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« Risposta #45 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:32:34 am » |
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Il costo dell'ambiguità
La caccia ai responsabili, in una vicenda come quella di Kabul, è un esercizio che non rende omaggio ai morti e diventa spesso occasione di interessati bisticci politici. Non è inutile, invece, chiedersi se la presenza italiana in Afghanistan risponda a una ragionevole politica nazionale. È giusto inviare «truppe di pace» in un Paese dove si combatte? È giusto esporre i propri soldati alle insidie del nemico, ma evitare al tempo stesso che si comportino, in tutto e per tutto, come forze combattenti?
L’invio di truppe in un Paese straniero per creare o mantenere condizioni di pace appartiene alla logica dell’Onu e ai principi della comunità internazionale. E’ stata questa la ragione per cui abbiamo inviato militari in Congo, Libano, Somalia, Bosnia e Kosovo. Attenzione. Nessuna di queste operazioni è stata totalmente disinteressata. Siamo andati in Iraq, dopo l’occupazione americana, perché il governo Berlusconi riteneva utile, in quelle circostanze, essere al fianco degli Stati Uniti. Siamo andati in Libano perché il governo Prodi riteneva che la nostra presenza militare, dopo la guerra israeliana, avrebbe conferito maggiore credibilità alla nostra politica medio- orientale. Siamo in Afghanistan perché gli Stati Uniti hanno chiesto alla Nato di essere aiutati a sbrogliare una matassa che la frettolosa guerra di Bush aveva reso particolarmente imbrogliata. Viviamo tempi tumultuosi in cui il prestigio internazionale di un Paese si misura dalla sua capacità di partecipare a un’operazione militare. Un contingente di truppe è stato molto spesso, in questi anni, il prezzo che il Paese doveva pagare per avere un rango internazionale corrispondente alle sue ambizioni. Ciò che ha fatto l’Italia non è sostanzialmente diverso da ciò che hanno fatto, tra gli altri, la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, la Polonia, l’Ucraina e da ultimo, con maggiori difficoltà, la Germania.
Ma nel caso dell’Italia, come per certi aspetti in quello della Germania, esistono peculiarità che hanno condizionato la politica dei governi. Il Paese è stato malamente sconfitto durante la Seconda guerra mondiale e ha sviluppato da allora una «cultura della pace» in cui si sono confuse componenti diverse: pensiero cattolico, neutralismo, odio per gli Stati Uniti e una concezione dogmatica dell’articolo della Costituzione in cui l’Italia «ripudia la guerra». I governi hanno dovuto venire a patti con questi sentimenti e hanno creduto di risolvere il problema mandando «truppe di pace» in teatri di guerra. E per di più, come se il tasso d’ambiguità non fosse già sufficientemente elevato, hanno ridotto i bilanci delle Forze Armate al limite della sopravvivenza. È questa la ragione per cui la perdita di un soldato, quando accade, appare alla società italiana molto più inattesa, incomprensibile e assurda di quanto non appaia in Paesi dove i governi hanno parlato alla loro opinione pubblica con maggiore chiarezza e hanno fornito ai loro soldati le armi di cui avevano bisogno. Forse è giunta anche per il governo italiano l’ora di dire francamente perché siamo in Afghanistan e quali siano i rischi da correre. L’ambiguità, dopo i fatti di Kabul, offende il Paese e i suoi morti.
Sergio Romano 19 settembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:00:26 am » |
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ECCESSI NEGLI ATTACCHI, ERRORI NELLA DIFESA
Due partiti contrapposti
Esistono problemi nazionali e internazionali da cui dipende la vita degli italiani e dei loro figli. Le elezioni tedesche, il referendum irlandese, il mercato dell’energia, la difesa dell’ambiente, la costruzione della Tav, il rapporto fra le banche e le imprese, la crisi del latte e la politica agricola comune, le esportazioni e l’occupazione, il passaggio dal G8 al G20, la guerra in Afghanistan, la politica economica e monetaria del governo cinese sono questioni, cito alla rinfusa, che ci concernono.
Occorre che l’Italia sappia come affrontarle e che la sua linea venga adottata dopo un confronto di idee e proposte tra il governo e l’opposizione. Ma questo confronto non c’è o si svolge solo occasionalmente tra poche persone di buona volontà ai margini di una scena pressoché interamente occupata da un ininterrotto cabaret politico con un copione di lazzi, insulti, pettegolezzi, storie lascive, accuse sanguinose e querele. Si direbbe che una parte dell’Italia abbia smarrito il senso della realtà e preferisca lo spettacolo di una guerra civile mediatica alla soluzione dei suoi problemi. Cerco di spiegare (a me stesso anzitutto) i motivi di questo fenomeno.
Penso che buona parte dell’opposizione non creda nell’utilità di fare dell’anti berlusconismo la sua principale linea politica e abbia voglia di tornare al suo mestiere. Ma attraversa una difficile crisi, forse salutare, ed è pressoché interamente assorbita dalla soluzione dei suoi problemi interni. In questo vuoto la bandiera dell’opposizione è passata nelle mani di qualche partito- giornale, di qualche tribuno della plebe, di alcuni protagonisti dello spettacolo e dell’informazione che hanno assunto questo compito, occorre riconoscerlo, con uno straordinario brio professionale. Peccato che questi oppositori non si propongano di governare e non abbiano quindi l’obbligo di disegnare il futuro del Paese. Il loro obiettivo è la visibilità, la notorietà, il cerchio del riflettore, l’occupazione dello spazio scenico. Ne hanno il diritto naturalmente, e se questo diritto fosse minacciato avremmo, parafrasando Voltaire, il dovere di difenderli. Ma viene voglia di pensare, maliziosamente, che nulla li rattristerebbe quanto l’improvvisa scomparsa del «nemico».
Dall’altra parte, naturalmente, si risponde allo stesso modo con professionisti del giornalismo-spettacolo altrettanto briosi. Il premier, che deve imparare a rispettare di più la pluralità dell’informazione in tv e sui giornali, occupa continuamente la scena con una difesa che sembra fatta apposta per alimentare le battaglie dell’accusa. Le sue querele contro la stampa e le sue bordate contro i giornalisti «farabutti» sono nella cultura democratica europea un’anomalia e nuocciono alla sua immagine ma lui non sembra preoccuparsene. È convinto (e forse, purtroppo, non ha torto) che gli attacchi gli siano utili perché gli consentono di trasformare l’intera politica nazionale in una continua battaglia sulla sua persona. Gli italiani, anche quando vorrebbero occuparsi di altre cose, sono finiti fra due contendenti che si detestano ma giocano una partita in cui ciascuno dei due ha bisogno dell’altro. Con due risultati. In primo luogo l’Italia sta rapidamente perdendo credito agli occhi del mondo. In secondo luogo parla di tutto fuorché di se stessa e dei suoi problemi.
Sergio Romano
02 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #47 inserito:: Ottobre 16, 2009, 11:18:43 pm » |
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L’INFORMAZIONE NON E’ UNA CROCIATA
Voce al paese senza tifoserie
Se i guai degli altri servono a rendere i nostri più tollerabili, gli italiani possono dare un’occhiata a ciò che accade in alcune democrazie occidentali. Negli Stati Uniti il presidente sostiene che Fox News (il canale televisivo di Rupert Murdoch) è un partito, e lo accusa di essere pregiudizialmente ostile alla Casa Bianca. Ma in occasione di un suo discorso al Congresso un deputato gli grida «bugiardo», mentre un movimento sorto negli scorsi mesi (i «birthers», da birth , nascita) lo accusa di avere falsificato i suoi dati anagrafici. Barack Obama sarebbe nato in Kenya, non sul territorio americano, e la sua elezione sarebbe quindi illegale.
