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Autore Discussione: MASSIMO CACCIARI  (Letto 76697 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:14:35 pm »

'Fidatevi: Casini non ci ricasca'

di Massimo Cacciari

Nel centrosinistra molti pensano che sia un errore cercare un'alleanza con l'Udc, perché alla fine il suo leader tornerà con il Cavaliere.
Non è così. Il demiurgo del terzo polo sa che il berlusconismo sta finendo. Quindi...

(23 dicembre 2010)

Vae victoribus": questo i perdenti del 14 dicembre sperano di poter iscrivere sulle loro bandiere. Nobile massima, propria della vera politica: il difficile viene, infatti, per i "politici di vocazione", dopo le vittorie, quando si tratta di risolvere con l'azione di governo i problemi e le contraddizioni che hanno generato le "guerre". Peccato che da noi di politici di questo tipo non vi sia neppure più traccia, e che lo sforzo dei vincitori di turno si esaurisca il giorno dopo nel tirare avanti. Chi ha assistito al dibattito sulla fiducia, avrà avuto occasione più volte di rabbrividire di fronte allo spettacolo culturale offerto. Veniva in mente la battuta di Mark Twain:"Supponi di essere un idiota. Supponi di essere un membro del Congresso. No, mi sto ripetendo. Supponi semplicemente di essere un membro del Congresso". Nessuna "tremenda" responsabilità, perciò, dei vincitori. Che traccheggeranno grazie magari a qualche nuovo acquisto, fino a quando non decideranno che è il momento giusto, per loro, di tornare a votare.

E "i vinti"? Nel Pd soffiano ancora venti di delirio. Chi ostenta supponente indifferenza. Chi accusa di aver inseguito Fini. Chi vuole l'Ulivo disastro-ter. Chi l'alleanza con Casini. Non si tratta che della fotografia del mancato Pd: le diverse correnti culturali-politiche che avrebbero dovuto trovare una nuova sintesi stanno lì, immobili nella loro configurazione passata, contrapposte le une alle altre. Un fallimento che tutti i leader cercano di coprire; e così, non venendo mai "lavorato", il lutto blocca ogni disegno di qualche respiro. Il Pd nasce con vocazione esplicitamente maggioritaria. Come è concepibile sostenerla senza affermare nei fatti la propria centralità rispetto ai problemi delle riforme, della modernizzazione del Paese, delle nuove forme di lavoro, nella lotta a tutti i corporativismi? Centralità, non centrismo, come ho detto mille volte. E moderati, certo, anche, perché refrattari a ogni demagogia, ai sogni da comizio, alle ideologie in sedicesimo, e capaci di comprendere e corrispondere al modus, che significa l'ora, questa ora, questo tempo, e non quello dei padri e dei nonni, in tutti i suoi aspetti. Il Pd ha perduto la sua vocazione maggioritaria, perché nulla ha saputo elaborare in tal senso. Col 25 per cento non si è maggioranza con nessuna legge elettorale. Lo si può diventare con i Di Pietro e i Vendola? Liberi di provarci, ma è evidente che marciare in una tale direzione significherà perdere ogni contatto con quanto potrebbe maturare tra Fini, Casini, Rutelli e oltre. Sarebbe invece saggio scommettere con decisione sulla tenuta di chi ha rotto, in stagioni diverse, con Berlusconi, passando anche per la prova del 14 dicembre (dove il gruppo di Fini ha retto benissimo, per essere appena sorto e per le pressioni straordinarie di cui è stato bersaglio).

Casini potrebbe cadere vittima del grande seduttore? Pensarlo significa non far gran conto della sua intelligenza. Casini può aspirare a crescere come figura-chiave dell'opposizione moderata al berlusconismo in irreversibile crisi. L'Udc appare al momento come l'unica forza in grado di raccogliere ampi consensi dai delusi del Pdl e dal non-voto di centrodestra. Perché dovrebbe regalare questa posizione per rimescolarsi con le rovine dell'antico alleato? E perché dovrebbe "abbandonare" Fini, che ha una base elettorale e si rivolge a un pubblico poco o nulla "concorrenti" a quelli del suo partito? Ragionamento analogo vale per Rutelli. La loro opposizione penso perciò sia destinata a tenere e a crescere.

Cosa del tutto diversa è chiedersi se essa possa costituire un nuovo polo, con le caratteristiche che prima ricordavo. La questione della leadership è secondaria. Ciò che appare ancora, e forse necessariamente, peggio che sfuocato è l'immagine complessiva e il programma di questo costituendo polo. Elezioni o non elezioni, Casini, Fini, Rutelli dovrebbero lavorarci immediatamente - e lasciar perdere Berlusconi. A partire dal sistema elettorale: guai se dessero l'impressione di voler tornare a un proporzionalismo da prima Repubblica. E poi sulla riforma federale: la loro immagine romano-centrica è fortissima. È bene lo riconoscano, e la modifichino al più presto. Anzitutto, organizzandosi con un forte radicamento territoriale, garantendo alle strutture regionali e comunali quella centralità, che mai hanno avuto nei vari Ds, Margherita, Pd. Una coalizione politica può aspirare a divenire centrale solo se i suoi programmi indicano con assoluta chiarezza come le risorse da destinare a sviluppo, innovazione, ricerca, de-precarizzazione possano essere trovate da concrete misure di liberalizzazione, superamento di ogni assistenzialismo clientelare, eliminazione di ogni catafalco burocratico. Il nuovo polo potrà uscire dalla fase del mero concepimento soltanto dimostrando la sua reale attrattiva per i ceti davvero produttivi-imprenditoriali del Paese, soprattutto al Nord. O, che poi è lo stesso, soltanto quando da questi ceti si muoveranno iniziative autonome, ma politicamente efficaci anche sul piano organizzativo. Allora neppure un Berlusconi potrebbe più dire "inesistente"...

   
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 19, 2011, 06:49:18 pm »

Come salvare la Cultura

Massimo Cacciari

Fare di musei e teatri anche spazi aperti e agibili a iniziative di enti e associazioni culturali fuori dal giro istituzionale

(14 gennaio 2011)

Tra un'impotente volontà di tutto conservare e l' incuria e ignoranza, che si traducono in continuo e sistematico taglio dei finanziamenti, sembra che la Cultura in questo Paese versi in non brillanti condizioni. Naturalmente gli omaggi alla suddetta Signora continuano a sprecarsi. Ma si tiene in scarsa considerazione il fatto che essa non vive che rinnovandosi, inventando nuove forme e linguaggi, e che nel mondo contemporaneo (ma chi ha detto che nei buoni tempi antichi fosse diverso?) lo può fare soltanto disponendo di risorse, pubbliche o private che siano, di committenze e mercati forti.

Encomiabile avere quattrini per l'ennesima messa in scena della grande opera dell'Ottocento, straordinario allestire l'ennesima esposizione traslocando opere da un museo all'altro. Il saper ricordare è certamente elemento essenziale di una Cultura - ma solo quando sia davvero immaginativo. Quando si rivolga al passato in base agli interessi, alle urgenze, alle domande presenti. Altrimenti è, se va bene, sedentaria erudizione. Ci vuole anche questa - ma per essa bastano, o dovrebbero bastare, università e accademie.
Doveroso, oltreché necessario,anche per il nostro sacro Pil, evitare il crollo di Pompei o del Palazzo Ducale - che non si trovino risorse per tali nobili fini è segno non soltanto di indecente ignoranza, ma di assoluta miopia economica da parte delle nostre classi dirigenti. E tuttavia dubito che mantenere buoni ospizi e attrezzate cliniche per i nostri monumenti, musei e siti archeologici, significhi fare politica culturale.

Diceva un tale che conosceva bene i classici e se ne nutriva come del pane, che la venerazione per la storia passata è destinata a rendere estremamente difficile fare la propria. I classici non vogliono essere contemplati, ma usati come potenti contraddizioni nei confronti dei luoghi comuni, delle banalità, delle volgarità del linguaggio presente. Insomma, la memoria va bene soltanto quando ci serve a fare la nostra storia. E questo è il vero insegnamento dell'Umanesimo. Leggersi le Deche su Livio del Machiavelli. O i luoghi della conservazione divengono questo o non sono luoghi di produzione culturale. O i teatri mettono in dialogo e in contrasto passato e presente, o non fanno né teatro né musica.

Ma ciò non significa certo aprire un book shop o un caffè nel museo, o ospitarvi una festa da ballo. Né commissionare un nuovo allestimento per la miliardesima edizione della meravigliosa Traviata. Ciò significa far diventare la parte didattica, editoriale e di ricerca il core business del museo, e commissionare nuove opere liriche e teatrali. Ma soprattutto significa fare di musei e teatri anche spazi aperti e agibili a iniziative di enti e associazioni culturali fuori dal giro istituzionale. Un po' di off Broadway, insomma.
Mettere in comunicazione l'ufficiale, costretto a certi standard, assillato com'è dalla paura di veder scendere spettatori, abbonati, ecc., con lo sperimentale, anche più arrischiato. Se Cultura è innovazione, innovazione non può darsi senza prova e senza errori, ma soprattutto senza sfidare i gusti consolidati di un pubblico sempre più vecchio e pigro. E una politica di questo genere potrebbe essere avviata anche senza spesa - o soltanto premiando in qualche forma le istituzioni che la perseguissero.
Spesso le idee non mancano, i gruppi di giovani, nel teatro, nell'arte, nella musica, ci sono. Chiedono solo attrezzature e luoghi, magari copertura delle utenze essenziali. Diciamo, costi in un anno pari al cachet di una star per una serata.

So bene quanto difficile sia questa strada. Una dozzina e passa d'anni come sindaco me lo hanno dolorosamente insegnato. Diseducazione del pubblico, inerzia burocratica delle istituzioni, corporativismo dilagante indurrebbero alla disperazione. Ma, allora, per favore, smettiamola di piangere su Madame la Cultura, e limitiamoci, sulla base del più volgare calcolemus, a salvare almeno qualche rovina.

