e non volevano cambiare il mondo. Volevano risolvere un problema, rimuovere un balzello, ottenere maggiore autonomia per la gestione di affari che concernevano direttamente l’insieme della comunità locale.

Il movimento lombardo deve molto ai buoni risultati dell’impegno dei sindaci leghisti nell’amministrazione dei Comuni conquistati dal loro partito. Ma spiazza o scavalca tutti i partiti politici ed è il risultato di due fenomeni su cui la classe politica nazionale, di destra o di sinistra, farebbe bene a riflettere.

Il primo è l’elezione diretta del sindaco. In un Paese dove i parlamentari nazionali devono la loro elezione alla benevolenza dei partiti e sono per la pubblica opinione, soprattutto con la presente legge elettorale, funzionari, cortigiani, titolari di benefici e prebende, il sindaco ha un forte mandato personale, lavora sotto gli occhi dei suoi concittadini e deve rispondere del modo in cui amministra la cosa pubblica. Si è progressivamente aperta così, soprattutto negli ultimi anni, una specie di forbice istituzionale. Mentre i Comuni si avvicinavano agli elettori e diventavano sempre più concretamente democratici, i poteri centrali si allontanavano dai cittadini e ne perdevano la fiducia.

Il secondo fenomeno riguarda l’unità del Paese. La democrazia dal basso, di cui il movimento lombardo è una battagliera espressione, non ha avuto ovunque gli stessi effetti. Al Nord ha creato servizi migliori e una classe dirigente più capace e responsabile. Al Sud, con qualche lodevole eccezione, ha creato clientele, voto di scambio, affarismo e una burocrazia ridondante se non addirittura parassitaria. La combinazione di questi due fenomeni — elezione diretta del sindaco e risultati diversi a seconda della latitudine — ha reso ancora più evidente l’esistenza di due Italie dove una stessa norma può produrre effetti opposti. Oggi più che mai abbiamo di fronte ai nostri occhi la prova che le leggi buone per il Nord non sono necessariamente buone per il Sud, e viceversa.

Il patto di stabilità risponde a una logica nazionale ed è dettato da esigenze che nessun ministro dell’Economia, quale che sia il partito di appartenenza, può trascurare. Ma la logica nazionale diventa difficilmente accettabile dove non tutti i destinatari fanno lo stesso uso del pubblico denaro e obbediscono alle stesse regole del gioco. Quadrare il cerchio e conciliare esigenze così visibilmente contraddittorie è terribilmente difficile. Ma sarà ancora più difficile se la classe politica non la smetterà di sottovalutare il problema e di continuare ad alimentare il divario per meschine ragioni elettorali.

Sergio Romano

08 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #67 inserito:: Aprile 14, 2010, 02:44:47 pm »

Sergio Romano: proteggerli è il primo compito

di U.D.G.

A questo punto il governo italiano ha un solo compito da assolvere: quello di proteggere i propri connazionali e di assicurare che abbiano il migliore supporto legale e giudiziario possibili». A sostenerlo è uno dei più autorevoli analisti di politica internazionale italiani: l'ambasciatore Sergio Romano.

Ambasciatore Romano, quale idea si è fatto sulla vicenda che vede coinvolti tre operatori di Emergency?
«Una premessa è d'obbligo: quella in atto è una vicenda su cui poco si è finora saputo, per cui è possibile solo avanzare ipotesi e considerazioni generali».

Quali?
«Occorre partire dalla constatazione che quello attuale è un mondo afghano molto complesso e contraddittorio, nel quale la linea di frontiera tra il governo e le istituzioni da un lato e i talebani dall'altro, non è poi così netta. Gli “sconfinamenti” da una parte e dall'altra sono un dato della realtà, una costante direi. E questo complica ulteriormente il quadro e rende ancor più difficile capire sempre con la necessaria chiarezza quale siano le vere motivazioni degli uni e degli altri. E poi c'è un'altra considerazione da fare che riguarda direttamente Emergency, la sua natura, il suo profilo».

In cosa consisterebbe a suo avviso questa “peculiarità” di Emergency?
«Direi il fatto che Emergency è, almeno questo a me pare, una associazione umanitaria sui generis. Intendo dire che le associazioni umanitarie classiche, sul modello della Croce Rossa internazionale, sono generalmente desiderose di dare la massima impressione possibile di neutralità. Il loro imperativo è “dobbiamo e vogliamo andare d'accordo con tutti”. Il loro agire, penso sempre alla Croce Rossa, è orientato ad avere i migliori rapporti possibili con tutti i soggetti in campo».

