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Autore Discussione: NAOMI WOLF -  (Letto 5033 volte)
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« inserito:: Gennaio 08, 2010, 11:00:29 am »

8/1/2010

Middle class, donne sull'orlo della bancarotta
   
NAOMI WOLF


Mentre il mondo lotta per uscire dal semi-collasso economico dello scorso anno, c’è un sottogruppo che è scivolato al di sotto della linea di galleggiamento: le donne che un tempo appartenevano al ceto medio. Secondo un’inchiesta recente, quest’anno in America un milione di queste donne comparirà davanti al tribunale fallimentare. Un numero superiore, dice l’economista Elizabeth Warren, a quello delle donne che «prenderanno la laurea, avranno una diagnosi di cancro o chiederanno il divorzio». La loro difficile situazione - sintomatica di una condizione comune nel mondo - contiene una lezione utile per tutte noi.
Queste donne rovinate sono più istruite dei loro omologhi maschi: la maggior parte ha fatto l’università, più della metà è proprietaria della casa dove vive. A farle cadere da uno stile di vita medio-borghese a redditi di poco al di sopra del limite di povertà sono stati verosimilmente tre fattori: due economici e uno emotivo.

In primo luogo, queste donne nuotano nei debiti. Molte hanno lavori che impongono di tuffarsi nelle linee di credito solo per stare a galla. Altre sono state bersagliate - e raggiunte - dai produttori di beni di lusso e dalle società che emettono carte di credito, che beneficiano del modo in cui la cultura di massa lega certi tipi di consumo - gli abiti all’ultima moda, la borsa-must della stagione, l’ultimo modello di auto sportivo - ai racconti di una femminilità di successo.

Questa pressione non è limitata agli Stati Uniti. Nuove classi medie stanno emergendo globalmente e riviste come Cosmopolitan e Vogue si rivolgono, con gli stessi identici beni di lusso, a donne dell’India e della Cina appena ascese socialmente - molte delle quali appartengono a una generazione che, per la prima volta nella storia delle loro famiglie, dispone di un suo reddito.

La seconda ragione di questa bancarotta femminile è che una legge del 2005 contrappone nei tribunali le donne - che non possono permettersi costosi pareri legali - ai gestori di carte di credito per stabilire chi venga primo nei pagamenti quando l’ex marito, mancando ai suoi doveri, nega sia l’assegno di mantenimento dei figli sia il saldo degli acquisti.

C’è poi un terzo fattore, di cui poco si parla: le attese emotive e le proiezioni sul denaro. Nel programma sulla leadership delle giovani donne cui io collaboro al Woodhull Institute, vediamo regolarmente che ragazze del ceto medio - in percentuale superiore a quelle della classe operaia - provano imbarazzo a parlare di denaro. Quando lo devono introdurre in un colloquio - per esempio con il loro datore di lavoro - si scusano con parole controproducenti. Sono restie a negoziare lo stipendio e raramente sanno come farlo.

Ritengono che chiedere del denaro in cambio del lavoro sia «poco femminile». Danno per scontato che lavorare il doppio degli altri - senza mai chiedere riconoscimenti del loro valore - porterà un aumento perché qualcuno di importante se ne accorgerà.

Queste giovani donne tendono anche ad avere un’idea poco realistica delle loro finanze. Spesso non si curano di risparmiare perché danno per scontato - ancora! - che a salvarle economicamente arriverà il matrimonio. Per loro l’acquisto di un paio di scarpe costose o un bel taglio dei capelli è un «investimento» per un futuro romantico. E non si preoccupano di fare piccoli investimenti mensili. Questo cliché è spesso vero anche per le borghesi più anziane, che non sanno gestire le finanze della famiglia, perché hanno sempre delegato ai mariti il compito di pagare contributi, mutui, tasse e assicurazioni. Così, in caso di divorzio o vedovanza, sono economicamente vulnerabili.

Paradossalmente, le donne della classe operaia (e quelle di colore) raramente si rifiutano di interessarsi alle questioni economiche. Secondo la nostra esperienza, esse tendono a padroneggiare l’abc delle finanze e imparano a negoziare il salario, perché non possono permettersi il lusso di aspettare un cavaliere su un cavallo bianco che arriva a salvarle economicamente.