In Francia il presidente Sarkozy ha un figlio di 23 anni, studente di giurisprudenza, consigliere municipale di Neuilly e candidato alla presidenza di un’agenzia territoriale che programma e amministra lo sviluppo di una ricca «città degli affari» alle porte di Parigi: due cariche che furono del padre e divennero la piattaforma da cui si lanciò alla conquista del potere. Per gran parte della stampa francese, quindi, il presidente della Repubblica è «nepotista». Come capo dello Stato gode dell’immunità giudiziaria sino alla fine del mandato e dovrebbe astenersi dall’intervenire negli affari di giustizia che lo concernono. Ma questo non gli ha impedito di dare per scontata, in una intervista, la colpevolezza di alcune persone, oggi accusate di avere manipolato i documenti di una banca lussemburghese per inserire il suo nome in una lista di persone che avrebbero incassato generose tangenti per la vendita di forniture militari all’estero. Il principale accusato è Dominique de Villepin, ministro degli Esteri e primo ministro all’epoca della presidenza Chirac, che ha esordito dichiarando ai giornalisti, sulla soglia del tribunale, di essere deciso a sbugiardare Sarkozy. In Gran Bretagna gli scandali che coinvolgono il governo sono frequenti, ma vengono trattati con chirurgica rapidità. Non è bello tuttavia apprendere che il primo ministro aveva gonfiato la lista delle spese di cui ha chiesto il rimborso e che dovrà restituire circa 15.000 sterline. È un peccato veniale, ma poco confacente a un uomo politico che è stato in passato cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro).
Questo è grosso modo lo stato di quasi tutte le maggiori democrazie. La classe politica è sul banco degli imputati ed è guardata a vista da una stampa che ama spesso considerarsi custode dei pubblici costumi e bocca della verità. Quando lasciò la sua carica a Gordon Brown, Tony Blair si sfogò con un lungo articolo in cui scrisse quanto fosse stato difficile lavorare con i mezzi d’informazione durante i suoi anni a Downing street (peccato, tuttavia, che non abbia accennato al modo in cui un suo collaboratore aveva cercato di manipolare la gestione delle notizie).
In Italia la situazione, apparentemente, è peggiore. Qui gli scandali sono più numerosi e spesso più gravi. Qui esistono forze politiche che non smettono, neppure per un momento, di trattarsi come eserciti in guerra, divisi dalla linea del fuoco. E insieme agli eserciti combattenti vi sono tifoserie per cui sono vere le notizie che si prestano a essere usate come munizioni contro il nemico, false o reticenti quelle che non servono allo scopo.
Ho scritto apparentemente, tuttavia, perché non credo che questo quadro rifletta la realtà del Paese. Penso che dietro le tifoserie vi sia un’altra Italia meno credula e faziosa, meno impegnata nell’esercizio di una militanza ossessiva e accecante, più occupata a lavorare e a produrre.
Non credo che sia la «borghesia» e, tantomeno, che possa essere identificata con una particolare regione del Paese. Credo piuttosto che si tratti di una grande classe media, progressivamente cresciuta durante la modernizzazione del Paese dopo la Seconda guerra mondiale. Quando vuole informarsi, anche per meglio programmare la sua vita e il suo lavoro, questa classe media vede il pendolo dell’informazione oscillare continuamente fra due opposte verità e constata che certi giornali sono un kit fatto di pezzi che servono ad assemblare ogni giorno la stessa rappresentazione della realtà. La maggioranza degli italiani sa che i fatti e gli uomini sono più complicati di quanto appaia da queste rappresentazioni, che i programmi politici vanno continuamente misurati con il metro della loro applicazione, che i meriti vanno riconosciuti anche quando vengono da persone altrimenti criticabili, che una legge può essere in parte buona e in parte cattiva, che le ragioni di due contendenti vanno spiegate e capite, che gli insulti servono spesso a mascherare un vuoto di idee e di programmi. E vorrebbe essere informata, non educata a combattere. Oggi più che mai vi è spazio per una informazione che non sia un bollettino di guerra, che non lanci crociate, che riporti il pendolo al centro del panorama nazionale.
Sergio Romano
16 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #48 inserito:: Ottobre 31, 2009, 10:53:24 am » |
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Il manifesto - Da mercoledì in libreria «Il futuro della libertà»
Laicità e integrazione : Nella «lettera ai ventenni» il programma di Fini
Dietro i consigli ai giovani una vera discesa in campo
In questi anni abbiamo letto molti saggi o interviste di uomini politici che riflettevano sulle condizioni del Paese e annunciavano ai lettori il modo in cui ne avrebbero cambiato le sorti. Alcuni erano interessanti, altri (la maggioranza) erano occasionali e dettati dal desiderio di garantire all’autore una certa visibilità, soprattutto in vista di una scadenza elettorale. Quello di Gianfranco Fini apparso ora presso Rizzoli («Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989») appartiene a questa categoria e contiene alcuni degli ingredienti di questo genere politico-letterario: una inevitabile dose di retorica, una combinazione di analisi severe ed esortazioni ottimistiche, una lunga serie di citazioni e qualche dato statistico. Ma è meglio costruito, più interessante e, soprattutto, più ambizioso.
Con un perdonabile artificio Fini dice di indirizzarsi ai giovani italiani che nei primi vent’anni della loro vita non hanno conosciuto l’Europa delle ideologie contrapposte e hanno goduto di libertà negate alle generazioni precedenti. Felicemente nati nell’anno in cui cadde il muro di Berlino, non hanno vissuto nell’incubo di un possibile conflitto nucleare, hanno potuto attraversare liberamente le frontiere del continente, hanno assistito a una rivoluzione tecnologica che ha prodigiosamente allargato l¹orizzonte delle cose possibili. Sono dunque più felici? Non necessariamente. Le ideologie — comunismo, nazionalismo, razzismo — sono state moralmente sconfitte, ma hanno lasciato nell’aria del Paese un «pulviscolo tossico » che avvelena gli animi e suscita «divisioni artificiose». Non basta. Le ideologie, con tutti i loro enormi inconvenienti e pericoli, hanno l’effetto di scaldare i cuori e dare un senso all’esistenza. Oggi il vuoto delle ideologie morte è stato spesso riempito da quello che un sociologo americano ha definito narcisismo: una specie di «carpe diem» in cui ogni persona vive alla giornata badando a costruire per sé, dentro le quattro mura del suo egoismo, il maggiore benessere possibile.
E’ una sorta di torpore in cui il giovane rinuncia a immaginare un futuro migliore e cede addirittura, qualche volta, alla tentazione della droga.
Saremmo quindi un Paese diviso fra politici che passano gran parte del loro tempo a insultarsi volgarmente nell’arena della politica e una larga parte della società giovanile che guarda dal loggione, annoiata, scettica, indifferente.
Per rompere il brutto incantesimo del torpore e dell’«anemia morale», per invitare i giovani a scendere dal loggione e a prendere il loro posto nella vita del Paese, Fini ricostruisce per i suoi lettori, in alcune pagine molto efficaci, gli orrori del Novecento dai massacri comunisti al genocidio ebraico. Ma ricorda anche al tempo stesso il soprassalto di coraggio e di entusiasmo con cui i loro nonni e i loro padri hanno ricostruito un Paese distrutto, hanno scritto la Costituzione, hanno creato una nuova economia nazionale. Poi, gradualmente, la macchina ha cominciato a incepparsi. Il Paese delle formiche è diventato il Paese delle cicale. I governi hanno contratto debiti che sono stati scaricati sulle spalle delle ultime generazioni. La criminalità organizzata si è impadronita di alcune regioni. Politica e malaffare hanno stretto inconfessabili alleanze. Il rispetto della legge si è appannato. L’area dell’economia nera e dell’evasione fiscale si è allargata. La famiglia ha smesso di trasmettere tradizioni e insegnamenti con la pazienza e il rigore di un tempo. E i padri, anziché punire gli errori dei figli, riservano la loro collera per gli sventurati insegnanti che pretendono di educarli. Fini, dal canto suo, parla ai giovani, ma non cede alla tentazione, così frequente nella politica italiana, del «giovanilismo ». Anziché adulare e accarezzare i ventenni preferisce ricordare che dovranno contare su se stessi evitando «piagnistei e autocommiserazione ». Il mondo in cui vivranno offrirà una larga gamma di possibilità, ma non garantirà il posto fisso. Dovranno soprattutto attendersi «poco, in termini di provvidenze, da un apparato pubblico che non potrà essere così generoso come lo è stato fino ad oggi».
In altre parole l’Italia di domani sarà quella che i ventenni d’oggi vorranno costruire con il loro impegno e i loro personali sacrifici. La ricostruzione, secondo Fini, dovrà essere «culturale e morale».
Sono parole che appartengono al linguaggio della retorica e servono spesso a decorare i discorsi piuttosto che a risolvere i problemi. Ma devo riconoscere che il programma di Fini è piuttosto dettagliato e convincente.