Non è così anche per Emergency?
«Per Emergency il discorso è più complesso. L'associazione fondata da Gino Strada è un altro tipo di associazione umanitaria. Un'associazione con forti motivazioni ideologico-morali e con una certa propensione a prendere partito e ad entrare in discussioni e contenziosi con le autorità. Badi bene, nel dire questo non intendo entrare nel merito delle posizioni assunte da Emergency sull'Afghanistan, e ritengo che non ci sia momento peggiore di questo per imbastire polemiche. Ciò che mi preme sottolineare è la peculiarità del suo approccio, del modo di vivere lo stesso aiuto umanitario. Questo approccio la espone a rischi maggiori. E credo che la vicenda in atto abbia in qualche modo a che fare con questo carattere di Emergency, che fa di essa una associazione “scomoda”. E alcune affermazioni fatte in questi giorni da Gino Strada sembrano confermarlo. Mi lasci aggiungere una cosa che può apparire strana».

Quale, ambasciatore Romano?
«Il problema di Emergency non è diverso da quello di Anna Politkovskaia. Per spiegarmi le racconto un episodio. Una volta ho chiesto a un intellettuale russo molto progressista, di certo non un fan di Putin, che cosa ne pensasse del caso Politkovkaia e del suo barbaro assassinio».

E quale è stata la risposta?
«Che Anna Politkovskaia non era una giornalista, o comunque non era solo una giornalista...In altre parole, lei andava in Cecenia con l'animo di chi sa di condurre una battaglia. E, mi disse, quando si parte per una battaglia si hanno o ci si fanno necessariamente dei nemici...Credo che sia il caso anche di Emergency».

Cosa ne pensa delle polemiche esplose in Italia?
«Non facciamo dell'Italia un caso patologico sempre e comunque. Guardiamo alla Gran Bretagna: per la guerra in Iraq Tony Blair è stato trascinato davanti a un giurì. E anche Gordon Brown non è che se la passi meglio: il clima elettorale porta a questo anche nella matura democrazia britannica. Certo, tutti, specie chi ha responsabilità politiche e di governo, dovrebbe contare fino a cento prima di parlare...Ma direi che siamo di fronte ad una fisiologia della democrazia. Resta il fatto che in questo momento il governo italiano ha solo un compito da assolvere: quello di proteggere i nostri connazionali e di assicurare che abbiano il migliore sostegno legale e giudiziario possibili».

13 aprile 2010
da unita.it
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« Risposta #68 inserito:: Aprile 25, 2010, 05:56:08 pm »

UNA RICORRENZA DA TENERE STRETTA

Il significato di una festa


Mentre onoriamo il 25 Aprile dovremmo chiederci perché questa giornata sia stata spesso faticosamente festeggiata e abbia diviso gli italiani piuttosto che unirli. Se vogliamo che la data diventi davvero nazionale, dovremmo parlarne con franchezza e senza infingimenti retorici. In primo luogo il 25 Aprile segna la fine di una guerra civile, vale a dire la conclusione di una vicenda in cui parole come patria e onore hanno avuto per molti italiani significati diversi. Sappiamo che i fascisti di Salò sbagliarono, ma non possiamo ignorare che erano anch’essi italiani e che molti fecero la loro scelta in buona fede. Era difficile immaginare che il 25 Aprile potesse venire festeggiato con lo stesso entusiasmo e la stessa partecipazione da chi aveva militato in campi diversi.

In secondo luogo il Partito comunista si attribuì il merito della vittoria e divenne il maggiore e più interessato regista delle celebrazioni. Eravamo — è bene ricordarlo — negli anni della guerra fredda, quando il Pci, pur essendo alquanto diverso da quello dell’Urss, ne era pur sempre il «fratello » e ne adottava, quasi sempre disciplinatamente, le linee di politica estera. Non sorprende che a molti italiani il 25 Aprile sembrasse il travestimento patriottico di una strategia che non poteva essere nazionale.

