LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Agosto 11, 2007, 08:44:51 pm



Titolo: MASSIMO CACCIARI
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2007, 08:44:51 pm
Il sindaco di Venezia stanga l’organizzazione centralistica: «Neanche Hitler è stato eletto così.

Almeno noi ribaltiamo questo cliché»

Cacciari: «Nomi nuovi, scelte audaci»

Per il segretario regionale il Veneto non segua l’esempio romano 

VENEZIA. «Siamo partiti con il piede sbagliato. Seguendo come sempre logiche romane e centralistiche. Ma adesso niente furberie: il segretario veneto del nuovo Partito democratico deve essere eletto dai veneti, senza imposizioni nazionali e liste contrapposte. E magari con un voto trasversale. O cambia la musica oppure li mando tutti a quel Paese. Di vecchi rituali non abbiamo proprio bisogno».

Non è ancora archiviata la lunga notte del ponte di Calatrava e Massimo Cacciari, sindaco filosofo tuttofare, ha già cambiato il cappello. Smesso l’elmetto da operaio con cui ha seguito tutte le fasi di montaggio del nuovo ponte sul Canal Grande, indossa quello da condottiero e battagliero punto di riferimento del nuovo Pd. Un grillo Parlante che a Roma desta anche un po’ di fastidio nella nomenklatura del centrosinistra. Ma che resta un punto di riferimento, anche culturale, indiscutibile per chi fa riferimento al centrosinistra.

Cacciari ha criticato duramente lo scarso interesse «federalista» del governo Prodi verso il Nord e il Veneto, e poi la disattenzione alle richieste che venivano dal Lombardo veneto. L’inadeguato numero di ministri e viceministri, il taglio dei fondi e il mancato ascolto quando da sindaco ha chiesto invano di modificare il progetto Mose.

Adesso arriva il Partito democratico, che scompiglia i vecchi partiti e crea nuove alleanze. Dalla teoria siamo alla conta delle (future) tessere. Dei candidati segretari e del peso che avranno nel nuovo organigramma del partito che nascerà con il primo congresso del 14 ottobre.

Pronti a partire, dopo un mare di polemiche.
«E’ positivo che finalmente si sia arrivati alla fase operativa. Ma il nuovo partito sconta due grossi limiti. Insomma, capisco che c’è da festeggiare il 14 ottobre e le primarie di Prodi. Ma non si parte con il piede giusto, anche se il tempo per correggere c’è. Chi più vive vedrà».

Quali sarebbero questi limiti?
«Il primo grande peccato è che in questa fase non c’è stato alcun serio dibattito sulla linea politica e sui programmi. Sull’identità e la collocazione culturale ed europea di questa nuova forza».

C’è tempo per rimediare al congresso di ottobre.
«Solo in parte. Perché, ed è anche logico, quando partirà la campagna elettorale vera e propria non ci sarà più molto tempo per i contenuti. Prevarrà la competitività tra le liste e i candidati».

Il secondo limite?
«Il modo con cui si è deciso di arrivare al congresso con il segretario già eletto. Il congresso dovrà solo ratificare una scelta già fatta. Neanche Hitler è stato eletto così, nessun partito usa questo metodo. E poi è anche un meccanismo inutile oltre che strano: chi poteva essere il nuovo segretario se non Veltroni? Quando si fanno scelte simili ci sono anche delle conseguenze».

Che significa?
«Che sarebbe stato bello fare liste provinciali con caratteristiche federalistiche. Che poi si sarebbero coalizzate al congresso sulla base di programmi. Invece non è stato così. E la conseguenza è che il gioco è diventato centralista. Tutto si coordina al centro. Ed è un grande errore, perché si doveva lasciare grande libertà a livello locale sulla formazione delle liste».

Il federalismo insomma è ancora una volta in secondo piano.
«Diciamo che la caratura federalista di questo partito già ai primi passi trova qualche difficoltà. Perché le candidature e le liste che li appoggiano si sono decise a Roma. Letta, la Bindi, Veltroni, con cui adesso si schiera anche una lista ambientalista come Ermete Realacci, Giovanna Melandri e molti dell’ex sinistra Ds».

Che fine ha fatto la lista dei coraggiosi lanciata da Rutelli, a cui Lei ha aderito con Chiamparino e Penati?
«Faremo un documento in appoggio a Veltroni che richiama la logica federalista. Diremo quello che avremmo fatto».

Per il Veneto chi appoggerete alla segreteria?
«Deve essere molto chiaro che a livello regionale non potremo seguire lo stesso schema del nazionale».

Cioè?
«La maggioranza che eleggerà il nuovo segretario regionale dovrà essere larga e trasversale, non legata alle correnti. Io auspico che ne facciano parte anche coloro che a Roma appoggiano la Bindi e Letta».

Se no?
«Se no li mando tutti a quel Paese. E non dico per dire. I segretari veneti di Ds e Margherita lo devono dire chiaro, che rifiutano la logica romana e le imposizioni dal centro. Da questo dipenderà il mio impegno nel nuovo partito. Se no, farò l’iscritto e basta».

Qualche idea per il nuovo segretario?
«Ci vuole una scelta audace. Deve essere un giovane, un volto nuovo. Meglio se non lo conosce nessuno piuttosto di vedere le solite facce. E bisogna già pensare tutto in funzione delle elezioni regionali del 2010 e della sfida al centrodestra».

Nomi?
«Nomi ce ne sono tanti. Vedrei bene ad esempio un ticket uomo-donna, il segretario Ds Naccarato, il sindaco di Roncade Simonetta Rubinato. Ma ce ne sono anche altri. Si può fare, si deve fare se vogliamo davvero cambiare».

Lei è fiducioso.
«E’ una strada obbligata. Consiglio ai dirigenti dei partiti di guardarsi bene intorno e di provarci. Se cominciamo di nuovo a pensare alle careghe è davvero finita».

(10 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2007, 05:31:05 pm
«Cambiare le regole degli appalti»

Massimo Cacciari «Costretti a scegliere sempre quello che costa meno»


MILANO — «Le norme sui lavori pubblici ci costringono a scegliere sempre quello che costa meno». Da poche ore a Venezia è morto Maurizio Michielon, operaio di una società di costruzioni. Il sindaco Massimo Cacciari scrive: «Partecipo al dolore dei familiari e del mondo del lavoro». Poi attacca: «Nel campo dell'edilizia saremmo più tranquilli se potessimo operare con regole che non costringano, di fatto, ad assegnare appalti con il solo criterio del massimo ribasso».
È questo che accade?
«Sì, noi amministratori ormai siamo dei sorvegliati speciali. Ci considerano sempre in procinto di diventare ladri potenziali».
Chi vi considera così?
«La legge è di questo genere, la legge Merloni».
Cosa significa in concreto?
«Che non possiamo guardare in modo approfondito alla qualità delle imprese, alla loro professionalità. Le varie leggi Merloni, stabilendo che i lavori vanno assegnati a chi costa meno, mettono lacci e lacciuoli che impediscono di chiamare imprese di cui potersi davvero fidare. Ma sono regole controproducenti. Una volta su due chi si aggiudica l'appalto fallisce, oppure chiede revisioni dei prezzi, e in nessun caso conclude nei tempi previsti. Così, oltretutto, si spende di più».
E se si scegliesse in modo diverso?
«La ditta che non ha preso il lavoro fa ricorso al Tar».
Tornando alla sicurezza?
«Di certo sarebbe utile poter indire bandi costruiti attorno a criteri molto rigidi e rigorosi in materia di subappalti. Si creerebbe un contesto di maggiore sicurezza».
In Italia, purtroppo, non si muore solo nei cantieri edili...
«Allora pensi a un'impresa: il direttore di un impianto industriale spesso è condizionato dai vertici perché risparmi il più possibile. Lo so perché io, a mia volta, sono assillato dalle imprese di Marghera, gente che lavora bene, che vengono superate nei bandi da concorrenti arrivati da chissà dove che costano meno. Ma nei lavori delicati bisogna poter scegliere anche in base ad altro: esperienza, conoscenza ».
Secondo lei come si è arrivati a questo punto?
«In Italia sugli appalti qualcuno rubava. E siccome in questo Paese, invece di tenere l'aurea mediocritas,
si va giù come bob impazziti, è capitato che norme troppo lasche su furti e corruzione sono state sostituite da altre, che non impediscono di rubare, ma impediscono di fare i lavori in fretta e bene».


Mario Porqueddu
19 dicembre 2007

da corriere.it


Titolo: Intervista Massimo Cacciari: “Ha ragione Bertone Pci più serio del Pd”
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2007, 05:29:46 pm
La Stampa

Intervista Massimo Cacciari

“Ha ragione Bertone Pci più serio del Pd”

31-12-2007


All’indomani del «family day» italiano, in maggio, aveva accusato la Chiesa di fare soltanto politica. Ora, alla fine di un 2007 nel quale le ragioni dei cattolici sono tornate sia nelle piazze sia in Parlamento, il filosofo Massimo Cacciari entra nella polemica aperta con il Pd dal segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. E lo fa per dargli ragione, ma anche per bacchettare la Chiesa e la scelta di occuparsi di preservativi, aborto, omosessuali anziché del dramma che vive la nostra epoca post-ideologica: la morte di dio. Su questi temi il sindaco di Venezia ha scritto libri e tenuto seminari, ma soprattutto, è stato nel Pci dal 1976 alla morte di Berlinguer, nel 1984.

Professor Cacciari, il cardinale Bertone sostiene che il Pci aveva più rispetto verso i cattolici del Pd di oggi: che ne pensa?
«Inquadriamo la vicenda, altrimenti tutto si disperde in vano chiacchiericcio. Non c’è alcun dubbio che il rapporto del Pci con la Chiesa era più “serio”, più profondo, anche più drammatico. Succedeva con le grandi eresie».

Cosa intende?
«Anche quando l’”eresia” assume un valore esplicitamente anti-cristico, mantiene un rapporto di grande serietà con la tradizione cristiana. Proprio quando c’è la contrapposizione, la Chiesa si trova bene».

Era il secolo delle ideologie.
«Appunto. Oggi la cultura attuale, per dirla con il filosofo Friedrich Nietzsche, ride di coloro che cercano dio e della tradizione cristiana. Questa è la novità con quale dovrebbe confrontarsi la Chiesa: oggi non esiste più un rapporto essenziale, profondo con la tradizione cristiana. Invece gli anti-Cristo ce l’avevano».

E questo che cosa comporta?
«La Chiesa nasconde questo dramma, non lo può denunciare come faccio io, sia pure in forma abbreviata. Mi capisce? Tutto questo emerge con la fine delle ideologie...».

Scusi, e Berlinguer?
«Berlinguer soffriva autenticamente questo tema, perché dietro di lui c’era Franco Rodano».

Intende il fondatore del Movimento dei Cattolici Comunisti, scomparso nel 1983?
«Il suo è stato l’ultimo tentativo di rivisitare il cristianesimo nella tradizione socialista e comunista: oggi non c’è nessun Rodano! E non ci sarà mai più».

C’è la Binetti...
«Non c’entra nulla! E’ la riduzione legalistico-eticistica del cristianesimo».

Lei ha detto che la Chiesa fa soltanto politica.
«Ora dico: Madre Chiesa, non hai più un anti-Cristo di fronte a te, con il quale ti intendevi fin troppo bene... Perciò, copri il tuo vero dramma e lo fai in modo defatigante in un vano inseguimento. Parli soltanto degli effetti di questa catastrofe: l’uso del preservativo, l’aborto, le leggi 0sugli omosessuali».

E il Pd cosa dovrebbe fare?
«Dovrebbe occuparsi di questa tragedia del mondo contemporaneo. Dovrebbe spiegare che in termini teologici è venuto meno l’”ordo amoris”. Questo riguarda anche i laici, perché è crollata ogni gerarchia dei valori e degli amori. Ed è rimasto soltanto l’amore per l’equivalente di tutto: il denaro. Tutto ciò costituisce un problema anche per un laico, o no?».

Qual è il compito del laico, oggi?
«Confrontarsi con la Chiesa non su questa o quella leggina, ma ricordare che i comunismi e i fascismi, sono crollati. E il dio denaro permette di comprare tutto».

Ieri Barbara Spinelli, nel suo fondo su «La Stampa» ha parlato di una sorta di irruzione dell’atto di fede nell’agire politico.
«La Chiesa deve smettere di essere dogmatica e si deve ricordare, come diceva il protestante Barth, che il tratto fondamentale del peccato è il voler giudicare come se si fosse dio».

Ma la Chiesa cosa trova dall’altra parte, all’interno del Pd? Veltroni propone il rilancio della «bella politica»...
«Scusi, mi spiega che cosa è la “bella politica”? E’ quella ateniese? O quella di Napoleone? Smettiamola con queste balle... La politica è una cosa dura, tragica, ha a che fare con catastrofi, rivoluzioni!».

Allora, Cacciari: cosa può fare il Pd?
«Questo: dire la verità sui drammi che stiamo vivendo. E’ l’unico modo per trovare una terapia. Ma deve avere il massimo rispetto per la Chiesa. Il loro dramma non è “altro” da noi: rappresenta una delle forme culturali fondamentali della nostra storia. Invece, nella sinistra sento parlare della Chiesa come di un qualcosa che dà fastidio: è ridicolo!».

E’ il laicismo?
«Ma non solo. Si tratta di quanti ridono della morte di dio, come Odifreddi, e credono che i problemi della Chiesa non riguardino i laici. Una forza politica con un minimo di cultura dovrebbe accorgersene e dire: sì Chiesa, capisco il tuo dramma, ma non lo devi affrontare con battaglie parlamentari».

Primum, tornare ai valori?
«La politica senza valori è tecnica amministrativa, può servire giusto per fare il sindaco. Da Mao Tse Tung a Zapatero, i valori ci sono sempre stati».

Già, Zapatero... Eppure a Madrid i cattolici lo contestano.
«Questo non porterà da nessuna parte. Occorrerebbe più misericordia, più rispetto reciproco e far riemergere il “verbum” evangelico: non giudicare».


da lastampa.it


Titolo: Cacciari: «Non si rinuncia alla sicurezza in nome del risparmio e...
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2008, 12:11:04 am
Massimo Cacciari: «Non si rinuncia alla sicurezza in nome del risparmio e della competizione»

Giampiero Rossi


Le leggi ci sono? Sì, è vero, però a guardarle proprio bene, alcune delle stesse leggi che hanno inevitabili ricadute anche sulla qualità e sulla sicurezza del lavoro contengono implicitamente un principio devastante: «Mettono al primo posto la variabile economica». Il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, insiste su questo aspetto, sovrapponendo l’emotività per la tragedia di Porto Marghera alla lucidità dell’intellettuale e dell’amministratore che analizza la realtà e ragiona sulle risposte possibili.

Sindaco, lei sostiene che alcune leggi siano implicitamente controproducenti per quanto riguarda la ricerca della maggiore sicurezza sul lavoro. Perché? A quali si riferisce?

«Mi riferisco sostanzialmente a tutte quelle norme che di fatto antepongono gli aspetti economici a tutto il resto. Per esempio imponendo a un amministratore pubblico di spendere un euro in meno e non certo un euro in più per un’opera, un servizio. Perché è ovvio che la sicurezza può avere qualche costo, come la qualità, ma se un sindaco spende più soldi diventa automaticamente un mascalzone, deve affrontare un ricorso al Tar e poi anche il giudizio della Corte dei conti».

Insomma, si caccia nei guai...

«Altroché. E allora me lo dice lei dove va a finire l’investimento in qualità e sicurezza? Non è forse vero che i lavori vengono assegnati dagli enti pubblici sulla base di criteri soprattutto economici? Ecco, questo è un bel mistero italiano: perché io non capisco perché da pubblico amministratore non posso, per legge, comportarmi in modo ragionevole».

E i privati, invece?

«Ah, il privato è libero di fare quel che vuole, può scegliere anche al di là del solo vincolo economico».

Però guardando al caso italiano non si può certo dire che questo sia di per sé una garanzia di qualità e sicurezza.

«Questo è un altro tema. So bene anch’io che in un settore come l’edilizia, che poi è uno dei più esposti agli incidenti anche mortali, il 90% delle commesse avvengono sulla base di criteri economici e quindi il problema si ripresenta, tanto nel pubblico quanto nel privato. Però, secondo me, la questione della sicurezza del lavoro in Italia è legata anche al particolare passaggio della nostra storia industriale».

E in che fase ci troviamo?

«Dopo il secolo manifatturiero siamo arrivati a un momento di riorganizzazione e ristrutturazione del tessuto produttivo, un passaggio delicatissimo proprio per la sicurezza, come abbiamo drammaticamente scoperto con la vicenda della ThyssenKrupp. Perché quando si decide di dismettere i rischi aumentano, saltano per prime le attenzioni e le risorse destinate alla tutela della sicurezza. Gli stessi tedeschi, per gli stabilimenti cui tengono, non si comportano come hanno fatto a Torino».

Ma il porto di Marghera non è in dismissione, anzi, resta la prima industria veneziana...

«No, però qui c’è il problema del polo chimico, un’industria pericolosa, delicata per il territorio e per chi vi lavora. Ecco, anche in questo caso una dismissione non gestita, non accompagnata da cautele e spese mirate potrebbe rivelarsi fatale. I livelli di attenzione nella fase di chiusura devono essere gli stessi messi in campo nel momento in cui si inizia un’attività. E poiché questo è il momento che sta vivendo la nostra industria, ecco un’altra causa dei nostri problemi di sicurezza».

Ma ci si fa male e si muore anche in aziende giovani e sane...

«Lo so bene, perché c’è almeno un terzo aspetto che gioca un ruolo sulla questione della sicurezza: l’organizzazione del lavoro in una fase di competizione globalizzata. Ormai la singola azienda meccanica non compete più con le concorrenti italiane ma con quelle di tutto il mondo e lo stesso vale per i porti, per i trasporti, per la mobilità in generale, uno degli ambiti più stressati dalla competizione globale e dove, guarda caso, la sicurezza va a farsi benedire più frequentemente. L’ansia di ridurre i costi si traduce in ritmi e forzature nel lavoro. Anche se, diamine, dovrebbero esistere procedure standard e regole certe per impedire almeno casi come quello di Porto Marghera. È davvero inammissibile che si muoia perché non si utilizza una macchinetta che dice se delle persone stanno entrando a lavorare in una stiva o in una camera a gas».


Pubblicato il: 20.01.08
Modificato il: 20.01.08 alle ore 15.50   
© l'Unità.


Titolo: MASSIMO CACCIARI
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:26:26 am
Il sindaco di Venezia

Cacciari: Partito democratico avanti da solo

Prodi e Rosy Bindi via? Pazienza. «Se vogliamo dare identità e forza al partito la scelta è obbligata»


ROMA - «Lei mi fa una domanda che, giuro, non capisco: davvero vuol sapere se il Partito democratico, in caso di elezioni, dovrà correre da solo?».
Esatto, sindaco Massimo Cacciari. Domanda chiara, e piuttosto all'ordine del giorno... «Ma, scusi: quali altre possibilità ci sono? Voglio dire: se abbiamo a cuore questo benedetto Partito democratico, se davvero vogliamo dargli un'identità, una sua forza, cosa possiamo fare se non quello che, giustamente, dice Walter?».

Lei è anche un filosofo, professore: e, dunque, conosce l'uso della retorica. Ma è del tutto evidente che questa idea di entrare in una eventuale competizione elettorale, gareggiando in solitudine, non è certo scontata all'interno del suo partito.
«Lo so, e mi spiace: ma chi la pensa diversamente, pensa male».

Eppure, secondo alcuni, l'esperienza dell'Unione non è stata...
«Non è stata cosa? È stata un disastro, altroché. È stata devastante. Non era una coalizione, quella roba lì...».