Ecco alcuni punti. Occorre anzitutto un «patto costituente», perché le costituzioni non si possono scrivere o emendare «a colpi di maggioranza » . Occorre difendere e consolidare il bipolarismo. Occorre una politica laica che non pretenda d’impedire alle persone il diritto di rinunciare alla vita o di trarre vantaggio dalla ricerca sulle cellule staminali e sulla procreazione assistita. Occorre una politica dell’immigrazione che permetta d’integrare i nuovi arrivati e farne gli italiani di domani. E occorre soprattutto credere nell’unità dell’Europa. La parte del libro dedicata alla costruzione dell’Unione europea non mi sorprende.
Quando partecipò, in rappresentanza del governo, alla Convenzione presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, Fini dette un’utile lezione di europeismo alla sua parte politica (che era, a dir poco, euroscettica,). Mi sorprende invece che spezzi una lancia per rivendicare le radici cristiane dell’Europa. Ma forse è soltanto un omaggio ai nostalgici di una battaglia perduta.
Come il lettore avrà capito, questa non è soltanto una «lettera ai ventenni». E’ anche un programma di governo ed è, per molti aspetti, la discesa in campo di Gianfranco Fini. In un Paese dove molti uomini politici aspettano, prima di rivelare le loro ambizioni, che venga il loro turno, questa è una buona notizia. Potrebbe aprire qualche schiarita nel cielo nuvoloso della politica italiana.
A questo libro manca tuttavia una cosa: un breve riepilogo della carriera politica dell’autore. Lo dico senza malizia perché ho sempre pensato che la parabola di Gianfranco Fini, dal Movimento sociale italiano alla democrazia liberale, sia stata convincente. Ma se avesse spiegato, con qualche esempio personale, quali e quanti possano essere i percorsi verso la democrazia, il suo libro sarebbe stato ancora più attraente. I suoi lettori avrebbero capito meglio quali e quante furono le conseguenze della caduta del muro di Berlino nell’anno della loro nascita.
Sergio Romano
31 ottobre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #49 inserito:: Novembre 01, 2009, 10:27:21 pm » |
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DOPO IL SI’ DEL PREMIER A D’ALEMA
E adesso Bersani faccia una mossa
La possibilità che Massimo D’Alema venga scelto a rappresentare la politica estera dell’Unione Europea dopo la ratifica del Trattato di Lisbona è oggi probabilmente modesta. Come ha ricordato Franco Venturini sul «Corriere» di ieri, vi sono già altre candidature e la scelta dipende anche dal colore politico della persona che verrà chiamata alla presidenza del Consiglio europeo. Ma l’appoggio del governo Berlusconi, annunciato nelle scorse ore, è comunque un segnale interessante. Dimostra che il governo approva a posteriori la qualità del lavoro fatto da D’Alema alla Farnesina durante il governo Prodi e riconosce la continuità della politica estera italiana da un governo all’altro. Ammette che vi sono questioni su cui maggioranza e opposizione possono lavorare insieme. In una situazione in cui basta che uno dica una cosa perché l’altro dica l’opposto, questa, per gli italiani stanchi di vivere con l’arma al piede, è una buona notizia.
Lasciamo da parte per un momento il futuro di D’Alema e chiediamoci piuttosto se non sia possibile partire da questo segnale per imboccare una strada migliore di quella su cui stiamo segnando il passo.
Il Partito democratico ha un nuovo segretario, scelto da un numero considerevole di iscritti ed elettori. Pier Luigi Bersani ha perso Francesco Rutelli e dovrà superare altri ostacoli. Ma è in sella e ha il diritto di essere considerato a tutti gli effetti il principale leader dell' opposizione. Può ignorare la mossa del governo Berlusconi e continuare lo sterile gioco delle reciproche scomuniche. Ma può anche cogliere l’occasione per dire al governo e al Paese quali sono le questioni su cui il Pd è disposto ad affrontare la maggioranza al tavolo del confronto e della collaborazione. Suggerimenti incoraggianti vengono da Enrico Letta e lo stesso Bersani ha già dato qualche indicazione in questo senso. Ma dovrebbe essere più concretamente esplicito e mettere nero su bianco.
Esiste la legge sulla riforma universitaria. Esiste la riforma della giustizia. Esiste il problema delle pensioni su cui, prima o dopo, occorrerà tornare. Ed esiste, infine, quello delle riforme istituzionali, dalla trasformazione del Senato in Camera delle regioni al rafforzamento dei poteri del premier, su cui, a giudicare dall’intervista di Luciano Violante al «Foglio» di ieri, le posizioni di maggioranza e opposizione sono molto meno lontane di quanto sembri.
Qualcuno sosterrà che è tempo perso e che Berlusconi preferisce lo scontro al dialogo. E’ possibile. Il presidente del Consiglio ha dato qualche volta la sensazione di pensare che è meglio, per il governo, fare da sé e continuare a trattare l’opposizione come un nemico irriducibile piuttosto che riconoscerne il ruolo.
Ma se il Pd facesse qualche esplicita proposta, otterrebbe parecchi risultati. Darebbe maggiore evidenza alla propria immagine di partito riformista. Dimostrerebbe che il Pd non ha nulla da spartire con l’Italia dei valori, se non l’utilità di qualche occasionale accordo tattico. Metterebbe il presidente del Consiglio nella condizione di dovere dare risposte non soltanto polemiche. Agli italiani che non vivono di militanza politica preme soprattutto, al di là di ogni altra considerazione, che questa legislatura non vada interamente perduta.
Sono quasi trent'anni, dalla commissione presieduta da Aldo Bozzi in poi, che parliamo di riforme. Vorremmo cominciare a vederle.
Sergio Romano
01 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #50 inserito:: Novembre 04, 2009, 11:26:02 am » |
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Usa
Chiuso il «sogno imperiale» resta una crisi di identità
Gli americani giudicano il primo anno di Obama
Un bilancio del primo anno della presidenza Obama deve necessariamente partire da qualche riflessione sulla presidenza di George W. Bush. Quando conquistò la Casa Bianca, nel novembre dell’anno scorso, Barack Obama ereditò i risultati politici e militari di quella che fu probabilmente la più ideologica fra le presidenze americane della seconda metà del Novecento.
Bush, il vice-presidente Dick Cheney e il corteo dei neo-conservatori che marciava con loro alla conquista del potere, non avevano soltanto un programma politico, ma anche una visione del mondo e soprattutto del modo in cui gli Stati Uniti lo avrebbero governato.
Cheney, in particolare, voleva rafforzare i poteri della presidenza a scapito del Congresso: una linea «bonapartista» che avrebbe permesso al monarca elettivo di svolgere con la necessaria efficacia le sue funzioni imperiali. I neoconservatori volevano «normalizzare» il Medio Oriente, da Bagdad a Teheran.
Gli strateghi della geopolitica volevano trattare la Russia e, se possibile, la Cina alla stregua di potenziali rivali da contenere e accerchiare con un anello di Stati vassalli e basi militari. I teorici del libero mercato, le banche e le grandi industrie volevano allentare ulteriormente le briglia sul collo della grande finanza e rompere i laccioli ambientalisti che Clinton, con qualche ambiguità e reticenza, era pronto ad accettare. E gli evangelici, infine, volevano un’America moralmente sana, purgata dell’aborto e delle esecrande ricerche sulle cellule staminali, pronta ad accogliere trionfalmente la seconda venuta del Cristo.
Gli attentati dell’11 settembre fornirono argomenti, giustificazioni, alibi e dettero un colpo di acceleratore alla svolta imperiale della politica estera americana. La guerra afgana fu il prologo e quella irachena il primo atto di un dramma in cui l’azione, nel copione preparato dai registi, si sarebbe spostata successivamente a Teheran, Damasco, Pyongyang. Beninteso tutti gli altri, dalla Russia all’Arabia Saudita, da Parigi a Berlino, avrebbero capito la lezione.
I risultati furono alquanto inferiori alle aspettative: la guerra civile in Iraq, la sostanziale secessione del Kurdistan iracheno, il progressivo distacco della Turchia dal suo maggiore alleato, il decollo del programma nucleare iraniano, l’aumento dell’influenza iraniana nella regione, la riconquista talebana dell’Aghanistan, la destabilizzazione del Pakistan, la crisi dei rapporti con la Russia, le fiammate di nazionalismo religioso in Palestina e in Libano, la nascita di un fronte anti-yankee in America Latina e, da ultimo, una crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia nazionale.