I partiti democratici, dalla Dc alla social-democrazia, ne erano consapevoli. Ma non potevano rinunciare a celebrare la Resistenza e cercarono di salvare il 25 Aprile dall’abbraccio mortale del Pci descrivendo quel giorno come la conclusione vittoriosa della «quarta guerra d’indipendenza». La definizione ebbe una certa fortuna sino a quando il Risorgimento non cominciò a perdere, per una parte crescente della società nazionale, il suo valore positivo e divenne «rivoluzione tradita» per alcuni, conquista coloniale per altri, operazione fallita per molti. Non esiste più il Pci, ma esiste un partito anti- risorgimentale composto da persone che non hanno altro punto in comune fuorché un certo rancore per il principio stesso dell’unità nazionale: leghisti, legittimisti borbonici, anarchici, cattolici reazionari, nostalgici di Maria Teresa, di Francesco Giuseppe, del Granduca di Toscana. Già danneggiato dall’uso che ne fece il Pci, il 25 Aprile non sembra oggi commuovere e interessare, se non per motivi strumentali e occasionali, coloro che non credono nell’unità nazionale.

Continuo a pensare e a sperare che questi sentimenti siano una febbre passeggera, provocata dalle scosse di assestamento di uno Stato che non è ancora riuscito a rinnovare le sue istituzioni. Nel frattempo, tuttavia, faremmo bene a ricordare che il 25 Aprile ebbe meriti a cui tutti dovremmo essere sensibili. Penso ai morti della guerra civile e al significato simbolico che la Resistenza ebbe per la credibilità dell’Italia dopo la fine del conflitto. Penso soprattutto al fatto che i partigiani insorsero nelle città del Nord prima dell’arrivo degli Alleati e dimostrarono così al mondo, come ha ricordato il presidente della Repubblica nel suo discorso di ieri alla Scala, che gli italiani volevano essere padroni a casa loro. Se non vogliamo che anche questa pagina della nostra storia venga dimenticata, teniamoci stretto il 25 Aprile.

Sergio Romano

25 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #69 inserito:: Maggio 09, 2010, 06:02:29 pm »

L'editoriale

Potere e mercati, la prova verità


Le grandi crisi non bastano purtroppo a rinsavire quelli che ne sono direttamente o indirettamente responsabili. Ma hanno l’effetto positivo di rendere evidenti alcune verità che prima della crisi apparivano poco convincenti o erano addirittura negate. Abbiamo sempre saputo che la mancanza di un governo europeo dell’economia avrebbe reso l’unione monetaria incompiuta e vulnerabile. Sapevamo che i divieti e le punizioni inseriti su pressioni tedesche nel Trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità non avrebbero mai impedito a un Paese di commettere errori e soprattutto avrebbero convinto la speculazione che il Paese in pericolo non sarebbe stato salvato. Sapevamo che i compiti assegnati alla Banca centrale europea erano troppo rigidamente limitati e che fare da sentinella all’inflazione può essere in alcuni casi una politica insufficiente, se non dannosa. E sapevamo infine che gli aiuti, quando sono tardivi e vengono decisi soltanto dopo penose discussioni inconcludenti, sono sempre più costosi di quanto sarebbero stati se concessi tempestivamente. La Germania ha frenato gli altri maggiori Paesi della zona euro perché temeva che gli aiuti alla Grecia avrebbero mal disposto gli elettori del Nord Reno Westfalia verso la coalizione di governo.
Ebbene, il pacchetto è stato varato dal Bundestag alla vigilia del voto. I tempi, per Angela Merkel, non potevano essere peggiori. Ma di questo non può che rimproverare se stessa.

La crisi, dunque, ha sgombrato il terreno da alcune false verità. Resta da capire se i Paesi dell’eurozona sapranno correggere gli errori. La giornata di avant’ieri, potrebbe essere, in questa prospettiva, memorabile. Il presidente del Consiglio italiano e il presidente francese sembrano essersi accordati sulla necessità di un fondo monetario europeo a cui attingere per aiutare un Paese in crisi. Il presidente della Commissione ha detto che occorre rafforzare Eurostat (l’ufficio statistico dell’Ue) e fornirgli gli strumenti per accertare la verità dei conti pubblici degli Stati membri. La Banca centrale europea potrebbe prendere in garanzia, per i suoi prestiti, anche le obbligazioni deprezzate del governo greco e acquistare titoli di Stato per stabilizzare i mercati. Un’agenzia di rating europea potrebbe ridurre l’ingiustificata influenza delle agenzie americane. L’eurogruppo, infine, potrebbe assumere maggiori responsabilità e diventare la prefigurazione di un governo europeo dell’economia.