E cos'era, professore?
«Era un'ammucchiata indecorosa, senza senso, senza progetti, senza tenuta... Con modelli di coalizione, continuiamo per comodità a chiamarla pure così, come l'Unione, non governi e non fai politica. Ma ti limiti a navigare sempre nell'emergenza, gestisci l'emergenza... E, tra l'altro, la gestisci male, malissimo, e addirittura peggio di quanto, senta cosa le dico, peggio di quanto farebbe la Cdl. E sa perché?».

No.
«È facile. Vede, anche la loro coalizione è traballante, ma almeno quelli lì son tenuti insieme dalla sacra fame di potere... hanno tutti interessi privati e personali nella guida del Paese: a cominciare, naturalmente, dal loro capo, Silvio Berlusconi».

Lei dice: il Pd deve correre da solo. Però non pochi osservatori sottolineano i rischi che questa decisione comporterebbe.
«Rischi? Guardi che, in caso di elezioni, la nostra sconfitta sarebbe comunque sicura, scontata».

E molto pessimista, professore.
«No. Realista. E in politica il realismo è tutto».

Realismo e coraggio, allora.
«Assolutamente sì. D'altra parte, a Walter il coraggio non manca e io, poi, quando lo vedo e lo sento, non smetto mai di ripeterglielo: vai diritto per la tua strada. Lo scenario, lo sappiamo, non è entusiasmante. Ma più deciso sei, più netto sei, meglio è. Tanto più che...».

Che?
«Beh, se qualcuno ha intenzione di mollarlo, se qualcuno ha in animo una scissione, certo non si farà scrupoli».

Sta pensando alla Rosy Bindi...
«Sto pensando alla Bindi e a Prodi e a parecchi altri. Per questo a Walter suggerisco di non ripetere gli errori di Occhetto, ai tempi andati del Pds. Chi rema contro, chi lavora nel buio, chi ha progetti diversi, prima o poi viene allo scoperto e certo non si farà venire troppi rimorsi ».

Lei ha la sensazione che Walter sia così forte da poter rinunciare a mediare le sue posizioni con quelle della Bindi o di Prodi o magari di...
«Rutelli è con Walter. Fassino è con Walter. La loro lealtà non mi sembra in discussione. Mi sembra già una bella squadra, no?».

E D'Alema?
«Senta, D'Alema è una persona intelligente, che conosce bene la politica. E lui, per primo, sa che Walter è l'unico, ripeto l'unico leader possibile. Detto questo...»

Cos'altro, professore?
«Ma no... sa, sono dieci minuti che ragioniamo dando per scontata questa tremenda sciagura che sarebbero le elezioni e allora...».

Si profilano con sempre maggior forza: questo è innegabile.
«Sì, lo so... in giro sento aria di elezioni, e probabilmente finirà così, che ci riporteranno, per l'ennesima volta, alle urne. Ma io di una cosa sono certo: se ciò accadrà, dovranno passare sul corpo... uso la metafora con il rispetto che si deve al capo dello Stato, naturalmente... sul corpo di Giorgio Napolitano. Se un po' lo conosco, e lo conosco, credo che infatti farà di tutto per evitare un'inutile tornata elettorale. Purtroppo... ».

 Forse l'impegno di Giorgio Napolitano non basterà.
«È ciò che temo. Ma allora dovremo fare i nomi e i cognomi, gli italiani dovranno sapere chi sono coloro che hanno rinunciato anche all'ultima possibilità di mettersi intorno a un tavolo per fare qualche piccola, decisiva riforma, e hanno preferito invece far tornare tutti a votare. Il Paese sta rotolando nel burrone, e noi ancora qui, a discutere, a fare interviste... ».

Fabrizio Roncone
28 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI e Ilvo Diamanti. La casta e l'antipolitica
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2008, 03:06:57 pm
La casta e l'antipolitica

di Massimo Cacciari e Ilvo Diamanti


Le ragioni della protesta contro i partiti.

I conflitti insiti nel sistema democratico.

Il populismo.

A confronto le tesi di due studiosi

Politica e antipolitica, democrazia e governo, ma anche Partito democratico e Forza Italia. Sono questi i temi del dialogo tra Ilvo Diamanti, professore di Scienza politica e Sociologia politica all'Università di Urbino e collaboratore de 'la Repubblica' e Massimo Cacciari, filosofo, sindaco di Venezia e testa pensante del Pd. Il dialogo riprende alcuni spunti da un seminario che si è svolto all'Università di Urbino il 16 gennaio scorso, nell'ambito di un ciclo dedicato al 'Nuovo Lessico della Politica e dell'Anti/Politica', promosso dal Laboratorio di Studi politici e Sociali (LaPolis) della Facoltà di Sociologia.

Diamanti:
 "Non è facile definire una questione eterea e sfuggente come l'antipolitica. L'antipolitica è una parola utilizzata in molte occasioni, in molte versioni, con diversi significati. Ma ciò riflette la difficoltà di definire, oggi, la politica. In altri termini, oggi si parla molto di antipolitica perché è in discussione il senso della politica e, insieme, della democrazia. La politica di cui parliamo si riferisce, normalmente, alla democrazia rappresentativa. Il clima d'opinione 'antipolitico', di conseguenza, coinvolge i luoghi, gli attori, le istituzioni della democrazia rappresentativa. I partiti, in primo luogo. In secondo luogo, e contemporaneamente, i leader e la classe politica; la classe dirigente in senso generale. Quindi le istituzioni rappresentative in senso ampio. Per estensione, l'antipolitica richiama la contrapposizione noi/loro. 'Noi' siamo quelli esterni alle cerchie di potere e della rappresentanza. 'Loro' sono la casta. La parola antipolitica, in secondo luogo, è utilizzata anche per indicare una serie di attori, che operano in ambito sociale. Personaggi e interpreti della 'rappresentazione antipolitica' sono diversi: movimenti di protesta, comitati, girotondi. L'ultima fase dell'antipolitica è stata interpretata, sulle piazze e sulla Rete, da Beppe Grillo. Tuttavia, non è Grillo a definirsi antipolitico, né i girotondi e neppure i gruppi che si mobilitano contro partiti e classe politica. Al contrario, sono questi ultimi, i partiti e i politici, che li accusano di antipolitica. Per cui potremmo dire che
l'antipolitica definisce la protesta contro la politica esercitata da chi è fuori dalla politica. Fuori dalle mura della Polis".

Cacciari:
"Io assumerei l'idea di antipolitica in modo radicale, come un aspetto fisiologico della democrazia. La democrazia ha in sé un rapporto critico con la politica. Non c'è equivalenza tra democrazia e politica. Partiamo dall'idea chiave della democrazia: che attraverso il discorso, il logos, si possa risolvere il conflitto politico. Ma la politica è essenzialmente conflitto. Ora, la pretesa del regime democratico consiste appunto nel ridurre il conflitto alla forma del contratto. Ma è 'politica' tutto ciò? Possiamo derubricare a contratto giuridico il rapporto politico? Ecco perché bisogna prendere sul serio l'antipolitica e non assumerla come una patologia contingente. Essa ci permette di vedere un limite essenziale del discorso democratico".

Diamanti:
"D'altronde, l'antipolitica è, a sua volta, usata come discorso 'politico', per assecondare gli umori della società. Pensiamo alla Lega e a Berlusconi, i quali hanno affermato in passato e oggi continuano ad affermare di non essere 'politici', ma altro. Imprenditori, uomini della società, del Nord, che vogliono restituire il potere ai cittadini. Però sono diventati 'partiti', sono entrati in Parlamento e nel governo. Integrati nella democrazia rappresentativa. È la retorica dell'antipolitica che è entrata nella politica, ma anche nel linguaggio comune, spesso associata a un altro concetto: il 'populismo', che propone di superare i meccanismi tradizionali della mediazione e della rappresentanza, scardinando partiti e organizzazioni, per instaurare un rapporto diretto tra il leader ed il popolo. Ricordo quando, durante la campagna elettorale delle presidenziali francesi, chiesero a Sarkozy: 'Cosa dice a coloro che l'accusano di essere un populista?'. Egli rispose: 'Nulla. Sono un rappresentante del popolo e parlo a nome del popolo'. Ciò serve a rammentarci che non solo l'antipolitica, anche il populismo è parte della democrazia. Per proseguire vorrei aggiungere che molte critiche espresse nei confronti dell'antipolitica nascono dal fatto che quando parliamo di politica e di democrazia abbiamo perlopiù in mente un modello specifico. Quello espresso dai partiti di massa, ispirati da grandi identità: cristiana, socialista o comunista e laica. Avevano una presenza forte nella società e sul territorio, attraverso sezioni, gruppi e associazioni. Oggi quei partiti non ci sono più. Il partito a cui si aderiva per atto di fede, in base a un grande progetto futuro, il partito teologico e teleologico: non c'è più. Molta insofferenza espressa nei confronti della presunta antipolitica è, in effetti, nostalgia nei confronti di quel passato, che non tornerà più".

Cacciari:
"Non c'è dubbio che la nostra idea di democrazia è essenzialmente rappresentativa. Ma, a guardar bene, nel concetto stesso di 'rappresentazione democratica' è implicito l'elemento antipolitico. Proviamo a ragionare. L'idea di rappresentanza, cela un paradosso: la rappresentazione 'ottima' sarebbe quella che toglie la rappresentazione stessa. Infatti, quale appare la forma democratica 'ottima'? Quella in cui io mi identifico con il mio rappresentante. Quella in cui il rappresentante rifletta perfettamente le idee del rappresentato. Ma in tal caso la rappresentazione si perde! Poiché la rappresentazione comporta una differenza e una distanza fra rappresentante e rappresentato. L'idea regolativa della democrazia rappresentativa comporta di necessità una critica immanente dell'idea stessa di rappresentazione. In altri termini l'homo democraticus vive di questo paradosso: è costretto a 'delegare' e nello stesso tempo esprime l'insopprimibile istanza alla 'autonomia'. Vive, cioè, la dialettica della rappresentazione con un senso di privazione, di alienazione. Vi è una faccia 'nobile' in tutto questo: quella appunto del desiderio insopprimibile di 'autonomia'. E tuttavia è evidente come esso abbia a che fare con l'antipolitica, se radicalmente intesa".

Diamanti:
"D'altra parte, è difficile non vedere i vizi della democrazia rappresentativa, in questi tempi. Pensiamo alla selezione della classe dirigente, di coloro, cioè, che decidono al posto nostro. Una buona democrazia garantisce relazione con la società e ricambio della classe politica. Non mi sembra che ciò avvenga. Al contrario, viviamo un'epoca in cui la democrazia sembra riprodurre modelli neo-feudali e neo-dinastici. Dove la classe politica assume molti tratti dell'oligarchia. La disponibilità di risorse (la famiglia, i soldi, i rapporti con i media, le lobby) è determinante per contare e per venire eletti. Basta vedere negli Usa, dove da vent'anni la presidenza riguarda due sole famiglie. E la storia potrebbe continuare per il prossimo decennio. In Italia, dopo la caduta della prima Repubblica, la leadership politica si è formata senza una vera competizione. Nel centrodestra, d'altronde, non c'è un partito personalizzato, ma una persona-partito. Non è possibile immaginare Forza Italia senza Silvio Berlusconi e, probabilmente, neppure il centrodestra. E nel centrosinistra? Nel Partito democratico, lo scorso ottobre, è stato eletto il leader designato, predefinito. Due anni prima lo stesso era avvenuto per il candidato-premier dell'Ulivo. Per questo non è facile vedere grandi aperture democratiche nella democrazia emersa dopo i partiti di massa. Attraversiamo una situazione fluida. Dopo dieci anni di scomposizione partitica assistiamo a tentativi di ricomposizione. È il caso del Partito democratico, che è nato dopo 12 anni di discussioni. Nel centrodestra la personalizzazione rende questi processi più facili. Con una consultazione rapida nei gazebo, lungo le strade e sulle piazze è possibile decidere di sciogliere Forza Italia per fondare qualcosa di nuovo e più ampio; per sceglierne il nome: Partito della Libertà, Popolo della libertà o qualcosa d'altro.Il problema è che dalla 'democrazia dei partiti' siamo passati a una 'democrazia personale'.

Un tempo i leader erano espressi da un partito e si votava un leader perché era parte di quel partito. Oggi, invece, prima che partiti si votano i leader. La persona. Anche per questo il ruolo dei media è divenuto dominante. In televisione non ci si va più, come un tempo, perché si ha qualcosa da dire, ma si cerca qualcosa da dire per andare in televisione. Infine, per indicare un ulteriore elemento di novità: fino a ieri la democrazia rappresentativa era 'proporzionale', serviva a dare voce alle differenze sociali, alle diverse idee e ideologie. Adesso non più. Il principale problema della democrazia sembra la 'decisione'. Per questo si cerca di saltare i luoghi tradizionali e i tempi lunghi della mediazione. La democrazia ha assunto un'impronta maggioritaria e i partiti si sono orientati prima di tutto a scegliere e legittimare leader che decidano".

Cacciari:
"Il discorso politico, però, non si può costruire a tavolino. Partiti, democrazia, antipolitica: la storia la facciamo certamente noi, ma, altrettanto certamente, non sappiamo mai la storia che facciamo. Oggi noi abbiamo bisogno di un governo che decida, ma anche di un Parlamento che controlli. I partiti oggi devono porsi questo grande obiettivo: riformare Parlamento e governo della nuova Italia, ma anche della nuova Europa. Perché anche in Europa dove è il governo, dove è il Parlamento? Chi governa? Chi controlla? Non si potrà certo costruire la nuova Europa affidandone il governo alla Banca europea! A differenza di come abbiamo sempre ragionato, però, bisogna superare l'idea che se un'istituzione assume più potere, ciò comporta che un'altra ne abbia meno. Bisogna smettere di pensare il sistema dei poteri come una torta: quindi, se io prendo un pezzo. Invece, occorre costruire un sistema che attribuisca maggiori poteri, maggiori capacità di decisione sia a chi ha la responsabilità di governare, sia a chi deve svolgere essenzialmente funzioni di controllo, alle assemblee rappresentative. Questo discorso vale a ogni livello. In ambito parlamentare, a livello nazionale, ma anche a livello regionale, comunale, provinciale. Bisogna smetterla di ridurre la politica e la democrazia a un gioco a somma zero, come si è sempre fatto, per cui dare più potere alle regioni vuol dire sottrarre potere allo Stato; e dare più potere ai comuni significa sottrarlo alle regioni. Non deve essere più così. E può non esserlo.
È possibile davvero cambiare. Un partito politico si esercita, si forma su questi progetti: nuovo Parlamento e nuovo governo. E idee, non solo 'cose' da fare. Il 'partito di programma' evoca il mito del governo affidato ai tecnici. Ma la tecnica al di fuori di valori e al di là della rappresentanza è un'idea 'antipolitica'".

Diamanti:
"E ciò ci permette di riprendere il discorso sull'antipolitica. D'altronde, a segnare la fine della prima Repubblica in Italia è un atto antipolitico: la nomina, peraltro benedetta, di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza del Consiglio. Il primo presidente del Consiglio, nella storia della Repubblica, non eletto. Esterno al Parlamento. Apre la strada al ruolo supplente - e qualcosa di più - della Banca d'Italia rispetto alla politica. Però, appunto, perché un partito vada oltre deve avere delle idee. Per non abbandonare il monopolio delle idee agli specialisti del marketing e dell'opinione pubblica, agli spin-doctor, che oggi sono divenuti le figure più importanti nel definire le strategie dei leader e dei partiti, bisogna affondare le idee su basi culturali: tradizioni, ideologie, identità. Oggi noi siamo in una situazione di nomi senza contenuto, senza storia. Cacciari è un esponente autorevole e pensante di un partito importante come quello democratico, che è luogo dove si incontrano le principali culture di questo Paese: cristiana, socialista-comunista, laica. Dovrebbe essere una risorsa e invece sembra essere un motivo di conflitto e divisione".

Cacciari:
"Un partito politico oggi deve essere in grado di affrontare questioni di carattere etico, esprimersi ed esporsi in tema di valori.
Non può essere un partito relativistico, agnostico, indifferente. D'altronde, i temi etici oggi interessano molto gli elettori. Non li puoi ignorare perché sono scomodi. Non puoi dire: "No, io di questo non mi interesso: non sono questioni politiche". Perché, invece, sono sempre più determinanti. Ma come affrontarli? Se un partito politico li affronta in termini religiosi, diventa una setta, un soggetto che predica qualcosa che per esso assume valore assoluto. Ma se io predico qualcosa che ha valore assoluto, cesso di essere un partito, perché un partito non può essere detentore di valori assoluti. È 'parte'. L'homo democraticus non può essere homo religiosus, né homo hierarchicus. La sua origine si fonda sull'idea dell'uguaglianza degli individui. È necessario per questo che egli appaia come un relativista scettico? Ma perché mai?L'homo democraticus può ben essere convinto dell'importanza dei propri valori, ma lo sarà anche del loro fondamento storico. Egli, cioè sa che i propri valori sono qualcosa di 'costruito', niente di assoluto, qualcosa destinato a modificarsi, divenire, trasformarsi. E perciò anche tramontare. L'homo democraticus, per questo, modifica le proprie convinzioni: la sua identità non solo è storicamente determinata, ma va modificandosi in relazione all'altro, nella relazione con l'altro. Questo è il metodo da seguire per quanto riguarda le questioni etiche. Per queste ragioni io credo che in un partito la complessità dei valori possa essere ricchezza e non fonte continua di traumi. All'interno di tutti i partiti sulla faccia della Terra c'è un certo grado di 'politeismo' dei valori. Ma questo 'politeismo' può essere 'progettato'. È per questa idea che mi sono battuto per dar vita al Partito democratico. Ripeto: 'progettato'. Il Partito democratico è un partito in cui ci sono credenti e non credenti, laici e cattolici, come si usa malamente dire; ma non per caso. A differenza di Forza Italia. Anche lì coabitano, ma, appunto, 'per caso'. Nel Partito democratico il loro dialogo deve apparire invece pensato e voluto. Se così avverrà, si sarà trattato di una vera, coraggiosa innovazione politica. O altrimenti la politica italiana conterà l'ennesimo fallimento.

(06 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Cacciari «Nemmeno io firmerò, mi sembra un'iniziativa sballata»
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2008, 10:32:54 pm
Cacciari «Nemmeno io firmerò, mi sembra un'iniziativa sballata»

Veltroni: «Bassolino? Ognuno fa ciò che la sua coscienza gli dice»

La risposta del leader del Pd sulla mancata firma alla petizione contro il governo

 

ROMA - «Ognuno fa ciò che la sua coscienza gli dice». È la laconica risposta che il segretario del Pd Walter Veltroni dà allargando le braccia, in Transatlantico, ai giornalisti che gli chiedono una valutazione sul fatto che il Governatore della Campania, Antonio Bassolino, ha deciso di non firmare la petizione del Pd contro il governo.

BETTINI A BASSOLINO - Sulla questione si è espresso anche Goffredo Bettini, coordinatore dell'iniziativa politica del Pd: «È naturale e anche doveroso che le cariche istituzionali, e soprattutto i presidenti delle Regioni come Antonio Bassolino, collaborino lealmente con il Governo nazionale per risolvere i problemi delle loro comunità. Ma oltre ad un piano prettamente istituzionale c'è, a mio avviso, la libertà politica di esprimersi sulle scelte generali e dannose che si stanno compiendo nel Paese». E poi aggiunge: «Di fronte alla crisi democratica e alla drammatica situazione dei ceti medi, di quelli più poveri e del Mezzogiorno, aggravata dalle politiche della destra - aggiunge Bettini -, questa libertà dovrebbe diventare per tutti un dovere».

CACCIARI - «Nemmeno io firmerò, perché sono il sindaco di Venezia e non il segretario del Pd della mia città. Ma a parte questo, mi sembra un'iniziativa sballata». Intervistato da Affaritaliani, Massimo Cacciari segue Antonio Bassolino nella scelta di non firmare «Salva l'Italia!», la petizione che il Partito Democratico ha promosso contro il governo. Cacciari aggiunge che «il problema oggi del Partito Democratico è quello di organizzare se stesso e non di dare una spallata al governo che significherebbe frantumarsi la spalla. Perciò non firmo, assolutamente no», conclude.