Ho elencato così i problemi e le aree di crisi in cui il nuovo presidente è immediatamente intervenuto, dopo la sua elezione, per modificare o correggere le politiche del predecessore. Gli effetti non sono, per il momento, incoraggianti. Gli americani abbandoneranno l’Iraq, ma resteranno verosimilmente in alcune basi e dovranno vivere con un regime traballante, continuamente insidiato da una strisciante guerra civile. In Afghanistan Obama è nelle stesse condizioni in cui fu il presidente Lyndon Johnson nel 1966 quando i soldati americani in Vietnam erano 200.000 e il generale Westmoreland chiedeva rinforzi: un ricordo che domina come un incubo le sue riflessioni. In Pakistan, dove il governo ha risposto alle sollecitazioni della Casa Bianca cercando di sloggiare i talebani dalle suo regioni occidentali, è scoppiata una ennesima guerra asimmetrica. Le truppe vincono bombardando il proprio Paese, ma i talebani colpiscono con i loro attentati le retrovie urbane delle forze combattenti. In Palestina la macchina dei negoziati di pace è continuamente inceppata dal rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti coloniali nei territori occupati.
Ma esistono anche segnali meno negativi. Nel momento in cui Obama ha deciso di rinunciare alla costruzione di basi anti-missilistiche in Polonia e nella Repubblica Ceca, i rapporti con la Russia sono nettamente migliorati. A giudicare dalla maggiore sobrietà con cui gli Stati Uniti amministrano i loro rapporti con l’Ucraina e la Georgia, Obama non vuole accerchiare la Russia e spera piuttosto di servirsi della sua collaborazione per affrontare i problemi delle aree più difficili del grande Medio Oriente: Afghanistan, Iran, Asia Centrale.
I negoziati con l’Iran sono difficili, ma sono finalmente cominciati, e non è poco. Il clima delle relazioni con l’America Latina non è più quello degli anni in cui l’intero subcontinente respingeva sdegnosamente a Punta del Este i progetti economici pan-americani del presidente Bush. Oggi i rapporti con Cuba e con il Venezuela dipendono da Hugo Chávez e da Raúl Castro più di quanto dipendano dalla buona volontà di Washington. Se il caudillo venezuelano e il fratello del lider maximo lo volessero, il disgelo sarebbe possibile. E con la Cina infine le relazioni, per il momento, sono quasi idilliache. Il Grande Debitore e il Grande Creditore sanno di essere legati da un patto di mutua convenienza e che ogni gesto ostile dell’uno contro l’altro avrebbe un effetto boomerang.
Ma i nemici di Obama non sono soltanto al di fuori dei confini americani. Sono anche fortemente presenti e organizzati all’interno del Paese. Ce ne siamo accorti anzitutto quando il presidente ha chiesto al Congresso la grande riforma sanitaria che aveva promesso agli elettori durante la campagna elettorale per dare una copertura ai circa 45 milioni di americani che ne sono privi. Sapevamo che si sarebbe scontrato con la lobby delle industrie farmaceutiche e della compagnie di assicurazione. Non immaginavamo che i suoi avversari sarebbero riusciti a fare leva sulle fobie antisocialiste dell’America per mobilitare contro la riforma persino il popolo minuto della classe media, vale a dire coloro che sono maggiormente vittime ogni giorno delle lacune del sistema.
Dietro questa offensiva si nasconde probabilmente un dissenso più profondo sul concetto che gli Stati Uniti dovrebbero avere del loro ruolo nel mondo o, nel linguaggio preferito al di là dell’Atlantico, della loro missione. La presidenza Bush ha rappresentato l’«America imperiale», insofferente di vincoli e trattati. E i suoi maggiori esponenti, fra cui l’ex vice-presidente Dick Cheney, vedono nel giovane presidente nero una intollerabile minaccia al «destino manifesto» della grande nazione. Forse dovremo giungere alla conclusione che la vera crisi dell’America, in questo momento, non è economico-finanziaria ma identitaria. Il Paese deve decidere che cosa sarà e farà nel secolo da poco cominciato e il futuro sognato da Obama è radicalmente diverso da quello di Cheney e dei suoi partigiani.
La crisi della maggiore potenza mondiale e il modo in cui verrà risolta non possono non avere grandi ricadute sulla intera situazione mondiale. E’ questo il momento in cui l’Europa dovrebbe avere le sue idee, i suoi disegni, le sue proposte. Legato dai lacci degli euroscettici e tenuto a bada dai lillipuziani del presidente ceco Vaclav Klaus, il Gulliver europeo è stato fino a ieri muto e impotente. Domani, dopo la scelta del suo presidente e del suo ministro degli Esteri, dovrebbe essere in grado di fare sentire la propria voce. Ci piacerebbe ascoltarla.
Sergio Romano
04 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #51 inserito:: Novembre 14, 2009, 10:55:09 am » |
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Il commento
Riforme piccole (e sbagliate)
Se fosse possibile scegliere tra la riforma della giustizia e una delle tante riforme di cui il Paese ha bisogno (pensioni, sistema fiscale, educazione, funzione pubblica) non avrei alcun dubbio. Sceglierei senza esitare la riforma della giustizia. Le cause civili sono interminabili e la durata dei procedimenti sta procurando danni irreparabili, tra l’altro, all’economia nazionale. L’obbligatorietà dell’azione penale è l’alibi che copre la discrezionalità dei magistrati inquirenti. Molti procuratori hanno ambizioni pubbliche che stravolgono la loro funzione originale. Le indagini hanno talora un sapore politico o un senso dello spettacolo che nuoce alla loro credibilità. Il Consiglio superiore è un parlamento in cui sono rappresentate correnti ideologiche. Un organo sindacale, l’Associazione nazionale magistrati, agisce come una lobby e cerca di condizionare la decisione delle Camere. Ripeto: se l’Italia vuole rimettere ordine tra i poteri dello Stato e restituire ai cittadini la fiducia nelle istituzioni, occorre partire dalla riforma della giustizia. Molti dei voti dati al centro-destra sono dovuti alla sua promessa di agire su un terreno in cui i governi di centro-sinistra sono stati esitanti e, alla fine, carenti.
Ma le promesse dei due ultimi governi Berlusconi sono state eluse. Le riforme, quando ci sono state, sono parse motivate soprattutto dal desiderio di risolvere i problemi personali del presidente del Consiglio. Possiamo cercare di comprendere le condizioni di un uomo che è stato oggetto di una sovrabbondante attenzione giudiziaria. Possiamo comprendere la necessità, nell’interesse del Paese, che i conti, come accade oggi in Francia, vadano regolati alla fine del mandato e che le procedure giudiziarie non entrino in rotta di collisione con il voto degli elettori. Possiamo immaginare gli effetti devastanti provocati da un giudizio che colpisce un uomo tuttora sostenuto da una larga parte del Paese.
Ma il maggiore ostacolo sulla strada della riforma è ormai rappresentato dal numero delle leggi ad personam approvate negli ultimi anni. Anche quando contengono norme con le quali è possibile convenire, queste leggi appaiono frettolosamente nelle aule parlamentari non appena il premier ne ha bisogno per allontanare o cancellare una scadenza giudiziaria. E sono opera di avvocati a cui il presidente del Consiglio, con una specie di cortocircuito istituzionale, ha conferito funzioni pubbliche. Non basta. L’ultima proposta rischia di rendere ancora più difficile il rapporto con il Quirinale, di approfondire il fossato tra maggioranza e opposizione, di aprire un interminabile contenzioso costituzionale, di oscurare i problemi a cui dovremmo dedicare la nostra attenzione.
A questo, punto sperare in una riforma complessiva che comporti, tra l’altro, la separazione delle carriere e una diversa composizione del Consiglio superiore della magistratura, è diventato illusorio. Le piccole riforme, quando sono attuate con questo spirito, cancellano la grande riforma dall’agenda nazionale. Silvio Berlusconi è ancora, grazie alla sua vittoria elettorale, il presidente del Consiglio degli italiani. Ma non può essere l’arbitro del grande dibattito parlamentare necessario alla riforma della giustizia. Per ottenere uno scopo limitato e personale ha privato l’Italia di ciò di cui ha maggiormente bisogno.