Molto dipende da tre importanti riunioni che si terranno oggi, prima dell’apertura dei mercati: il consiglio dei governatori della Bce, l’Ecofin, e un G7 dell’ultima ora in teleconferenza.
Ma se verranno adottate, queste misure avranno alcuni punti in comune: rafforzeranno le istituzioni europee a scapito delle sovranità nazionali, saranno un passo verso il completamento dell’Unione monetaria e l’integrazione europea. Faranno capire ai mercati che l’Europa non intende farsi ricattare dalla speculazione. E avranno l’effetto di ridare all’Italia uno spazio europeo che aveva finora trascurato. Tanto più se gli aiuti alla Grecia saranno votati sia dalla maggioranza sia dall’opposizione.
So che molto dipende dalle reazioni dei mercati, domani. C’è troppo denaro in giro per il mondo che è alla ricerca di selvaggina e si comporta come zavorra mal collocata sul fondo di una nave in tempesta. Ma qualche speranza, oggi, è possibile.

Sergio Romano

09 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #70 inserito:: Giugno 06, 2010, 08:42:33 pm »

GLI IMITATORI FRETTOLOSI DEL MERCATO

Il capitalismo post sovietico


Il copione ungherese assomiglia a quello greco. In ambedue i Paesi l’opposizione (socialista in Grecia, liberal- conservatrice in Ungheria) vince le elezioni e si accorge di non potere mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale. Per scrollarsi di dosso la responsabilità dei sacrifici che dovrà chiedere ai suoi connazionali, denuncia le colpe dei predecessori; anche se una tale tattica allarma le Borse, complica la gestione della crisi e costringe il governo di Budapest a correggere rapidamente, per tranquillizzare i mercati, la prognosi negativa di uno dei suoi esponenti. Dei due malati l’Ungheria, con un debito pubblico pari al 78% del prodotto interno lordo, è meno grave della Grecia (115%) e presenta per noi il vantaggio di non essere membro dell’eurozona. Ma le sue difficoltà potrebbero preannunciare quelle di altri Paesi che furono satelliti dell’Unione Sovietica. L’economia polacca, nonostante la crisi, continua a crescere e i Paesi baltici sono capaci di una forte disciplina sociale. Ma in ciascuno degli ex satelliti approdati sulle spiagge dell’Ue nel 2004 vi è un capitalismo post-sovietico frettolosamente costruito dopo il crollo del muro. Esiste il rischio di una crisi regionale, estesa soprattutto ad altri Paesi dell’Europa danubiano-balcanica?

Quando ritrovarono la loro libertà, i vecchi satelliti, dovettero smantellare l’economia statale del periodo comunista e scegliere per il loro sviluppo un nuovo modello economico. Scelsero, come accade in queste circostanze, quello dei vincitori e cercarono per quanto possibile di imitare l’Occidente in una fase in cui la nuova ortodossia economica era quella predicata dai «mercatisti» anglo-americani e il «manuale del buon capitalista» era quello del Fondo monetario internazionale. Occorreva privatizzare, liberalizzare, chiudere le industrie antiquate, abbandonare attività che erano utili soltanto per gli scambi del Comecon, il mediocre equivalente comunista del Mercato comune. Ma non era possibile ignorare i quadri tecnico-amministrativi della vecchia economia, l’apparato burocratico dello Stato, i servizi di sicurezza, i minatori, i contadini, gli operai delle acciaierie, delle industrie belliche e dei cantieri navali, vale a dire quella massa di salariati, assistiti e sussidiati che il regime comunista aveva accumulato nel corso dei decenni precedenti.