CAPEZZONE - «Il Pd sembra nel caos più totale, tra risse intestine, lotte tra correnti, divisioni su tutto, perfino sulle tv di partito. La domanda sorge spontanea: se Veltroni e Bettini non sono riusciti a convincere neanche Bassolino sulla bontà della loro inutile petizione antigovernativa, come pensano di poter convincere 57 milioni di italiani?». E’ quanto chiede in una nota Daniele Capezzone, portavoce di Forza Italia.



05 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI «Pd senza strategia. Correnti e subito congresso»
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 03:43:38 pm
Cacciari: «Pd senza strategia. Correnti e subito congresso»

Oreste Pivetta


«Amarissime constatazioni», si commenta Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, dopo aver spiegato che fare il sindaco è il peggiore destino che possa capitare a un animale dotato di ragione, che il ruolo è decaduto, la responsabilità dimezzata, l’autonomia precipitata. E dopo aver spiegato che militare nel Pd rischia di riservare delusioni pesantissime, sconfitte a rotta di colla, a cominciare dalle europee: «Se si va avanti così...».

Non salva nessuno il sindaco Cacciari: «Anno dopo anno dobbiamo gestire tagli su ogni voce di spesa, tagli che non sono stati compensati da maggior autorità soprattutto in campo impositivo, malgrado la continua richiesta di organizzare tasse di scopo, di poter usufruire di imposizioni particolari, specifiche, per ogni singola realtà, per esempio tasse di soggiorno per città di particolare vocazione turistica, come Venezia. Tutto ci è stato impedito, fino alla beffa di sottrarci anche la gestione dell’Imposta comunale sugli immobili. Becchi e bastonati. Perchè una imposta comunale che è tale in tutti i paesi d’Europa, sulla quale già avevamo scarsa autonomia, perchè c’erano già stati imposti paletti di ogni genere, una tassa fondamentale sulla prima casa ci è stata sottratta, facendoci tornare all’arcaico sistema dei trasferimenti, che non copriranno mai le entrate che avevamo previsto».

Si consoli, Cacciari, sta sorgendo il sole del federalismo.

«Per ora si va in una direzione opposta a qualsiasi federalismo e opposta a ogni autonomia. Ciò a prescindere da centrodestra e centrosisnistra, perchè la linea nei confronti dei comuni è identica da quando faccio il sindaco, cioè da quasi vent’anni. Il bidone dell’Ici ci era stato apparecchiato dal governo Prodi. Si continua. Si pesta sui comuni. E avanti popolo. La chiacchiera sul federalismo è inversamente proporzionale alla prassi federalista».

Il Partito democratico non l’aiuta?

«Per me sindaco non conta niente. In questa fase. Il Pd sta nella mia maggioranza e mi vota le delibere, talvolta a malincuore. Queste non sono neppure critiche, sono amare constatazioni. O il Pd scende in campo con posizioni serie e coerenti su questi temi, autonomie locali, responsabilità, fiscalità, eccetera, oppure che ci sia o non ci sia a me non cambia».

Ma il Pd ha aggiunto qualche cosa di suo nella situazione drammatica che lei, sindaco, illustra?

«Assolutamente no. Era uguale con Margherita e Ds, uguale con l’Ulivo, uguale prima dell’Ulivo, uguale dopo l’Ulivo».

Durissimo...

«Ma che si vuole? Sulle questioni del federalismo fiscale stiamo lì a vedere nero su bianco che cosa ci propone Berlusconi? È possibile?»

No.

«Ma, allora, il giorno dopo l’insediamento del governo ombra si sarebbe dovuta leggere la proposta del Pd... Ti pare che si possa aspettare che cosa decideranno gli altri sulle Regioni a statuto speciale? Ti pare che siano gli altri a doverti dire che cosa poi tu dovrai rispondere sul tema del riassetto del servizio sanitario? Quanto vuoi che si possa reggere al Nord, di fronte alla Lega o al Pdl, se ti sbattono in faccia le voragini nei conti della sanità in Campania, nel Lazio, in Sicilia? Su questo e su altro non ho udito la voce del Partito democratico. Mi sarà sfuggito qualcosa...».

Insomma, mi pare di capire che sarebbe urgente un congresso?

«Urgente, sì. Ma un congresso che si faccia con linee politiche chiare, con correnti vere e leader veri che sappiano dire di strategie, non con i nostalgici di una cosa stramorta come l’Ulivo o con le vecchie nomenclature del Pci. Se la scena dovesse essere quella, meglio soprassedere. Sarebbe indispensabile che fossero in campo programmi e leadership alternativi, riconoscibili e proiettati al futuro. Il congresso ha un peso se ci sono Obama e Hillary Clinton...».

Non se ci sono Veltroni e Veltroni...

«Non avrebbe senso un congresso così. All’unanimità di facciata. Si dovrebbe discutere tutto con estrema chiarezza, alla luce del sole, senza sotterfugi, nel partito che immagino. Un partito per cui si fanno le primarie, naturalmente. Un partito in cui si possano affermare posizioni di maggioranza e le minoranze applaudano il vincitore, come insegna Hillary Clinton. Se si vuol essere un partito serio».

E a proposito di urgenza? Quanti mesi?

«L’urgenza è tremenda. Continuando così per un anno ci giochiamo il partito democratico, che è stata la nostra grande speranza, la mia almeno. Continuando così in asfissia, in afasia, diciamo pure afasia e non asfissia, arriveremo esausti e siccome ci sono tra un anno scadenzine da niente come le amministrative e le europee, immagino il disastro. Si perde proprio, stavolta. Sarebbe una sconfitta vera, perchè l’altra volta non è stata una sconfitta. Il Pd ha solo subìto senza motivo la sindrome della sconfitta. Perchè abbiamo letto quel risultato come una sconfitta? Perchè, mancata la vittoria generale che avrebbe coperto tutte le magagne, ci siamo ritrovati nudi, senza una linea, senza una strategia, senza un gruppo dirigente. Per questo ci siamo visti sconfitti. Ma gli elettori avevano apprezzato la scelta di Veltroni di andare, così, da soli...».

Un partito senza linea, senza strategie, senza gruppo dirigente. Un partito nato male, allora?

«Nato tardivo, non prematuro, perchè l’esigenza, nell’ambito della sinistra italiana, di una forza politica di questo genere era avvertita da anni da tutte le persone di buon senso. E’ stato un parto tardivo, non prematuro come dicono gli imbecilli, e per quanto tardivo non s’è certo giovato di un confronto serrato, nel merito, sui grandi temi politici, economici, istituzionali e, aggiungerei, etici. Si è sempre tentata l’unità, attraverso operazioncine di mediazione».

Le differenze vissute come un incubo?

«Come se tra i democratici o tra i repubblicani negli Usa non vi fossero differenze colossali. O dentro il Labour o i socialdemocratici tedeschi. Ci dovremmo scandalizzare perchè nel nostro Pd non vanno tutti d’accordo? No, ma bisogna lasciare che le divisioni vangano a galla. La corrente non ha mai fatto male a nessuno, è aria, muove la polvere, il vento fa bene».

L’aria ferma ammorba...

«Un puzzo pestilenziale... Un venticello fresco invece rinnova, mette in moto le cose, le agita, le fa vivere. Fa schifo il puzzo che sale da un profondo passato immobile».

Da che cosa si ricomincia?

«Si ricomincia dal fatto che la scelta del Partito democratico è irreversibile. Non si torna alle megacoalizioni, ai pastrocchi infernali, che ci hanno condannato alla sconfitta. La scelta veltroniana è irreversibile. Punto. Chi non ci sta, se ne vada. Su questa base si costruisce un serio dibattito congressuale. I leader che hanno qualcosa da dire lo dicano con documenti, chiari leggibili, univoci. Simplex sigillum veri».

Siamo arrivati al suo Wittgenstein.

«Prima possibile. Congresso a gennaio, a febbraio. Una buona rincorsa prima del voto».

Rifondazione la lasciamo dov’è?

«Rifondazione sarà un problema successivo. Se l’elettorato dà fiducia a noi forza di governo siamo pronti sulla base del nostro programma a fare come avviene in Germania: una coalizione di governo. Al’elettorato mi devo presentare come una forza politica omogenea e credibile, con un programma assolutamente non pasticciato, non equivoco. Dopo di chè, sulla base di questo programma, accolto dagli elettori, posso fare benissimo una coalizione di governo per realizzarlo».

Questo dipenderà anche dalla legge elettorale.

«Questo dipende dalle legge elettorale, ma in generale, culturalmente parlando, la distinzione fondamentale è tra coalizione politica o partito politico e alleanza di governo».

C’è troppo Veltroni nel Pd?

«L’eccessiva presenza di Veltroni non fa altro che coprire le timidezze e i ritardi nell’affrontare i problemi, le titubanze, la mancanza di visioni strategiche. Ci si copre tutti con Veltroni, chi gridando Viva Veltroni, chi urlando Abbasso Veltroni. La stessa cosa, due facce della stessa medaglia».

Pubblicato il: 05.09.08
Modificato il: 05.09.08 alle ore 8.27   
© l'Unità.


Titolo: MASSIMO CACCIARI. PD il governo ombra e' un fallimento il 25 ottobre non ci sarò
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 11:33:56 am
Pd: Cacciari, "il governo ombra e' un fallimento, il 25 ottobre non ci saro'"

21 ott 08:35 Politica



ROMA - Il Governo ombra del Pd non ha prodotto i risultati sperati, e anche il progetto del Pd "contraddice le premesse e le esigenze di novita'" che si era prefissato.

Non nasconde la disillusione il sindaco di Venezia Massimo Cacciari che, tra l'altro, annuncia che non sara' in piazza il 25 ottobre: "Perche' non si puo' convocare la gente in piazza con 5 mesi di anticipo e non si puo' giocare di rimessa".

"Fino ad oggi c'e' in campo a malapena un'ipotesi di partito, piu' che un partito", aggiunge Cacciari riferendosi al Pd. (Agr)


da corriere.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI L'affondo del sindaco di Venezia: «Non me ne frega niente»
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2008, 07:01:34 pm
Il primo cittadino: «Lascio la scena ai demagoghi. Veltroni e Berlusconi»

Nel Pd-day Cacciari all'attacco: «Lascio la scena ai demagoghi»

A Roma la manifestazione dei democratici.

L'affondo del sindaco di Venezia: «Non me ne frega niente»

 
 
ROMA - Il giorno del Pd day è arrivato. Walter Veltroni alla prova della piazza annuncia che la manifestazione sarà «quella di un'opposizione serena che non divide il Paese, di un'opposizione sempre più forte e netta, ma che ha come obiettivo quello di servire l'Italia e di essere di aiuto al Paese». E il numero due del Pd Dario Franceschini, mentre accoglie alla stazione di Roma Ostiense i treni speciali organizzati dal Pd per i militanti che partecipano alla manifestazione «Salva l'Italia» spiega che «Berlusconi deve rassegnarsi: in democrazia c'è l'opposizione e oggi vedrà che è forte». Intanto però il segretario dei democratici deve fare i conti con le critiche della maggioranza e con le perplessità espresse anche da alcuni dei suoi. Chi non usa mezzi termini nel palesare i propri dubbi è Massimo Cacciari, uno dei grandi assenti al Circo Massimo. «Cerco di portare a termine il mio mandato e lasciare la scena ai demagoghi, a coloro che hanno la vocazione a guidare il popolo: ai Veltroni e ai Berlusconi, a destra e sinistra» è stato l'affondo del sindaco di Venezia intervenuto ad Omnibus in onda su La7. «Della manifestazione non me ne frega niente. Non mi preoccupa - ha aggiunto Cacciari - la manifestazione, ma che il governo ombra non abbia prodotto assolutamente nulla».

«AVREI PREFERITO PROPOSTE CONCRETE» - «Mi augurerei - ha proseguito il primo cittadino di Venezia - che il Pd mi dicesse come si intende organizzare e cosa dice su scuola, crisi finanziaria e Alitalia. Mi sembra un`invenzione strana organizzare una manifestazione di protesta con cinque mesi di anticipo. Avrei preferito - conclude l’esponente del Pd - che il Pd avesse elaborato delle proposte concrete sul federalismo fiscale, non lasciando lo spazio allo spot di Lega Nord e Berlusconi, e su questo disastro della scuola».

RIFONDAZIONE E NUOVE ALLEANZE - Cacciari ha anche parlato, apostrofandolo come un «suicidio» dell'ipotesi di una nuova alleazna tra il Pd e Rifondazione. «Il Pd si suiciderebbe se riallacciasse un'alleanza con Rifondazione come quella del governo Prodi, contraddirebbe totalmente le ragioni storiche della sua nascita» ha detto il sindaco di Venezia. «Di Pietro - ha aggiunto Cacciari - è una riserva che proviene da Tangentopoli, dalla crisi degli anni '90, è una rendita di posizione pura e semplice».



25 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: CACCIARI «Attenti a casi pericolosi come in Olanda. Hamas combattuto anche qui»
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2009, 03:17:09 pm
Massimo Cacciari

«Attenti a casi pericolosi come in Olanda Hamas va combattuto anche qui»

«Ad Amsterdam slogan criminali, i socialisti dovevano allontanarsi»



ROMA — «Dobbiamo potenziare gli anticorpi rispetto a fenomeni come quello di Amsterdam», dice al Corriere Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, filosofo con un passato di non allineato dentro la sinistra e un presente da non allineato nel centrosinistra. Lo sostiene dopo che in una manifestazione in Olanda è stato gridato lo slogan «Hamas, Hamas, tutti gli ebrei nelle camere a gas». «E' nostro interesse fare di più per capire la portata del conflitto mediorientale», aggiunge Cacciari. E suggerisce di parlare della pace necessaria tra israeliani e palestinesi durante il Giorno della memoria, previsto ogni anno il 27 gennaio in ricordo delle vittime dello sterminio nazista. Ma non per avallare assurdi paragoni tra due momenti della storia diversi. Per sviluppare la maturazione di una tolleranza, di un rigetto dell'«intolleranza banale » laddove questa attitudine non è arrivata.

Quale reazioni le induce il corteo di Amsterdam, con uno slogan del genere?
«Dobbiamo capire che quel mondo i cui stanno crescendo odio e frustrazione è qui. E' in noi. Sta a Londra, ad Amsterdam, a Parigi. Da noi. Sarebbe saggio capire dove mettere, nella nostra agenda politica, il conflitto mediorientale ».

E questo che cosa comporterebbe?
«Combattere posizioni come quelle di Hamas. Anche qui da noi, non solo a Gaza. A volte non si comprende che quel conflitto è esplosivo. Mi pare lo si capisca sempre meno. Mentre...».

Mentre?
«Mentre occorrerebbe arrivare a una tregua per riprendere il processo di pace. Ricordando che un premier israeliano che cercava la pace è stato ucciso da una mano non palestinese (Yitzhak Rabin, ndr)».

C'erano due deputati socialisti nel corteo in Olanda. Come li giudica?
«Che due deputati socialisti vi abbiano partecipato, senza allontanarsi e senza condannare è inammissibile. Quello slogan è criminale».

A Barcellona, in coincidenza con i bombardamenti di Israele su Gaza, sono state ridimensionate le celebrazioni del Giorno della memoria. Niente manifestazione in piazza, rimasto il dibattito sul genocidio dei gitani.
«Due casi non comparabili, Amsterdam e Barcellona. Per la seconda, bisognerebbe giudicare dall'interno. A Venezia dedicheremo la giornata al problema dei sinti e dei rom ».

Che cosa farete a Venezia?
«Verrà Moni Ovadia. Sono convinto che il Giorno della memoria non debba essere una messa cantata, ma assumere anche un carattere legato ai problemi del momento. Non serve solo a ricordare la "soluzione finale". Anche a prevenire quanto preparò quel fatto inaudito: la Shoah fu preceduta da una degenerazione prima politica, poi culturale. Bisogna prevenire l'intolleranza banale, l'insofferenza banale. E per me è giusto che nella giornata si tratti anche di ciò che succede a Gaza».

Mettendo sullo stesso piano lo sterminio di ebrei compiuto dai nazisti e l'azione militare israeliana in corso? Può chiarire?
«No, neppure per idea. No. La Shoah io non la metto neanche sullo stesso piano degli altri genocidi. E' stata inaudita. Non lo dico per motivi sentimentali. Per analisi storica».

E come tratterebbe di Gaza il 27 gennaio?
«Cercando di coinvolgere il più possibile israeliani e palestinesi, dando forza agli uomini di pace. A Venezia in uno stage riuscimmo a far parlare per giorni due studentesse, una israeliana e una palestinese, che avevano avuto parenti uccisi. Quest'anno non ne abbiamo trovate. Sa, sarà una giornata molto delicata».

Come se la aspetta?
«Una giornata molto tesa. Ovunque. Spero non ci siano degli scemi che bruciano bandiere. Speriamo che quel giorno i cretini restino a casa. Che permettano di parlare con il necessario, legittimo riconoscimento».

Maurizio Caprara

17 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Cacciari: «Ecco il primo progetto subito attuabile»
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2009, 11:24:31 pm
Cacciari: «Ecco il primo progetto subito attuabile»


Alberto Vitucci


Una parte dell’Iva ai Comuni, no a quote dell’Irpef, lotta all’evasione a livello locale, istituzione della Banca Regionale degli Investimenti: questa la ricetta del sindaco di Venezia  Una parte dell’Iva ai comuni. No alla compartecipazione dell’Irpef («E’ un’idea sbagliata»), tasse di scopo e imposte riscosse direttamente dagli enti locali. Abolizione dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia del demanio, istituzione della Banca regionale degli Investimenti. E lotta all’evasione a livello locale. E’ questa la ricetta del sindaco Massimo Cacciari per avviare il federalsimo fiscale. E ridare «ossigeno» ai comuni, strangolati dai tagli e dalla crisi.

Una proposta messa a punto - prima in Italia - dal delegato del sindaco al federalismo, Maurizio Baratello, che sarà presentata a metà maggio in un grande convegno a palazzo Ducale. Intanto di federalismo si parlerà domani a Mestre nel convegno organizzato dalla Fondazione Pellicani con il sindaco di Torino Chiamparino, il presidente della Provincia Davide Zoggia, il fiscalista Mario Bertolissi.

Sindaco Cacciari, ancora un convegno sul federalismo.
«Stavolta non si tratta di confrontare teorie, ma di avviare un percorso per un federalismo possibile».
Non è la prima volta che ci si prova.
«In questi anni si è parlato tanto di federalismo in modo generico e confuso. Adesso è il momento di fare, partendo dal testo di riforma Calderoli e dal federalismo fiscale e facendo tesoro della lezione di questi 15 anni».
Un testo di legge adesso c’è.
Il disegno di legge Calderoli è un buon testo dal punto di vista dei principi, come l’autonomia impositiva, le imposte locali. Ma fino ad oggi non è successo nulla. I tempi di attuazione sono troppo lunghi, bisogna accelerare perché i comuni non possono più aspettare. Certe cose si possono fare subito, con i decreti attuativi. Partendo però da un punto fermo».
Quale?
«Che le riforme della Carta Costituzionale non si possono fare a colpi di maggioranza, ma con il concorso di tutte le forze politiche. La Costituzione è un patto che tutti hanno contribuito a creare. Se manca l’ethos comune non ci può essere democrazia».
Cosa si può fare subito?
«L’autonomia finanziaria dei comuni, questo è il nodo, ma bisogna dare ai comuni gli strumenti per farlo».
Il 20 per cento dell’Irpef le sembra una buona idea?
«E’ un’idea sbagliata. Non ha senso mettere i comuni sullo stesso piano, i paesi di di montagna e le città d’acqua. Dividere la torta in parti uguali e dare la stessa fetta a chi è magro e a chi è ciccione. E poi nei comuni ad alta evasione le entrate potrebbero addirittura essere inferiori a quelle attuali».
Dunque?
«Bisogna intanto studiare i modi per cui i comuni siano interessati al gettito Irpef, a riscuotere le tasse e a combattere l’evasione in casa loro. Poi puntare sull’Iva come prima fonte di finanziamento. E’ un criterio molto più oggettivo dell’Irpef, perché basato sui consumi».
E poi?
«E poi bisognerà introdurre davvero le tasse di scopo, come diciamo invano da anni, unico modo per dare risorse e far vedere ai cittadini come vengono spesi i soldi. Occorre mettere mano alla macchina dei tributi. Ripeto, la legge sul federalsimo fiscale contiene principi condivisibili, ma adesso bisogna vedere come saranno attuati. Non possiamo continuare con gli annunci, perché intanto i comuni vanno verso la bancarotta, non sanno più come chiudere i bilanci».
Il Comune ha un progetto.
«Lo presenteremo insieme all’Anci a metà maggio. Facciamo delle proposte al governo che sono in parte realizzabili immediatamente. E che danno agli enti locali l’autonomia impositiva».