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« Risposta #32 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:38:57 pm »


Attenti, B. è effetto e non causa

di Massimo Cacciari

Oggi la politica in Italia produce solo finzione, spettacolo e narrazione.

Senza avere più a che fare con la realtà.

Ma questa è una degenerazione che investe tutta la società. E non basta mandare a casa il signore di Arcore per uscirne


(04 febbraio 2011)

Tutto sommato potremmo dire che dalla vera tragedia della fine della prima Repubblica siamo giunti alla farsa-pochade che conclude la mai nata seconda, e così consolarci. Per apprezzare il "salto d'epoca" basterebbe paragonare il discorso in Parlamento di Craxi alle auto-difese televisive di Berlusconi. Non c'entra nulla. Appunto. Lì un politico di razza, nel bene e nel male, che denuncia una crisi di sistema e, indirettamente, si appella ad un generale discorso "di verità", che avrebbe forse anche potuto aprire una nuova fase della Repubblica; oggi un privato, che vuole giustificare vizi privati, e che con ogni mezzo difende affari e interessi soltanto suoi. Lì partiti, organizzazioni di massa, radicati nella vita e nella storia del Paese, che vivevano la propria catastrofe nel destino dei loro leader; oggi una moltitudine di cortigiani, favoriti, cooptati che non possono (ancora) abbandonare il padrone per quanta voglia ne abbiano, e che trasformano il Parlamento non, come si diceva una volta, nell'anticamera dei partiti, ma nell'alcova di Arcore.


E tuttavia temo che le squallide vicende che siamo costretti a vivere abbiano un significato per certi aspetti ancora più drammatico di quelle di allora. Sarebbe forse utile alzare lo sguardo per coglierlo. So che è difficile farlo quando attraversi un pantano, o qualcosa di peggio. So che si corre il rischio di passare per quelli che vogliono parlar d'altro. Ma bisogna anche scommettere che questo Paese saprà tornare a ragionare di politica e sul proprio futuro.

Il berlusconismo, depurato da tutte gli evidenti "disturbi" di ordine psicologico che caratterizzano chi lo incarna, rappresenta la fase estrema di un processo generale di de-responsabilizzazione dell'agire politico. Il principio di responsabilità implica il "primato" dell'analisi, della definizione razionale di obiettivi e programmi, che si ritengono rispondenti, appunto, all'interesse comune, sulla base di trasparenti "calcoli" costi-benefici, e la messa tra parentesi di ogni altra finalità.

Ma questo modello è in radicale crisi da molto tempo. E di questa crisi il berlusconismo è un prodotto, non certo la causa. Le sue ragioni sono diverse, ma tutte radicate nell'attuale sistema: dalla formazione di blocchi economico-politici, dentro i quali è inevitabile collocarsi se si vuol competere sul mercato politico, alla fisiologica auto-referenzialità dei grandi apparati tecnocratici, dall'organizzazione della stessa ricerca, all'economia e alla finanza globali.

Di fronte a queste potenze, quella dell'agire politico tradizionale decade di minuto in minuto. E in proporzione diretta si accresce la funzione dell'annuncio, della promessa, della ricerca a breve del consenso, che può essere garantita solo dal possesso di importanti mezzi di informazione e manipolazione dell'opinione pubblica. L'immaginazione va allora "al potere".

Il politico de-responsabilizzato non produce più né analisi, né programmi, e neppure utopie, ma narrazioni fantastiche, "spettacoli", "irresponsabili" per natura. Non si tratta di "bugie", ma di invenzioni. La scena ha realmente sostituito la realtà. Il mondo si è trasformato davvero in "volontà e rappresentazione". Chi ne è più intimamente convinto, saprà essere anche il più convincente nel trasmetterne l'immagine. Nessun "piano", nessun complotto, nessun "grande fratello" a dirigere la partita. Si tratta di processi intimamente connessi a questa fase del mondo occidentale e dei regimi democratici. È in gioco lo stesso principio della rappresentanza, poiché l'eliminazione di ogni "principio di realtà" ha come conseguenza logica l'idea di una "simbiosi" tra il politico e il suo rappresentato - idea che sta al fondamento di ogni demagogia e di ogni populismo.

Il potere politico tende allora a farsi immanente alla vita dell'individuo. Come il sistema produttivo è anzitutto produzione dello stesso consumo, così l'agire politico si fa mera produzione di consenso. Ogni altra finalità tramonta. Berlusconi, a modo suo, interpreta questo drammatico passaggio. Non ne è né inventore, né regista, ma piuttosto il perfetto burattino - quello ontologicamente legato alla sua scena, incapace anche solo di concepirsi fuori di essa.

Qualunque sia la parte che è chiamato a recitarvi (e infatti le vorrebbe tutte per sé), per lui si tratta di vita, non di finzione. I costumi degli italiani erano forse i più disposti al mondo a condividere questo processo di de-responsabilizzazione dell'agire politico. Anche per questo non sarà affatto né semplice né breve risalire la china. E non raccontiamoci che basterà pensionare il signore di Arcore. berlusconismo

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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 19, 2011, 04:42:37 pm »

La Lega ha fallito. Ma lo sa?

di Massimo Cacciari

Con il premier chiuso nel bunker, nessun vero federalismo vedrà mai la luce.

Al massimo passeranno un paio di leggine, ma l'obiettivo storico del Carroccio sarà clamorosamente mancato.

E quando se ne accorgeranno, l'alleanza col Pdl entrerà in crisi

(18 febbraio 2011)

Manifestazione della Lega Manifestazione della LegaNon sembra che la (pseudo) politica della "spallata" stia dando i frutti sperati. Forse sarebbe stato più saggio, nella prospettiva del progressivo disfacimento del Pdl, lavorare alla costruzione di una nuova polarità capace davvero di ereditarne la base elettorale, piuttosto che puntare sull'azzardo di quell'un-voto-uno alla Camera, che avrebbe dovuto pensionare Silvio Berlusconi.
L'impazienza non è soltanto pessima consigliera ma, diceva quel tale, il peccato più imperdonabile. Forse si sarebbe dovuto, in alternativa, afferrare al volo le prime grida del sopra citato,"alle urne! alle urne!", piuttosto che cullare l'illusione di governi di transizione, per "ritirarsi" a chiedere il voto dopo la sconfitta sulla fiducia.

Ma lasciamo perdere la tattica (di cui anche, si dovrebbe sapere, è fatta la politica) e veniamo alla cosa. E questa consiste in due motivi strettamente connessi. Che la forza residua, ma nient'affatto trascurabile, del regime berlusconiano sta nel suo rapporto con la Lega, e che al Nord, o almeno nel Lombardo-Veneto, si è formato qualcosa di molto simile a una "egemonia" del centrodestra più Lega, che rende al momento assolutamente minoritaria anche la presenza di quel futuribile soggetto, Casini-Fini-Rutelli, la cui "vocazione" dovrebbe essere quella di predisporre il "luogo" in cui "contenere" l'auspicata crisi dello pseudo-partito berlusconiano. Da ciò deriva more geometrico che è politicamente nei confronti della Lega che sarebbe necessario lavorare.
Per quanto negli anni "romanizzata" e ministerializzata, per quanti intrallazzi di ogni genere possano avere avuto i suoi capi con il Capo, la Lega rimane "ontologicamente" legata all'obiettivo della riforma federalistica. Ora, i suoi leader seri, da Umberto Bossi a Roberto Maroni, sanno benissimo che gli attuali provvedimenti nulla hanno a che vedere con il federalismo comunque inteso.

Le idee-chiave di autonomia impositiva e piena corresponsabilizzazione degli enti locali nella politica fiscale vi sono totalmente assenti. Neppure il pieno potere in materia di imposta sugli immobili è stato conferito ai Comuni! Chi ne voglia sapere di più legga ciò che ne dicono i federalisti veri, da Luca Ricolfi a Gianluigi Bizioli, sul piano economico-amministrativo, da Giuseppe Duso a Mario Bertolissi, su quello storico-teorico. Ma i Bossi e i Maroni sanno altrettanto bene che la ragione per cui la montagna di chiacchiere sul federalismo (che Gianfranco Miglio ce li perdoni) ha partorito i topolini dei provvedimenti Calderoli, sta nel fallimento di quella riforma costituzionale che rappresenta il quadro e il fondamento anche di ogni federalismo fiscale e che ha al suo centro la costituzione di un Senato delle Autonomie, con la conseguente e inevitabile radicale modifica del sistema elettorale.

Ora è a tutti ormai evidente che una riforma di tale pregnanza è assolutamente impossibile con un capo del governo nelle condizioni di endemico conflitto di interessi come Berlusconi, incapace di ogni rapporto costruttivo con gli altri poteri dello Stato, per non dire con l'opposizione. E una riforma costituzionale mai è stata o sarà realizzabile se non aprendo una fase seriamente costituente, che sappia coinvolgere tutte le forze politico-culturali in campo. La Lega lo sa. Come lo sapeva probabilmente anche nel 1994. Lasciamo perdere le ampolle del dio Po e le mitologie secessioniste. La realtà politica di allora fu che nessuno nel centrosinistra aprì un rapporto serio, programmatico, con la Lega intorno ai temi di suo vitale interesse.
E ora? Può il Pd, può il possibile, ma forse poco probabile, nuovo "polo", sfidare su questo terreno la Lega e metterne così alla prova il vincolo, che non credo affatto immortale, con le sorti di Berlusconi? Ed è evidente come questa prospettiva si affiancherebbe nel modo più efficace a proposte di coerente, autentica liberalizzazione, che i Fini e i Casini dovrebbero avanzare all'elettorato Pdl. Per dirne una soltanto: che cosa aspettiamo a esigere la vendita di mamma Rai? O altrimenti rassegnamoci all'attesa messianica della "pistola fumante". Ma la professione del politico non è quella del detective o del giudice. O mi sbaglio?