Sergio Romano
14 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #52 inserito:: Novembre 29, 2009, 02:56:58 pm » |
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LA NECESSITA’ DEL DIALOGO
Leggi, rispetto e senso di realtà
Il «concorso esterno in associazione mafiosa » si è dimostrato una categoria penale alquanto fumosa e imprecisa. Le accuse che verrebbero mosse al presidente del Consiglio dalle procure di Palermo e Firenze appaiono a molti (me compreso) poco plausibili. Sono queste ragioni sufficienti perché i procuratori debbano rinunciare a indagare? No, ne hanno il diritto, peraltro il procuratore capo di Firenze ha smentito ieri che il presidente del Consiglio sia indagato. Ma esiste una soglia al di là della quale i problemi smettono d’essere esclusivamente giudiziari e assumono una dimensione politica.
Dopo gli scandali dell’estate, il fallimento del Lodo Alfano, le reazioni di Berlusconi, le sortite dell’Associazione nazionale magistrati, il processo Mills e la crescente violenza verbale del dibattito politico, la soglia ormai è stata largamente superata. Se le indagini terminassero rapidamente, in un senso o nell’altro, il danno sarebbe contenibile. Ma conosciamo purtroppo il copione: un lungo viaggio attraverso la giustizia destinato spesso a concludersi con la prescrizione o con risultati ambigui che lasciano nella bocca degli italiani il gusto amaro di un’attesa frustrata. La sentenza, in questi casi, non è quella che verrà pronunciata nell’ultimo grado di giudizio. È quella che ciascuna delle due giurie popolari (una colpevolista, l’altra innocentista) pronuncia subito e che contribuisce a rendere l’aria del Paese ancora più irrespirabile. Possiamo permetterci, in un momento di grandi crisi, un clima di continui conflitti civili? Possiamo permettere che il Paese venga politicamente paralizzato da un caso che si concluderà quando molti dei suoi protagonisti saranno morti o a riposo? Qualcuno spera forse che un ennesimo scandalo costringa Berlusconi ad andarsene.
È isolato, si considera assediato dal nemico e non ha compreso che ogni nuova legge ad personam, come quella sul processo breve, rende ancora più difficile la riforma giudiziaria di cui il Paese ha bisogno. Ma non sembra avere perso né il desiderio di restare al potere, né il sostegno della maggioranza, né il consenso della maggior parte dei suoi elettori. Si può far cadere un governo che dispone di una consistente maggioranza senza dare un duro colpo al processo democratico? È una domanda a cui il presidente della Repubblica ha già dato una risposta: no, non si può. Occorre quindi una tregua, e la soluzione migliore per garantirne l’osservanza potrebbe essere il ritorno a un maggior senso di responsabilità dei poteri dello Stato, evitando forzature e invasioni di campo. Questo processo sarebbe favorito da una forma di immunità (che ricordiamolo fu introdotta dai padri costituenti) purché concordata a larga maggioranza.
Ma la tregua sarebbe precaria se il governo non fosse disposto a fare con l’opposizione le riforme istituzionali che ha promesso, e su cui esistono ormai molte convergenze. È questo, forse, l’aspetto più tristemente paradossale dell’attuale situazione. Chiunque legga i progetti del governo e li confronti per esempio alla bozza Violante sulla riforma dell’esecutivo e la creazione di un Senato delle regioni, constata che il divario fra maggioranza e opposizione si è considerevolmente ridotto. Ma vi è ancora chi preferisce parlare d’altro, e impedisce così al suo Paese di avere istituzioni conformi alle sue esigenze e ambizioni.
Sergio Romano
29 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 07, 2009, 04:05:01 pm » |
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I DOVERI DELLA POLITICA E DELLA MAGISTRATURA
Tutti i dubbi (ragionevoli)
Gaspare Spatuzza, testimone nel processo contro Marcello Dell’Utri, è un «pentito». Appartiene quindi a una categoria di testimoni di cui è lecito chiedersi se non rappresentino in molti casi, per usare un’espressione militare, la prosecuzione della guerra di mafia con altri mezzi. Non parla di fatti recenti, sui quali è possibile raccogliere altre testimonianze, ma di eventi accaduti più di quindici anni fa. Quali sono le sue credenziali? E’ permesso chiedersi perché parli ora, con tanto ritardo, e fornisca informazioni che colpiscono Berlusconi nel momento in cui il presidente del Consiglio è messo alle strette da altre indagini? Non credo vi sia uomo politico o magistrato di buon senso che non abbia avuto, ascoltandone le dichiarazioni, questi dubbi e queste perplessità.
Ma la giustizia non può scartare una ipotesi senza averla verificata e deve quindi, come usa dire in queste circostanze, andare sino in fondo. Nulla da eccepire, come abbiamo già scritto, se i processi fossero ragionevolmente brevi e dessero una rapida risposta ai nostri dubbi. Ma viviamo in un Paese dove quello di Perugia è durato, dal giorno del delitto, due anni; ed è, come sappiamo, un puzzle di cui la magistratura possiede tutti i pezzi: il cadavere, l’arma del delitto, la stanza della morte, i possibili assassini. Che cosa accadrà di un processo che concerne fatti lontani e che ha perduto lungo la strada, per ragioni anagrafiche, alcuni possibili imputati e testimoni? Può un intero sistema politico essere indefinitamente ostaggio di una vicenda giudiziaria che getta sul premier l’ombra di una colpa non ancora provata ma tale da intaccare la sua autorità? In Francia, quando un magistrato cominciò a indagare sul presidente della Repubblica, fu possibile decidere che le indagini sarebbero state riprese alla fine del suo mandato. In Italia, come abbiamo visto, soluzioni di questo genere si scontrano con le resistenze della magistratura e le sentenze della Corte costituzionale. Forse perché i magistrati, come sostiene Berlusconi, gli sono nemici? Credo piuttosto che le ragioni siano, nel senso migliore della parola, professionali.
Molti giudici e procuratori si rendono conto della gravità della situazione, ma non vogliono prendere decisioni che sembrerebbero, nel clima surriscaldato della politica italiana, una diminuzione del ruolo pubblico conquistato negli ultimi vent’anni. Ed eccoci tutti prigionieri di un processo che potrebbe anche assolvere Berlusconi, ma che, nel frattempo, avrà condannato l’Italia alla paralisi. Chi indennizzerà il Paese del tempo perduto, delle occasioni mancate, delle riforme accantonate?
Ho descritto il labirinto italiano, ma rifiuto di credere che non abbia, come tutti i labirinti, una via d’uscita.
Spetta alla politica trovarla; e la strada maestra potrebbe essere quella di un impegno congiunto fra maggioranza e opposizione per riforme istituzionali che mettano fine a una transizione durata ormai poco meno del regime fascista. Ma occorrono almeno due sacrifici. L’opposizione deve lasciare che il processo faccia il suo corso senza utilizzarlo politicamente.
E Berlusconi deve permettere alla magistratura di lavorare (anche ai processi contro di lui) e deve capire che nulla potrà garantirgli il completamento del mandato quanto un’intesa con l’opposizione sui nodi istituzionali che la maggioranza, da sola, non può sciogliere.
Sergio Romano
05 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:30:34 pm » |
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PENTITI, PROCESSI E IMMAGINE DEL PAESE
Una commedia all'italiana
Dopo la commedia dell’arte e il melodramma l’Italia sembra avere inventato, per la gioia dei suoi osservatori più malevoli, un terzo genere teatrale: quello tragico e farsesco del processo all’italiana. I due ultimi spettacoli sono andati in scena a Perugia e a Torino con grande successo e ci hanno garantito per alcuni giorni un posto fisso sulle prime pagine della stampa internazionale. Il primo ha suscitato l’indignazione di molti americani, ma ha soddisfatto gli inglesi e ha esteso a molti altri Paesi il gioco della contrapposizione morbosa fra innocentisti e colpevolisti. Il secondo è stato visto e letto come il copione d’uno straordinario dramma sui rapporti fra mafia e politica.