(29 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Forcellini intervista MASSIMO CACCIARI
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2009, 10:30:37 pm
Siamo la compagnia degli sconfitti

di Paolo Forcellini


Dirigenti che da anni sbagliano tutto. E che vanno sostituiti. Un partito che non sa più leggere la realtà. Specie quella del Lombardo-Veneto. Il j'accuse del sindaco di Venezia e la sua ricetta per il congresso.
Colloquio con Massimo Cacciari  All'ultimo tratto del suo terzo mandato come sindaco di Venezia, Massimo Cacciari è ormai una mosca rossa: dopo le elezioni dei giorni scorsi, al Nord i primi cittadini del centrosinistra in città importanti si contano sulle dita di una mano, lo smottamento è stato assai significativo. C'è la possibilità di risalire la china? In che modo? Cosa ci si può attendere dal prossimo congresso del Pd? Ne abbiamo parlato con il sindaco-filosofo.


Ci si può consolare col fatto che l'"azzeramento del Pd al Nord", che molti auspicavano o paventavano, non ci sia stato?
"Beh, comunque ci siamo andati vicino. C'è una valanga che dilaga ben oltre il Nord, basta vedere i risultati della Lega in Emilia Romagna, quelli di Firenze al primo turno, la sconfitta di Prato. Quanto al 'problema Nord', la considero una categoria fasulla. Un rischio sradicamento, più che smottamento, minaccia soprattutto quel territorio assolutamente specifico, anche rispetto alle altre aree del settentrione, che è il Lombardo-Veneto. Pd e centrosinistra hanno confermato di non essere in grado di offrire alternative politiche in questa zona dove il duo fondamentale dell'attuale Repubblica, Berlusconi-Bossi, esercita un'egemonia indiscussa".

Quali le peculiarità del Lombardo-Veneto rispetto ad altre aree del Nord?
"È insensato parlare di un Nord general-generico. Il Pd ha tenuto in due capitali dell'ex triangolo industriale, Torino e Genova, perché lì c'è una composizione sociale ancora fortemente centrata sulla grande industria spesso a partecipazione statale o comunque strettamente ammanigliata con le politiche statali, vedi la Fiat. Invece nel Lombardo-Veneto, che ha conosciuto la più radicale trasformazione degli ultimi 30-40 anni, cioè l'esplosione del capitalismo personale, della fabbrica diffusa, insomma nella Terza Italia vera e propria, siamo di fronte a fenomeni di sradicamento del centrosinistra".

Insomma, da sindaco del Pd nel Lombardo-Veneto si sente come una foca monaca: chiederà soccorso al Wwf?
"Non credo. In realtà i risultati per le amministrazioni comunali anche nel Veneziano o nel Vicentino non sono del tutto negativi. Abbiamo vinto in città importanti come Valdagno, Schio, Bassano, Portogruaro. C'è stata una nettissima differenza tra voto provinciale, molto più negativo, e comunale: in quest'ultimo caso abbiamo ancora qualcosa da dire. Certo, durerà poco se il Pd non capisce la lezione".

Sembra che i maggiorenti del Pd non si rendano conto della drammaticità della situazione. Si pensi alle dichiarazioni ottimistiche, all'indomani del voto, di un Dario Franceschini ("Comincia il declino della destra") ma anche di alcuni suoi oppositori interni, ad esempio Livia Turco: "Il risultato positivo è frutto di un grande gioco di squadra". Che ne pensa?
"Ci si può anche tirare su il morale, per carità. Ma il Pd sta diventando sempre più un partito appenninico con qualche appendice. Ormai c'è una concentrazione del voto per il Pd nelle regioni tradizionalmente forti, dove però le perdite percentuali sono talvolta spaventose: il margine di vantaggio era però tale da consentire ancora una tenuta. Mi pare che la leadership del Pd non riesca a leggere la realtà. Io non ho più fiato. E credo neppure studiosi come Ilvo Diamanti o Aldo Bonomi, che da decenni analizzano il Nordest, cercando di trarne alcune conseguenze pratiche-politiche. Ancora nei mesi della fondazione del Pd e dopo la sconfitta del 2008 abbiamo cercato di spingere il nascente partito ad articolarsi territorialmente, in modo da poter risultare nel Lombardo-Veneto una credibile forza alternativa al centrodestra. Questi tentativi sono stati respinti e anche l'odierno verdetto delle urne ne è una conseguenza".

A ottobre ci sarà il congresso Pd. Dopo questi risultati è auspicabile un nuovo cambio di leadership?
"Vedremo i programmi. Ma certo uno degli elementi su cui valutare i candidati sarà la dimostrazione di una piena consapevolezza del dramma che si sta vivendo in generale al Nord e in particolare nel Nordest. Bisogna capire se i candidati hanno metabolizzato la lezione e quindi si presentano con un'analisi corretta di queste realtà e con proposte che vi rendano praticabile una presenza del centrosinistra".

Piena autonomia al Pd del Nordest: cos'altro prevede la sua ricetta?
"Al di là di questo fattore, che potrebbe sembrare soltanto organizzativo, formale, ma non lo è affatto, vi sono numerosi temi strategici da approfondire".

Faccia qualche esempio.
"In primo luogo il Pd deve decidere la propria linea in materia di riforme istituzionali e costituzionali. Inoltre deve impostare una dura battaglia sul tema del federalismo fiscale che scavalchi, per coerenza e radicalità, anche le proposte di un Calderoli che sono 'sine die'. Più in generale, sui temi delle riforme elettorali, cassati i quesiti referendari, cosa si vuol fare? E, sul piano dei rapporti sociali, si dovrà vedere quali analisi, e con quali differenze tra loro, i candidati formulano sulla situazione economica e se si intendono avanzare proposte ad esse coerenti. Il che significa definire precise priorità su scuola, formazione, ricerca, innovazione. Se si tratterà ancora una volta di aria fritta, come spessissimo è stato in passato, la frana proseguirà".

Il centrosinistra l'ha spuntata in alcune città solo grazie all'apporto dell'Udc nei ballottaggi. Una strada su cui proseguire?
"Sì, se non altro per senso della realtà. È assai improbabile che l'Udc possa tornare sui suoi passi, anche se probabilmente il grembo del Cavaliere è sempre aperto. Penso proprio che Casini abbia tutt'altre intenzioni, l'Udc senz'altro si sfascerebbe se ci fosse una maggioranza che proponesse il ritorno a Palazzo Grazioli insieme alle 'signorine'. Nel Pd deve però emergere una posizione molto chiara: non si può essere costantemente in bilico tra nostalgie uliviste, di unione larga, e la costruzione di relazioni organiche e politiche con l'Udc. Anche questo sarà un tema che il congresso dovrà affrontare".

Sembra realpolitik. Ma non è altrettanto realistico constatare che il centrosinistra, in passato, ha vinto grazie ai consensi della sinistra detta radicale?
"Vittorie di Pirro. Come quando si vince una battaglia entrando nel territorio nemico e trovandovi terra bruciata. Poi diventa difficile tornare indietro senza perdere tutto. Il centrosinistra ha vinto nel 2006 e poi si è ritrovato in un'agonia lunga molti mesi".

Condivide l'idea che alla direzione del Pd ci voglia un cambio generazionale?
"Non c'è dubbio. Quella che oggi guida il Pd è una generazione sconfitta. Se ne dovrebbero rendere conto tutti con grande disincanto e anche una certa dose di generosità. Gli attuali leader avevano in mano il pallino vent'anni fa: hanno perso la loro partita e ora dovrebbero cercare immediatamente di promuovere i 30-40 enni. Gli 'anziani' sono stati protagonisti di una serie clamorosa di cazzate tattiche inserite in una marcata indigenza strategico-politica. Cito solo alcuni degli errori più madornali, dal modo in cui Achille Ochetto ha gestito la trasformazione del Pci invece di fondare un nuovo partito, facendosi condizionare esclusivamente da chi se ne sarebbe comunque uscito, dai Cossutta e dagli Ingrao, per arrivare alla gioiosa macchina da guerra. E poi sbagli strategici come quello di non capire che chi si era salvato da Tangentopoli aveva in realtà perso la guerra e avrebbe dovuto aprirsi immediatamente a un rapporto per salvare il salvabile del ceto politico della prima Repubblica. Ancora: si doveva mettere un cuneo possente fra Berlusconi e Bossi dopo il fallimento della loro la prima esperienza di governo; si doveva praticare con coraggio una politica federalista invece di credere al Berlusconi della Bicamerale e aspettare quindi che il Cavaliere e Bossi facessero pace. Potrei continuare a lungo. Non si può pensare che si possa sbagliere praticamente tutto per vent'anni senza pagarne lo scotto. Insomma questa generazione, me compreso, ha finito. Se hanno un mestiere tornino a farlo, altrimenti vadano in pensione".

(25 giugno 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI «Questo Pd è il vecchio disegno di D'Alema. Non mi interessa»
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2009, 03:52:43 pm
Lo strappo: «Condivido la scelta di Rutelli ma con l'Udc non ho nulla a che fare»

Cacciari: addio alla politica Sconfitti tutti i miei progetti

«Questo Pd è il vecchio disegno di D'Alema. Non mi interessa»

   
ROMA — «Non intendo più candidarmi a nulla. Nel 2010 non farò più il sindaco di Venezia, né il deputato. Basta. Quante volte occorre essere sconfitti in una vita?».
Massimo Cacciari si ritira? «Continuerò a dire la mia, ma non accetterò più impegni organizzativi. Ho già dato, serve realismo. Trent'anni fa speravo con altri di poter imprimere una svolta al Pci. Poi ci ho provato con Occhetto, quindi con il partito dei sindaci, con l'Asinello di Prodi, con la Margherita e infine con il Pd. Quel che ora dice Rutelli io l'avevo detto molto tempo prima. A chi dovrei continuare a predicare?».
E guidare il movimento di Rutelli?
«Ma quando mai mi si è offerto di guidare qualcosa? E comunque non me ne frega niente, il potere mi fa ridere. Stimo Tabacci e, a Rutelli, mi lega una affettuosa amicizia. Condivido la sua scelta, ma io con l'Udc non ho nulla a che vedere. Né con gli altri».
Cioè il Pd di Bersani?
«Gli auguro successo, ma sarà la cosa 2, 3 o 4 di D'Alema. È un dramma quel che si profila nel Pd. L'intesa col centro è inevitabile e 'sta frittata qui, un centrosinistra da prima Repubblica che è il vecchio disegno di D'Alema, non mi interessa culturalmente. Anche se è l'unica via per sconfiggere Berlusconi».
Trovi lei un'altra via.
«E cosa dovrei fare? Più di come mi sono fatto il culo in questi anni? Nessuno mi ha mai filato, anche se ho avuto sempre ragione. In politica bisogna essere a tempo e non in anticipo, a 65 anni ho capito che non sono capace di fare politica. Il mio amico D'Alema sì, che è capace».
Ha mediato con Rutelli.
«Non sento D'Alema da quando avevo i calzoni corti, ma so per certo cosa gli ha detto. "Ti capisco, Francesco. Fai il centro e ci incontreremo in una bella alleanza"».
D'Alema potrebbe diventare ministro degli Esteri Ue.
«Sì, dopo aver rimestato nel pollaio in modo tale da diventarne l'ambasciatore più rappresentativo... È lo stesso film del '98, quando D'Alema nel casino generale fa un bell'accordo fuori dal centrosinistra e diventa premier».
Rimpiange Prodi?
«Macché, lasciamolo perdere Prodi. Veltroni sì che aveva idee, ma non ce l'ha fatta per limiti personali e incapacità organizzativa. Fassino e Rutelli erano autenticamente per il Pd, sono stati generosi e nemmeno loro ce l'hanno fatta. Casini? Anche lui non ha capito nulla».
Le Regionali: un bagno?
«Non è detto. Bersani può anche tenere, Pd e centro assieme potrebbero fare meglio che alle Politiche».
La Bindi accusa Rutelli di pensare al se stesso.
«Vada a spasso. Ci vorrebbe un libro per raccontare i disastri che ha fatto la Bindi».
Quanta amarezza...
«Macché amarezza, una liberazione. Non vedo l'ora di tornarmene all'università».

Monica Guerzoni

02 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI «Molti speculatori ma anche voglia di futuro»
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 11:03:29 am
Cacciari giudica Venezia: «Molti speculatori ma anche voglia di futuro»

Il sindaco: «C'è una marea di nero inimmaginabile. Il cittadino dell'anno è Alberto Sonino. Con più donne andremmo meglio»
           
 
 di Michele Fullin

VENEZIA (29 dicembre) - Non è la solita intervista di fine anno. Piuttosto una chiacchierata ad ampio raggio quella che Massimo Cacciari ha fatto con il Gazzettino. Un giro d’orizzonte in cui il sindaco parla di opere realizzate, di progetti avviati ma muove anche accuse precise. La più forte, tutta veneziana, riguarda l’evasione fiscale: «In questa città - dice il sindaco - c’è una marea di nero solo lontanamente immaginabile». Poi punta dritto contro l’eccessivo centralismo statale. «Non danno una lira - sbotta - e bisogna seguire gli ordini: è proibito mettere una tassa di soggiorno e tassa di scopo, ad esempio. Questo è il "centralismo scatenato" italiano, alla faccia del federalismo». Infine parla del suo futuro. «Insegnerò a Milano ma non lascio Venezia. - rivela - Ho 30mila libri da portare via. Troppi...».


Sindaco Cacciari, tra pochi giorni termina l’anno, ma tra pochi mesi terminerà anche il suo mandato. Pensa di aver lasciato la città migliore o peggiore di come l’ha trovata?
«Mah, migliore, peggiore... questa è una città completamente trasformata in tutti i suoi aspetti. Basti pensare che un tempo c’erano le municipalizzate, oggi ci sono società per azioni. La trasformazione continuerà verso una forma di gestione sempre più di tipo aziendale: Insula, Fondazione musei, Venezia Marketing & Eventi. Tutta la governance della città è trasformata rispetto a 20 anni fa. Impossibile fare raffronti. Sarebbe come dire se è meglio il Milan di adesso o quello di Schiaffino».

Tutte le opere che sono state fatte...
«Mestre è un cantiere e così Marghera. Il Vega non esisteva e continuerà ad essere interessato da interventi. Poi le aree interne al tessuto urbano di Marghera...».

Sembra che ci sia la volontà di lasciare un segno tangibile del suo passaggio.
«Cosa vuol dire? Questi processi di trasformazione urbana dipendono da un disegno di trasformazione urbana che si presentò alla città circa 20 anni fa e che, dopo difficoltà e forche caudine indicibili (dai vincoli sacrosanti in materia ambientale, monumentale, bonifiche, interessi nazionali) è andato avanti. La città di oggi è imparagonabile a quella di vent’anni fa. Occorre aver presente che irreversibilmente nei prossimi anni questo cantiere è destinato a diventare ancora più cospicuo e impattante, perché certamente saranno gli anni del completamento del tram, l’intervento sull’ex Umberto I e quadrante di Tessera. La trasformazione continuerà forse più che in passato».

Manca qualcosa a questo disegno?
«Quando si concluderanno i lavori che citavo, oltre al museo di Mestre, la nuova piazza Barche, il megaprogetto del Lido e finalmente la conclusione del piano dell’Arsenale per cui siamo ancora bloccati da manomorte di demani vari, il disegno sarà completato. Con il fondamentale apporto della Regione e dello Stato ci saranno anche il tram, l’alta velocità, la Sfmr e il passante. Per tutti questi motivi abbiamo presentato la candidatura alle Olimpiadi. Tutti questi obiettivi sono realizzati o si realizzeranno inevitabilmente, a meno di cataclismi, nei prossimi cinque o sei anni. A quel punto ci sarà una città che potrà ospitare anche le Olimpiadi o un altro evento mondiale di quelle dimensioni. Tutti i progetti non sono più soltanto idee, sono cantieri».

Pensa che il Comune non sia riuscito a comunicare tutto ciò che ha fatto ai cittadini?
«I cittadini stanno a vedere problemi più determinati. Sarebbe bello avere i soldi per fare quattro giri di raccolta rifiuti invece di due, sarebbe bello invece di avere due vigili a San Marco averne cinque, ma non ci sono le risorse. Vede, quello che è diventato critico per tutti i Comuni italiani sono le spese ordinarie, perché gli investimenti in un modo o nell’altro si trova il modo di finanziarli. Ad esempio, vendendo immobili, con il ricavato dei quali posso solo fare investimenti, non certo pagare i vigili. Per le spese ordinarie siamo in gravissima crisi: tagli ai trasferimenti, impossibilità ad agire autonomamente in materia tariffaria. Andrebbe bene se mi dicessero: non ti do più una lira e tu arrangiati. No, non danno una lira e bisogna seguire gli ordini: è proibito mettere tassa di soggiorno e tassa di scopo, ad esempio. Questo è il "centralismo scatenato" italiano, alla faccia del federalismo di cui si parla. In questa situazione, ciò che soffre di più è la possibilità di migliorare i servizi quotidiani. Anche su questo abbiamo fatto: abbiamo dati, non impressioni, che ci dicono che il servizio è migliorato, ma certamente si potrebbe o si dovrebbe fare molto di più. Ma c’è un vincolo: le risorse per le spese correnti, che sono state falcidiate con i trasferimenti dello Stato e siamo stati messi nell’impossibilità di recuperarli in altro modo. Negli ultimi due anni, la riduzione degli incassi del Casinò ha peggiorato le cose. Faccio un esempio: abbiamo pensato alla linea 3 e abbiamo dovuto rinunciarvi perché non potevamo permetterci di sopportarne il costo. Per miracolo continuiamo a sostenere la gratuità dell’abbonamento per gli over 75. La gente vede queste cose qua, è anche troppo umanamente comprensibile, e su queste cose vorremmo fare di più».

Tra i progetti che avete ereditato dalla passata amministrazione, c’è qualcosa che non avreste portato avanti?
«Avrei portato avanti in modo completamente diverso il discorso delle Municipalità. La finzione di dire facciamo le Municipalità come se fossimo una vera città metropolitana ha provocato grande fatica, forse qualche spreco di risorse, senza aumentare la caratura democratica e partecipativa del Comune. Il resto sono dettagli, perché c’è una continuità amministrativa di fondo che bisogna rispettare».

Si taglieranno le politiche sociali?
«Continuano ad essere il piatto forte. Questo Comune è il primo in italia per finanziamenti alla cultura e tra i primissimi per i servizi alla persona».

Mai pensato di metterle in forse?
«Mai, assolutamente. Quest’anno abbiamo dovuto proporre una modesta riduzione della cultura, mentre abbiamo mantenuto gli stessi importi per i servizi alla persona. Che, di per sè, a causa dei costi crescenti, è già una diminuzione».