Questo pragmatismo economico delle donne povere è la ragione del successo, nel mondo in via di sviluppo, del microcredito, che mette il denaro nelle mani femminili. Sarei sorpreso se le donne borghesi nel resto del mondo - cresciute considerando certe forme di ignoranza e ingenuità economica come socialmente appropriate - riuscissero, senza un duro apprendimento, a essere affidabili e accorte come quelle più povere dimostrano di essere.

«Financial intimacy», l’ultimo saggio di Jacquette Timmons, una talentuosa coach finanziaria, fornisce delle verità che sarebbero state preziose per qualunque donna della classe media ora in crisi: «Oggi molte guadagnano ben più delle generazioni precedenti. Questo però non ha prodotto un più alto grado di sicurezza economica». La colpa è del tabù di-soldi-non-si-parla. Le donne della middle class ovunque nel mondo lo supereranno quando noi tutte avremo capito che i soldi non sono mai solo soldi e che diventare economicamente preparate significa allontanarsi dal ruolo sociale assegnato alle donne: quello di persone educate, economicamente assenti, sottopagate e abbagliate dallo shopping. Tutte le altre tremende pressioni che le spingono alla rovina continueranno a esistere, ma almeno un numero crescente di loro le affronterà con gli occhi bene aperti e, si spera, con molte alternative migliori.

Copyright Project Syndicate, 2009
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« Ultima modifica: Aprile 02, 2011, 09:41:32 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 06, 2010, 11:04:45 am »

6/4/2010

Immigrati, l'accoglienza parte dalle donne

NAOMI WOLF

Il decennio appena trascorso ha dimostrato (ed è l’ennesima volta) che dare più potere alle donne è la chiave per risolvere molti problemi all’apparenza intrattabili. La povertà nei Paesi in via di sviluppo sembrava impossibile da sradicare finché il micro-credito non ha cominciato a vedere milioni di donne a basso reddito e abbandonate a se stesse come potenziali imprenditrici. Coinvolgere le donne africane nelle decisioni sulle produzioni agricole ha reso possibili nuove pratiche agricole eco-sostenibili. L’esplosione demografica è diventata controllabile quando le donne hanno avuto accesso alle opportunità di istruzione e di business al pari della contraccezione.

Le tensioni e i conflitti che circondano l’immigrazione in Europa potrebbero essere un altro problema per il quale dare più potere alle donne recherebbe con sé la soluzione?

In una recente visita a Copenhagen per la giornata internazionale della donna ho preso parte a molte discussioni che replicavano altre già avute in varie parti d’Europa: cittadini di ogni sezione dello spettro politico si confrontavano a fatica con la questione dell’immigrazione non-europea e le tensioni culturali che ne sono seguite. Che cosa significa essere danesi, tedeschi o francesi in presenza di milioni di nuovi arrivati, molti dei quali vengono da società non democratiche?

Alcune di queste ansietà esprimono puro razzismo; ma altre no. Che cosa significa «integrazione» e come la si raggiunge senza perdere alcuni dei più riveriti valori della società civile? Questa non è necessariamente una domanda xenofoba: una società post-illuminista, dotata di stampa libera e di un sistema legale evoluto, è una cosa preziosa, i cui valori non dovrebbero essere sacrificati al relativismo morale del politicamente corretto.

La questione si è fatta più pressante con l’arresto in Irlanda di presunti jihadisti provenienti da diversi Paesi e accusati di pianificare l’omicidio del vignettista svedese che ha caricaturato Maometto come cane. In tutta Europa la discussione sale di tono e le piattaforme politiche anti-immigrazione guadagnano consenso in società per altro verso liberali, dalla Germania alla Francia fino alla tradizionalmente inclusiva e tollerante Danimarca.

Poi sono stata testimone del prototipo di una possibile soluzione. Ho incontrato Elizabeth Moller Jensen, direttrice del Kvinfo, «Centro danese per l’informazione su genere, eguaglianza ed etnicità». Uno dei suoi molti programmi innovativi sta già dando risultati in termini di genuina integrazione delle famiglie di immigrati nella società danese. Indirizzandosi alle donne immigrate - e rivolgendosi a loro come potenziali leader, anziché come ad acquiescenti potenziali cameriere o fornitrici di altri servizi - il Kvinfo ha reso possibile alle famiglie di queste donne fruire dei benefici della società civile aperta in cui si trovano a vivere.