Non tutti gli osservatori stranieri conoscono i meccanismi delle nostre procedure giudiziarie, e gli americani, in particolare, si sono accorti con sorpresa che il nostro processo, guarda caso, è molto diverso dal loro. Poiché nulla è tanto assurdo quanto ciò che non si riesce a capire, Perugia e Torino hanno contribuito a diffondere nel mondo l’immagine di una giustizia confusa e pasticciona. Nel caso del secondo, in particolare, il coro stonato delle reazioni politiche, a cominciare da quelle del presidente del Consiglio, ha dato a molti spettatori la sensazione di un Paese litigioso, pieno di pagine oscure e incapace di fare giustizia.
Esistono tuttavia voci più equilibrate. In un’intervista al New York Times sul processo di Perugia, un noto avvocato e professore americano, Alan Dershowitz, ha osservato che Amanda Knox potrebbe essere favorita in ultima analisi dall’esistenza in Italia di un processo di seconda istanza alquanto diverso dall’appello americano. E’ un processo ex novo in cui ogni prova viene nuovamente scrutata e pesata con esami più approfonditi. Ne abbiamo avuto la dimostrazione ieri a Palermo quando abbiamo constatato che la testimonianza di Gaspare Spatuzza era soltanto il passaggio necessario di una procedura soggetta a confronti e verifiche. E’ probabile che le discordanti testimonianze di Spatuzza e Filippo Graviano scatenino il gioco delle ipotesi sulle strategie della mafia. Ma ciò che conta, dal punto di vista processuale, è che il primo è stato smentito dal secondo. A questo punto tutti, incluso il presidente del Consiglio, farebbero bene a ricordare che i processi non sono partite di calcio in cui ogni gol suscita speranze di vittoria o timori di sconfitta. Sono percorsi logici in cui ogni ipotesi viene sottoposta a un esame della verità. Pensare che una testimonianza basti da sola a pregiudicarne l’esito e che da essa si possano trarre analisi politiche è sbagliato. Ai giudici non serve in queste occasioni una tumultuante giuria popolare. Serve soprattutto un po’ di silenzio. E poiché i migliori esempi vengono dall’alto, un Berlusconi più distaccato e paziente potrebbe aiutarci a convincere il mondo che l’Italia è meglio della sua attuale immagine.
Sergio Romano
12 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #55 inserito:: Dicembre 16, 2009, 03:27:55 pm » |
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COME TORNARE A UN CLIMA CIVILE
Libertà di critica e confronto leale
Vi sono attentati, per quanto insani e feroci, che hanno un disegno e rispondono alla strategia di una forza politica. Così furono gli attentati anarchici contro re, regine e presidenti fra l’Ottocento e il Novecento, da quello di Sante Caserio contro il presidente francese Carnot nel 1894 a quelli di Luigi Lucheni e Gaetano Bresci contro l’imperatrice Elisabetta e Umberto I nel 1898 e nel 1900. Ma ve ne sono altri che sono soltanto opera di un folle, prigioniero delle proprie ossessioni. Anche questi, tuttavia, possono essere pericolosi quando, pur senza padri, hanno un gran numero di complici involontari. Il presidente della Repubblica ha ragione quando ci richiama all’ordine e ci ricorda che abbiamo tutti l’obbligo di essere in questo momento «allarmati». Nessuno ha guidato la mano dell’attentatore di piazza del Duomo, ma molti sono coloro che hanno concorso a creare il clima in cui la violenza è diventata possibile.
Occorre quindi che tutti facciano un esame di coscienza e controllino d’ora in poi le loro parole. Esistono maggiori responsabilità da una parte o dall’altra? Può darsi, ma il compito di accertarlo toccherà ad altri, più tardi. Oggi ciò che conta non è la puntigliosa rivendicazione delle proprie ragioni, ma la restaurazione di un clima civile. A giudicare da ciò che è accaduto ieri alla Camera, prevale invece, sia nell’opposizione che in certi settori della maggioranza, il desiderio di utilizzare politicamente l’attentato per dimostrare le colpe e le responsabilità del «nemico ». Assistiamo così a un nuovo paradosso. Tutte le forze politiche nazionali condannano il gesto di piazza del Duomo e si rallegrano del suo fallimento. Ma parecchi lo usano per continuare il pericoloso gioco delle accuse reciproche e rischiano di preparare in questo modo altri scoppi di violenza.
La tregua ha un senso naturalmente soltanto se costruita su un’intesa. Nessuno può chiedere alla maggioranza e all’opposizione di rinunciare ai loro rispettivi programmi sull’agenda politica del momento, dai modi per fronteggiare la crisi alle misure sull’immigrazione, dal testamento biologico alla riforma del sistema scolastico e universitario. Su questi temi è giusto che governo e opposizione si combattano e si contraddicano, anche duramente. Ma esistono altre questioni — il federalismo, il nuovo Senato, la riduzione dei parlamentari, i poteri del premier, la nomina e la revoca dei ministri, la riforma dell’ordine giudiziario — su cui devono lavorare insieme.
Il presidente del Consiglio sostiene che la Costituzione è invecchiata, e ha ragione, anche se dovrebbe evitare di attaccarne duramente gli organi. Ma esiste davvero qualcuno, nella maggioranza, che voglia ripetere l’esperienza del precedente governo Berlusconi, quando una riforma votata soltanto dalla coalizione di governo è stata bocciata dal Paese? Invocare la riforma della Costituzione senza creare le condizioni perché divenga possibile è un inutile esercizio retorico e, peggio, una pericolosa perdita di tempo. Berlusconi avrebbe detto a Fedele Confalonieri, dopo l’attentato, che vi sono situazioni in cui da un male può sortire un bene. Se da questa brutta storia potesse venire un accordo per la riforma delle istituzioni, tutti, per una volta, ne usciremmo vincenti.
Sergio Romano
16 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #56 inserito:: Gennaio 02, 2010, 12:21:00 am » |
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Addio anni zero senza rimpianti
L’ immagine del tunnel, per definire un percorso al buio attraverso una lunga serie di crisi, è ormai inflazionata e svalutata. Ma è quella che definisce meglio i primi anni del secolo, dall’elezione di George W. Bush alla Casa Bianca nel novembre del 2000 all’elezione di Barack Obama nel novembre dell’anno scorso. Le responsabilità non sono soltanto americane. Non è colpa degli Stati Uniti, ad esempio, se il fanatismo islamico, nel settembre del 2001, scatena la guerra santa nel cielo di New York. Ma molto di ciò che è accaduto ha le sue origini nel modo in cui l’America, da quel momento, ha concepito il proprio ruolo nel mondo e nei metodi con cui ha perseguito i suoi obiettivi.
La lista degli avvenimenti funesti è impressionante: la guerra afghana, la guerra irachena, la guerra libanese, la guerra georgiana, la guerra di Gaza, le guerre africane, imassacri del Darfur, una lunga serie di attentati terroristici da Madrid a Londra, dal Pakistan all’India, dall’Indonesia alla Turchia, e una serie non meno importante di repressioni poliziesche in Birmania, nel Tibet, nello Xinjiang, in Iran. Il catalogo delle crisi economiche e finanziarie non è meno lungo, da quella del petrolio e del gas a quella dell’industria automobilistica, da quella americana dei mutui a quella delle banche e delle compagnie di assicurazione, da Wall Street alla City.
E mentre gli Stati Uniti reagivano a ogni insuccesso raddoppiando testardamente la posta, l’Europa impiegava otto anni per approvare una Costituzione che le permettesse di governare se stessa e di avere un ruolo mondiale corrispondente alla sua importanza. Aggiungo, per completare il quadro, che in questo marasma si sono fatti spazio gli avventurieri e i corsari, da quelli che controllano gli Stati, come il venezuelano Hugo Chávez e i signori nordcoreani di Pyongyang, a quelli che catturano le navi nel Golfo di Aden e al largo delle coste somale.
Forse siamo prossimi alla fine del tunnel. Vi saranno altre guerre, altri attentati terroristici e altre operazioni militari, forse addirittura nei prossimi giorni. Ma lo stile degli Stati Uniti è cambiato, l’Europa ha finalmente una Costituzione, la crisi del credito ha ripulito almeno in parte le stalle della finanza internazionale e molte industrie (quelle dell’automobile ad esempio) sanno che non è più possibile tornare alle dimensioni di un tempo. So che la conferenza di Copenaghen viene considerata da molti un insuccesso. Ma tra la situazione degli anni scorsi, quando alcuni fra i maggiori Paesi inquinanti rifiutavano qualsiasi impegno, e quella d’oggi corre una bella differenza. So che il G20 non sarà mai probabilmente il governo mondiale dell’economia, ma sarà pur sempre meglio di un G8 che rappresentava soltanto i vecchi proprietari. So che gli Stati Uniti continueranno a considerarsi superpotenza, ma l’America di Obama, soprattutto dopo l’approvazione della riforma sanitaria, assomiglierà un po’ di più all’Europa.