Calcio Venezia, Porto Marghera. In molti campi il sindaco si è sostituito in un certo senso agli imprenditori. Se n’è mai pentito?
«Sapevo che la situazione del calcio Venezia era disperata e ho voluto vedere se c’era una possibilità. Si potrebbe anche discutere, ma la città è fatta anche di realtà sportive di eccellenza, non solo dello sport che sosteniamo come servizio sociale. Per quanto riguarda Marghera, ci mancherebbe che il sindaco non si interessasse di Marghera, realtà strategica per il Paese, che dà lavoro a migliaia di persone. Ci mancherebbe altro che non mi interessassi di una realtà così significativa che sarebbe sciagurato dismettere così, sic et simpliciter. Sartor? Persona impegnatissima, che ha fatto un buon progetto che, secondo me, è stato sabotato. Nei suoi confronti mantengo molta fiducia, a lui non è stato concesso di portare a termine il suo progetto».

Chi eleggerebbe a veneziano dell’anno?
«Ce l’ho in mente ed è esattamente quello a cui la Settemari darà il premio il 13 gennaio, Alberto Sonino. Mi pare abbiano individuato la persona più adatta a dare un segno di vitalità e rinnovamento».

E se si parlasse del decennio?
«Non ci sono tante persone che hanno eccelso nel contribuire alla città. Direi che sono in grande difficoltà nel dare un nome. Tanti hanno fatto il loro dovere, hanno dato sostegno a questo o quello. Ma il benefattore, proprio non saprei».

Il suo rapporto con i veneziani.
«Sono persone mediamente affette da una grave miopia, sono troppo addosso a questa realtà straordinaria per capirne tutte le opportunità e le potenzialità. Alcuni la sfruttano sul breve periodo, altri ne vivono soltanto gli aspetti "negativi", altri ci speculano sopra, magari affittando le case agli studenti a 500 euro al mese. La marea di nero che ci deve essere in questa città è soltanto minimamente immaginabile. Ma poi ci sono per fortuna anche quelli che capiscono queste opportunità e le difficoltà di governare una realtà così complessa. Alla fine, grazie anche a voi giornalisti emergono tuttavia sempre le persone che hanno questa formidabile miopia, per cui la città è il colombo, il sacchetto di spazzatura e nient’altro. Esistono solo la notizia cattiva, la protesta e la lamentela. Ma non sono tutti così, ci sono i pubblici esercizi che ti danno una mano, anche certe iniziative che abbiamo fatto con i commercianti, c’è il club Amici di Venezia e ci sono i Veneziani x Venezia. Piccoli germogli che testimoniano la volontà di futuro che c’è, che esiste una cultura che può spaccare la crosta dei luoghi comuni attorno anche alla Venezia storica».

Che ci dice del Lido?
«Ah, il Lido. L’isola abbandonata e derelitta. Proprio al Lido è partito un investimento complessivo - quasi tutto privato - che si avvicinerà alla fine al miliardo di euro. Questo è il punto. Alla fine, però, queste opportunità le vedono molto di più i Pinault, i Mossetto e i fondi internazionali. Bisognerebbe in definitiva che i veneziani vedessero la città da una giusta distanza critica. Dovrebbero viaggiare di più, perché si rendano conto che il sistema di trasporto lagunare è il miglior trasporto pubblico del mondo. Per capirlo, basta farsi un giretto a Roma o Milano alle ore di punta. Allora capirebbero meglio i disagi che certamente nella città esistono, e capirebbero meglio la difficoltà di governare un territorio così incredibilmente complesso come Venezia e Mestre e capirebbero le grandissime potenzialità di quest’area».

Per le prossime elezioni lei ha lanciato Orsoni...
«Ho detto che è un candidato che certamente dal punto di vista della preparazione amministrativa, dell’esperienza, della sua riconoscibilità molto ampia e trasversale in questa città è un candidato a mio avviso ottimo. Ho anche aggiunto che ci debbano essere delle primarie la cui offerta politica sia rivolta all’intera città e che il candidato che emergerà dalle primarie avrà il mio appoggio incondizionato».

Donne, è il loro momento?
«Ce ne sono parecchie. Le donne che ho avuto il piacere di avere in giunta sono adeguate a qualsiasi incarico politico e amministrativo. Poi, purtroppo, le valutazioni non si fanno sempre su serietà, professionalità e competenza. Io mi auguro che nel prossimo giro ci siano più donne in consiglio comunale, perché quello che si vede in questo consiglio è una vergogna assoluta. Tutte le volte che ho avuto la responsabilità di costruire squadre le donne ci sono sempre state, la presenza femminile è un assoluto valore aggiunto all’interno di un lavoro politico. Le donne sono più leali, meno chiacchierone, più sulla cosa. Se i consigli comunali fossero fatti solo di donne sarebbe centomila volte meglio».

Una volta che avrà concluso questa esperienza andrà a Milano a insegnare. Lascerà Venezia definitivamente?
«Mi sa che sarà difficile traslocare con 30mila libri. Dovrò restare qui per forza. A Milano avrò un appartamento, ma il trasloco definitivo sarà, temo, proibitivo».

Andrà in vacanza questa fine anno?
«No, devo scrivere una cosa per Bompiani. Starò a casa a lavorare, come faccio da 5 anni e come ho fatto per 10 anni in precedenza».
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA 
 da ilgazzettino.it


Titolo: Colloquio con Massimo Cacciari.
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:32:05 am
La Lega è una macchina da guerra

di Paolo Forcellini

Quello di Bossi è ormai è un partito nazionale. Insidioso per tutto il Paese. Parla l'ex sindaco.

Colloquio con Massimo Cacciari.
 
Sostenitori della Lega Nord festeggiano a Novara

Dopo una dozzina d'anni a Ca' Farsetti, Massimo Cacciari sta concludendo la sua 'cerimonia degli addii'. L'ormai ex primo cittadino di Venezia impacchetta libri e documenti ammassati sui tavoli del suo studio affacciato sul Canal Grande. Sindaco-filosofo 'rosso' in un Veneto verde-Lega, la sua riflessione sull'avanzata leghista viene da lontano - Cassandra inascoltata - e l'ultimo tsunami del Carroccio non l'ha stupito più che tanto. Ecco come lo spiega.

Quali sono le principali ragioni del successo leghista al Nord? La maggior capacità di raccogliere l'eredità della vecchia Dc, o quella di rappresentare un 'popolo' meno coinvolto dai processi di secolarizzazione o, ancora, un blocco sociale imperniato sulla piccola proprietà contadina?
"Le analisi fondate sulle specificità del radicamento territoriale, sulla composizione sociale, a suo tempo hanno messo in luce molte verità sulle origini 'storiche' del movimento. Ma oggi non sono più tanto utili a capire la valanga: si deve passare dalla sociologia alla forma politica e alla forma partito. Queste ultime elezioni, la conquista del Piemonte, lo sfondamento anche in Emilia e Toscana, ci segnalano soprattutto una cosa: il movimento di Bossi sta diventando un partito nazionale. Sullo zoccolo duro delle rivendicazioni secessioniste-autonomiste delle origini si è innestata una politica tipica da 'partito della paura', come ne esistono anche altrove, che fa leva su tutti i possibili elementi demagogici-populistici, presenti soprattutto in una fase di profonda crisi, e primo fra tutti la xenofobia".

Ma imprenditori e 'padroncini' del Nord fanno largo uso degli immigrati. Perché poi appoggiano la Lega?
"Loro vogliono degli schiavi, non dei lavoratori, e premiano il partito che, almeno a parole, promette di tenere il territorio in totale sicurezza".

Anche altri, nel centrodestra, si sono dedicati a solleticare i timori ancestrali della gente, ma con assai minore successo della Lega...
"Il Carroccio è anche una formidabile, tetra, macchina da guerra, ciò che non si può dire degli altri: è un esempio clamoroso di centralismo non democratico. E questo comporta grandi vantaggi politici: in un periodo di crisi si sposa con la richiesta di un redentore, di un salvatore, che viene da ampi settori della popolazione".

I più recenti successi, però, sembrano legati a una nuova generazione di leghisti, come Zaia o Cota, più che al carismatico Senatur.
"In realtà il centralismo staliniano ha funzionato benissimo anche per la selezione di una nuova classe dirigente scelta da Bossi fra i fedelissimi. Meglio se preparati, certo, ma il lìder maximo ha dato spesso prova di non pensarci due volte a liquidare quadri anche molto importanti per base elettorale ma con pretese autonome: la Liga Veneta insegna".

Ora che il Carroccio ha vinto il 'derby del centrodestra', ci saranno ripercussioni pesanti sul governo?
"La Lega diventa un formidabile concorrente per l'anima più tipicamente di destra del Pdl. Ma non possiamo dimenticare che in questo partito c'è anche un'ala liberale (che Galan ben rappresentava nel Veneto), un'altra che si richiama all'ex Dc e, infine, quella finiana che ha compiuto un'autentica evoluzione culturale ed è nettamente antagonistica ai leghisti. Non so prevedere come e quanto queste anime possano convivere: molto dipenderà dal Pd".

In che senso?
"Se il Pd non saprà giocare con spregiudicatezza dentro queste contraddizioni del centrodestra è probabile che esse non esploderanno. Prevarrà la pura volontà di preservare il potere che farà premio su idee e ideologie. Per far sì che questa volontà non metta un tappo alle contraddizioni della maggioranza, e per evitare che la Lega raggiunga anche in altre regioni le percentuali stratosferiche del Veneto, il Pd dovrà guardare al centro, con un progetto credibile e condivisibile per rifondare un Paese che va a rotoli, smettendola di flirtare con grillini, dipietristi e compagnia cantante. Ma sono poco ottimista: il partito di Bersani non è federalista, come ho per tanto tempo proposto, e non è neppure centralista. È un mero aggregato di opinioni che non sa parlare con gli individui in un mondo in cui la cultura individualista dilaga e la classe operaia, in quanto tale, non c'è più".

(31 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI Federalismo che bluff
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 10:57:42 pm
Federalismo che bluff

di Massimo Cacciari


Con i governi leghisti nessun beneficio è venuto a Regioni e Comuni del Nord
 
Nessun termine è stato in questi anni più umiliato e offeso dalla politica di 'federalismo'. Dopo una stagione, gli anni '90 del 'secolo breve', in cui la scena è stata condivisa tra chi lo intendeva come semplice 'decentramento' e chi lo propagandava come cavallo di Troia per micro-nazionalismi privi di ogni radice storica, oggi la pratica politica procede sempre più in una direzione che è l'esatto contrario di ogni promozione di autonomia, sussidiarietà, partecipazione. Proporzionalità inversa tra l'universale chiacchiera sul federalismo e i duri fatti della politica quotidiana. È questa la norma da 15 anni a questa parte. Peggio, si giunge perfino a criticare giustamente quella riduzione di federalismo a decentramento amministrativo, per andare anche su questo terreno a pratiche neo-centraliste. E nulla cambia, anzi: tutto peggiora, quando il 'centro' da uno si moltiplica per il numero delle Regioni, e mettiamoci pure delle Provincie, che, alla faccia dei 'federalisti' che ne invocavano l'abolizione, sono aumentate di numero e poteri.

Ma tutto, si narra, verrà risolto con le riforme di cui è gravida questa legislatura, e in particolarissimo modo col 'federalismo fiscale'. Lo slogan è certo buono: è evidente come non sia sostenibile uno squilibrio così impressionante tra i territori (anche all'interno del Nord!) nel dare e avere. È evidente come una così pessima distribuzione delle risorse penalizzi non solo le Regioni più ricche, ma tutto il Paese. Tutto giusto; peccato non si dica una parola sulle Regioni a statuto speciale, sulla sede dove affrontare e decidere le necessarie misure di solidarietà (senza le quali federalismo diviene l'opposto di foedus, di accordo, di patto, e si trasforma in una competizione anarchica tra diversi territori), su come distribuire, a questo punto, lo stesso onere del debito nazionale. Peccato, poi, non si veda, insieme a quello fiscale, anche l'aspetto demaniale. È tollerabile il persistere d'immense manomorte demaniali, civili e militari, in ogni città e angolo del Paese? Patrimoni che nessuno valorizza, o usati per costruirci aeroporti militari, come a Vicenza? Per rispondere alle prime domande rimane necessaria una vera e propria riforma costituzionale (istituzione di una Camera delle Autonomie; revisione radicale degli articoli riguardanti le competenze tra Stato, Regione e Comune), ma per la seconda basterebbe quella volontà politica, che non esiste.

E tuttavia federalismo non è affatto nella sua essenza fiscale-demaniale. Non è affatto questione di 'schei' o patrimoni, come piace di far credere a impenitenti statolatri. Ancor meno è rivendicazione egoistica per maggiori trasferimenti da parte di Regioni e Enti Locali. Il federalista non chiede benevole concessioni. Esige, invece, poteri effettivi e conseguenti piene responsabilità. È su questo terreno che il federalismo italiano ha fatto finora bancarotta: nel tentare, almeno, di armonizzare rappresentatività, responsabilità e poteri. Il principio-base del federalismo afferma che il potere politico deve articolarsi in una pluralità di centri, ognuno davvero autonomo, e cioè non derivato, avente in sé la fonte della propria legittimità, al fine di svolgere efficacemente funzioni specifiche, su materie dove non abbia altri 'concorrenti'. Di questo principio è stato fatto, e si continua a fare, semplicemente strame. A partire dalle modifiche del testo costituzionale, delle quali basterebbe la qualità letteraria a spiegarci dove siamo caduti rispetto ai Padri del '48.

All'Ente Locale è stata via via sottratta o limitata ogni autonomia impositiva, fino alla aberrazione totale della 'nazionalizzazione' dell'Ici; il rifiuto di istituire la possibilità di tasse di scopo, le assurde regole in materia di applicazione del patto di stabilità (per cui un Comune è bloccato anche nella spesa di risorse acquisite con la dismissione di propri cespiti); per non parlare delle norme nazional-giacobine che dettano ogni manovra nell'organizzazione delle risorse professionali interne (i Comuni non hanno voce in capitolo nella definizione dei contratti di lavoro), completano il desolante quadro.

Ma sono forse aumentati nel frattempo i poteri dell'Ente Locale nelle materie tradizionalmente di sua più stretta competenza? Esattamente l'opposto. Non vi è aspetto dei piani urbanistici, di mobilità, per la casa, ecc. dove un Comune non debba andare ai ferri corti con Ministeri, Regioni e Province.

Il guasto di questa situazione non è economico, è sociale e culturale. Essa de-responsabilizza, premia quelle istituzioni 'specializzate' nel distribuire e non nel 'conquistare' risorse, massacra il principio fondamentale del nesso tra rappresentatività e tassazione. E così procedendo moltiplica localismi, egoismi, risentimenti, frustrazione. Essa è il frutto di una cultura politica mille leghe lontana da ogni autentica idea federalista. Alla faccia dei Trentin, degli Spinelli, ma anche degli Einaudi, degli Sturzo, ma anche dei Miglio. Nella Lega 'di lotta e di governo' la componente ideologico-identitaria è ormai prevalente su ogni forma di 'sindacato di territorio', e ciò spiega perché nessuna denuncia del fatto che anche durante i governi a partecipazione leghista nessun beneficio sia venuto per Regioni e Comuni del Nord non provochi alcuna crisi nel suo corpo elettorale. Il federalismo funziona da 'sol dell'avvenire' e intanto, nel suo triste presente, annaspa il fondamento stesso della vita e della cultura del Paese, come tutti i grandi storici hanno sempre riconosciuto: la città - la città italiana, città-regione, città-territorio, individualità universale.

(10 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/federalismo-che-bluff/2126689/18/1


Titolo: MASSIMO CACCIARI Italiani cinici egoisti
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2010, 05:11:46 pm
Italiani cinici egoisti

Massimo Cacciari

Dopo due secoli di tentativi più diversi e contrapposti, e oggi sull'orlo di una decadenza irreversibile, sapranno dar vita tra loro a un nuovo patto fondamentale?
 

Per una celebrazione non convenzionale dell'anniversario dell'unità consiglierei la distribuzione gratuita nelle scuole di ogni ordine e grado del "Saggio sopra lo stato presente dei costumi degli italiani" di Giacomo Leopardi. Non perché anche adulti e vecchi non abbiano bisogno di questa filosofia "dolorosa ma vera", ma perché nel loro caso le chiacchiere decennali sulla perversità delle élites politiche contrapposta ad una quasi naturale inclinazione della "società civile" verso il bene comune hanno prodotto, temo, guasti mentali irrimediabili.
È vero che in Italia non si sono formate "famiglie" intellettuali-politiche, ambiziose certo, ma ancor più gelose della propria onorabilità e della stima che essa gode, capaci di formare quell'ethos condiviso, quel senso civico su cui storicamente si fondano i grandi governi nazionali. Ma ciò è il prodotto, appunto, dei costumi degli italiani, l'effetto inevitabile del loro non essere un popolo, ma soltanto un aggregato di individui.
L'Italia è un'astrazione, un desiderio, non un fatto, diceva Gioberti nel "Primato" (1842-1843). Leopardi lo aveva già analizzato, col suo coltello dell'anatomico, vent'anni prima. Gli italiani sono autori e attori protagonisti nella "strage delle illusioni" che costituisce il tratto dominante della cultura moderna.

Ma se ridiamo di onore, virtù, bene comune, senso della vita, come potremmo mai formare una società? Se nulla si considera degno di rispetto, di nulla si ha vergogna, se ciascuno cerca di fare degli altri "uno sgabello a se stesso", se il "conversare" che è il mezzo con cui altrove ci si intende o almeno fraintende, qui è strumento che moltiplica l'odio e la disunione, come pensare a un'Italia che sia foedus, autentico patto tra genti, solidali pur nei loro distinti interessi e animati da comuni finalità?

Assolutamente impossibile, ci avvisa il nostro massimo poeta-pensatore del Moderno. Nessuna legge calata dall'alto, nessuna "costituzione donata"(ammesso che miracolosamente si formasse un'élite politica capace di esprimerla) potrebbe trasformare la situazione, poiché: "quid leges sine morbus?", che cosa possono valere le leggi senza ethos condiviso?
Al più, gli italiani hanno abitudini, "assuefazioni" - ma anche queste coltivate con sostanziale indifferenza o con cinico disincanto. I duri fatti, mille volte più duri della dura lex, dimostrano che i "leganti sociali" sono illusioni, che ogni individuo tende a far centro da sé, che l'esercizio della virtù e del dovere non porta alcun frutto, che stima e fama di cui uno gode sono refoli di vento, dagli effetti passeggeri quanto quelli di un sondaggio. Gli italiani sanno il "nudo vero"; sono individui disingannati. E perciò mai un popolo, tantomeno una Nazione.
Non resta che essere "filosofi" e così ragionare? O proprio perché così "filosofi" gli italiani sapranno, dopo due secoli di disfatte dei tentativi più diversi e contrapposti di essere popolo, e di nuovo oggi sull'orlo di una decadenza irreversibile, capire il proprio stesso interesse, cercare finalmente di essere "virtuosi" abbastanza da affrontare insieme una fase costituente, di dar vita tra loro a un nuovo patto fondamentale?

Così intelligenti nell'analizzare, nel negare, nell'irridere e disprezzare, lo saranno anche nel costruire con disincanto e realismo un foedus tra loro, capace di salvarli da annunciate catastrofi?
Non c'è filosofo che non cada a volte preda dell'illusione. E neppure Leopardi rinuncia sempre alle cieche speranze.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/italiani-cinici-egoisti/2127983/18


Titolo: MASSIMO CACCIARI Tramonto sull'Europa
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 06:18:28 pm
Tramonto sull'Europa

Massimo Cacciari

Comprendere il senso del proprio declino può essere l'inizio di una nuova fase
(18 giugno 2010)

Parlamento europeo a Bruxelles Parlamento europeo a BruxellesNulla è più sterile del lamento sul tramonto politico d'Europa. Eppure, ad ogni occasione, ecco che puntualmente ci tocca riascoltarlo: che si tratti delle vere tragedie, dai Balcani all'Iraq, dall'Afghanistan alla apocalisse medio-orientale, oppure del "governo" dell'economia mondiale, o più semplicemente dell'efficacia dei provvedimenti adottati per affrontare la crisi che attraversiamo. L'Europa sembra non poter essere altro che un compito, o forse un desiderio. Un eterno futuro. Immagine da cui difficilmente trarranno consolazione i milioni di giovani precarizzati cronici e disoccupati. Sperare nell'impossibile genera in faccende mondane soltanto delusione e frustrazione. Una modesta dose di realismo storico può invece, a volte, offrire motivi di sobria fiducia.