Il risultato di queste contrastanti esigenze è diverso da uno Stato all’altro e riflette le condizioni economiche, sociali, culturali dei singoli Paesi. Ma in quasi tutti gli ex satelliti abbiamo assistito agli stessi fenomeni: nuove ricchezze, troppo frettolosamente conquistate, una nuova criminalità, una più estesa corruzione e partiti populisti, spesso eredi delle forze nazionaliste e razziste che esistevano nella regione prima della Seconda Guerra Mondiale. Vi sono stati anche molti progressi che non sarebbe giusto sottovalutare. Ma la spesa pubblica è stata complessivamente superiore alle possibilità dei singoli Paesi e le loro economie, soprattutto nell’area danubiana, sono fragili e vulnerabili. Ancora una volta, come nel caso dell’adesione greca all’eurozona, dobbiamo chiederci se non sarebbe stato meglio realizzare l’allargamento con altri tempi e altre formule. Jacques Delors, presidente della Commissione sino all’inizio degli anni Novanta, pensava a una confederazione europea nella quale avrebbero potuto convivere, con norme diverse, il nucleo occidentale e quello dei nuovi arrivati. Ma gli uomini politici non gli dettero retta.

Sergio Romano

06 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_06/romano-capitalismo-post-sovietico_cddd981a-713b-11df-82e2-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Giugno 23, 2010, 02:41:21 pm »

CASO USTICA E UN ESEMPIO DA LONDRA

Le verità impossibili


Igiorni della memoria stanno diventando sempre più frequentemente commemorazioni di misteri insoluti. Quando parleremo di Ustica, nei prossimi giorni, lo faremo ancora una volta elencando la lista delle ipotesi che nessuna sentenza, nel corso degli ultimi anni, sembra avere definitivamente eliminato. Ci siamo ormai abituati. Dall’assassinio di Salvatore Giuliano nel 1950 alle stragi terroristiche degli anni di piombo, dal caso della Loggia P2 a quello dello spionaggio sovietico in Italia (il «dossier Mitrokhin») non esiste vicenda italiana su cui sia calato definitivamente il sipario della verità. Vi sono state sentenze di tribunale, ma i tre gradi di giudizio producono spesso verdetti contraddittori, come è accaduto recentemente per le vicende di Genova durante il G8 del 2001. Abbiamo un sistema «garantista» che protegge in ultima analisi l’imputato.

Ma là dove un tribunale corregge frequentemente un altro e il colpevole di oggi può essere l’innocente di domani, o viceversa, nessuna sentenza appare agli occhi della pubblica opinione, soprattutto in casi politicamente controversi, un punto fermo, una verità indiscutibile. Quando un tribunale assolve e l’altro condanna, molti italiani, inevitabilmente, giungono alla conclusione che all’origine di ogni evento vi siano responsabilità coperte da un protettore occulto.

E il Paese continua a vivere nell’impressione di galleggiare su un mare di segreti. Gli scandali, gli intrighi e la credulità della pubblica opinione, sempre pronta a sospettare il peggio, appartengono alla fisiologia di tutte le democrazie. Se il presidente della Repubblica francese non fosse un monarca, la presidenza Mitterrand avrebbe prodotto un considerevole numero di «casi». Non soltanto in Italia, inoltre, quando occorre fare luce su un avvenimento, le indagini possono sembrare interminabili. Per l’accertamento dei fatti accaduti a Londonderry, in Irlanda del Nord, il 30 gennaio 1972 (il massacro di Bloody Sunday), sono state necessarie due pubbliche indagini. La seconda, decisa da Tony Blair, è durata dodici anni e ha smentito la prima, ma le sue conclusioni, rese pubbliche negli scorsi giorni, sono nette e non verranno verosimilmente contestate. Forse l’esempio britannico può aiutarci a capire perché la ricerca della verità sia più complicata in Italia che altrove. La Commissione sul massacro di Londonderry è stata presieduta da Lord Mark Saville, un uomo che ha passato la sua vita nelle aule dei tribunali, dapprima come avvocato poi come giudice, ed è oggi membro, con altri nove magistrati, della Corte Suprema, istituita un anno fa. Accanto a lui vi erano, tra gli altri, un giudice neozelandese e un giudice canadese.

La commissione istituita da Gordon Brown sulla guerra irachena è presieduta da John Chilcot, un «mandarino» che ha passato buona parte della sua carriera pubblica negli alti gradi del ministero dell’Interno. In Italia, invece, le Commissioni sono generalmente parlamentari, vengono composte con evidenti dosaggi politici e diventano spesso il luogo in cui ogni partito sostiene l’ipotesi che maggiormente coincide con la sua visione ideologica dell’avvenimento o, peggio, che maggiormente conviene ai suoi interessi. Nei casi più controversi sarebbe meglio seguire l’esempio britannico e affidare le indagini a un collegio di personalità indipendenti, possibilmente giunte alla fine di una onorata carriera. Credo che gli italiani sarebbero maggiormente disposti ad accettare le loro conclusioni.