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« Risposta #34 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:49:51 pm »

B. è un comico, in senso tecnico

di Massimo Cacciari

Sulle rive del Mediterraneo è in corso una tragedia. mentre da noi è tutta una farsa.

Guidata da un attore che mette in scena, infinitamente, la nuda esibizione di se stesso

(04 marzo 2011)

È propria della vita - e in qualche modo anche delle più grandi espressioni artistiche - l'indistricabile relazione tra tragedia e farsa. Forse un modo "nobile" di leggere la situazione attuale del nostro Paese è proprio questo. Esplode l'intero Maghreb; la micro-politica europea e occidentale nei confronti del mondo islamico, priva di qualsiasi filo conduttore, fatta di rimozioni, compromessi, ipocrisie e assurde violenze, giunge al suo inevitabile fallimento; si spalancano falle paurose attraverso cui possono irrompere in Italia e in Europa centinaia di migliaia di disperati, con effetti sociali e politici ingovernabili; sul fronte interno, per dirne una che basterebbe e avanzerebbe da sola a denunciare il fallimento di una classe dirigente, è stata sprecata (Draghi dixit) un'intera generazione - ma i destini della patria sembrano in gran parte dipendere dalle avventure erotico-giudiziarie di un leader che affida le proprie difese come i propri attacchi a show che sono comici, nel senso tecnico, nient'affatto semplicemente spregiativo, del termine.
Comica è, infatti, quella figura che vuole esprimersi o assumere ruoli secondo una misura che essenzialmente e evidentemente non le compete. In questo senso, è comica la pretesa di rappresentarsi sulla scena internazionale come grande protagonista - quando ciò sarebbe, per un Paese come il nostro oggi, impossibile a chiunque. Comica, ancora di più, la grinta decisionistica (che porta, poi, inevitabilmente, al di là del gioco degli affari che ci starà sotto, alle amicizie con rais e dittatorelli), quando non si riesce a partorire che topolini come le cosiddette riforme dell'università o il "federalismo fiscale", nient'altro che traslochi di vecchi mobili da una stanza all'altra dell'antico palazzo. Comica l'ira con la quale ci si abbatte sugli altri poteri dello Stato, mascherandosi da "rivoluzionario", quando questi atteggiamenti non rivelano che l'incapacità o l'impossibilità (vista la mole del conflitto di interessi) di dialogare con essi, per giungere davvero finalmente alla necessaria riforma del sistema giudiziario.

Insomma, questo personaggio meriterebbe un vero autore. Un autore che ne comprendesse anche l'intima relazione con gli aspetti tragici del nostro tempo, poiché il personaggio comico deve poterli rivelare attraverso il suo stesso comportamento. E questo è il caso, se ci riflettiamo seriamente, dei tratti narcisistici, per certi versi deliranti, del tipo-Berlusconi. Tutto sembra disporsi per lui sul piano del valore d'uso e di scambio. Ogni cosa esiste per essere acquisita e goduta distrattamente, pronti a passare ad altra. Il ritmo della vita è quello del movimento del denaro, dell'"universale bagascia del genere umano", per dirla con Shakespeare.
È questo irrefrenabile movimento la vera amante del nostro leader - che poi si "incarni" in questa o quella fanciulla conta niente. E lo spettacolo, come la moda, deve rinnovarsi in ogni stagione. È il mondo della universale e permanente esposizione quello in cui lui vive, il mondo della coazione a ripetere il nuovo e a esporlo in modo seducente, il mondo, insomma, letteralmente, dell'osceno. Ma, se è così, ecco allora che egli rivela, per quanto appunto comicamente, un mondo comune. De te fabula narratur. Mai si potrà comprendere il successo del "tipo", senza averne coscienza, e tantomeno combatterlo con efficacia. Ciò che dovrebbe essere spiegato coi fatti al vasto mondo comune col tipo-Berlusconi, è che il movimento della produzione di merci e di consumo si regge alla lunga soltanto fondandosi su autentici produttori, o aspiranti tali, che, a difesa dei propri legittimi interessi, richiedono e promuovono autentiche riforme, capaci di stabilizzare il sistema. Il produttore che inventa le mode non ha alcun bisogno di politici alla moda. Chi produce il consumo attraverso la perenne metamorfosi della merce, non saprebbe che farsene di chi la imita recitandola. Il vero produttore sa distinguere tra quella "universale bagascia" con cui deve quotidianamente trattare e le funzioni di governo e parlamento. Piaccia o no, non saranno ragioni "morali" a spezzare definitivamente il suo play con il personaggio-Berlusconi, ma una proposta politica credibile su tutti gli obbiettivi di riforma e di liberalizzazione clamorosamente mancati da quest'ultimo.

Non riusciremo, certo, per questo a liberarci dal mondo della universale esposizione. Dall'anelito per i "mondi nuovi" siamo purtroppo guariti. Ma almeno ci risparmieremo, finalmente, lo spettacolo dell'attore che, avendo riposto tutta la propria vita sulla nuda esibizione di sé, ora, comicamente, esige una rigorosa difesa della privacy, anche quando dei poveri magistrati vanno indagando intorno a ipotesi di reato. Nessuno in politica è più pericoloso di colui che ignora la parte che la storia e il suo carattere gli assegnano.

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« Risposta #35 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:15:49 pm »

Ma in Italia c'è la democrazia?

di Massimo Cacciari

Il 'potere esercitato dal popolo' funziona solo se questo è capace di scegliere i migliori, non gli idioti populisti.

Altrimenti si svuota, perde senso: diventa piaggeria verso gli elettori e compiacimento di una massa di infanti

(29 marzo 2011)

Oggi che, da non molto per la verità, siamo felicemente tutti diventati democratici, dovremmo forse cercare di spiegarci che cosa intendiamo con questo termine. Esso si adatta poco agli entusiasmi ideologici da neofita e ha più a che fare con sobrietà, disincanto e, soprattutto, realismo. la domanda radicale è allora la seguente: che cosa possono, quale potere detengono e a quale potere possono oggi realisticamente aspirare i principi democratici? Non c'è dubbio che i loro limiti risultano più evidenti di giorno in giorno.

Scelte decisive per la nostra vita avvengono in ambiti e attraverso procedure sottratte per loro natura a ogni forma di "legittimazione" democratica e spesso anche di semplice controllo ex-post. Tuttavia proprio questo dovrebbe spingere a cercare in ogni modo di sfruttare al meglio i margini ancora concessi per l'esercizio di un "potere democratico". Nulla potrà mai impedire, per fare qualcosa più di un esempio, a capitali e merci di muoversi sotto la bandiera dell'"ubi pecunia ibi patria" (e ai poveri di andare dove sperano di trovare pane e lavoro) ma sono sempre possibili severe norme antimonopolistiche, armonizzazione delle politiche fiscali (almeno nell'ambito dell'Unione europea!), leggi che colpiscano il conflitto d'interesse a tutti i livelli, ecc.

La debolezza conclamata dell'idea democratica nei confronti delle "grandi potenze" dell'epoca, del "complesso" economico-finanziario e tecnico-scientifico, dovrebbe rendercela ancora più preziosa e indispensabile, e ancor più urgentemente invitarci a dimostrarne, pur in tutti i suoi limiti, una sua attuale efficacia. O altrimenti rassegniamoci alla nobile "difesa" del suo passato.

Come sono esistite "rivoluzioni conservatrici", forse oggi viviamo, più modestamente, in "democrazie della conservazione", caratterizzate da pachidermici tempi nell'assumere qualsiasi decisione - ma come sapranno confrontarsi tali regimi con una storia mondiale che sta assumendo caratteri del tutto rivoluzionari, rimane misterioso.

E già qui tocchiamo un punto essenziale. Attualizzare e rafforzare l'idea democratica, renderla capace di confronto effettivo con le "grandi potenze", significa disporre di una classe politica formata dai "migliori". Migliori in greco si dice "aristoi". � paradossale ma, a un tempo, del tutto logico: democrazia esige aristocrazia. Il popolo esige, o dovrebbe esigere, di essere rappresentato dai migliori; non vogliamo correre il rischio di essere governati da idioti per diritti divini o successori, o da caste che si autoperpetuano. E' un'idea regolativa, ma serve a ragionare: se a un certo punto si avverte che la procedura democratica non funziona più nel promuovere gli "aristoi", ma magari proprio a rovescio, e che la classe politica ha come proprio fine l'investitura di cortigiani e fedeli, l'idea democratica perde di senso, prima ancora che di funzione.

Quando i partiti politici si riducono a oligarchie e comitati elettorali, quando selezionano invece che competenze economiche, giuridiche, istituzionali, retori, ideologi e portaborse, possono proclamarsi democratici da qui all'eternità, ma agiscono nei fatti per precipitare la democrazia a demagogia e populismo. Questi non rappresentano infatti che l'esito della crisi dell'idea di rappresentanza agli occhi dei "rappresentati".

Ma tutto dovranno fare i "migliori" tranne che "piaggiare" (da cui "piaggeria") e cioè lusingare, blandire, compiacere i "rappresentati". Sono appunto i populisti di ogni colore a trattare paternalisticamente il popolo, come una massa di infanti incapaci di intendere e far proprio un discorso che aspiri a essere se non vero, almeno verosimile. E' del demagogo procedere per seducenti "immagini", invece che ragionamenti. Un popolo maturo rifiuta chi non è responsabile nei confronti delle domande che esso pone (oppure chi presuma che basti ascoltarle!), ma ancor più chi non lo tratta da responsabile.