Gli Stati, come gli esseri umani, non smetteranno mai di commettere errori. Ma sanno imparare le lezioni ed eviteranno, almeno per un certo periodo, di ripetere gli errori del passato. Possiamo dire lo stesso del nostro Paese? Durante il primo decennio del secolo l’Italia è stata, come spesso nel corso della sua storia, schizofrenica. La sua classe politica è litigiosa, il suo rapporto con gli elettori èmediocremente clientelare, i suoi dibattiti sono futili e retorici, l’apparato statale è poco produttivo, le corporazioni sono potenti e miopi. Ma il frastuono delle chiacchiere copre il silenzio di coloro che lavorano seriamente e mettono a segno ogni tanto risultati importanti, spesso con un confortante grado di continuità tra governi di colore diverso. Sul piano delle infrastrutture, un settore cruciale per la sua modernizzazione, il Paese, alla fine del decennio, sta meglio che all’inizio. Lo spettacolo è ancora più confortante se spostiamo lo sguardo dall’apparato politico-amministrativo alla società. Mentre l’agenda politica nazionale era dominata dalla discussione sul declino, molti industriali hanno affrontato il problema senza dare retta alle Cassandre e hanno reinventato le loro aziende.
Da una ricerca della Fondazione Edison, descritta da Marco Fortis sul Sole 24 Ore del 29 dicembre, risulta che nel 2007, prima della grande crisi del credito, l’Italia era «seconda soltanto alla Germania per numero complessivo di primi, secondi e terzi posti nell’export mondiale ogni 100.000 abitanti, precedendo Francia e Corea del Sud». Non è tutto. Mentre le cicale americane e inglesi bruciavano il loro denaro, le formiche italiane continuavano a risparmiare. Abbiamo un pesante debito pubblico, ma se altri Paesi sommassero il debito delle pubbliche amministrazioni a quello delle famiglie, scoprirebbero che la loro situazione, in qualche caso, è peggiore della nostra. Esiste una sonder weg italiana, una via speciale dell’Italia, che ci riserva talvolta qualche gradevole sorpresa.
Occorre evitare tuttavia, al momento dei bilanci, i pericolosi compiacimenti. Dovremmo piuttosto constatare che le potenzialità italiane sono frenate dalla mediocrità della sua classe politica, dallo stato del Mezzogiorno e dalla snervante lentezza con cui stiamo modificando le nostre invecchiate istituzioni. Siamo usciti senza troppi danni da un decennio orribile. Pensate a che cosa accadrebbe se, invece di camminare, ci mettessimo a correre.
Sergio Romano
31 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #57 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:22:08 pm » |
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L’ISOLA DEGLI ULTIMI
Vi sono sventurati Paesi che soffrono di una pericolosa contraddizione. Per la loro posizione geografica suscitano l’interesse delle grandi potenze e diventano rapidamente una posta nel gioco delle loro rivalità e delle loro ambizioni. Ma sono troppo piccoli e fragili per valorizzare questo patrimonio naturale a proprio vantaggio. Haiti, colpita ieri da un terremoto disastroso con migliaia di vittime (la foto che pubblichiamo è l’emblema di un dolore che ci commuove), appartiene a questa infelice categoria. Collocata a metà strada fra Cuba a Puerto Rico, l’isola divenne sin dal Seicento un crocevia di pirati e un buon approdo per le flotte delle due potenze, la Spagna e la Francia, che si disputavano in quel momento il controllo dei Caraibi. Qualche avventuroso colono europeo creò le prime fattorie agricole e importò schiavi per la lavorazione del tabacco, del caffè e dello zucchero. Amministrata per una parte dalla corona francese e per l’altra dalla corona spagnola, l’isola divenne molto ricca, ma presentò subito una caratteristica sociale e demografica che avrebbe pesato lungamente sul suo sviluppo: una piccola élite di proprietari bianchi, spesso spregiudicati e rapaci, una grande massa di schiavi neri importati dall’Africa e, con il passare del tempo, una fascia intermedia di mulatti che potevano essere in qualche caso peggiori dei padroni bianchi.
Era troppo eterogenea e socialmente squilibrata per diventare uno Stato e troppo appetitosa per essere lasciata in pace. Questo miscuglio ebbe tuttavia l’effetto di produrre una sorta di copia caraibica della rivoluzione francese. Vi fu una insurrezione degli schiavi nel 1791 e la Convenzione di Parigi rispose a quell’avvenimento con un gesto generoso e illuminato: la soppressione della schiavitù. Apparve sulla scena di lì a poco un «liberatore», François Dominique Toussaint Louverture, un Danton nero che cercò di sfruttare le rivalità franco-spagnola e anglo- francese per consolidare il proprio potere. Il suo nome divenne molto popolare in Europa e sembrò dimostrare che il messaggio rivoluzionario di Parigi aveva una risonanza universale. Le stampe che lo ritraggono in atteggiamenti rivoluzionari e vestito degli stessi abiti indossati allora dai giacobini di Parigi, ebbero una grande diffusione in tutta l’Europa. Un suo discorso sull’esistenza di Dio veniva ancora letto e studiato, sino a qualche decennio fa, nelle scuole americane. Ma negli anni seguenti l’isola, oltre a essere contesa dalle grandi potenze, ebbe la sventura di precipitare in una spirale di guerre civili. I proprietari bianchi furono espropriati e le terre furono distribuite agli schiavi liberati. Ma al conflitto tra i neri e i bianchi subentrò quello tra i neri e i mulatti.
di SERGIO ROMANO
14 gennaio 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #58 inserito:: Gennaio 18, 2010, 12:05:06 pm » |
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Dieci anni fa moriva Bettino Craxi
Il ritratto di un leader
Vi sono molti italiani per cui il caso Craxi è ancora, e deve restare, esclusivamente giudiziario. Pensano che non abbia senso chiedersi se abbia avuto e quali siano stati i suoi meriti politici. Ritengono che le condanne, nei due processi in cui fu imputato, contino più di qualsiasi altra considerazione. Credo che commettano un errore. Non possiamo ridurre la vita di Craxi al suo epilogo giudiziario senza rinunciare a comprendere un intero periodo della storia nazionale. Craxi fece in quegli anni alcune battaglie politiche. Ignorarle significa implicitamente dare partita vinta ai suoi avversari. Piaccia o no Bettino Craxi va discusso e giudicato, anzitutto, sulla base dei suoi programmi e delle sue iniziative.
Il suo principale obiettivo fu quello di rompere l’asse fra democristiani e comunisti che si era formato dopo le elezioni politiche del 1976. Era un obiettivo legittimo. Fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta i partiti socialisti europei ebbero un ruolo determinante, anche se non sempre egualmente positivo, nella vita politica dei loro Paesi. Il laburista James Callaghan fu Primo ministro della Gran Bretagna dal 1976 al 1979. Bruno Kreisky fu cancelliere dell’Austria dal 1970 al 1983. Andreas Papandreou fu Primo ministro della Grecia dal 1981 al 1989. François Mitterrand fu eletto alla presidenza della Repubblica francese nel 1981 e rimase all’Eliseo per quattordici anni. Felipe Gonzalez governò la Spagna dal 1982 al 1996. Willy Brandt si dimise per un oscuro affare di spionaggio nel 1974, ma fu presidente dell’Internazionale socialista sino al 1992. Soltanto in Italia i socialisti, divisi in due partiti e in mezza dozzina di correnti, sembravano condannati a un ruolo subalterno.