Anzitutto andrebbe ricordato che il "tramonto" di Europa rappresenta il compimento della sua stessa energia universale, "centrifuga".

I principi della razionalità europea sono ora quelli dominanti il pianeta, che ciò piaccia o meno. Si tratta di una prova eclatante del fatto che solo allorché tramonta si può comprendere nella sua pienezza e compiutezza una forma di vita. L'Europa non può scegliere se tramontare o meno, ma come. Se continuando ad aspirare a impraticabili egemonie o primati, smarrendosi così in vane retoriche, oppure, consapevole dei suoi limiti "epocali", dei suoi destinati confini, definendo obiettivi concretamente perseguibili, costruendo norme "economicamente" indirizzate alla soluzione dei problemi, assetti istituzionali e organizzativi coerenti con essi, e magari meno dispendiosi delle attuali mega-galattiche burocrazie. Costituzioni, leggi fondamentali, che siano degne di questo nome, nostalgie per grandi Stati federali, possono aspettare (e aspetteranno, di fatto, sine die); politiche comuni di bilancio, politiche fiscali comuni, un welfare decentemente omogeneo, no. Altrimenti non tramonteremo, ma spariremo. L'Europa "grande politica" è finita per sempre suicidandosi attraverso due guerre mondiali. E passando il testimone ai due Titani usciti dal suo grembo. Fratelli assolutamente rivali, in tutto, come mitologia e storia europee esigono. Alla fine ne è rimasto uno; Titano solitario, e dunque non più tale. Combattuto da chi Titano non è e sa di non esserlo, e perciò capace di armi che il Titano superstite ignora e non riesce a sconfiggere. Così il mondo ci appare, come a Amleto, "fuori ordine". I padri che lo reggevano sono diventati spettri. E noi europei invochiamo "imperi" che non potranno mai più esistere - temendo, insieme, di dovervi obbedire, non appena si profila il remoto pericolo che possano realizzarsi.

I "padri fondatori" della (cosiddetta) unità europea ragionavano diversamente. Sapevano di costruire su una sconfitta irreversibile. Dopo gli estremi, tragici sogni egemonici essi avevano saggiamente fatto ritorno, senza magari saperlo, alle amare profezie di tanti grandi dell'Ottocento. Stati e staterelli europei non potevano più garantire né sviluppo né sicurezza e stabilità sociali. Essi erano divenuti economicamente insostenibili. Doveva formarsi una realtà economica unitaria, sotto la spinta irresistibile dei traffici e commerci mondiali. Già il solo denaro costringeva l'Europa a stringersi insieme. Fine della parafrasi: frammento del 1885 di Nietzsche. Questa era la lezione che sarebbe stato necessario apprendere all'epoca della "globalizzazione" fine secolo, belle époque! Ma i buoni filosofi erano considerati cattivi maestri anche allora...

Così siamo giunti a comprendere quel "già il solo denaro..." un secolo dopo, ma ancora non vogliamo o non riusciamo a declinarlo in modo efficace, ancora lo mescoliamo con ideologie e volontà di potenza d'accatto. Ancora pretendiamo di ergerci a modelli di vita regolata da norme razionali, a campioni di eticità, ancora pensiamo il mondo a nostra immagine e collaboriamo perfino a guerre pur di "esportarla". Nel frattempo lasciamo "il solo denaro" solo per davvero, e cioè incapace, come è per natura, di auto-regolare i meccanismi della sua circolazione e distribuzione. Altri colossi si affermano che, invece, sembrano poterli amministrare con grande decisione, magari "liberi" da quelle forme di parlamentarismo e divisione democratica dei poteri, che l'Europa ha inventato e stenta tremendamente a riformare - unico modo di salvarle. Colossi che pur avendo ereditato, come ho detto, la forma della razionalità tecnico-scientifica e dell'organizzazione burocratica dell'Occidente, non sono figli della sua storia, e può darsi quindi non debbano condividerne il destino.

Comprendere il senso del proprio tramontare può essere l'inizio di una nuova fase, fatta di ospitalità di energie nuove, ricerca di collaborazione fondata su amicizia e reciproco riconoscimento, ma soprattutto concentrazione dell'intelligenza sulle risorse materiali, economiche, finanziarie in grado di realizzare quella reale, concreta unità d'Europa, già matura, per gli "illuminati", un secolo e mezzo fa. E questo discorso vale forse ormai anche per la grande isola d'oltre Oceano. Quando Roma lo comprese riuscì a durare, nient'affatto male in fondo, per tre secoli ancora.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tramonto-sulleuropa/2129192/18


Titolo: MASSIMO CACCIARI Su Cesare cala il sipario
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 05:07:41 pm
Su Cesare cala il sipario

di Massimo Cacciari

Con la crisi del Pdl e del Pd a prosperare è la Lega, l'unica novità della politica italiana

(30 luglio 2010)

Tutti in attesa delle Idi di marzo. Timori e tremori degli uni forse altrettanto ciechi delle speranze degli altri. Poiché nessun Cesare c'è mai stato, e anche se vi fosse non mi sembra di scorgere all'orizzonte i Bruto e i Cassio. Cesare è auctoritas, capacità di inaugurare, potere costituente. Questo potere è mancato a tutti i soggetti della politica italiana usciti dal formidabile "combinato disposto" della fine della guerra fredda e della catastrofe di Tangentopoli. È mancato del tutto anche a chi ha saputo occupare il vuoto che quella grande crisi provocava, apparecchiando in tempi rapidissimi un confortevole domicilio a tanta parte della vecchia classe politica e al suo elettorato. Ma sulla "nuova"casa l'immagine vincente non era certo quella di una "rivoluzione conservatrice" alla Thatcher, ma dell'atavica paura di una sinistra al potere egemonizzata dai comunisti.

Defunti ovunque come movimento politico, resuscitati da noi come immortale fantasma. E funzionò. Ma fu conservazione e basta. Fu lotta per conservare posizioni di potere acquisite e altre, se possibile, aggiungerne. Potestas sine auctoritate. In assenza di Cesare, chi ne ha recitato la parte ha potuto alla fine prevalere, proprio perché di decisioni vi era bisogno dopo la svolta d'epoca del '90 - e chi ha finto di saperle assumere è stato premiato rispetto a chi riusciva a esprimere solo ragionevoli timori e senili inviti alla prudenza.
Ma ogni commedia ha un epilogo. Per quanto abile sia l'attore a "in-cantare", giunge un momento in cui lo spettatore si risveglia e prende coscienza che quelle promesse, quelle lacrime, quella energia erano scena. Sia chiaro, il bravo attore si è nel frattempo realmente immedesimato nella sua parte. È davvero doloroso per lui abbandonarla. L'applauso finale può essergli penoso quanto i fischi. Fine di partita. Ho l'impressione che siamo giunti a questa fine. Ho l'impressione che la coscienza che Berlusconi non solo non sia, ma neppure avrebbe potuto essere l'innovatore della politica italiana sia ormai diffusa anche nell'opinione pubblica di centrodestra.

La sua cultura, la sua forma mentis, il suo stesso stile appartengono inesorabilmente a un mondo di ieri, a paradigmi politici sclerotizzati nelle arcaiche dicotomie destra-sinistra, a un gusto strapaese fatto di barzellette, sport e avventure galanti. L'immagine dell'Auctor si corrode ogni giorno di più. Non dovrebbero occorrere Bruti e Cassi per tirare il sipario. Forse basterebbe un'intelligente opposizione, capace di manovrare con tempestività, di indicare alcuni obiettivi propri, autonomi rispetto all'agenda dettata dal re ormai seminudo.
 
Ma questa opposizione è altrettanto rotta al suo interno del Pdl, e sembra appassionarsi soltanto di primarie in famiglia e candidature alle stesse. È un'opposizione, per esser benevoli, puramente parlamentare. Sradicata dai movimenti di protesta nella scuola, tra i giovani, nell'associazionismo di ogni tipo massacrato dalle ultime finanziarie. E sradicata da Milano a Venezia a Trieste, dal cuore economico e culturale del Paese. Ma proprio da questi territori potrebbe riprendere l'iniziativa. È qui infatti che la "insofferenza" di ampi settori del Pdl nei confronti dell'egemonia leghista cui sono condannati dalla stessa strategia berlusconiana, può trasformarsi da lamento in fatto politico.

Questa "insofferenza" ha già ragioni profonde, una sua storia, suoi nomi. Ma mai potrà dar vita a un vero "laboratorio politico" se da parte del Pd non si inaugura (auctoritas di nuovo!) una stagione caratterizzata dal più forte, inequivoco impegno sui temi del federalismo e della riforma del welfare, e non si dichiara esplicitamente che le vecchie contrapposizioni Stato-mercato, pubblico-privato, destra-sinistra raccontano una storia che non ci riguarda più. La crisi dei due "blocchi" Pdl-Pd non è il prodotto di contrasti interni, ma di un'intera cultura politica, sia "di destra" che "di sinistra", che aveva pensato ad un riassetto del sistema italiano sulla base appunto del vecchio discrimine: una destra tutta-mercato, tutta-liberista, che avrebbe dovuto essere rappresentata dal Pdl, e una sinistra più-Stato, anti-individualista, ecc, "pascolo" del Pd. La crisi mondiale ha fatto saltare in aria questa "narrazione". Chi l'ha intuito, da una parte, è stato forse Tremonti.

Dall'altra, molti ne parlano - e nessuna decisione ne segue, in attesa che maturi la crisi in casa altrui, come se essa non fosse l'altra faccia della propria. Così prospera l'unica novità, piaccia o no, della politica italiana degli ultimi 20 anni, cioè la Lega. L'unico partito in grado di condurre una politica d'assalto spregiudicata, almeno finché durerà l'Ordine bossiano. Ma partito assolutamente inidoneo ad aprire la fase costituente, di cui due crisi epocali ('89-90 e crack del liberismo selvaggio 2007) avrebbero dovuto suggerire almeno l'opportunità. Il territorio della Lega è il locale soltanto, non lo spazio dove, anche drammaticamente, si interconnettono e confliggono i movimenti universali di merci, denaro, uomini. Ma questo è lo spazio politico, oltre lo stesso Stato, che è necessario oggi prepararsi a governare. È per ordinarlo che si esige quella nuova fase costituente. Così pare che nessuno dei soggetti in campo sia in grado di rappresentarla. Ma una certezza cresce: che meno di tutti lo possa il nostro Cesare-attore.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/su-cesare-cala-il-sipario/2131638/18/1


Titolo: MASSIMO CACCIARI Governi istituzionali fuori da ogni logica. Solo Chiamparino...
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2010, 07:45:15 pm
Cacciari al Sole.com: «Governi istituzionali fuori da ogni logica. Solo Chiamparino può salvare il Pd»

di Sara Bianchi

Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2010 alle ore 19:16.


La fine del bipolarismo? «In politica tutto può riprendersi, ricominciare. Ma certamente la forma bipartitico-bipolare che sembrava dover assestare il sistema politico italiano, è crollata». Massimo Cacciari vede nel Pdl e nel Pd due crisi complementari e considera le ipotesi di governi istuituzionali «fuori da ogni logica». La Lega? «Si rafforzerà e si rivelerà l'anello debole del berlusconismo». Nel Pd le cose potrebbe migliorare solo con Sergio Chiamparino, l'unico leader «capace di rappresentare una prospettiva nazionale che si attua anche regionalmente».

Dopo la rottura tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, dice Cacciari «quella formula centrata sui due partiti - Pdl e Pd - non regge, perché nè il Pdl nè il Pd sono riusciti a trovare una omogeneità culturale e politica interna sufficiente a garantire prospettive di governabilità. Anche se il bipolarismo italiano era fasullo. Il Pdl poteva governare soltanto con un'alleanza con la Lega, una forza politica largamente estranea alle matrici del centrodestra e il Pd doveva appoggiarsi a un'altra forza politica, l'Idv di Di Pietro, altrettanto estranea alle matrici socialdemocratiche e cattolico-liberali del centrosinistra. Quindi il bipolarismo vero e proprio non c'è mai stato, faceva piuttosto pensare a due grandi partiti che alla lunga egemonizzassero i loro alleati. Invece siamo andati nella prospettiva esattamente opposta e i grandi partiti sono saltati per aria».

Quindi vede anche la strada del Pd sempre più in salita?
«Ora tutto si gioca nel Pdl perché loro sono al governo, come all'epoca del governo Prodi tutto si giocava all'interno dell'area di centrosinistra. Il paese è interessato a chi governa più che a chi fa l'opposizione. Ma quella del Pdl e quella del Pd sono due crisi complementari. E hanno ragioni identiche: nessuno dei due è un partito. Il primo è una pseudo società, una pseudo azienda. L'altro non è riuscito minimamente a trovare una destinazione comune, sono scatolette giustapposte, ogniuna con la propria rendita, la propria tradizione».

Crede che andremo più facilmente incontro a elezioni anticipate o a governi istituzionali?
«Governi istituzionali sono fuori da ogni logica, perché Berlusconi non accetterà mai di passare tranquillamente il testimone, per esempio a Tremonti. Bisogna ignorarne psicologia, carattere, storia, per pensarlo. È un'utile provocazione quella proposta da Casini e da altri, ma non si farà mai. Quando questa maggioranza venisse meno Berlusconi cercherà in tutti i modi di andare a elezioni anticipate. E con il porcellum significa che Berlusconi, con il 30%, insieme alla Lega, farà l'amplein. Quindi perché mai dovrebbe cedere all'ipotesi di governi di transizione? Non ha senso pensarlo».


Quanto vede vicina questa possibilità?
«Silvio Berlusconi farà di tutto per andare a elezioni anticipate, ma deve stare attento. Se all'opinione pubblica risultasse troppo evidente il suo interesse ad andare al voto allora pagherebbe un forte dazio. Credo che cercherà le elezioni anticipate ma con la possibilità di darne la colpa a Gianfranco Fini, come se lui fosse il tradito. È quello che ha già fatto nel 2001 con risultati notevoli. Perciò l'opposizione deve stare attenta a non cadere nei trappoloni dei Di Pietro, dei Vendola, perché in caso di ricorso alle urne rivincerà Berlusconi».

Udc, Api, finiani e Mpa si sono incontrati e hanno deciso di comune accordo l'astensione sulla mozione di sfiducia dell'opposizione a Giacomo Caliendo. Come valuta questo passaggio?
«Positivamente. È chiaro che queste forze di centro dovranno trovare un'intesa che vada al di là della contingenza attuale, anche in prospettiva elettorale. Dovranno trovare una forma di convivenza culturalmente e politicamente potabile, che non possa essere tacciata di trasformismo. Cercare un'intesa per queste forze è una prospettiva obbligata. Perché in politica alcune cose si scelgono, altre sono stati di necessità e non si discutono».

Torniamo a Berlusconi. Allo stato attuale la compatezza con la Lega non sembra in discussione.
«Questo non è detto. La Lega potrebbe essere invogliata ad andare a elezioni anticipate perché così disfa il Pdl al Nord. È miracolosamente immune da ogni tempesta giudiziaria e al Nord potrebbe avere un successo ancora più clamoroso di quello delle regionali. E poi ha interesse ad appoggiare Silvio Berlusconi, ma fino a un certo punto. Se vedesse che non riesce a portare a casa il federalismo fiscale, potrebbe trasformarsi nell'anello debole del berlusconismo. Ora è l'anello forte, ma Bossi è un animale politico vero e spregiudicato e non ci metterebbe nulla a mollare Berlusconi. Quella di Bossi è una politique d'abord al 1000 per cento. Al di là del giudizio sulla Lega, si tratta di una prospettiva molto pericolosa, non so se comprendiamo cosa significherebbe un Nord con la Lega al 40 per cento. È una forza ancora limitata territorialmente e che non ha mai abbandonato le sue idee di autonomia e di riassetto radicale del paese, anzi prende voti perché mantiene queste idee. Lo scenario non sarebbe piacevole nè per il Pdl nè per il Pd. Mi auguro che sia nel centrodestra che nel centrosinistra ci siano persone che ragionano, come nel mio Veneto si era messo a ragionare Galan».

Non vede il Pd preparato a una sfida di questo genere...
«Temo che il Pd che sognavo e per cui ho cercato di lavorare sia qualcosa che ormai non possa più nascere. Ormai la sua immagine, e in politica le immagini contano eccome, è quella di una forza di ispirazione sostanzialmente socialdemocratica, che guarda dal punto di vista politico-culturale a sinistra. Quindi la sua possibilità di rafforzarsi come partito nazionale di centrosinistra è molto limitata. Certo, tutto può accadere, ma non vedo segni di resipiscenza. Non vedo grandi iniziative programmatiche per caratterizzare il partito sui temi delle politiche sociali e delle politiche occupazionali. Credo che Sergio Chiamparino abbia ragione nel denunciare questa persistente assenza di strategia soprattutto sulla questione settentrionale. Se emergesse finalmente, cosa che auspico da due anni, una candidatura Chiamparino le cose potrebbero migliorare. Ma le mie speranze sul Pd sono ridotte al lumicino».

Ripercorriamo la sua idea del Pd al Nord?
«Il Pd al Nord non è un Pd da solo, è un Pd che nazionalmente fa propria una strategia federalista coerente e radicale, una visione del welfare che superi ogni nostalgia pubblicistico-statalista e che si organizzi in modo federale al suo interno dandosi una forte autonomia, una caratterizzazione assolutamente autonoma nelle regioni settentrionali. L'unico leader che potrebbe rappresentare questa prospettiva, che è una prospettiva nazionale che poi si attua anche regionalmente, ma resta una prospettiva nazionale, è Sergio Chiamparino».

A Milano si avvicina la sfida delle amministrative ma il Pd sembra un po' indietro
«È indietro perché stanno ragionando, non perché non sanno cosa fare. Hanno capito che una candidatura targata Pd non potrebbe essere in alcun modo vincente e stanno riflettendo per vedere di vincere, non soltanto di testimoniare. Per il momento la candidatura di Giuliano Pisapia è tutt'altro che una cosa negativa. È una candidatura di sinistra che non vincerà mai a Milano, e Pisapia lo sa meglio di chiunque altro perché è una persona intelligente, ma motiva un largo settore di elettorato di sinistra e non solo. È una candidatura buona, di un uomo assolutamente stimato. Si potrebbe andare alle primarie con un candidato più di centro, per usare i vecchi schemi, un candidato di grande spessore, alternativo alla Moratti. Si potrebbero fare delle belle primarie, come è stato a Venezia tra il candidato da me sostenuto e un candidato di sinistra altrettanto rappresentativo e stimato di Pisapia, Gianfranco Bettin. Perciò le cose apparentemente sono in stand by ma in realtà stanno maturando bene».

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-08-03/cacciari-lega-pronta-tradire-185045.shtml?uuid=AYstulDC


Titolo: MASSIMO CACCIARI Addio coalizioni meglio i partiti che poi si alleano
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2010, 10:38:16 am
Cacciari: «Addio coalizioni meglio i partiti che poi si alleano»

di Oreste Pivetta

Massimo Cacciari, dopo il voto pro o contro Caliendo e l’astensione di Fini Casini Rutelli, in Italia dobbiamo dare l’addio al bipolarismo come alcuni commentatori hanno sentenziato?
“Ma il bipolarismo in Italia non è mai nato. Lo si è visto subito. Lo si è visto quando Berlusconi per vincere nel ‘94 s’è dovuto appoggiare alla Lega, perdendo appena se ne è separato o, meglio, Bossi si è separato da lui. Lo si è visto dal percorso del post Pci.
Che cosa hanno fatto gli eredi del Pci se non cercare per governare alleanze e unioni con qualche centro o con una certa sinistra, come dimostra l’esperienza, fallimentare, dell’Ulivo”.