La democrazia entra in una crisi senza sbocco allorché il politico irresponsabile si sposa a un'opinione pubblica che, per i motivi più vari, abbia rinunciato alle proprie responsabilità, e cioè ai propri doveri. Quando il popolo cessa di essere formato da persone responsabili, allora vince necessariamente il demagogo che gli dice: eccomi qui, faccio io, adesso ti prometto...

Quando, invece, la persona comprende che il suo stesso "privato" ha interesse e valore pubblico, quando essa esige che siano applicati rigorosamente i principi di sussidiarietà, cuore dell'autentico federalismo, e che i suoi rappresentanti politici dicano in modo competente ciò che ritengono realisticamente essere il "bene comune" perseguibile, e a che prezzo, allora e soltanto allora la democrazia potrà iniziare a funzionare.

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« Risposta #36 inserito:: Aprile 26, 2011, 04:05:59 pm »

Perché Berlusconi urla tanto

di Massimo Cacciari

I toni da guerra civile e gli attacchi continui fanno parte di una strategia precisa: costringere gli altri a giocare in difesa di qualcosa (la Costituzione, la magistratura, la democrazia etc.) e ribaltare così il tavolo della politica

(26 aprile 2011)

E' possibile spiegare razionalmente l'escalation berlusconiana?
E' pensabile che i toni da guerra civile dell'ultimo periodo esprimano soltanto una delirante paura per i procedimenti giudiziari in corso? oppure è ormai necessario ricorrere a spiegazioni di ordine clinico-psicologico? Io credo che, come tutta la storia di questo ventennio ci insegna, il comportamento di Berlusconi corrisponda, invece, a disegni e calcoli precisi, anche se condotti con una spregiudicatezza straordinaria, ai limiti dell'irresponsabile. D'altra parte, questa capacità di movimento e di "assalto", non condizionata da alcuna organizzazione di partito e culturalmente estranea a ogni "diplomazia" politica, è sempre stata un'arma essenziale del Presidente del Consiglio, e un'arma, temo, in profonda sintonia antropologica con una buona fetta, se non la maggioranza, dei nostri concittadini.

Anzitutto, si tratta per Berlusconi di capitalizzare al meglio e nel più breve tempo possibile lo scampato pericolo del voto sulla fiducia. Quella vittoria poteva subito trasformarsi in rapida agonia se non fosse stata immediatamente rilanciata. Una classica manovra di contropiede, altrimenti gli avversari avrebbero occupato stabilmente, soffocandolo, la sua metà campo. Non si è da decenni presidenti del Milan per nulla. Ma ancor più pericoloso appariva il gioco che si andava aprendo all'interno del Pdl. Qui tutto indica, comunque, un futuro di indecente disgregazione correntizia, da Democrazia cristiana degli anni più bui ma senza neanche lo straccio di un cavallo di razza. Credo che Berlusconi sia abbastanza cinico e disincantato da conoscere bene tale destino ma, fino a quando sarà in sella, dovrà assolutamente lottare per rimandarlo. Non solo perché refrattario psicologicamente all'idea di finire sconfitto, ma per portare a termine tutte le iniziative che gli appaiano indispensabili a garantirgli immunità assoluta, personale e dei suoi colossali business. Alzare al parossismo il tono dello scontro ha come necessario effetto eliminare ogni seria discussione interna e concentrare il proprio "popolo" sull'agenda dettata dal Capo. Stabilita questa situazione, ci si può anche concedere il lusso di "abbondare", facendo intendere che anche l'erede sarà scelto, alla fine, da chi impera.

Ma il risultato forse più cospicuo del berlusconiano richiamo alle armi è disarmare ulteriormente l'opposizione. Paradossale, ma logico. Costringere l'opposizione all'angolo, in difesa degli "inviolabili principi" della democrazia e della Costituzione è il gioco in cui Berlusconi è apparso fino a oggi più abile. E di fronte ai furibondi attacchi di questi giorni è davvero difficile non sentirsi obbligati a "difendere", non essere "conservatori". Come poter, obiettivamente, far intendere la propria voce sui disastri della scuola, sul precariato universale dei giovani, sul colpevole dilettantismo di cui ha dato prova la nostra politica estera in questo periodo di crisi epocali, sull'impreparazione totale ad affrontare il drammatico problema dell'immigrazione, di fronte a chi "piccona" quotidianamente i cardini dell'attuale ordinamento democratico, delle regole vigenti? "Bucare" oggi le grida di Berlusconi è veramente un compito improbo.
Certo, completamente diverso sarebbe il quadro se il centrosinistra, nelle sue varie denominazioni, avesse posto al centro della propria strategia già da anni il tema di una riforma di respiro costituzionale, radicale quanto coerente. Ma così non è avvenuto, e forse non poteva avvenire, per la cultura e la storia dei suoi gruppi dirigenti.

Così si continua nell'inseguimento. Oppure si ripetono proposte oggi "irricevibili", che potevano avere un senso soltanto alla vigilia della fallita "spallata" finiana, su governi di "decantazione". Nel frattempo, Berlusconi radicalizza ogni dimensione del confronto, spiazzando ancora una volta l'opposizione. La sua uscita a Milano è emblematica. Da un anno e passa il sottoscritto va insistendo sull'importanza politica del voto di Milano e sulla necessità per il centrosinistra di aprire in questa città un autentico "laboratorio politico", provando a dar vita a un "nuovo polo" riformatore. Questa prospettiva, del tutto realistica, è stata gettata via per incapacità, per inerzia burocratica, per cupo conservatorismo. Berlusconi ha capito la posta in gioco, e la debolezza della Moratti, e si spende senza alcun "pudore". I capi dell'opposizione seguiranno. Speriamo non sia l'ennesima occasione perduta.

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« Risposta #37 inserito:: Maggio 13, 2011, 11:17:08 am »

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Un laboratorio sotto la Madunina

di Massimo Cacciari

Solo un'alleanza tra sinistra e centro a Milano può dare qualche speranza all'Italia

(13 maggio 2011)

Non sarà questa un'ora fatale per la Patria, ma certo molto importante, quella che passa per il cielo di Milano con le imminenti elezioni comunali. Il loro esito inciderà profondamente sugli equilibri e le prospettive, non solo politiche, della nostra amata, e mai nata, Italia. Se l'ex capitale morale non riparte, valorizzando, coordinando e "liberando" tutte le sue energie ed eccellenze, rimane impensabile la ripresa nazionale. E se Milano non riscopre, rinnovandola, la sua anima riformista europea, quella che l'ha fatta "avanguardia" in tutti i campi fino ai fatali anni ottanta, altrettanto impensabile è il suo rilancio. O una nuova classe politica e un nuovo ceto dirigente iniziano a delinearsi proprio a Milano, nel concreto dell'esperienza amministrativa della metropoli, o dubito assai che maturi tra Montecitorio, Palazzo Madama e le ridotte romane degli ex partiti.

Berlusconi ha compreso l'importanza della sfida ed è sceso in campo a modo suo, chiamando a raccolta, o meglio, alle armi, tutti i peggiori umori del suo elettorato - che rimane vastissimo e inossidabile (non male se finalmente lo si capisse) a scandali e a procedimenti giudiziari. La barcollante Moratti, che forse per gusto ed educazione avrebbe fatto volentieri a meno dell'aiuto, non era nelle condizioni di rifiutarlo, perché comunque il premier si gioca a Milano una fetta decisiva delle sue possibilità di terminare il Ventennio, e magari anche battere il record. L'appuntamento era suo - con buona pace delle anime belle che pensavano al confronto programmatico-amministrativo e alle autonomie locali! E con buona pace della Lega, che si accingeva a giocare da protagonista sulla scena elettorale, dopo aver tentato di far fuori la Moratti, ed è costretta a inseguire l'ondata berlusconiana.

Berlusconi e Lega sono semplicemente terrorizzati dal secondo turno. I malumori e peggio della base leghista diverrebbero dilaganti se mancasse la vittoria secca. E già l'andare al secondo turno rappresenterebbe una evidente sconfitta di Berlusconi in persona. Si aprirebbe uno scenario dagli esiti imprevedibili. Ma lo scenario in sé non solo era prevedibilissimo, ma concretamente previsto da tutti coloro dotati di senno all'ombra della Madonnina. Il confronto di Milano doveva essere pensato e preparato in questa chiave dall'opposizione, in anticipo sulle inevitabili mosse del premier. E questo doveva significare presentarsi ai milanesi con una proposta politica di respiro strategico, innovativa, che dichiarasse con franchezza i limiti dell'iniziativa del centrosinistra nel Paese e nel Nord, e indicasse la volontà concreta di voltar pagina sia sul terreno dei programmi, che delle alleanze.

Il Pd ha preferito il quieto vivere, i percorsi inerziali, raschiando il fondo delle sue rendite. E rischiando così di fallire un'occasione storica. Eppure sembra che i leader nazionali intendano davvero "provarci" con forze di centro vecchie e nuove, che abbiano (quasi) compreso che con partiti schierati in un certo modo su giustizia o politica estera è un po' difficile pensare di far molta strada come forza di governo. Eppure, forse, hanno prestato un orecchio alle parole di Napolitano. Tuttavia, questa volta, un dio potrebbe salvarci.

Il centro o "nuovo polo" presenta una candidatura giovane, preparata, quella di Palmeri, che può sottrarre voti preziosi all'armata berlusconiana, unita solo dalla sacra fames, e nel Pd il capolista Boeri, vittima sacrificale del rito delle primarie, è uomo di cultura e di idee. Insieme possono esprimere un'offerta politica convincente, fuori da decrepiti schemi ideologici e da appartenenze partitiche ormai ridotte a puri fantasmi. Insieme potrebbero rappresentare i cardini di una futura, buona amministrazione di svolta. Se ci sarà il secondo turno, così dovranno giocare. Ma dicano subito che il loro futuro governo sarà della città tutta, dicano che si impegnano a raccogliere le competenze e i progetti più validi da qualsiasi parte essi provengano. Come l'Italia, così Milano ha bisogno estremo di una fase costituente. E questa la si apre soltanto col coraggio di uscire dal blocco dell'attuale pseudo-bipolarismo - proprio se di uno autentico si avverte l'esigenza.