Esisteva quindi una anomalia italiana che Craxi cercò di correggere a favore del suo partito. Lo fece avanzando proposte e sollevando problemi che erano stati sino ad allora ignorati o evitati. Capì che il sistema politico si era inceppato e ne propose la riforma con la elezione diretta del presidente della Repubblica. Capì che non era possibile lasciare le sorti dell’economia nelle mani di un sindacato per cui il salario era una «variabile indipendente», e vinse il referendum sulla scala mobile. Capì che la sicurezza dell’Italia dipendeva dal rapporto con gli Stati Uniti, e ribadì gli impegni presi dal governo Cossiga sulla dislocazione dei missili Cruise a Comiso; ma tenne testa agli americani nella vicenda di Sigonella, dopo il dirottamento dell’Achille Lauro, e riuscì a farlo senza pregiudicare i suoi rapporti con il presidente Ronald Reagan. Capì l’importanza dell’integrazione europea e guidò il fronte europeista contro Margaret Thatcher al Consiglio europeo del Castello Sforzesco nel giugno 1985.
Capì che occorreva modernizzare i rapporti con la Chiesa cattolica e firmò con il cardinale Casaroli il Concordato del 1984. Sostenne il dissenso nell’Unione Sovietica e nelle democrazie popolari. E tentò infine di dare al partito socialista, grazie al culto di Garibaldi, un’ascendenza risorgimentale. La campagna per il «socialismo tricolore» fu anzitutto un’operazione culturale, ma le sue ricadute politiche furono complessivamente positive. Una delle sue caratteristiche più discusse fu quella che venne definita, con un termine ingiustamente spregiativo, decisionismo. Oggi, dopo l’importanza assunta da alcune personalità nella vita politica dei maggiori Paesi democratici dovremmo riconoscere che Craxi capì qual fossero, soprattutto in un’epoca di grandi modernizzazioni, le responsabilità di un leader.
Ma lo stile craxiano del potere produsse anche conseguenze che non è possibile ignorare o sottovalutare.
La prima fu il brusco aumento del debito pubblico, una colpa a cui i governi successivi non vollero o non poterono rimediare. La seconda fu Tangentopoli, vale a dire un sistema di finanziamenti illeciti che inquinò la vita politica nazionale ed ebbe effetti perversi sul bilancio dello Stato. Sono i meriti di Craxi, paradossalmente, che rendono queste colpe particolarmente gravi. Un modernizzatore deciso e intelligente non avrebbe dovuto permettere la costruzione di una macchina che era in effetti il contrario della modernità.
Esiste una evidente contraddizione tra le ambizioni riformatrici di Craxi e un sistema che antepone la clientela al merito, il pagamento di una tangente alla qualità dell’opera. Non ho mai pensato che Craxi potesse essere considerato il solo responsabile di un tale fenomeno. Ma le responsabilità di un leader sono tanto maggiori quanto più grandi sono le sue ambizioni e i suoi programmi. Gli storici non potranno riconoscere i suoi meriti senza constatare al tempo stesso i suoi errori.
Sergio Romano
18 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #59 inserito:: Febbraio 01, 2010, 10:30:04 am » |
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Il declino di un Leader
La Commissione britannica che ha interrogato Tony Blair per sei ore sul suo ruolo nella guerra irachena del marzo 2003 non è un tribunale e non pronuncerà sentenze. Non sarebbe facile, comunque, dimostrare che Blair e Bush si erano accordati nel Texas per una guerra da farsi a tutti i costi, indipendentemente da qualsiasi tentativo negoziale. Ma il giudizio politico non ha bisogno di scranni, parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia britannica. La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la fine di una brillante carriera. Nel 2007, quando lasciò l’elegante casa georgiana di Downing Street, Blair mise in scena la propria partenza con l’abilità di un grande regista e iniziò da allora, con disinvoltura, due nuove carriere, abitualmente incompatibili. Sfruttò la fama conquistata negli anni precedenti per diventare conferenziere, guru di strategie mondiali, promotore di nobili cause, consigliere di un grande gruppo bancario, impresario di se stesso e della propria personale fortuna. Ma non rinunciò alla politica e trasferì le sue ambizioni dal campo nazionale a quello internazionale. Divenne inviato del Quartetto (l’organismo quadripartito incaricato di negoziare la soluzione della questione palestinese) e lasciò intendere che avrebbe accettato volentieri, dopo la ratifica del Trattato di Lisbona, la presidenza dell’Unione Europea. L’avrebbe ottenuta, forse, se gli impegni privati non fossero stati più numerosi delle sue visite a Gerusalemme e nei territori occupati, se il suo ruolo nella questione palestinese non fosse stato pressoché invisibile e se non avesse atteso qualche giorno, dopo lo scoppio della guerra di Gaza, prima di fare una frettolosa apparizione televisiva sui luoghi della crisi. È probabile che la sua deposizione di ieri, di fronte a una commissione d’inchiesta sulla guerra irachena, sia l’epilogo di una carriera costruita sull’immagine e sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa pubblica. I cantori della «terza via» dovranno fare qualche esame di coscienza. I sostenitori della guerra irachena dovranno leggere attentamente la deposizione di Blair e chiedersi se quel conflitto fosse davvero necessario. E noi tutti dovremmo chiederci se la società moderna non sia destinata a essere vittima delle sue illusioni. Eleggiamo i nostri leader nella speranza di essere governati da uomini che si sono dedicati alla buona amministrazione della Cosa pubblica. E scopriamo prima o dopo di avere scelto personalità attraenti, grandi maestri della comunicazione, ma incapaci di separare, nella loro vita, il pubblico dal privato. Non esiste soltanto un caso Blair. Esistono altri casi che vale la pena di ricordare brevemente. Il più recente è quello di Nicolas Sarkozy nella vicenda giudiziaria che ha visto un ex primo ministro, Dominique de Villepin, sul banco degli imputati per una imbrogliata vicenda di tangenti, conti segreti e rivalità politiche. Quando decise di costituirsi parte civile nel processo contro Villepin, Sarkozy voleva regolare i conti con un uomo di cui era stato amico eministro. Voglio credere che lo abbia fatto nella convinzione di essere stato ingiustamente calunniato. Ma ha proclamato Villepin colpevole ancora prima dell’inizio del processo e ha dimenticato di essere capo dello Stato, presidente del Consiglio superiore della magistratura, custode e garante della legalità nazionale. Ha preferito considerarsi parte offesa e fare una battaglia personale. L’assoluzione di Villepin, quindi, non sconfigge soltanto l’uomo, ma anche e soprattutto il presidente. Se il pubblico ministero, come sembra, ricorrerà in appello contro l’assoluzione, molti francesi giungeranno alla conclusione che Sarkozy continua a ignorare le esigenze del suo ruolo pubblico. Le disavventure giudiziarie del suo predecessore sono più tradizionali. Terminato il suo secondo mandato, Jacques Chirac deve difendersi in un’aula di tribunale dall’accusa di avere utilizzato le risorse del Comune di Parigi, negli anni in cui fu sindaco, per rafforzare i quadri del suo partito. Si parla, in altre parole, di finanziamenti illegali, una categoria con cui gli italiani hanno grande familiarità e che molti considerano, tutto sommato, perdonabile. Ma l’immagine di Chirac sarebbe migliore se l’ex presidente non abitasse, dopo la fine del mandato, nell’appartamento parigino di Rafik Hariri, il ricco uomo politico libanese ucciso a Beirut: un’amicizia, quella tra Chirac e Hariri, che ha spesso suscitato sorrisi e sospetti. E veniamo infine al caso di Gerhard Schröder, cancelliere tedesco dal 1998 al 2005, grande amico di Vladimir Putin, autore insieme all’amico russo di un progetto per la costruzione di un grande gasdotto che correrà sotto il mare del Nord e garantirà alla Germania una posizione privilegiata nel grande mercato europeo dell’energia. Ho sempre pensato che Schröder abbia fatto in tal modo gli interessi del suo Paese e dell’Europa. Ma ha fatto contemporaneamente anche i suoi personali interessi. Con una disinvoltura superiore a quella di Blair, non ha perso un giorno, dopo la fine del suo mandato, per passare dalla Cancelleria tedesca alla presidenza del consorzio costituito per la costruzione del gasdotto. Non esiste quindi soltanto un caso Blair. Esiste anche il problema di una generazione politica che sembra avere perso di vista la separazione tra ciò che è pubblico e ciò che è privato. Qualche lettore potrebbe osservare a questo punto che non ho parlato dell’Italia. Risponderò che ne parliamo tutti i giorni. Oggi ci siamo concessi un giorno di vacanza e parliamo dei casi altrui.
Sergio Romano
30 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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