Il Kvinfo ha avviato il primo «programma di avviamento» per donne immigrate nel 2002. Nel 2010 questo progetto ha avuto 5 mila partecipanti, ha vinto premi e riconoscimenti internazionali per le migliori pratiche di integrazione e ora comincia a essere replicato non solo in tutta la Danimarca ma anche in Norvegia, Spagna, Portogallo e Canada. Il programma associa donne immigrate e rifugiate in una relazione uno-a-uno con donne che sono leader affermate a tutti i livelli della società danese.

L’appaiamento non è occasionale. Un accurato processo di valutazione associa gli interessi e i fini delle donne da ambo i lati, e questo ha già fruttato dividendi straordinari. Donne che erano giornaliste, ingegneri o scienziate nei loro Paesi di origine - e che in Danimarca non potevano trovare lavoro neanche come cassiera - sono state associate a controparti danesi, e adesso sono al lavoro nelle professioni, nelle scuole, nella ricerca scientifica eccetera.

Ma anche per le donne arrivate senza istruzione o qualifiche professionali sono stati creati specifici piani di azione. Ognuna ha appreso dalla rispettiva mentore quali scelte ci sono, come procedere, e che cosa fare per raggiungere i suoi obiettivi. Con l’ingresso nel mondo del lavoro la loro competenza linguistica è cresciuta, i redditi sono aumentati, e i loro figli hanno visto coi loro occhi queste donne assumere un ruolo reputato socialmente e valutato economicamente. Così, anziché sentirsi condannati indefinitamente allo sfruttamento e a una vita ai margini della società nordeuropea - che li avrebbe resi vulnerabili alla propaganda degli estremisti - i figli di queste donne stanno sviluppando una completa familiarità con la società civile danese, bene informati sulle opportunità di istruzione e di affermazione professionale, e pieni di speranza anziché cinici. Dando potere alle donne le famiglie intere si sono elevate ed «europeizzate» nel migliore dei termini.

Io rimango spesso sorpresa da come anche gli europei meglio intenzionati usino eufemismi per riferirsi agli immigrati: dicono di volere che si sentano «bene accolti» o «a loro agio». Allora io domando: «ma volete che si sentano francesi, o tedeschi, o norvegesi?». Per essere pienamente integrati, i musulmani e gli altri nuovi arrivati in Europa non devono essere accolti come visitatori perpetui - per quanto graditi - ma piuttosto come membri della famiglia, secondo il modello americano (o almeno secondo quanto tale modello aspira ad essere). Come dice la Moller Jensen, «voglio che questi bambini si sentano danesi». Man mano che la «generazione Kvinfo» crescerà con genuina partecipazione alla società civile danese, sia la Danimarca sia questi giovani stessi beneficeranno del fatto di guardare al mondo come danesi, e non come ospiti.

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« Risposta #2 inserito:: Luglio 14, 2010, 10:29:32 am »

14/7/2010

La moda low cost che costa troppo alle donne
   
NAOMI WOLF

Lo confesso: lo faccio anch’io. Come la maggior parte delle donne occidentali, lo faccio regolarmente, e ogni volta mi sento in colpa per il piacere che mi dà. Ma è difficile ascoltare la propria coscienza di fronte a una tentazione così fantastica. Sto parlando della moda a basso costo. Vado da Zara, o da H&M o, adesso che per l’estate sono in Gran Bretagna, da Primark, e arraffo capi «carini» e talmente economici che ne prendo due. Devo affrontare la mia dipendenza - e così tutte le donne come me. La moda è stata rivoluzionata dalle catene di vendita al dettaglio che assumono buoni stilisti per creare abiti usa-e-getta e accessori di tendenza. Questa evoluzione ha liberato le donne occidentali dalla tirannia dell’industria della moda che dettava uno stile, costringendole a investire molti soldi nell’aggiornare il guardaroba e poi serenamente dichiarandolo superato - e questo in un ciclo continuo, senza mai fine. Entrando negli empori della produzione di massa, le donne occidentali hanno l’apparentemente deliziosa e liberatoria possibilità di acquistare l’imperdibile prendisole di questa stagione in stile floreale Anni 80 - che la prossima estate sembrerà terribilmente scialbo - per 12 dollari. Loro - noi - possono investire cifre alte nei capi classici che non invecchiano così in fretta e concedersi qualche capo alla moda low-cost quando ne hanno voglia.