Sergio Romano

21 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_21/verita_impossibili_romano_67c1b1ba-7cf3-11df-b32f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Luglio 11, 2010, 06:10:39 pm »

UN PAESE SENZA CLASSE DIRIGENTE?

La debolezza e la miopia


Se afasia significa mutismo e incapacità di parlare, quella denunciata da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 7 luglio può essere straordinariamente rumorosa. Mai gli italiani sono stati altrettanto loquaci. Mentre i politici si accusano pubblicamente di errori, bugie e malefatte, i loro elettori non smettono di protestare nelle piazze, nei blog, nelle lettere che inviano ai giornali. Per molto tempo ci siamo lamentati della scarsa attenzione che la stampa internazionale riservava all’Italia. Oggi non passa giorno senza che un grande quotidiano straniero non cerchi di penetrare il labirinto delle nostre chiacchiere per spiegare ai suoi lettori l’ennesimo pasticcio confezionato nelle cucine della penisola. Questo non ci rende maggiormente decifrabili. Ci rende, se mai, ancora più imprevedibili, incomprensibili e, in ultima analisi, irrilevanti. Anziché esportare buoni film, buoni romanzi, buone opere dell’intelligenza e della cultura, esportiamo beghe, trame giudiziarie e interminabili discussioni sulle intercettazioni telefoniche. Afasia? Ripeto: non ricordo una fase altrettanto verbosa della politica nazionale. Eppure Galli della Loggia ha ragione.

Quando parlano e protestano, gli italiani parlano quasi sempre di se stessi, vale a dire degli effetti che una legge o una manovra finanziaria potrebbero avere per le loro personali condizioni economiche o per quelle della corporazione — associazione di categoria, ordine professionale, famiglia politica — a cui appartengono. Non parlano dell’Italia e dell’Europa, vale a dire delle due grandi comunità da cui dipende in ultima analisi il loro futuro. Parlano sempre e soltanto di se stessi. Appare ogni tanto un libro in cui l’autore cerca di guardare un po’ più al di là del proprio naso e formula qualche considerazione d’ordine generale. Ma il tema rimane sul tavolo per due o tre settimane e scompare dal radar. Nell’orizzonte dell’attenzione nazionale c’è spazio soltanto per quello che potrebbe accaderci qui e ora. Spiace dirlo, ma questa amara riflessione vale anche per il mondo degli imprenditori. Dove sono andati gli industriali e i finanzieri che avevano uno sguardo nazionale e non esitavano a esprimere pubblicamente le loro idee? Quando Mussolini decise il ritorno della lira all’oro e fissò il cambio con la sterlina a una quota insostenibile, un grande industriale elettrico, Ettore Conti, andò al Senato per spiegare a un capo del governo accigliato ma attento che quella politica avrebbe provocato una catastrofica deflazione. Quando la crisi del 1929 arrivò in Europa, all’inizio degli anni Trenta, Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli spiegarono a Mussolini che cosa bisognava fare per salvare le banche e le imprese. Quando fu chiamato all’Agip per liquidarla, Enrico Mattei ne fece uno strumento della politica nazionale. Quando scendeva a Roma per difendere gli interessi della Fiat, Vittorio Valletta aveva, per parafrasare De Gaulle, «una certa idea dell’Italia». Quando propose la riforma di Confindustria, Leopoldo Pirelli non pensava agli interessi di una corporazione, ma al miglior modo per rendere più efficace il ruolo degli industriali nella vita del Paese.