Fallimenti tanti, certo. Comunque adesso siamo arrivati al Partito democratico, uno dei due poli… O no?
“Ho dato l’anima per costruire il partito democratico. Quindici anni. Ma ho di fronte agli occhi solo vecchi centri e vecchie sinistre.
In politica occorre realismo e con realismo dobbiamo rassegnarci a constatare che l’esperimento proprio non funziona. Ho dato l’anima perché si costruisse qualcosa che si presentasse con una destinazione comune. Invece ho trovato soltanto quattro mura in comune che rischiano di saltar per aria. Prima del litigio devastante, che significherebbe l’annientamento elettorale, meglio separarsi, chi da una parte chi dall’altra”.

Ma così si torna davvero al passato, a una incomprensibile geografia di partiti e partitini.
“Ci siamo già, dopo l’esplosione del Pdl berlusconiano e con la crisi del Pd. Diciamo che viviamo una situazione di grande dinamismo e che il dinamismo è segno di vita. Ma la mia sensazione è che tutto questo gran movimento ci porti… verso il vecchio. Tuttavia, anche se il vettore sembra essere ancora il particolarismo, vi sono novità. Una è rappresentata da Fini, che davvero ha vissuto e sta vivendo una profonda trasformazione politica e che cerca di costruire una moderna destra europea. Mentre il mare è mosso, per il Pd sarebbe il momento di trarre qualche conclusione: che, ad esempio, esiste in Italia una forte tradizione socialista e socialdemocratica che potrebbe tranquillamente allearsi con espressioni di cultura cattolica e liberale, mentre è assurdo illudersi di trovare una sintesi tra storie tanto diverse. Sarebbe rovinoso stare a dilaniarsi sulla candidatura di Vendola o di qualcun altro, impegnarsi in primarie, per dire come siamo stati bravi a organizzare le primarie, come se le primarie bastassero a sanare i dissidi. Ciascuno vada per la sua strada e peschi voti dove può e dove sa, lasciando alla componente cattolica il compito di cercare al centro, come è in grado benissimo di fare, soprattutto approfittando di questo momento di dinamismo, si diceva, di turbolenza, di rotture. Così è. Punto. È evidente. Bene, bene, bene: prendere atto”.

Perché, secondo lei, questo fallimento nostro e, permetta, anche suo?
“Perché nessuno s’è rivelato all’altezza del discorso…”.

Si fa l’autocritica?
“Mi faccio tutte le autocritiche del mondo. Ma il problema è che la politica non è fatta di buone idee, ma è fatta di buone pratiche.
D’Alema docet. Aveva i suoi dubbi e ha assistito all’avverarsi dei suoi dubbi per dire poi che aveva ragione lui. Rutelli e Fassino ci credevano, invece, ma probabilmente non erano all’altezza. Si arriva alla conclusione: se sei costretto a convivere con chi non sopporti, finisce a coltellate, quindi meglio separarsi al più presto... Il Pd eviterebbe guai maggiori e soprattutto potrebbe godere degli spazi politici enormi che si aprono, come ha ben capito Berlusconi che vorrebbe arrivare al più presto alle elezioni, infatti”.

Salvo poi ripensare ad una alleanza. Ma ci si allea contro Berlusconi o ci si allea per realizzare alcuni di obiettivi di un programma?
“Per amor di Dio, lasciamo stare Berlusconi. Fossi stato Prodi al governo avrei subito fatto approvare una legge di un solo articolo, semplicissimo, che avrebbe dovuto affermare: Berlusconi è innocente. Basta con questo pazzesco intoppo. Liberiamoci dall’ossessione di Berlusconi. Per vincere, impegniamoci su occupazione, giovani, scuola. Affrontiamo un serio discorso sul federalismo, come finora non s’è neppure tentato. Costruiamo insomma l’unità programmatica e lasciamo a ciascuno la sua tradizione. Per quanto ci riguarda diamoci una bella organizzazione di partito che rispetti la voglia di autonomia che la realtà sociale e politica e culturale esprime”.

Addio poli, si torna alla frammentazione da prima repubblica.
“D’altra parte mi sembrano impensabili coalizioni, pure di già vaneggiate, Fini-Pd o Casini-Fini-Pd”.

Cioè divisi, per costruire sane alleanze programmatiche in vista delle elezioni?
“Facendo politica, altrimenti continuando tra gli scandali e una opposizione troppo debole si porta solo acqua al mulino della Lega.
Che rischia di dilagare, guadagnando al centro. E non solo nelle sue zone tradizionali: anche in Emilia e in Toscana e via…”.

Di fronte alle difficoltà di Berlusconi, con una possibile crisi di governo, con il rinvio del federalismo fiscale, non ci potrebbe attendere un altro ribaltone della Lega?
“Ci si può aspettare di tutto, anche un ribaltone della Lega quando il re del federalismo fiscale sarà completamente nudo, quando i leghisti si accorgeranno di aggirarsi solo tra i fantasmi di un federalismo autentico. Per ora aspettano”.

Potremmo misurare un’altra novità elettorale: i grillini in campo. Riusciranno i grillini a sottrarre voti alla sinistra come è successo alle regionali?
“Non credo. Con il sistema elettorale in corso o con un sistema che preveda uno sbarramento abbastanza alto. Un conto è guadagnare un consigliere locale. Un altro è entrare in Parlamento. Comunque dipende dalla sinistra o dal centro sinistra: dalla voglia di far politica”.

08 agosto 2010
http://www.unita.it/news/italia/102189/cacciari_addio_coalizioni_meglio_i_partiti_che_poi_si_alleano


Titolo: MASSIMO CACCIARI La commedia del premier è giunta all'epilogo.
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 08:44:24 am
Dopo B., la paura del vuoto

di Massimo Cacciari

La commedia del premier è giunta all'epilogo.

Ma il Pd è ancora senza strategia. E l'unico partito forte rimasto in campo è la Lega

(30 luglio 2010)

Tutti in attesa delle Idi di marzo. Timori e tremori degli uni forse altrettanto ciechi delle speranze degli altri. Poiché nessun Cesare c'è mai stato, e anche se vi fosse non mi sembra di scorgere all'orizzonte i Bruto e i Cassio. Cesare è auctoritas, capacità di inaugurare, potere costituente. Questo potere è mancato a tutti i soggetti della politica italiana usciti dal formidabile "combinato disposto" della fine della guerra fredda e della catastrofe di Tangentopoli. È mancato del tutto anche a chi ha saputo occupare il vuoto che quella grande crisi provocava, apparecchiando in tempi rapidissimi un confortevole domicilio a tanta parte della vecchia classe politica e al suo elettorato. Ma sulla "nuova"casa l'immagine vincente non era certo quella di una "rivoluzione conservatrice" alla Thatcher, ma dell'atavica paura di una sinistra al potere egemonizzata dai comunisti.

Defunti ovunque come movimento politico, resuscitati da noi come immortale fantasma. E funzionò. Ma fu conservazione e basta. Fu lotta per conservare posizioni di potere acquisite e altre, se possibile, aggiungerne. Potestas sine auctoritate. In assenza di Cesare, chi ne ha recitato la parte ha potuto alla fine prevalere, proprio perché di decisioni vi era bisogno dopo la svolta d'epoca del '90 - e chi ha finto di saperle assumere è stato premiato rispetto a chi riusciva a esprimere solo ragionevoli timori e senili inviti alla prudenza. Ma ogni commedia ha un epilogo. Per quanto abile sia l'attore a "in-cantare", giunge un momento in cui lo spettatore si risveglia e prende coscienza che quelle promesse, quelle lacrime, quella energia erano scena. Sia chiaro, il bravo attore si è nel frattempo realmente immedesimato nella sua parte. È davvero doloroso per lui abbandonarla. L'applauso finale può essergli penoso quanto i fischi. Fine di partita. Ho l'impressione che siamo giunti a questa fine. Ho l'impressione che la coscienza che Berlusconi non solo non sia, ma neppure avrebbe potuto essere l'innovatore della politica italiana sia ormai diffusa anche nell'opinione pubblica di centrodestra.

La sua cultura, la sua forma mentis, il suo stesso stile appartengono inesorabilmente a un mondo di ieri, a paradigmi politici sclerotizzati nelle arcaiche dicotomie destra-sinistra, a un gusto strapaese fatto di barzellette, sport e avventure galanti. L'immagine dell'Auctor si corrode ogni giorno di più. Non dovrebbero occorrere Bruti e Cassi per tirare il sipario. Forse basterebbe un'intelligente opposizione, capace di manovrare con tempestività, di indicare alcuni obiettivi propri, autonomi rispetto all'agenda dettata dal re ormai seminudo. Ma questa opposizione è altrettanto rotta al suo interno del Pdl, e sembra appassionarsi soltanto di primarie in famiglia e candidature alle stesse. È un'opposizione, per esser benevoli, puramente parlamentare. Sradicata dai movimenti di protesta nella scuola, tra i giovani, nell'associazionismo di ogni tipo massacrato dalle ultime finanziarie. E sradicata da Milano a Venezia a Trieste, dal cuore economico e culturale del Paese. Ma proprio da questi territori potrebbe riprendere l'iniziativa. È qui infatti che la "insofferenza" di ampi settori del Pdl nei confronti dell'egemonia leghista cui sono condannati dalla stessa strategia berlusconiana, può trasformarsi da lamento in fatto politico.

Questa "insofferenza" ha già ragioni profonde, una sua storia, suoi nomi. Ma mai potrà dar vita a un vero "laboratorio politico" se da parte del Pd non si inaugura (auctoritas di nuovo!) una stagione caratterizzata dal più forte, inequivoco impegno sui temi del federalismo e della riforma del welfare, e non si dichiara esplicitamente che le vecchie contrapposizioni Stato-mercato, pubblico-privato, destra-sinistra raccontano una storia che non ci riguarda più. La crisi dei due "blocchi" Pdl-Pd non è il prodotto di contrasti interni, ma di un'intera cultura politica, sia "di destra" che "di sinistra", che aveva pensato ad un riassetto del sistema italiano sulla base appunto del vecchio discrimine: una destra tutta-mercato, tutta-liberista, che avrebbe dovuto essere rappresentata dal Pdl, e una sinistra più-Stato, anti-individualista, ecc, "pascolo" del Pd. La crisi mondiale ha fatto saltare in aria questa "narrazione". Chi l'ha intuito, da una parte, è stato forse  Tremonti. Dall'altra, molti ne parlano - e nessuna decisione ne segue, in attesa che maturi la crisi in casa altrui, come se essa non fosse l'altra faccia della propria. Così prospera l'unica novità, piaccia o no, della politica italiana degli ultimi 20 anni, cioè la Lega. L'unico partito in grado di condurre una politica d'assalto spregiudicata, almeno finché durerà l'Ordine bossiano. Ma partito assolutamente inidoneo ad aprire la fase costituente, di cui due crisi epocali ('89-90 e crack del liberismo selvaggio 2007) avrebbero dovuto suggerire almeno l'opportunità. Il territorio della Lega è il locale soltanto, non lo spazio dove, anche drammaticamente, si interconnettono e confliggono i movimenti universali di merci, denaro, uomini. Ma questo è lo spazio politico, oltre lo stesso Stato, che è necessario oggi prepararsi a governare. È per ordinarlo che si esige quella nuova fase costituente. Così pare che nessuno dei soggetti in campo sia in grado di rappresentarla. Ma una certezza cresce: che meno di tutti lo possa il nostro Cesare-attore.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Silvio si batte con l'Ulivo e il terzo polo
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2010, 04:00:49 pm
L'INTERVISTA

"Con le accozzaglie si può solo perdere Silvio si batte con l'Ulivo e il terzo polo"

Cacciari respinge l'idea di una coalizione da "Vendola a Fini": Il Pd deve stare con "Nichi e Di Pietro"

di MAURO FAVALE


ROMA - "Basta con le ammucchiate". Massimo Cacciari ex sindaco democratico di Venezia è stufo di alleanze larghe, "da Vendola a Fini", frutto di errori "dettati dalla voglia di far propaganda o da un'errata real politik".

Chi fa propaganda? Il Pd?
"Chi parla, come fa Franceschini, di "alleanza costituzionale" sa che né Casini, né tantomeno Fini, ci starebbero mai. Per loro sarebbe un suicidio politico. Sono dichiarazioni provocatorie che non portano a nulla".

E l'errore da "real politik"?
"L'unico motivo per un'ammucchiata sarebbe il Cln, una coalizione per liberarsi di Berlusconi: un errore imperdonabile. Così ricadiamo nel vecchio antiberlusconismo, un formidabile regalo per il Cavaliere. In una campagna elettorale bene contro male, Berlusconi è imbattibile".

Allora cosa resta da fare?
"Mi sembra evidente che c'è un disegno di Bossi e Tremonti per prendere il posto di Berlusconi. Per questo vogliono andare a votare subito".

Quindi?
"Se non si cade nell'errore di fare un'accozzaglia, al 90% Berlusconi le elezioni le perde. Vince alla Camera, grazie alla Lega, ma perde al Senato".

Ne è certo?
"È molto probabile, ma solo se esiste un terzo polo forte, composto da Fini, Casini e Montezemolo. In questo modo il centrosinistra andrebbe da Di Pietro a Vendola e, per come è fatta la legge elettorale Berlusconi la maggioranza al Senato se la scorda".

A quel punto?
"Si va da Napolitano che sarà costretto a prendere atto che l'unico in grado di guidare un governo è Tremonti. Questo se si va alle urne in tempi brevi. Se invece ci fosse un accordo tattico tra Berlusconi e Fini le strade per il Pd sono altre".

Quali?
"Invece di aspettare che il governo collassi, al Pd converrebbe mettersi a fare politica e avvicinarsi a Casini".

Nel Pd sono convinti che i voti dei centristi servano ora.
"Le ammucchiate non servono. Il Pd pensi a fare un bel neo-Ulivo e non ostacoli un centro forte".

Ma questo "neo-Ulivo" ha possibilità di vincere?
"Non vincerà mai. Ormai il Pd è quella cosa lì, una cosa che sta con Vendola e con Di Pietro".

Non le piace?
"Non è il soggetto che avevamo progettato. Non è quell'elemento di grande novità che serviva. È la riedizione dell'Ulivo in salsa dipietrista. È un partito che ha il suo radicamento territoriale sull'Appennino tosco-emiliano. Ma per governare dovrebbe trovare un'intesa con l'area di Montezemolo, di Fini e di Casini e non fare un unico cartello. Ma questo solo se avranno tempo. Altrimenti meglio che vadano separati".

Al Nord i voti sono destinati a spartirseli Lega e Pdl?
"Se si va al voto al Nord la Lega è il primo partito. Il Pd ha perso contatti con la realtà sociale. Hanno ereditato la strutturale incompetenza nell'interpretare le trasformazioni sociali e questo è il risultato".

Non dà nemmeno una chance al centrosinistra?
"Ma è necessario iniziare a fare autocritica. Cosa che al momento non vedo".

Le primarie possono essere utili?
"Le primarie hanno rotto, soprattutto quelle teleguidate. Servirebbe una leadership che guardi al nord. Sono due anni che insisto su Chiamparino".

E il terzo polo, invece? È quello l'elemento di novità?
"Potrebbe esserlo se ben articolato. Non penso a un partito, piuttosto a una coalizione di governo. Una presenza laica come quella di Fini è interessante per una maturazione culturale e politica. Il valore aggiunto, però, lo darebbe Montezemolo".

L'era-Berlusconi sta finendo?
"Lui non ha più nulla da dire al Paese dal punto di vista strategico. Ma non credo che andrà via con le sue gambe. E questo lo sanno anche Tremonti e Bossi".

La legge elettorale? Verrà modificata?
"Fa talmente comodo ai partiti che resterà così com'è".

(24 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Una moschea per ragionare
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:18:56 pm
Una moschea per ragionare

di Massimo Cacciari

La società multi-etnica e multi-religiosa ci costringe a fare i conti con storie, tempi e valori incomparabili

(10 settembre 2010)

Le dichiarazioni del cardinale Tettamanzi sulla costruzione della moschea a Milano potevano offrire l'occasione per un serio confronto sul futuro inevitabilmente multi-etnico e multi-religioso della nostra società. Era facilmente prevedibile che essa andasse sprecata, come infinite altre in passato... E non solo per colpa delle usuali volgarità leghiste. Ad esse non ci si contrappone sdrammatizzando, ma, all'opposto, cercando di far comprendere le epocali novità che dovremo affrontare e scommettendo sulla responsabilità e maturità dei nostri concittadini.

Il problema consiste nel fatto che è impossibile affrontare il "pluralismo" culturale-religioso della società attuale "estrapolando" dall'esperienza che ha caratterizzato la formazione sociale e statuale del Moderno. In certi discorsi, animati da indubbia "buona volontà", sembra quasi non si tratti che di "allargare", di rendere più ampia quella idea di "pluralismo" che dovrebbe esserci ormai famigliare, di rafforzarne le virtù "integratrici". Purtroppo non è così. Nella società moderna secolarizzata si poteva ritenere di essere giunti, pur attraverso le contraddizioni e i conflitti che ne hanno tragicamente segnato la storia, al riconoscimento delle differenze di valori e visioni del mondo, perché queste differenze "abitavano" un tempo comune. Il tempo storico delle ideologie liberali è lo stesso di quelle socialiste. Il tempo storico delle grandi riforme religiose protestanti è lo stesso delle contro-riforme cattoliche. Molto di più, questi decisivi conflitti maturano da esperienze e vissuti comuni, rappresentano sviluppi di origini condivise, potenzialità immanenti in un'unità più profonda, che non viene mai esplicitamente negata.
Il politeismo dell'Occidente moderno si configura come conflitto di valori all'interno di un vissuto storico comune. Ciò vale anche per le "distanze" apparentemente più abissali: la laicità dello stesso Illuminismo neppure sarebbe concepibile se non nella storia dell'Europa o Cristianità. Non si rende mai necessaria, cioè, un'autentica esperienza dell'altro. Così è per la lotta forse più rappresentativa e decisiva del Novecento: tra classe operaia e capitale la "condivisione" del primato dell'Occidente, della Tecnica, del progresso scientifico-tecnologico, è pressoché totale. È questo politeismo, è questo confronto tra valori tutti rappresentanti un tempo comune, che sembra oggi minacciato dalle fondamenta. Questo tempo era quello lungo della integrazione". La coscienza della loro complessità può aiutare a affrontarli o, almeno, a "tollerarli". Non saranno progetti a tavolino e ragionevolezze a buon mercato a risolverli. Una giusta modestia sui limiti dell'azione politica è doverosa in casi simili. La corrente della vita, nella sua imprevedibilità, è infinitamente più potente di qualsiasi forma ci possiamo inventare.
Ma questo disincanto non autorizza alcun disimpegno; esso obbliga, anzi, a moltiplicare le occasioni di confronto, di comunicazione.

Ciò che è incompatibile non per questo deve essere anche incomparabile. L'esercizio della comparazione tra storie, tempi, valori che appaiono incompatibili, è per eccellenza proprio l'esercizio della ragione. E potrebbe anche diventare quello della politica, della politica in grande, oggi ovunque assente. Per il momento, potremmo anche accontentarci di non rendere tutto ancora più difficile, rifiutando addirittura l'ovvio - come aiutare lo straniero, i nostri stranieri, in Italia, in Europa, a costruire i loro luoghi di incontro e di culto.integrazione". La coscienza della loro complessità può aiutare a affrontarli o, almeno, a "tollerarli". Non saranno progetti a tavolino e ragionevolezze a buon mercato a risolverli. Una giusta modestia sui limiti dell'azione politica è doverosa in casi simili. La corrente della vita, nella sua imprevedibilità, è infinitamente più potente di qualsiasi forma ci possiamo inventare.
Ma questo disincanto non autorizza alcun disimpegno; esso obbliga, anzi, a moltiplicare le occasioni di confronto, di comunicazione.