Questi empori risolvono anche un nostro problema psicologico, dato che possiamo restare lì dentro tutto il tempo che vogliamo senza sentirci poi colpevoli per eccesso di spesa. Il prezzo di tutto questo lo pagano però le donne nel mondo in via di sviluppo, sulle cui spalle è costruito l’intero sistema. Come riescono Primark e i suoi concorrenti a offrire a prezzi tanto bassi i loro bei vestitini? Facendo morire di fame e opprimendo le donne cinesi, messicane, haitiane, ecco come fanno. Tutti sappiamo che i vestiti economici di solito vengono fabbricati in condizioni di sfruttamento spaventoso - e di solito da donne. E sappiamo - o dovremmo sapere - che queste donne vengono chiuse a chiave nelle stanze da lavoro, non possono andare in bagno per ore, vengono molestate sessualmente, non hanno diritti sindacali e sono oggetto di ogni forma di coercizione.

Ma, come davanti a qualunque segreto di famiglia che, se rivelato, ci metterebbe a disagio, noi donne occidentali chiudiamo gli occhi davanti a tutto questo. Negli Stati Uniti il boicottaggio delle T-shirt dei college fabbricate in condizioni disumane ha portato a pratiche manifatturiere più corrette. Il boicottaggio del caffè e di altri prodotti simili, guidato soprattutto dalle donne, ha portato al commercio equo e solidale. Anche nel passato ci sono state donne ricche che hanno rifiutato i prodotti dello sfruttamento: nell’era vittoriana, le donne povere diventavano cieche cucendo e ricamando abiti sontuosi per quelle ricche, finché queste, prese dall’orrore, non hanno costretto le sartorie a migliorare le condizioni di lavoro. Oggi però non ci sono movimenti di donne del mondo sviluppato che fermino questo sfruttamento globale - eppure il nostro denaro resta l’unico strumento in grado di costringere i produttori a cambiare metodi.

La ragione è semplice: ci piacciono le cose come stanno. Ma ci sarà sempre più difficile mantenere il nostro atteggiamento «lontano dagli occhi, lontano dal cuore». A loro onore, le donne del mondo in via di sviluppo stanno alzando la voce. Per esempio, il «Financial Times» del 23 giugno ha scritto che «centinaia di fabbriche di vestiti in Bangladesh, fornitrici di Marks and Spencer, Tesco, Walmart e H&M, stanno riprendendo gradualmente l’attività sotto la protezione della polizia... dopo giorni di violente proteste da parte di decine di migliaia di lavoratrici che chiedevano paghe più alte». Un migliaio di poliziotti antisommossa hanno usato pallottole di gomma e gas lacrimogeni contro di loro, a centinaia sono rimaste ferite, ma non hanno fatto marcia indietro. La maggior parte dei due milioni di persone che in Bangladesh lavorano nell’industria dell’abbigliamento sono donne, e sono le peggio pagate al mondo: 25 dollari al mese. Ora chiedono che le loro paghe arrivino a 70: con quelle attuali, non riescono a comprare il cibo. Gli economisti predicono che scioperi e disordini si intensificheranno in Bangladesh, e pure in Vietnam, dato che anche le banche d’investimento citate dal «Financial Times» considerano le paghe in questi Paesi «insostenibilmente basse». Le fabbriche hanno riaperto - per il momento. E il governo del Bangladesh sta prendendo in considerazione un aumento dei salari minimi. Se succederà, una delle forze lavoro legali più oppresse del mondo avrà segnato una grandissima vittoria - ampiamente simbolica per adesso, ma capace di ispirare altre lavoratrici del tessile.

Noi, donne occidentali, dovremmo appoggiarle cambiando i nostri modelli di consumo. E’ tempo di dimostrare solidarietà a donne che soffrono alla luce del sole una discriminazione sistematica, globalizzata, immensamente redditizia per chi le sfrutta - una condizione ormai sconosciuta alla maggior parte di noi. Favoriamo invece una economia equa e solidale e rifiutiamoci di fare acquisti nei negozi presi di mira dagli attivisti anti-sfruttamento (www.worldwatch.org/node/1485). Se le donne riusciranno a vincere questa cruciale battaglia, quel bel vestitino da Primark costerà di più. Ma costa già troppo alle donne che non possono permettersi di dare cibo e casa a se stesse e ai loro bambini. Tre dollari per quel delizioso paio di sandali allacciati? Un prezzo - dati i costi umani - davvero troppo buono per essere onesto.