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« Risposta #38 inserito:: Maggio 21, 2011, 10:22:30 am »

L'opinione

Ora basta con questo decrepito bipolarismo

di Massimo Cacciari

Pisapia dovrà presentarsi non come il candidato di una parte, ma come sindaco dell'intera città e mostrare di agire fin d'ora per formare una governance aperta, innovativa

(19 maggio 2011)

Che cosa è successo a Milano? Le dimensioni della sconfitta del berlusconismo sono tali che non bastano i fattori locali o contingenti a spiegarla. Era scontata la straordinaria debolezza della candidatura della Moratti; largamente previsto l'effetto del "disagio" della base leghista per la figura del suo grande e ingombrante alleato, così come della candidata da lui imposta; più o meno calcolabile il peso che avrebbero avuto sull'esito elettorale scissioni e crisi all'interno dello stesso Pdl. Aggiungiamo a tutto ciò gli harakiri commessi con una campagna "di guerra" sconclusionata, dettata evidentemente da un panico di sconfitta, che ha accreditato ulteriormente Pisapia presso l'opinione pubblica cosiddetta moderata. Tutto ciò e altro ancora - ivi compresa l'intelligente condotta dello stesso Pisapia, che è riuscito a far "dimenticare", almeno per il momento, l'obsoleta forma ulivistica della sua coalizione - non basta a spiegare la straordinarietà dell'evento, da nessuno, checché ora se ne chiacchieri, prevista o prevedibile. Si tratta, potrebbe trattarsi dell'inizio del venir meno dell'appoggio reale, strutturale da parte di corposi, materiali interessi sociali e economici delle aree più forti del Nord al centrodestra berlusconiano-bossiano.

Del primo, ma eclatante, sintomo di rigetto del berlusconismo da parte di ampi settori di ceto medio e borghesia "nordista". Cartellino giallo o rosso? Su questo dovrebbe interrogarsi a fondo l'opposizione. Il risultato dimostra che la situazione era comunque matura per tentare un coraggioso "spariglio" e offrire fin d'ora all'elettorato tradizionale di centrodestra una soluzione di governo innovativa. Per l'intero Paese e non solo a Milano, ma a partire da Milano. Non si è voluto aprire questo laboratorio - scelte strategiche, buone non solo a vincere di quando in quando, ma a governare, sono state una volta ancora rimandate - e tuttavia la partita si è aperta. E' probabile che la Lega renda ora esplicita la sua volontà di "superare" il ventennio berlusconiano e punti decisamente al passaggio del testimone a personalità come Tremonti.

Difficile che Bossi resti ancora sul carro perdente. E' possibile che la batosta induca lo stesso Berlusconi a non opporre la sua più psicologica, che politica, repulsione al pensionamento. Insomma, un'accelerazione della crisi in atto da tempo nel centrodestra appare più che probabile. Ma essa passa attraverso almeno due condizioni.

La prima, elementare, è vincere a Milano. La seconda è che questa vittoria sia presentabile davvero all'intero Paese come l'inizio di una fase nuova, come la fine del lungo, estenuante aborto della seconda Repubblica, con energia e respiro costituenti.

Guai a dare per scontata a Milano l'automatica conferma dello straordinario risultato di domenica scorsa. E' necessario annullare "in contropiede" l'unica arma efficace di cui la destra potrebbe disporre: chiamare a raccolta tutti i suoi elettori, indurli a tornare massicciamente al voto di fronte al "pericolo rosso". E questa volta anche la Lega, tradizionalmente poco propensa alle fatiche del doppio turno, potrebbe mobilitarsi.

Perdere Milano rappresenta una sciagura anche per lei. Altrimenti il recupero appare statisticamente del tutto improbabile.

Pisapia dovrà perciò presentarsi fin d'ora non come il candidato di una parte (e di quella parte che a livello nazionale non ha risolto nessuno dei suoi problemi programmatici e politici), ma come sindaco dell'intera città e mostrare di agire fin d'ora per formare una governance aperta, innovativa. Nessuna trattativa partitica per apparentamenti o compromessi. Un discorso, invece, alla città e al Paese che esprima la volontà di interpretare una fase nuova, oltre il decrepito bipolarismo che ci affligge, e la coscienza della crisi non solo del centrodestra, ma anche delle difficoltà di fondo dell'opposizione nell'elaborare una strategia alternativa credibile.

Questo discorso è destinato a incontrare nei fatti intenzioni e aspettative anche di quei settori di opinione pubblica che hanno votato Manfredi Palmeri e "nuovo polo", ampi o no che siano (ma certo, in prospettiva, molto più larghi di quanto appaia nel voto di oggi, e certamente decisivi domani in elezioni politiche). Così si blinda il risultato di Milano, ma soprattutto si gettano le fondamenta per la svolta nazionale. Ricordiamoci del '93 e delle cieche speranze che allora perdettero il centrosinistra, dopo il clamoroso en plein in tutte le grandi città. Elezioni per autonomie locali seguono sempre anche logiche autonome. Il voto a questo livello, politicamente parlando, è sempre anche più "libero". Pensare che lo schema-Milano, così come si è realizzato, possa a breve valere per l'intero Paese sarebbe cullarsi nell'ennesima illusione. Ma già per il ballottaggio si può dare, proprio a Milano, il segnale concreto di aver compreso la lezione della storia e, proprio perché forti del risultato, iniziare a costruire solidi rapporti con gli interessi, le componenti sociali, le correnti culturali che hanno segnato in questi ultimi anni la crisi del centrodestra. Questo lo si fa con proposte di riforma e di governo, non con compromessi tra oligarchie romanocentriche. Lo si fa parlando anzitutto di "questione settentrionale", che significa autentico federalismo, riforma della pubblica amministrazione, politiche industriali e per la ricerca, nuovo welfare "a immagine" dei giovani, della scuola, della ricerca.

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« Risposta #39 inserito:: Agosto 26, 2011, 06:31:39 pm »

Italia, rivoluzione in arrivo?

di Massimo Cacciari

Quando un establishment non riesce a dare un motivo di fiducia alle nuove generazioni, scoppia tutto.

E da noi la rivolta sarà dei giovani professionisti, del ceto medio impoverito, di tutti quelli che stanno fuori dalle caste

(24 agosto 2011)


Primavera italiana?

L'espressione potrebbe davvero ricordare le drammatiche esperienze che si stanno vivendo in molti Paesi dell'altra sponda dell'antico mare nostrum? Le somiglianze non sono di ordine politico o istituzionale. Per quanto l'immagine della nostra politica sia giunta a livelli di indecenza impensabili fino a qualche anno fa, non siamo nelle mani né dei Mubarak né dei Ben Ali e ancor meno degli Assad. Alla peggio siamo stati fedeli alleati dei Gheddafi. Il parallelo può risultare istruttivo sotto altri profili. Occorre però partire da un'analisi non molto diffusa degli avvenimenti che stanno sconvolgendo gli equilibri sociali e politici dei Paesi islamici. Gli stereotipi della rivolta "islamica", così come quelli su occulti complotti ai vertici del potere, risultano del tutto inadeguati a giudicare la novità del fenomeno.

Sostanzialmente, la rivolta si diffonde del tutto al di fuori delle correnti religiose, ideologiche e politiche tradizionali. E con mezzi che non hanno più nulla a che vedere con quelli dell'appello carismatico e della direzione organizzativa "dall'alto". Chi sono i protagonisti? Giovani, operai e studenti, un ceto medio spesso anche altamente qualificato e comunque molto più qualificato della generazione precedente, con forti aspirazioni di mobilità sociale, colpiti da una crisi che si rovescia essenzialmente sulla loro condizione e sulle loro speranze.

Medici, ingegneri, architetti, giovani professionisti, generazione Erasmus bene o male anche questa, che si credevano fondatamente nuova classe dirigente nei loro Paesi e che si trovano sotto-occupati, peggio che precari quando va bene, disoccupati in massa, aspiranti solo a un posto sui barconi in fuga dall'assoluta miseria non solo economica ma umana. I regimi di quei Paesi hanno fallito per mille motivi ma il motivo scatenante della rivolta a me pare questo: nessuna classe dirigente può sopravvivere se non riesce a dare motivo di fiducia alle nuove generazioni. Anzi, direi paradossalmente, agli stessi non-nati, se non riesce a farle partecipare alla costruzione del loro destino.

Non c'entrano fondamentalismi, non c'entrano ideologie. La domanda di democrazia è concreta, materiale. Giustamente questi giovani concepiscono il valore della democrazia nella sua essenza, non per le chiacchiere che ne sommergono l'immagine. E questa è: garanzia di mobilità sociale, abbattimento delle barriere dei privilegi corporativi, intollerabilità di una fisiologica corruzione, partecipazione effettiva, e non "discutidora", alle decisioni che contano per la vita collettiva. Quando tutti questi meccanismi si inceppano, la pressione sale fino allo scoppio. E non se ne accorge soltanto chi vede la pignatta dall'esterno e non avverte il vulcano dentro.

Perché questa rivolta è risultata tanto imprevedibile ai potentati di Occidente? Come mai "esperti", quali il focoso Strauss-Kahn, allora direttore del Fondo monetario internazionale, potevano additare ad esempio di buona gestione dell'economia e delle politiche sociali il governo tunisino qualche giorno prima che lo stesso venisse cacciato? O il nostro povero Berlusconi poteva ritenere Gheddafi un invincibile alla vigilia della guerra civile? Semplicemente perché anche da noi, mutatis mutandis, la politica, nel senso più generale e proprio del termine, ha cessato di considerare ciò che si svolge e matura nel cuore di quelle energie che daranno vita comunque al Paese di domani. Ha cessato di guardare al non-ancora, a ciò che ancora non è organizzazione stabile, corporazione consolidata, lavoro garantito, e che comunque mai lo sarà nelle vecchie forme, come al problema decisivo dell'agenda politica.

Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C'è da credere o temere che la loro pazienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Non aspettiamoci che la "rivolta" avvenga, se avverrà, attraverso dichiarazioni di principio, pubblicazione di quei bei programmi in 5 mila pagine che elaborano i partiti prima delle elezioni. Come i loro colleghi d'oltre mare, si riconosceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade "immateriali". E quando finalmente si manifesterà la loro "potenza", oggi tutta ancora "potenziale", i vecchi, c'è da giurarlo, diranno: "Imprevedibile". Poiché "il vecchio" è caratterizzato appunto dall'ignorare il possibile.

Per l'organismo capace solo di sopravvivere o difendersi vale soltanto la forza delle corporazioni e degli ordini vigenti, i settori garantiti del lavoro, delle pensioni e magari della rendita. Esattamente come per quei regimi che la "primavera araba" promette di spazzare via. C'è ancora tempo da noi per una soluzione ragionata? Ogni intervento che si limiti a tamponare l'emergenza, senza prefigurare anche e soprattutto un nuovo patto tra generazioni (e generi e genti) non sarà che l'ennesima irresponsabile scelta di abbandonare agli eredi tutti i nostri misfatti.

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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 06, 2011, 05:01:41 pm »

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I barbari sono già dentro casa

di Massimo Cacciari

L'Impero del Grande Occidente ha fallito.

Non si è accorto che i veri nemici li aveva intorno a sé: quelli che ci hanno portato al crack finanziario.

E che sono stati salvati perché continuino a fare come prima

(22 settembre 2011)

L'incredibile farsa con cui si stanno chiudendo gli anni perduti della "seconda Repubblica"(d'altra parte dramma satiresco e tragedia si accompagnavano anche nelle rappresentazioni antiche) minaccia di nascondere i tratti davvero, per certi versi, rivelatori della crisi che attraversiamo. Nel corso degli anni novanta si era fatta prepotentemente strada l'idea che un Ordine globale - satanico o divino, a seconda dei punti di vista, ma un Ordine - fosse non solo possibile, ma in corso di concreta realizzazione. Dopo l'11 settembre a molti sembra che gli Stati Uniti abbiano irreversibilmente deciso di diventarne il Soggetto se non esclusivo, certo egemone. Il Soggetto che per potenza economica e militare, per supremazia nella ricerca tecnico-scientifica, per vocazione di popolo, per visione ideale e strategica, è chiamato, quasi per dovere, a rappresentare l'autorità capace di "tenere in forma" il mondo, contenerne e mediarne i conflitti, debellare i superbi, benevolmente accogliere i "convertiti". E soprattutto rassicurare i "buoni": borse, mercati, imprese.

Questa utopia imperiale è durata meno di un mattino. E non perché l'"impero" ha fallito nel superare il famoso "clash of civilizations"(che è problema mille leghe oltre ogni "giurisdizione" politica), ma per la sua manifesta incapacità di gestire il "crash" all'interno dello stesso sistema socio-economico dominante - che si chiama capitalismo. Si è scoperto che i barbari non premevano ai confini, ma erano saldamente radicati in casa. A caccia dell'Ordine, l'"Impero" ha lasciato fare a quelle forze di cui grandi liberali, à la Weber o à la Keynes, dicevano: vorrebbero spegnere il sole perché non dà dividendi. E quando le indomabili energie raccolte sotto la bandiera dell'"ubi pecunia, ibi patria" hanno minacciato di travolgere tutto nel loro crack, sono state salvate - affinché continuino a operare esattamente come prima. Il grande Ordine democratico mondiale, che era stato progettato dall'alto di Capitol Hill, sembra non fare per loro. Ci siamo finalmente destati? Abbiamo compreso che il vero, drammatico problema del secolo avvenire sarà la regolazione globale dei flussi finanziari, del commercio mondiale, l'armonizzazione delle politiche economiche e fiscali nei paesi più forti - e non la "repressione" del fondamentalismo islamico? Sono le contraddizioni interne al "grande Occidente" che possono determinare anche esiti catastrofici, e non lo "scontro tra civiltà"!

Ma perché è così difficile fare politica su tali questioni? Perché manca o è fallito un Impero? Perché è utopia una Repubblica universale? Per "colpa" degli staterelli l'un contro l'altro armati? Per una general-generica "crisi" della politica o inadeguatezza delle classi politiche? Credo che anche su questo punto gli ultimi anni siano stati rivelatori. Smettiamola di ragionare come se il Politico, nel mondo attuale, potesse essere considerato "autonomo" rispetto al sistema economico-finanziario, al mondo della comunicazione, a quello della ricerca più avanzata. Le classiche distinzioni tra poteri, e quella tra Politico ed Economico, appartengono tutte all'altro secolo. Non esistono moderni Principi che controllino, contengano, medino dall'esterno - esiste un impersonale sistema di potere, di cui la politica è parte e in cui continui sono gli scambi di ruolo - un sistema costituito tanto da convergenze e alleanze, quanto da sanguinosi conflitti. Affari, politica, media formano aggregati che si fanno e disfano a ritmi sempre più sincopati. E non vi è Piano, non vi è occulta plancia di comando che operi sulla base di "visioni del mondo". Tutto è connesso, tutto "in rete", si dice, in questo nuovo Evo - e volete che non sia così anche tra le diverse potenze che dovrebbero regolare la nostra vita? Il problema è che questa "rete" sembra ogni giorno che passa più strappata e incapace di risolvere le crisi che essa stessa produce.

Chi ci salverà? Salviamoci per il momento, almeno in Italia, da Berlusconi - ma si sappia che il sopra citato non è che la rappresentazione grottesca, strapaesana e ormai vergognosa di un dramma di portata epocale.

  11 settembre

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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 12, 2011, 11:10:29 am »

Cultura

12/10/2011 - IDEM ANALIZZA L’AMERICAN DREAM

Impero americano Prometeo non abita più qui

Le illusioni create dalla caduta del Titano sovietico non si sono avverate, nell'incapacità di "vincere la pace"

MASSIMO CACCIARI

IDEM è una nuova rivista bimestrale di cultura e società diretta da Vittorio Emanuele Parsi, nel cui comitato editoriale figurano, fra gli altri, Massimo Cacciari, Camilla Baresani, Angelo Panebianco, Nicola Pasini. I numeri sono monografici: quello in distribuzione, American dream , è sull'America come paesaggio simbolico e analizza il suo rilievo e il suo ruolo nel mondo contemporaneo. Pubblichiamo un ampio stralcio dal testo di Massimo Cacciari L'ideale dell'Impero da Prometeo a Epimeteo . Info www.idem-on.net

Il periodo che va dal crollo del «socialismo reale» alla nuova «grande crisi» che stiamo attraversando può forse davvero essere definito un’epoca. (...) Alla vigilia di un’epoca i segnali per leggerla rimangono nascosti. I tempi sembrano, anzi, favorire previsioni opposte. La vigilia di un’epoca si caratterizza per la chiacchiera sulle nostre capacità di «controllare» il futuro, mentre l’epoca, che poi ne segue, sembra «fatta» per dimostrare l’eterna legge dell’eterogenesi dei fini. Così avvenne nell’anno mirabile 1989. La terza guerra mondiale era finita. Un solo Titano rimaneva sulla scena, dalla potenza inavvicinabile. Ma era un Titano, a dispetto del nome, che si voleva non violento. Era un Prometeo benefattore nei confronti dei miseri mortali, che avrebbe lavorato e si sarebbe volentieri sacrificato per ordinare ad unità i loro contrasti e assicurare loro giustizia e benessere. Come Prometeo, aveva per noi in serbo il dono più prezioso: la ragione, il numero, la capacità di calcolare e trasformare. L’affermazione del suo modello di razionalità sarebbe stato il fondamento della sicurezza e della pace.

Alba o tramonto? L’epoca avvicina i colori fino a confonderli. Ma tutti o quasi obbedirono a quell’Annuncio come all’alba di un Nuovo Inizio. Tramontava finalmente il tragico Novecento della «tirannia dei valori», sorgeva l’età della concordia tra scienza, tecnica, mercato, democrazia e «diritti umani». Che potesse esservi stata una inconfessabile simbiosi tra i due Titani (a partire dallo loro stessa comune origine!) - che soltanto insieme essi potessero regnare - e che dunque la fine dell’uno potesse significare una mortale minaccia per l’altro - tutto ciò non fu neppure sospettato. Semmai i tradizionali avversari del vincitore si esercitarono nel deprecarne la solitaria potenza - giustificati in questo soltanto dall’indecente giubilo dei suoi vassalli.

L’epoca che allora si è aperta ha fatto giustizia di questo ciarpame, ricordandoci il grande motto romano: vae victoribus . La guerra non si vince fino a quando non si vince la pace. Poteva vincerla Prometeo? Poteva questo Titano condurre a termine l’ ordinatio ad unum , cui si sentiva da sempre vocato, di questo sempre più piccolo e povero pianeta? Certo, egli rappresentava la corrente spirituale e politica più forte dell’Occidente, l’unica potenza egemonica sopravvissuta al suicidio d’Europa, profondamente radicata in una grande cultura popolare, forte di valori condivisi. Ma qui stava anche la sua debolezza. La sua stessa potenza creava l’illusione che il mondo potesse essere guidato dalla cima del Campidoglio. Già a stento lo era stato nei decenni precedenti attraverso il foedus, sempre incerto, ma anche sempre operante, tra Impero d’Occidente e Impero d’Oriente. Il crollo di quest’ultimo terremotava automaticamente intere regioni geo-politicamente strategiche, sulle quali il vincitore non aveva quasi presa alcuna; «liberava» energie prima in qualche modo controllate o costrette a giocare sempre, comunque all’interno della «guerra mondiale»; frantumava il conflitto rendendolo illeggibile a chi si era educato a calcolarlo secondo i parametri «universalistici» di quella guerra.