Oscar Sinigaglia, Cesare Merzagora, Enrico Cuccia, Adriano Olivetti, Guido Carli, Gianni e Umberto Agnelli (cito a caso, con molte omissioni) pensavano naturalmente alla loro azienda o alla loro istituzione, ma avevano convinzioni forti sul Paese in cui avrebbero voluto lavorare, e non mancavano di esprimerle. Mi rendo conto che i tempi sono cambiati. Il panorama industriale ha perduto molti dei suoi picchi ed è fatto principalmente di piccole colline da cui è difficile guardare lontano. L’economia è globale e l’imprenditore assume necessariamente la nazionalità del Paese in cui gli conviene operare. Come i direttori d’orchestra e gli allenatori delle squadre di calcio, i grandi manager sono una casta cosmopolita. Il sentimento dell’orgoglio nazionale si è ovunque affievolito, e l’Italia può sembrare oggi insoddisfatta della propria unità, delusa, priva di grandi ambizioni collettive. Ma gli imprenditori sanno meglio di altre categorie che da una crisi come quella in cui siamo sprofondati (la peggiore della storia, secondo Alan Greenspan) si esce soltanto in due modi. Si può tappare qualche buco, stringere qualche vite, cambiare qualche pezzo. E si può invece cogliere l’occasione per fare quello che in altre circostanze sarebbe stato molto più difficile realizzare: cambiare la forma dello Stato, il ruolo della burocrazia, le regole dell’economia. La prima garantisce un futuro mediocre e un progressivo declino. La seconda schiude nuove prospettive, suscita nuovi entusiasmi, risveglia energie sopite, crea un clima propizio alla innovazione e alla sperimentazione. La prima non richiede un particolare coraggio, la seconda ne esige molto. Quando hanno creato le loro aziende, gli imprenditori hanno dimostrato di averlo. Ora dovrebbero smetterla di misurare ogni provvedimento con il metro del loro interesse individuale e corporativo. Comincino a dirci quali sono le riforme economiche e sociali di cui il Paese ha bisogno e soprattutto quali sacrifici siano disposti a fare perché il Paese cambi. E abbiano soprattutto il coraggio della critica, senza qualunquismi e frasi fatte. Parlino meno di se stessi e più dell’Italia.

Sergio Romano

11 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_11/romano_debolezza_moipia_16eb3682-8cbe-11df-bfcf-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #73 inserito:: Luglio 24, 2010, 05:43:28 pm »

UN INVITO ALLE PARTI (CON OTTIMISMO)

La persuasione e il controllo


Il «discorso del ventaglio », che il presidente della Repubblica ha pronunciato di fronte a una rappresentanza della stampa nazionale, non è né un messaggio al Parlamento né un indirizzo alla nazione, nello stile di quelli di fine anno. Ma è molto più dei discorsi generalmente più brevi che il capo dello Stato ha fatto negli scorsi mesi.

Napolitano non ha tralasciato nessuno dei temi che ritornano ogni giorno nelle discussioni sullo stato del Paese. Ha parlato della manovra finanziaria, della ripresa industriale, della disoccupazione giovanile, delle condizioni del Meridione, della riforma tributaria, del federalismo fiscale, della legge sulle intercettazioni, delle riforme istituzionali, della corruzione. E non ha dimenticato di lanciare inviti e ammonimenti. Al governo perché nomini rapidamente il ministro dello Sviluppo economico e il presidente della Consob.
All’opposizione perché non si sottragga alla responsabilità a cui è chiamata «in un quadro di feconda competizione come quello che dovrebbe caratterizzare una democrazia dell’alternanza». Ai giornalisti perché facciano, quando occorre, autocritica. Al Parlamento perché elegga entro la fine del mese i membri laici del Consiglio superiore della magistratura. A maggioranza e opposizione perché rinuncino a rappresentare se stesse come forze totalmente inconciliabili. A tutti perché la smettano di disegnare «ipotetici» scenari politici.

Dopo avere lanciato questi inviti, Napolitano ha definito il proprio ruolo come quello del «magistrato di persuasione». Forse potremmo spingerci più in là e osservare che mai come oggi il presidente della Repubblica ha dato l’impressione di essere, per usare una espressione inglese, «in charge». Non è al comando dell’aereo, ma è certamente nella torre di controllo, vale a dire in una posizione che gli permette di consigliare le buone procedure di volo e di ricordare che l’Italia non sta attraversando un cielo vuoto. Dobbiamo affrontare gli stessi problemi dei nostri partner europei e può accadere, come nel caso della manovra finanziaria, che il nostro Paese lo abbia fatto più rapidamente della Germania.