*Copyright Project Syndicate, 2010
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:17:29 pm »

3/3/2011

Il noi delle donne da Facebook a piazza Tahrir

NAOMI WOLF

Tra i più diffusi stereotipi occidentali sui Paesi islamici ci sono quelli riguardanti le donne musulmane: occhi da cerbiatto, velate e sottomesse, esoticamente silenziose, eteree abitanti di immaginari harem, rinchiuse in rigidi ruoli di genere. Allora dov’erano queste donne in Tunisia e in Egitto?

In entrambi i Paesi, le manifestanti non avevano nulla in comune con lo stereotipo occidentale: erano in prima linea e al centro, nei notiziari e sui forum di Facebook, e anche al comando. In Egitto, in piazza Tahrir, le donne volontarie, alcune accompagnate da bambini, hanno lavorato costantemente per sostenere le proteste – dando un mano alla sicurezza, alle comunicazioni e all’assistenza. Molti commentatori hanno accreditato al gran numero di donne e bambini la complessiva notevole tranquillità dei manifestanti di fronte alle gravi provocazioni.

Altri cittadini diventati reporter in Tahrir Square - e praticamente chiunque con un telefono cellulare poteva esserlo - hanno rilevato che le masse di donne coinvolte nelle proteste erano demograficamente rappresentative. Molte indossavano il velo e altri segni di conservatorismo religioso, mentre altre ostentavano la libertà di baciare un amico o fumare una sigaretta in pubblico.

Ma le donne non servivano solo come lavoratrici di supporto, il ruolo abituale a cui sono relegate nei movimenti di protesta, da quelli del 1960 fino alla recente rivolta studentesca nel Regno Unito. Le donne egiziane hanno anche organizzato, elaborato strategie e riportato gli eventi. Blogger come Leil Zahra Mortada hanno affrontato gravi rischi per tenere quotidianamente il mondo informato sulla scena in piazza Tahrir e altrove.

Il ruolo delle donne nel grande sconvolgimento del Medio Oriente è stato tristemente sottovalutato. Le donne in Egitto non si sono limitate a «unirsi» alla protesta - sono state una forza trainante per l'evoluzione culturale che ha reso la protesta inevitabile. E ciò che è vero per l'Egitto è vero, in misura maggiore e minore, in tutto il mondo arabo. Quando le donne cambiano tutto cambia e le donne nel mondo musulmano stanno cambiando radicalmente.

Il più grande cambiamento è sotto il profilo educativo. Due generazioni fa, solo una piccola minoranza delle figlie delle élite ricevevano una formazione universitaria. Oggi, le donne rappresentano più della metà degli studenti nelle università egiziane. Sono istruite a usare il potere in un modo che alle loro nonne sarebbe stato difficile immaginare: pubblicando giornali (come Sanaa El Seif ha fatto, a dispetto dell’ordine del governo di cessare le sue attività), facendo campagna per i posti di leadership degli studenti; raccogliendo fondi per le organizzazioni studentesche e organizzando riunioni.

Oggi una consistente minoranza di giovani donne in Egitto e altri Paesi arabi hanno trascorso i loro anni formativi esercitando il pensiero critico in ambienti misti, con uomini e donne, e anche sfidando pubblicamente in classe professori maschi. È molto più facile tiranneggiare la popolazione quando la metà di essa è scarsamente istruita e addestrata a essere sottomessa. Ma, come gli occidentali dovrebbero sapere dalla propria esperienza storica, una volta che le donne sono istruite, diventa probabile che l’agitazione democratica accompagni il conseguente massiccio mutamento culturale.

Anche la natura dei media sociali ha contribuito a trasformare le donne in leader della protesta. Avendo insegnato le capacità di leadership alle donne per più di un decennio, so quanto sia difficile far loro affrontare e rivolgersi a una struttura organizzata gerarchicamente. Allo stesso modo, le donne tendono ad evitare l’iconografia che la protesta tradizionale in passato ha imposto ad alcuni attivisti - quasi sempre un giovane dalla testa calda con un megafono in mano.

In tali contesti - con un palcoscenico, un riflettore, e la necessità di parlare in pubblico - le donne spesso rifuggono dai ruoli di leadership. Ma i social media, attraverso la natura stessa della tecnologia, hanno cambiato l’aspetto e il senso della leadership. Facebook imita il modo in cui molte donne scelgono di vivere la realtà sociale, con connessioni tra le persone importanti tanto quanto la posizione di dominio o di controllo individuale, se non di più.