L’epoca ha posto all’ordine del giorno, prepotentemente, l’idea di Impero e altrettanto prepotentemente l’ha smantellata. Ecco un esempio eclatante di quella morsa del tempo che un’epoca rappresenta. L’occasione imperiale si affacciava quasi di necessità alla proclamazione della vittoria. I vassalli europei seguivano plaudenti il suo carro. Ma altrettanto facevano gli avversari. Nessuna apologia dell’Impero fu più convincente, riguardo al destino che esso avrebbe dovuto rappresentare, delle loro critiche. Ma Prometeo non è intrinsecamente capace di Impero. Non sa concepirlo ex nationibus ; non ha alcuna idea del pluralismo che è immanente al suo stesso concetto (pluralismo ideologico, religioso, culturale); di conseguenza, non riesce a dar vita a forme di governo autenticamente «imperiali». La guerra - che, già lungo tutti gli Anni 60 e 70, il vincitore aveva dimostrato di non essere in grado di condurre efficacemente al di fuori degli schemi di razionalità militare fondati sul concetto di iustus hostis - non è che la prosecuzione del fallimento della politica con altri mezzi. L’Impero dura fino all’11 settembre. E poi l'epoca ne consuma il tracollo.

L’11 settembre crea l’illusione di un rilancio in grande stile dell’idea imperiale; in realtà ne segna la fine. Le sciagurate guerre di Bush junior ne inseguono il fantasma, mentre cercano di mascherare le cause anche materiali che ne decretano il fallimento.

Era accaduto, sempre in questo tempo breve, nel breviloquio dell’epoca, che il nuovo Impero avesse costruito gran parte della propria egemonia sul dilagare del debito; era accaduto che il suo popolo, anche in base alla fede nella propria missione, si fosse andato caratterizzando per un risparmio negativo. Era accaduto che le politiche dell’aspirante Impero avessero dato il via libera al più glorioso periodo di deregulation che la storia del capitalismo forse ricordi, al crollo di ogni forma di controllo sulle attività economiche e finanziarie. Era accaduto che tutto questo portasse il vincitore a dipendere prima dal Giappone e poi dalla Cina per il finanziamento del proprio debito. Era accaduto che questo comportasse la «resa» alla Cina su questioni fondamentali come il suo ingresso nel Wto in quanto economia di mercato (sic!) e il mantenimento della sua moneta a valori incredibilmente bassi. Accade ora che l’Impero si trovi a «sovranità limitata» come qualsiasi Stato della vecchia Europa.

Naturalmente, le risorse di Prometeo sono immense. Ma è evidente che le sue velleità di ordinatio ad unum sono fallite. E non potevano che fallire. La presidenza Obama registra e amministra questo fallimento. Sarà blasfemo anzi, certamente lo è - ma il pensiero viene inevitabile. Chi non salutò come luci dell’alba anche la perestrojka gorbacioviana? Qualcuno se ne ricorda? Ma Gorbaciov era, tragicamente, soltanto rex destruens . (...) Obama: ecco la possibilità di rilanciare l’idea imperiale secondo il filo d’Arianna dei «diritti umani», del vangelo democratico, dell’ecumenismo dialogico. E con l’eterna icona di JFK alle spalle. Ma non sembra restargli, invece, che «smontare» guerre altrui, trattare con le «maledette» agenzie di rating, che, dopo aver fatto strame di ogni effettivo controllo negli anni della grande bolla, ora segnalano da severi censori le imminenti vittime alla speculazione internazionale; cercare di dar forma plausibile al groviglio indistricabile che si è formato tra economia americana e Repubblica Popolare Cinese.

Non c'è alcun Impero alla fine dell’epoca, e meno ancora un’organizzazione multi-polare fondata su autentici foedera . Chi sembrava poter aspirare a fungere da «nocchiero» globale vent’anni fa, ora si regge in piedi a fatica. Chi ora svolge una funzione economico-finanziaria chiave non è in alcun modo in grado di svolgere una funzione politicamente egemone. Potrà rinascere il primo? Potrà trasformarsi in potenza politica globale il secondo? Potranno vecchie e nuove potenze dar vita a una organizzazione comune, a partire dai «fondamentali» finanziari, economici e commerciali? L’epoca sospende il giudizio. I Prometeo, coloro che credono di tutto prevedere, sono soltanto coloro che la preparano, la progettano. Alla fine, si «calcola» come ciò che è avvenuto corrisponda all’atteso per una percentuale minima e non si azzardano previsioni. L’epoca inizia con Prometeo e termina con Epimeteo. Dalla modestia del suo dubitare, e dal realismo disincantato delle sue analisi, potremo forse trarre qualche beneficio.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/424457/
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 30, 2011, 11:45:14 pm »

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Magari tornasse lo spirito borghese

di Massimo Cacciari

Montezemolo, Profumo, Marcegaglia. L'interesse per la politica di manager e imprenditori potrebbe segnalare un ritorno della borghesia a quei sani principi che l'etica capitalista ha dimenticato

(20 ottobre 2011)

Quale significato attribuire alle ricorrenti notizie sulla "discesa in campo" dei Montezemolo, dei Profumo, delle Marcegaglia? Soltanto prodotto dell'"angoscia" per le sorti della Patria? O dell'affannosa ricerca di "re stranieri" da parte di politici e partiti per lo meno "perplessi" intorno alla propria sorte?

E' possibile tentare un discorso che non resti schiacciato sulle nostre quotidiane miserie? Attraversiamo una crisi che pone drammaticamente in luce le conseguenze del trionfo dell'anonimo potere di amministratori e manager, del trasformarsi del profitto da mezzo per l'accumulazione allargata e l'innovazione a fine in sé, dell'endemico conflitto di interessi, denunciato assai per tempo da studiosi come Guido Rossi, tra imprese, agenzie di controllo, lo stesso ceto politico. Erano queste le forze economiche e sociali che esigevano deregulation e che, alla fine, concepivano come norma valida esclusivamente quella mercatoria.

Forse, consapevolmente o no, al fondo del rinnovato impegno politico di tanti imprenditori balena uno spirito o un'"etica" borghese, che si poteva ritenere sepolta, e che da noi mai è esistita, se non per qualche individualità. Spirito borghese e capitalismo, in particolare capitalismo finanziario, non sono affatto la stessa cosa. Vi corre, se vogliamo, una differenza analoga a quella che certa sociologia e filosofia dell'inizio del XX secolo poneva tra Cultura e Civilizzazione.

Il borghese colloca il proprio "affare" in un contesto di relazioni sociali, culturali, etiche. Egli tenta di legittimare il proprio potere anche come moralmente autorevole. E questa autorevolezza cerca di ottenerla anche attraverso l'esercizio di "antiche virtù", come la moderazione e un certo grado di "ascesi" (il famoso principio del differimento del consumo caro ai neo-classici). L'essere proprietario è per lui una condizione che obbliga, è fonte di doveri. E il primo dei doveri consiste nella partecipazione consapevole alla res publica.

Il capitalista "puro" vorrebbe lo Stato come suo "ministro", da minus, e cioè sempre al proprio servizio, e mai e poi mai come magister (da magis). Il "borghese", o il capitalista "borghese", lo concepisce, invece, soprattutto come fattore di integrazione sociale, di promozione di nuove opportunità per i meno abbienti, di servizi "universali".

In Italia, almeno da una generazione, lo Stato ha cessato di svolgere queste funzioni. Ha mancato ogni patto tra generazioni, ogni foedus tra territori, ha assistito al frantumarsi di ogni ethos nazionale (quel pochissimo che poteva ancora esserci) in guerra per caste, ha condotto i processi formativi al collasso. E tutto nella quasi completa indifferenza, fino, appunto, agli anni dell'emergere della crisi, da parte di un capitalismo nostrano egemonizzato dalla "cultura" della deregulation - quando non impegnato a inseguire i favori del governo - da un capitalismo, dunque, estraneo alla "cultura borghese".
Scocca finalmente l'ora del riscatto di quest'ultima? Una neo-borghesia, che non sia "borghigiana", come diceva De Mita, può esistere in questo Paese? Qualcosa si muove in tal senso, dietro alle dichiarazioni e denunce di questo o quel personaggio? Difficile per ora dire quanto esse siano il frutto di un'autentica maturazione politico-culturale, e quanto, invece, semplicemente il grido di allarme per l'intollerabilità della situazione al termine dell'abortita seconda Repubblica.

Più in generale, è difficilissimo dire se vi sia ancora spazio nel mondo del "capitalismo cinese" per un'etica borghese. Ma forse un contraccolpo, da questa parte sociale, alle sciagurate conseguenze del neo-liberismo e del capitalismo finanziario "scatenato" è nell'ordine delle cose, e guai a quelle forze politiche che non ne comprendono la possibilità e l'opportunità che ciò rappresenta. Nessuna fase costituente si aprirà mai in Italia senza l'appoggio e la partecipazione di un capitalismo imprenditoriale per qualche verso erede dello spirito borghese.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/magari-tornasse-lo-spirito-borghese/2164379/18
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« Risposta #43 inserito:: Novembre 25, 2011, 10:55:07 pm »

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Democrazia, riflessioni sull'uso

di Massimo Cacciari

Il governi nazionali svuotati dai poteri economici. L'esigenza diffusa di un 'tribuno' popolare.

I rischi del ricorso continuo ai referendum.

Come si fa, oggi, a stabilire nuovi ed efficaci canali per la rappresentanza dei cittadini?