Vi è un altro aspetto del discorso che lo rende particolarmente interessante. Se i problemi menzionati dal presidente della Repubblica sono quelli di cui parliamo ogni giorno, il tono è alquanto diverso. Vi è apprezzamento per il modo in cui abbiamo affrontato la crisi, vi è fiducia nelle risorse del Paese, vi è la speranza che la legge sulle intercettazioni abbia imboccato la strada giusta, vi è l’allarme per la corruzione ma anche la convinzione che l’Italia disponga di buoni anticorpi. Questo non è ottimismo di maniera. Napolitano sa quali siano i vizi del Paese, ma ne conosce anche le virtù. Per chi crede che l’Italia possa risollevarsi con uno sforzo comune e riforme condivise il tono del discorso è particolarmente convincente e incoraggiante. Anche il pessimismo, come l’ottimismo, può diventare un compiaciuto esercizio retorico.

Sergio Romano

24 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_24/romano-governo-stato_41b3b484-96e1-11df-bd32-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #74 inserito:: Luglio 29, 2010, 11:44:25 am »

DUELLO NEL PDL E RISPETTO DEGLI ELETTORI

Una strada obbligata


Preferiremmo che Berlusconi e Fini riuscissero a comporre le loro divergenze e ad accordarsi su un percorso comune. Ma se il Paese dovesse assistere ancora per qualche settimana a queste logoranti polemiche fra persone che rappresentano i due maggiori poteri dello Stato e appartengono per di più allo stesso partito, sarebbe meglio prendere atto dell’esistenza di concezioni diverse e trarne le conseguenze.
Il Paese non può affrontare contemporaneamente la manovra finanziaria, i problemi della sua politica industriale (fra cui il negoziato della Fiat con i sindacati), il dibattito sulle intercettazioni, un micidiale sgocciolio di scandali che coinvolgono esponenti della maggioranza, e assistere nello stesso tempo a un paralizzante duello fra il presidente del Consiglio e quello della Camera.

Berlusconi e Fini hanno compiti istituzionali da cui dipende il funzionamento del Paese. Quanto più bisticciano tanto più perdono autorità e credibilità, componenti indispensabili del loro lavoro. Di grazia, risparmiateci questo spettacolo avvilente, prendete atto con serietà delle vostre divergenze e passate alla ricerca di formule che possano assicurare la continuità e la stabilità del governo.
Quando Fini dichiara, come ha fatto nella sua conversazione con Il Foglio, che è possibile «resettare tutto senza risentimenti», l’offerta è interessante e va messa alla prova.

Nel farlo nessuno dei due potrà dimenticare (e Fini lo ha ammesso) che le elezioni sono state vinte dal Popolo della Libertà, il partito che entrambi hanno contribuito a fondare. Possono separarsi e prendere strade diverse, ma non senza ricordare l’impegno comune che hanno assunto di fronte agli elettori. Occorre tagliare il nodo ricorrendo alle elezioni anticipate? Questa sarebbe, in altre circostanze, la più ovvia delle soluzioni. Ma le elezioni coglierebbero alcune forze politiche impreparate, rischierebbero di dare risultati incerti e soprattutto aprirebbero nuovi scontri, nel peggiore dei momenti possibili, tra forze che dovrebbero invece lavorare insieme nell’interesse del Paese. Occorre dunque pensare a un governo di transizione con un programma circoscritto e destinato a durare sino alla fine della legislatura, come quello che fu presieduto da Lamberto Dini fra il 1995 e il 1996? La prospettiva si scontrerebbe con Berlusconi, convinto di poter governare sino alla fine della legislatura; tradirebbe la volontà degli elettori e avrebbe, oltretutto, l’effetto di rappresentare, per un sistema politico non ancora consolidato, un pericoloso passo indietro.

Se si vogliono evitare le elezioni serviranno buona volontà e immaginazione. Occorrerà forse ringiovanire il governo, allargare la coalizione, impostare programmi che tengano conto anche delle idee di Fini e dei suoi seguaci. La soluzione comporterà qualche sacrificio sia per le posizioni del presidente del Consiglio, sia per quelle del presidente della Camera. Ma Berlusconi e Fini dovrebbero ricordare che il Paese ha spesso l’abitudine di punire nell’urna il partito e la persona a cui viene attribuita la responsabilità delle elezioni anticipate. Oggi il presidente del Consiglio ritiene di poter dimostrare che la colpa è del presidente della Camera.

Domani, forse, gli elettori potrebbero giudicare diversamente. Una intesa fondata sulle vere esigenze del Paese, invece, gioverà a coloro che avranno seriamente tentato di realizzarla.

Sergio Romano

29 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_29/romano-strada-obbligata_bf45038a-9ace-11df-ad9d-00144f02aabe.shtml
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