Su Facebook si può diventare un leader che conta solo creando un «noi» davvero grande. O si può rimanere allo stesso livello, concettualmente, di tutti gli altri nella pagina, non occorre far valere una posizione dominante o di autorità. La struttura dell’interfaccia di Facebook crea ciò che le istituzioni «reali», nonostante 30 anni di pressione femminista, hanno omesso di fornire: un contesto in cui le capacità delle donne di forgiare un potente «noi» e impegnarsi in una leadership di servizio possa far progredire la causa della libertà e della giustizia in tutto il mondo.

Naturalmente, Facebook non può ridurre i rischi della protesta. Ma, per quanto violento possa essere nell’immediato futuro il Medio Oriente, la documentazione storica di ciò che accade quando le donne istruite partecipano a movimenti di liberazione suggerisce che quelli che vorrebbero mantenere l’ordine con il pugno di ferro nella regione sono finiti.

Proprio quando la Francia iniziò la sua ribellione nel 1789, Mary Wollstonecraft, che era stata coinvolta nella testimonianza di quegli eventi, scrisse il suo manifesto per la liberazione delle donne. In America dopo che le donne ebbero aiutato a combattere per l'abolizione della schiavitù, misero all’ordine del giorno il suffragio femminile. Dopo che nel 1960 fu detto loro che «la posizione delle donne nel movimento è sdraiata» generarono la «seconda ondata» del femminismo - un movimento nato dalle nuove competenze delle donne e dalle loro antiche frustrazioni.

In ogni tempo, una volta che le donne hanno combattuto le battaglie per la libertà di altri, sono poi passate a difendere i loro diritti. E, dal momento che il femminismo è semplicemente una logica estensione della democrazia, i despoti del Medio Oriente si trovano di fronte a una situazione in cui sarà quasi impossibile forzare queste donne risvegliate a fermare la loro lotta per la libertà - la loro propria e quella delle loro comunità.

Copyright: Project Syndicate, 2011.
www.project-syndicate.org

TRADUZIONE DI CARLA RESCHIA
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 02, 2011, 09:35:55 am »

2/4/2011
 
Voglio la mia Al Jazeera
 
NAOMI WOLF*
 
Il corrispondente di Al Jazeera Ayman Mohyeldin si avvia a un trionfo negli Stati Uniti - o meglio, Al Jazeera lo sta portando al trionfo. Dopo tutto, Mohyeldin è un ragazzo modesto, pur essendo uno dei giornalisti più noti di Al Jazeera - e chiaramente una stella nascente dei media internazionali.

Al Jazeera ha buoni motivi per gongolare: ha nuovo credito negli Stati Uniti dopo che milioni di americani, affamati di notizie dal fronte dall’Egitto, hanno scoperto il suo flusso online dal vivo e i reportage di Mohyeldin da Tahrir Square, al Cairo. Così ora Mohyeldin è negli Stati Uniti per tre settimane di eventi mediatici - ci sarà anche un servizio fotografico per GQ - famoso in un Paese dove agli spettatori viene sostanzialmente impedito di vedere la tv per cui lavora. Il network è stato nel mirino del governo americano fin dal 2003, quando l’ex vice presidente Dick Cheney e l’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld l’hanno descritto come l’equivalente di un’emanazione di Al Qaeda. Due dei suoi reporter sono stati successivamente uccisi a Baghdad, quando un carro armato Usa ha sparato sull’Hotel Palestine, dove, secondo gli ufficiali americani, era stato individuato un cecchino che aveva preso di mira le truppe Usa. Ma, essendo noto che l’hotel ospitava la troupe di Al Jazeera, il canale e anche altri avevano espresso il sospetto che i giornalisti fossero stati presi di mira deliberatamente.
E, a oggi, Al Jazeera, che, insieme a Bbc News, è diventata uno dei punti di riferimento mondiali per le news televisive serie, è praticamente impossibile da trovare sui televisori negli Stati Uniti. Le principali compagnie via cavo e satellite del Paese si rifiutano di trasmetterla – agli americani è possibile guardarla solo a Washington, DC e in parte dell’Ohio e del Vermont - nonostante enorme richiesta da parte del pubblico. Così Al Jazeera manda le sue troupe in giro per gli Stati Uniti nel tentativo di far entrare nel mainstream i volti di questa rete una volta demonizzata. E Mohyeldin può ricordare Robert F. Kennedy: quando il grido che salutava l’abdicazione di Mubarak si è levato da Tahrir Square, ha commentato: «Un uomo è caduto e ottanta milioni di persone hanno rialzato la testa».