(15 novembre 2011)

La decisione (poi revocata) del Governo greco di sottoporre a referendum popolare gli accordi con l'unione europea solleva questioni storiche, politiche e dottrinarie di grande rilievo. Peccato che il dramma abbia come interpreti Sarkozy e la Merkel invece che De Gaulle e Adenauer. c'è imperatore e imperatore anche nel Reich franco-carolingio... La domanda essenziale sta in questi termini: a quale vuoto fantasma si è mai ridotta l'idea di sovranità popolare di fronte a quel sistema di potere che "mette in rete", su scala planetaria, pubblico e privato,tecnocrazie e finanza, imprese multinazionali e comunità scientifica?

Questo sistema non ammette un Sovrano sopra di sé: in ampia misura le stesse antiche sovranità statali si sono ridotte a sue funzioni. I governi nazionali possono fare altro che amministrare in sede locale le conseguenze del groviglio di decisioni, compromessi, conflitti di cui quell'insieme è formato? E se è così per i governi, quanto può contare il "popolo", che da quelli dovrebbe essere rappresentato?

Già i singoli governi, ridotti a "autonomie locali" e sempre più "neutralizzati" da assilli elettoralistici e ideologie parlamentaristiche, hanno l'aria di nascondere la propria impotenza dietro ai diktat di quella sovranità-senza-sovrano, presentandola come una legge di natura. Come potrebbe il "popolo" (addirittura un singolo "popolo") esprimersi in modo competente, e corrispondente al proprio interesse di lungo periodo, su problemi economico-finanziari globali? Attraverso partecipazioni meramente "discutidore" si corre il rischio di rafforzare il discredito di cui già godono le istituzioni democratiche: a che serve un Parlamento che non decide, che non sa agire da mio rappresentante proprio sulle questioni per me più vitali? Perché pagare per la politica impotente?

La decisione (poi revocata) del Governo greco di sottoporre a referendum popolare gli accordi con l'unione europea solleva questioni storiche, politiche e dottrinarie di grande rilievo. Peccato che il dramma abbia come interpreti Sarkozy e la Merkel invece che De Gaulle e Adenauer. c'è imperatore e imperatore anche nel Reich franco-carolingio... La domanda essenziale sta in questi termini: a quale vuoto fantasma si è mai ridotta l'idea di sovranità popolare di fronte a quel sistema di potere che "mette in rete", su scala planetaria, pubblico e privato,tecnocrazie e finanza, imprese multinazionali e comunità scientifica?

Questo sistema non ammette un Sovrano sopra di sé: in ampia misura le stesse antiche sovranità statali si sono ridotte a sue funzioni. I governi nazionali possono fare altro che amministrare in sede locale le conseguenze del groviglio di decisioni, compromessi, conflitti di cui quell'insieme è formato? E se è così per i governi, quanto può contare il "popolo", che da quelli dovrebbe essere rappresentato?

Già i singoli governi, ridotti a "autonomie locali" e sempre più "neutralizzati" da assilli elettoralistici e ideologie parlamentaristiche, hanno l'aria di nascondere la propria impotenza dietro ai diktat di quella sovranità-senza-sovrano, presentandola come una legge di natura. Come potrebbe il "popolo" (addirittura un singolo "popolo") esprimersi in modo competente, e corrispondente al proprio interesse di lungo periodo, su problemi economico-finanziari globali? Attraverso partecipazioni meramente "discutidore" si corre il rischio di rafforzare il discredito di cui già godono le istituzioni democratiche: a che serve un Parlamento che non decide, che non sa agire da mio rappresentante proprio sulle questioni per me più vitali? Perché pagare per la politica impotente?

Il "popolo" esige decisioni, non referendum, ma decisioni intorno alle quali sia possibile discussione e controllo. Parlamento e governo sembrano sempre meno in grado di offrire tale garanzia. E ciò finirà col mettere in crisi l'idea stessa di rappresentanza. La sovranità popolare non può ridursi oggi alla procedura elettorale. Ma meno ancora si può pensare di rianimarla con l'esaltazione ideologica dello strumento referendario. La stima che circonda alcuna figure (come da noi il presidente Napolitano) sta a indicare come il "popolo" avverta l'acuto bisogno di propri tribuni, un organo di potere effettivo e permanente, autonomo rispetto al "palazzo", capace di confrontarsi con esso su basi realistiche e con competenza. Ma nulla nelle vigenti costituzioni apre a una simile prospettiva.

E poi ci vorrebbe il "popolo", che non è "moltitudine", e cioè aggregato di individui, interessi e passioni, o occasionale ritrovarsi di "movimenti".

Il discorso riporta così a quegli organi che, nell'attuale situazione storica, almeno in Europa, potrebbero svolgere una funzione "tribunizia" e rappresentare per quanto possibile un "potere popolare" nei confronti delle potenze dominanti della globalizzazione. Si tratta del "sistema delle autonomie": da quelle che si esprimono nella rete delle città, a quelle del "terzo settore", a quelle stesse dei sindacati e dei partiti. In particolare queste ultime non erano state pensate essenzialmente proprio così nella nostra Costituzione, e cioè come defensor populi? Ma la loro trasformazione in strumenti di difesa corporativa e in comitati elettorali può apparire anch'essa un esito necessario della "evoluzione" della forma democratica, in un mondo dove la forma-Stato europea tradizionale (inapplicabile ai "grandi spazi" russi, asiatici e anche americani) resiste nel proprio tramonto.

Eppure, moltitudine o popolo che sia, il suo potere, nella storia, è tutt'altro che un mito. Magari come puro potere negativo, esso è realissimo. Alla fine, quando tutti i canali di rappresentanza si rivelassero bloccati, quando finisse l'illusione di potervi supplire attraverso l'azione di altri organi dello Stato (come la magistratura), nascano o meno nuovi "tribuni", abbia volto o no il sistema sovranazionale di potere oggi dominante, esploderà il no delle masse subordinate. E non vi sarà referendum, allora, che ne potrà arrestare la potenza.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/democrazia-riflessioni-sulluso/2166104/18/1
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 28, 2011, 10:48:23 pm »

Monti può durare oltre il 2013

di Massimo Cacciari

«Altro che tecnico, questo è un governo politico. Infatti alcuni partiti iniziano a temerlo.

Anche perché sanno che se riesce a durare ancora un po', al prossimo giro le elezioni le vincerebbe lui».

Il parere di un filosofo

(22 dicembre 2011)

C'E' una parte, non proprio inconsistente, del "ceto politico" che crede di mostrare la propria "potenza" minacciando l'attuale governo di impedirgli di fare. E' questa l'unica arte politica in cui vantiamo un indiscusso primato. Nel frattempo mario Monti, all'ombra del Presidente giorgio napolitano, sembra crescere in autorevolezza e popolarità. ed E' ogni giorno più chiaro che gli equilibri politici futuri ,o almeno l'esito delle prossime elezioni, si giocheranno sul ruolo politico del tecnico professor Monti e di alcuni dei suoi più vicini ministri.

Non penso affatto a nuovi partiti, ma alla aggregazione intorno alla sua figura di un arcipelago di soggetti diversi, a partire da quelli che, a dispetto di ogni geografia, si chiamano "terzo polo". Se Monti, oltre la conclusione della manovra, riuscirà a durare fino al 2013, questo scenario mi pare obbligato: vincerà quella coalizione che sarà in grado, allora, di presentarlo come proprio leader - e poco importa se per palazzo Chigi o per il Quirinale. Chi volesse impedirlo non ha che una carta da giocare, contro gli interessi del Paese: mandare a casa il governo al più presto.

Smettiamola, dunque, con le ipocrisie e cerchiamo invece di comprendere la lezione di questo drammatico momento. Il governo Monti è politicus maxime per il significato che riveste e la prospettiva che può aprire. E' politico perché governo del Presidente, secondo la lettera della stessa Costituzione (ma non il suo spirito, certamente, e tanto meno la sua tradizione non scritta). E' politico perché accerta difficoltà sistemiche del funzionamento delle istituzioni ad affrontare crisi complesse e globali, come quella attuale. E' politico perché manifesta irreversibilmente il tracollo di un sistema parlamentaristico puro come quello italiano e dovrebbe spingere tutti i desti a metter mano a riforme radicali nel rapporto tra il cosiddetto potere esecutivo e le assemblee elettive. E' politico perché esige il ripensamento altrettanto radicale della forma-partito e dei meccanismi di selezione delle élite dirigenti.

Senza la più decisa assunzione di responsabilità su questi temi, il crollo di credibilità e di fiducia di cui "gode" l'attuale politica diverrà un abisso incolmabile. E se Monti vorrà o potrà continuare la sua avventura, questi temi dovrà avere, prima o poi, la forza di porre. Con ciò stesso imponendo finalmente alle forze politiche, sindacali e imprenditoriali decisioni da decenni sempre rinviate. Decisioni che, nomen omen, le divideranno al loro interno. Ma da cui potrebbe nascere finalmente una coalizione capace di governare - cioè di affrontare la prospettiva oggi necessariamente impraticabile, quella della crescita e dell'equità. Quella di un nuovo welfare, non più ingessato da "ordini", non più congelato da corporazioni e lobbies - e non più in superstiziosa adorazione di feticci parlamentaristico-assembleari.

Credo che il Paese attenda con ansia questo momento, in cui cesseremo anche di doverci baloccare con l'assurdo dei "governi tecnici", che tecnici non sono né potrebbero essere, con le ideologie da un secolo fuori mercato della "tecnica" come qualcosa di "libero dai valori" o politicamente e culturalmente neutrale, con l'idoletto della scienza per grazia veritiera e obbiettiva. Il momento in cui Monti & Co. dovranno prendere posizione, decidere e dividere. Sarà un momento in cui questo Paese, ancora per tanti versi "infante", troppo facile preda di demagoghi e ipocrisie, potrebbe crescere e maturare un poco.

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