L’iniziativa non potrebbe essere più necessaria - per gli americani. Essendo loro negato il diritto di guardare Al Jazeera, gli americani sono tenuti in una bolla, isolati dalle immagini e dalle storie che informano il resto del mondo. Si consideri il recente scandalo attorno alle foto di atrocità scattate dai soldati americani in Afghanistan, che sono ora disponibili sugli organi di informazione, tra cui Al Jazeera, in tutto il mondo. In America, ci sono stati brevi riassunti del fatto che Der Spiegel ha seguito la storia. Ma le immagini - anche oscurate per proteggere l’identità delle vittime - non hanno penetrato il flusso dei media americani.
E le immagini sono così straordinariamente sconvolgenti che non riuscire a mostrarle - insieme alle immagini grafiche del bombardamento sui bambini a Gaza, per esempio, o ai colloqui con i prigionieri rilasciati da Guantanamo - impedisce agli americani di comprendere eventi che possono essere per altri tanto traumatici come gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Ad esempio, i principali media americani, tra cui il New York Times, non hanno ritenuto opportuno ricordare che una delle foto mostra un soldato statunitense che esibisce come fosse un trofeo di caccia la testa di un civile afghano. Quindi, per amore dell’America, spero che Al Jazeera sfondi nel mercato statunitense dei media. Se gli americani non vedranno le immagini e i filmati che mostrano come ci vedono gli altri, gli Stati Uniti non saranno in grado di superare la loro fama di ottuso e cieco teppista globale.

* Naomi Wolf è un’attivista politica e critica sociale, il cui più recente libro è «Give Me Liberty: A Handbook for American Revolutionaries». Copyright: Project Syndicate, 2011 


da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:39:19 am »

8/6/2011

Una società schiava dei suoi segreti

NAOMI WOLF

E’ impossibile oggi sentir parlare di scandali o reati sessuali - sia quello che coinvolge Dominique Strauss-Kahn o quelli dell’ex governatore di New York Eliot Spitzer, del primo ministro italiano Silvio Berlusconi, o della mezza dozzina di membri del Congresso degli Stati Uniti le cui carriere sono finite negli ultimi due anni - senza considerare il modo in cui sono stati presentati. Che cosa significa vivere in una società in cui la vigilanza è onnipresente?

Come il calore sotto le proverbiali rane messe a bollire, il livello di sorveglianza nelle democrazie occidentali è aumentato lentamente - ma molto più velocemente rispetto alla capacità di reazione dei cittadini. Negli Stati Uniti, per esempio, il Patriot Act del presidente George W. Bush è stato prorogato grazie a una serie di accordi sottobanco. Gli americani non lo vogliono e non erano stati consultati quando è stato emanato dai loro rappresentanti, sotto la pressione di un governo che chiedeva più potere sulla scia degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Questo pare non avere importanza.

Uno sforzo concertato è in corso negli Stati Uniti - e nel Regno Unito - per presentare la sorveglianza sotto un aspetto positivo. I passeggeri della metropolitana di New York ora sono avvisati che potrebbero verificarsi perquisizioni casuali delle loro borse. Gli attivisti in America sono ormai abituati a dare per scontato che le loro e-mail vengono lette e le loro telefonate monitorate. Infatti le società di telecomunicazioni Verizon e AT&T hanno stabilito nei loro locali delle aree per l’attività di intercettazione da parte della National Security Agency.

L’ondata di scandali a sfondo sessuale è segno di un degrado e di una corruzione più gravi di quanto sembrino realizzare la maggior parte dei commentatori. Sì, i criminali sessuali devono essere puniti, ma una carriera politica dopo l’altra, soprattutto in America, si chiudono a causa di relazioni consensuali.

Il sesso consensuale tra adulti è una questione privata. Ma ora che è possibile passare ai raggi X i personaggi pubblici - in particolare quelli considerati «di interesse» dalle agenzie di intelligence - le probabilità di compromettersi sono di gran lunga superiori a quelle dei giorni della vicenda Profumo nel Regno Unito, che nel 1960 portò alle dimissioni di un segretario alla Difesa britannico. E non c’è fine a questa strategia della sorveglianza ad alzo zero, data la natura delle informazioni reperibili in rete. Dopo tutto, il desiderio sessuale umano, soprattutto se porta a comportamenti a rischio o autodistruttivi, ha affascinato i drammaturghi fin dai tempi dell’Antica Grecia, da dove ha avuto origine la storia della vulnerabilità di Achille. E, poiché gli scandali sessuali sono sempre interessanti da leggere - se non altro in confronto a un’altra guerra non dichiarata, o a un salvataggio che ha creato posti di lavoro a un costo stimato di 850.000 dollari ciascuno - saranno sempre utili diversivi. L’attenzione dei cittadini può essere incanalata, ad esempio, lontano dai grandi furti aziendali e dalle malefatte del governo, verso narrazioni che coinvolgono due sventurati individui (e le loro mogli e figli, che di solito soffrono già abbastanza anche senza il respiro pesante dei media).

Un altro motivo per deplorare la normalizzazione della società della sorveglianza si trova nel legame tra vita sessuale privata e altri tipi di liberazione psicologica. Ecco perché le società chiuse monitorano la vita sessuale dei loro cittadini. La combinazione della sessualità e della privacy ha un effetto anarchico, sovversivo sui cittadini. Entrare in contatto con un’altra persona in modo svincolato, non civilizzato, non mediato, inosservato, ricorda inevitabilmente alla gente che ci sono aspetti dell’animo umano che non possono e non devono essere sottoposti a controllo ufficiale.

Per questo motivo le società chiuse e le società segreganti hanno sempre temuto i fautori della liberazione sessuale e hanno cercato di collegare la dissidenza politica con l’anarchia sessuale. Nel 1950 comunismo e «minaccia» omosessuale si sposano nell’immaginario pubblico americano. Nella Gran Bretagna decadente del 1890 femministe, socialisti e utopisti erano dipinti come la minaccia del libero amore alla vita familiare - anche se il loro programma non contemplava affatto la trasformazione dei costumi sessuali.

Ognuno ha dei segreti - questo è ciò che le persone capiscono troppo tardi, quando senza dare nell’occhio la società della sorveglianza si è già insediata. Pensate alla vostra privacy e ai vostri segreti. Se voi o il vostro coniuge avete tradito, vorreste discuterne in privato, o discuterne con il mondo intero - o trovarvi con un funzionario del governo che vi dice che ne parlerà lui con la vostra metà, a meno che non facciate quel che vi chiede? Si potrebbe anche scegliere di non affrontare affatto il problema. La maggior parte delle persone dà per scontato di avere tale scelta, perché non si rende conto che vivere in una società della sorveglianza significa che alla fine tutti devono affrontare le stesse ansie dei personaggi pubblici riguardo all’esposizione personale.

Naturalmente, la questione è più ampia: se sei un alcolista in via di recupero, hai una relazione con qualcuno del tuo stesso sesso, hai un problema con il gioco d’azzardo, soffri di disturbo bipolare o hai avuto con il tuo commercialista una conversazione in tema di tasse che sfiorava l’illecito, sei pronto per essere messo al bando?

La sorveglianza ufficiale è commercializzata come un imperativo imposto dalla sicurezza nazionale. In realtà, attribuisce allo Stato il potere di ricattare chiunque desideri. Prendiamo i dispacci diplomatici ufficiali statunitensi pubblicati da Wikileaks, che svelano come ai dipendenti del Dipartimento di Stato venisse chiesto di ottenere i «dati biometrici» dei pubblici funzionari presso le Nazioni Unite. Stiamo entrando nell’era della geopolitica del ricatto?

Forse dovremmo disinnescare le minacce poste da una società della sorveglianza istituendo una giornata annuale di amnistia. Nell’Amnesty Day - non una festa statale, di certo - dovremo rivelare ai nostri cari, ai cittadini, o ai datori di lavoro i segreti che pensiamo ci mettano a rischio.

Oppure si potrebbe lavorare per eliminare la minaccia di esposizione per i comportamenti privati. Per esempio, come consumatori di media, noi abbiamo potere: la prossima volta che vi spacciano uno scandalo sessuale, rifiutate di acquistarli. La scorrettezza sessuale - di qualsiasi genere - non è tra le cose più importanti al mondo, la perdita della libertà lo è.

Naomi Wolf è un’attivista politica e una critica sociale, il suo libro più recente è «Datemi la libertà: un manuale per rivoluzionari americani».

Copyright: Project Syndicate, 2011
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Traduzione di Carla Reschia

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