Ciò che è incompatibile non per questo deve essere anche incomparabile. L'esercizio della comparazione tra storie, tempi, valori che appaiono incompatibili, è per eccellenza proprio l'esercizio della ragione. E potrebbe anche diventare quello della politica, della politica in grande, oggi ovunque assente. Per il momento, potremmo anche accontentarci di non rendere tutto ancora più difficile, rifiutando addirittura l'ovvio - come aiutare lo straniero, i nostri stranieri, in Italia, in Europa, a costruire i loro luoghi di incontro e di culto. integrazione

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Cosa serve alla sinistra
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 03:56:45 pm
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L'opinone

Cosa serve alla sinistra

Massimo Cacciari

Per essere davvero riformatrice la sua offerta deve incontrare ceti e interessi emergenti e riuscire a rappresentarne la domanda

(01 ottobre 2010)

Si sottolinea da più parti, come si trattasse di uno straordinario paradosso, che "sinistra" si è trasformato, dalla caduta del Muro in poi, quasi in sinonimo di "conservazione". È vero: la "sinistra", nelle sue diverse "maschere" e attraverso le sue varie metamorfosi, si è caratterizzata in questi anni per l'impegno nella difesa di poteri costituiti, di diritti garantiti, di valori consolidati, se si vuole degli aspetti "nobili" dello status quo, infinitamente più che per le sue proposte di innovazione.
La madre di tutte le difese è stata quella della Carta costituzionale, nella sua ispirazione parlamentaristico-pattizia, contro ogni tentativo di trasformarla in senso decisionistico-presidenzialistico, da un lato, o decisamente e coerentemente federalista, dall'altro.

"A cascata" ne sono derivate la "protezione" della divisione tra i poteri nella forma consegnataci dalla "tradizione", quella degli ordini professionali o "caste" nel loro assetto dato, la quasi completa afasia in materia di sistema della contrattazione e dell'organizzazione del lavoro, specialmente nel settore del pubblico impiego. Ma nulla vi è di stupefacente in ciò, se non che vi sia ancora qualcuno che reputa il nome "sinistra" di per sé portatore di istanze innovative e quello "destra" sinonimo di reazione. Stupefacente è solo l'inerzia del linguaggio politico e delle idee che esso sottende.
Che forze culturali e politiche "rivoluzionarie" un tempo possano diventare conservatrici in situazioni storiche completamente diverse, è la norma, non l'eccezione. Anzi, è proprio il loro successo a rafforzare tale tendenza - come se si potesse farlo perdurare nel tempo. Una burocrazia politica vittoriosa farà di tutto affinché le condizioni che hanno determinato la sua affermazione non abbiano a mutare. La componente di "rendita" è funzione essenziale del gioco politico - e solo le "anime belle" del movimentismo e del giovanilismo possono permettersi il lusso di ignorarlo.

Così il pensiero liberale classico esprimeva istanze di profonda trasformazione all'inizio dell'Ottocento, e appariva oggettivamente conservatore già nella seconda metà del secolo. Lo stesso avviene per il pensiero e la prassi della socialdemocrazia europea nel corso del secondo dopoguerra.
Tuttavia, le politiche non si trasformano nel cielo delle pure idee. Una forza politica non muta direzione e abbandona posizioni di rendita perché il politologo di turno le insegna che la sua collocazione attuale ha assunto un significato diverso o un orientamento addirittura opposto rispetto alla propria origine. È necessario che la sua "offerta" possa incontrarsi con ceti e interessi emergenti, almeno potenzialmente maggioritari, e mostrarsi in grado di rappresentarne efficacemente la domanda. Ciò non è né semplice, né lineare, e impone sempre una dolorosa battaglia strategica nel suo gruppo dirigente. E nulla impedisce che, comunque, una nuova composizione sociale trovi altre modalità di rappresentanza, al di fuori dell'offerta politica tradizionale, per quanto essa voglia o possa sapersi innovare.
A volte, può sorgere l'impressione che a voler rappresentare il "nuovo" i soggetti politici già organizzati pretendano di montare sulle proprie spalle per vedere più lontano. Altre volte, è proprio impossibile versare il vino nuovo nell'otre vecchia...Non basta volere il mutamento, predicarne la necessità, per renderlo possibile.

Questo sia detto a discarico del conflittuale immobilismo dell'attuale Pd; il compito, da parte sua, di dar voce ad una fase costituente per il Paese, è davvero storico, poiché si tratta davvero di "eccedere" le dimensioni della sua tradizione culturale. Ma proprio la difficoltà andrebbe enfatizzata, anzi, drammatizzata - questo attrarrebbe in una comune e appassionante ricerca energie giovani, intelligenze critiche, competenze nuove. La colpa consiste nell'allontanarle continuando, invece, a predicare continuità e a parlare di "sinistra" come naturaliter riformatrice.

   
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Non basta il Terzo Polo
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 03:28:33 pm
Non basta il Terzo Polo

Massimo Cacciari

Occorre la formazione di un'offerta politica nuova, rivolta all'intero Paese

(22 ottobre 2010)

A che pro cercare ancora di rinviare i conti con il fallimento dei tentativi da tanti compiuti (quorum ego) nel corso dell'ultimo decennio di dare alla politica italiana uno stabile assetto bipolare? Per Pdl e Pd il compito era forse oggettivamente improbo. Al di là della "anomalia" Berlusconi, le ragioni sono analoghe: le componenti dei due pseudo-poli si sono rivelate impotenti a pensare un futuro che non fosse in continuità con i propri, non proprio entusiasmanti, passati.
L'uscita di Fini, da un lato, così come quella di Veltroni, anche se conclusasi in ritirata tattica, dall'altro, sono rivelatrici di contrasti strategici di fondo, che nessun "contenitore" comune potrà confondere ancora a lungo. Si tratta dei sintomi più eclatanti di uno smottamento complessivo, che soltanto la previsione di elezioni anticipate può frenare. Quali conseguenze trarne? La possibilità del formarsi di un terzo polo? Da "sommare" agli altri due? Proposta probabilmente "indigeribile" al grande pubblico. E formato, poi, da chi? Fini, Casini, Rutelli?

Al di là dei loro meriti, sembra difficile oggi una "sintesi" tra le posizioni che esprimono, ma, soprattutto, debole la loro forza attrattiva nei confronti dell'elettorato e dell'opinione pubblica delusa, per usare un eufemismo, da Pdl e Pd - debolezza particolarmente evidente al Nord. Ma è l'idea stessa del "terzo polo" a risultare inadeguata rispetto alla "qualità" dell'iniziativa politica che il momento storico esigerebbe. Non si tratta, infatti, di mettere insieme pezzi e cocci dei vecchi schieramenti, di raccogliere fuoriusciti, di rubarsi rappresentanze istituzionali.
Il problema oggi è la formazione di un'offerta politica complessivamente nuova, rivolta all'intero Paese, estranea ai vecchi schemi, nel linguaggio prima ancora che nei programmi. È alla massa dei non votanti, dei votanti "per forza", di chi non "capisce" l'attuale politica, che non sa più cosa significhi destra-sinistra-centro - e ha perfettamente ragione - che occorre parlare.

Una massa tutt'altro che indistinta, amorfa. Sono imprenditori, artigiani, commercianti che vogliono reali politiche industriali, vera sburocratizzazione, ma sanno che senza regole non c'è mercato, e che il conflitto endemico di interessi, di cui Berlusconi è simbolo, alla lunga è la rovina proprio di ogni legittimo interesse! Sono i giovani senza scuola, senza formazione, senza ricerca, cui si offre la precarizzazione come sistema di vita, ma che non se ne fanno nulla di nostalgie sessantottine, e tantomeno di statalismi assistenzialistici.
Ma sono anche milioni di lavoratori dipendenti pubblici e privati che vorrebbero promuovere, motivare, innovare la qualità del proprio lavoro, arcistufi sia di chi li tratta come i "protetti", sia di sindacalismi meramente conservatori.
Questo è oggi il popolo senza rappresentanza. Per chi lo capisce, non si tratta di cercare papi stranieri, né di una questione di nomi, ma di voler rappresentare credibilmente questo popolo. E allora, sì, le carte possono rimescolarsi. E allora, sì, parlare di trasversalità assume un significato politico, non trasformistico. Fini, Casini, Rutelli possono aiutare questo processo - e molti altri con loro, incapsulati nei cosiddetti poli. Ma palesemente non bastano.
È tempo che le grandi organizzazioni sindacali, le forze sociali decisive del Paese dicano con chiarezza la loro. La smettano con la "pruderie" del "non facciamo politica". E quando mai non l'hanno fatta? Ma invece di farla da "clienti" o portando acqua a questo o quel partito, la facciano con chiarezza, con responsabilità, affermando che il Paese non può continuare a essere così governato, che gli attuali equilibri politici non permettono il realizzarsi delle riforme necessarie e deprimono inarrestabilmente la nostra competitività in ogni settore.

Si parla dei Draghi, dei Montezemolo, ecc. Nomi illustri. Nomi indispensabili, se si vuol rendere oggi vincente una proposta politica di "grande formato". Qualcuno di loro è evidentemente disposto ad affrontare la sfida. Ma altrettanto evidentemente attende che da parte di quelle forze di cui ho parlato si accenda il segnale, si decida di voltare pagina. Mai potranno essere i papi stranieri delle attuali chiese. Brucerebbero se stessi e non impedirebbero la catastrofe di quest'ultime. Debbono candidarsi da sé. Ma per farlo debbono avvertire che il tempo è maturo. Maturità è tutto, diceva quel tale. Anche da noi?

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Più presente e meno futuro
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 03:28:27 pm
Più presente e meno futuro

di Massimo Cacciari

Tutto si è messo in moto e i nuovi "poli" potranno dar vita a una coalizione liberal-democratica solo se si apriranno a imprese, nuove professioni, precari

(12 novembre 2010)

Unica buona novella: tutto davvero si è rimesso in moto - come, dove, con chi, tutti ne parlano e nessuno lo sa. Riusciranno Tremonti-Bossi a compiere le loro Idi di marzo, pensionare Berlusconi e ottenere da Napolitano l'incarico per formare un governo para-tecnico, in cui reimbarcare il "traditore" Fini e provarci anche con Casini? Per quanto fanta-politica, non mi sembra possano esservi altre possibilità di continuare la legislatura. Il gioco del cerino è già durato anche troppo e finirebbe col danneggiare entrambi gli attuali duellanti. Ma soprattutto la Lega non potrebbe più a lungo tollerarlo senza perdere consensi. E ragioniamo, allora, di alternative politiche alla fine della seconda Repubblica.
Fini può diventare il centro di attrazione e di coagulo di parte davvero rilevante di interessi e di ceti che avevano puntato sul Pdl? O il suo movimento rappresenta sostanzialmente, nella sua base reale, materiale, la tradizione di Alleanza nazionale e per certi versi, prima ancora, addirittura della Fiamma tricolore? I partiti politici non si identificano con le idee del "capo", tanto meno con i desideri delle loro nomenklature, neppure nei regimi autoritari - figuriamoci nel casino nostrano. Arduo, comunque, pensare a un "polo", alternativo a ciò che residuerà da Pdl e Lega, da un lato, ma anche concorrente col Pd, dall'altro, che si strutturi intorno alla figura del presidente della Camera.

Ma discorso analogo vale per Casini. Casini e Rutelli possono aggregare settori significativi dell'area cattolica e liberale, oggi dispersi tra Pdl e Pd - ma come combinarli con la base materiale, ripeto, di Futuro e libertà, non tanto con la cultura politica maturata dal suo leader? L'handicap più grave che questo "polo", tutto ancora in mente Dei, sembra costituito da due elementi complementari: l'essere formato da "puri" esponenti di ceto politico-partitico, e caratterizzato da una immagine di marcata nostalgia per la prima Repubblica. Questa immagine non rende affatto piena giustizia del difficile e anche generoso percorso che i tre politici sopra citati hanno compiuto negli anni, ma ciò nonostante è reale, diffusa e radicata, soprattutto nei movimenti che essi cercano di rappresentare (con l'eccezione, forse, di Api). Controbatterla e superarla è vitale per costruire un'alternativa costituente, come a me piace dire, alla fine del berlusconismo e del bipolarismo all'italiana. Un soggetto politico nuovo può nascere solo dalla consapevolezza che qualsiasi "stato dei partiti" da prima Repubblica, qualsiasi centralismo burocratico-politico sia nei partiti che nelle istituzioni, qualsiasi "parlamentarismo" bloccante, magari fondato su sistemi elettorali assolutamente proporzionalistici, condannerebbero questo Paese ad aggravare la propria decadenza. Certo, l'esaltazione delle virtù taumaturgiche del "nuovo" non rappresenta che l'altra faccia della nostalgia. Sarebbe bello, anzi, finirla con le retoriche "futuriste". Tutti a rincorrere questo "futuro"...
Sarebbe bello che la politica ci indicasse, invece, qualche praticabile via per vivere decentemente il breve presente che ci è concesso, senza nostalgie o rimpianti e senza più o meno cieche speranze. L'ansia di futuro mistifica sempre le difficoltà di affrontare realisticamente, programmaticamente, responsabilmente la situazione data. Filosofia dolorosa, ma vera: partire dall'effettuale, conoscerlo e capire che cosa da esso si può costruire, non sognare. Finita è la gamma del possibile, infinita quella dei sogni.

Potranno, insomma, formarsi soggetti politici, siano o no "poli", dal disfacimento dei due "grandi" partiti attuali, capaci di passare dal "rottamare" o dalla "nostalgia" a quel programma e a quella coalizione di governo autenticamente liberal-democratici, sempre falliti in questo ventennio? Forse - ma soltanto, temo, se agli attuali protagonisti se ne aggiungeranno altri, provenienti da quei settori della società civile che soffrono in prima fila della nostra eterna crisi-transizione: imprese, nuove professioni, ricerca, precariato di massa giovanile. Senza questa "base" nessun nuovo partito, nessuna coalizione, nessun governo si reggerà nel "famoso" Futuro.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Università al buio
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:18:58 am
L'opinione

Università al buio

di Massimo Cacciari

L'autonomia degli atenei è impossibile finché dipenderanno dai fondi ministeriali

(03 dicembre 2010)

Facoltà occupata a Roma Facoltà occupata a RomaStudenti di tutto il mondo, non gettate la croce sul povero avv. Gelmini. Come potete pensare che si possano produrre autentiche riforme del sistema formativo senza una visione della società e del suo futuro? Una propria visione, sia chiaro. La politica culturale non consiste nell'adattare le strutture formative a quella che si considera qui-e-ora la domanda di lavoro. Così come la politica in genere non dovrebbe consistere nell'inseguire quello che la gente dice di preferire attraverso i sondaggi. E quando una riforma della scuola cerca passivamente di adeguarsi alla struttura economica, fallirà cento volte l'obiettivo, poiché le trasformazioni culturali, organizzative, produttive "anticiperanno" sempre qualsiasi "offerta" didattico-scientifica.

Le grandi "scuole" che hanno funzionato nascevano tutte da un'idea generale della società, di come i rapporti tra classi e ceti dovessero essere ordinati, della "missione" che si immaginava per il proprio Paese. Tutto ciò oggi da noi è clamorosamente assente - e pretendete una riforma dell'Università? - là dove classe politica e élite dirigenti in generale versano nella crisi in cui versano? Anche troppo, credete, il bricolage stra-prolisso della Gelmini, prodotto tipico del burocratese centralistico-ministeriale. La nostra ministra invita, poi, giustamente, il "movimento" a prendersela coi "baroni". Dio solo potrebbe contare i peccati di costoro nell'uso a volte dissennato delle risorse per la ricerca, nella proliferazione di titoli assurdi, nella disseminazione delle sedi, nella conduzione dei concorsi. Ma proprio la cosiddetta riforma è il loro miglior alleato!
Che cosa, infatti, essa cambia? Dal potere dei rettori, all'ordinamento concorsuale, al mantenimento delle fasce della docenza, la logica corporativa rimane intatta. O ci si vuole narrare che la presenza di tre esterni nel Consiglio di amministrazione stravolgerà qualcosa? L'unica novità in qualche misura apprezzabile è l'istituzione dell'abilitazione scientifica nazionale. Una specie di vecchia libera docenza, ma destinata, poiché decade dopo quattro anni, a creare spasmodiche attese e intrallazzi di ogni tipo. Alla faccia dell'autonomia didattica e delle esigenze del tutto specifiche dei vari atenei e dei vari dipartimenti e facoltà, tutto viene, come da tradizione patria, iper-regolamentato.

Un delirio di norme centralistiche sull'organizzazione del sistema: orari, mobilità, premi, crediti, esoneri, minimi e contro-minimi, nulla sfugge al vigile occhio del Riformatore, affinché tutto resti esattamente come prima. E cioè un'università dove gli studenti passano buona parte del loro tempo a elaborare piani di studio e a fare esami.

Il capolavoro è raggiunto nel capitolo dei sistemi di valutazione. Qui non bastava il marchingegno barocco inventato, mi pare ricordare, dal governo Prodi, dell'Agenzia Nazionale di Valutazione, ancora lungi dal funzionare, dove alcuni fortunati, selezionati chissà come da un piccolo esercito di auto-candidati, dovrebbero vigilare su tutto: dalle politiche di reclutamento alla definizione dei livelli minimi di prestazione, dai sistemi di accreditamento alla efficienza dei risultati conseguiti dalla didattica, ecc. ecc. No, ciò non appariva sufficiente - e così si è introdotto pure un Comitato nazionale dei garanti, al fine di "garantire" le procedure di valutazione per la selezione dei progetti di ricerca. Tale Comitato sarà composto da sette studiosi, tra i quali dovranno esservi "almeno due donne e due uomini" ( sic!). E gli altri tre? A scelta.Tutte chiacchiere? No, nient'affatto. Un serio dramma. È del tutto evidente, infatti, che il vero dominus di tutta l'operazione è il ministro dell'Economia. Ovvero che ogni intervento di qualche concretezza è subordinato alle disponibilità finanziarie in mano al nostro Super-ministro. Forse si troveranno (in parte) i soldi per sistemare i ricercatori con i concorsi per associati, ma per tutto il resto (finanziamenti, quota premiale, incentivi per l'internazionalizzazione, politiche attive per il diritto allo studio) è notte.

Il sigillo è palese nell'ultimo articolo: il ministro dell'Economia è autorizzato ad apportare con propri decreti le variazioni di bilancio necessarie a finanziare l'applicazione della riforma. Al centralismo organizzativo e didattico che la legge non scalfisce si aggiunge definitivamente quello finanziario. Esempio luminoso del federalismo berlusconiano-leghista. Ho provato a leggere i contro-testi di riforma avanzati dalle opposizioni e non sono stato illuminato d'immenso. Il modello rimane quello centralistico-ministeriale che è, insieme alla carenza fisiologica di fondi, il principale nemico della nostra scuola.

La vera autonomia rimane cieca speranza. E qualcuno dovrebbe spiegare che cosa sia autonomia, se non libertà delle diverse sedi di organizzare la propria offerta didattica, di combinare dipartimenti e facoltà secondo le proprie esigenze, di perseguire le proprie finalità reclutando una docenza coerente con esse. Non si comprende perché la valutazione dell'efficienza di un'università debba avvenire in modo diverso da quella di una qualsiasi impresa. Quale Agenzia di valutazione decide se Marchionne è bravo oppure no? E inoltre sulla base di parametri che Marchionne può non aver mai condiviso? Il totale paradosso di questa riforma, come di tanti altri semi-aborti passati, sta esattamente in questo: che si vorrebbero scimmiottare logiche di mercato, mentre si conservano assetti da arcaico statalismo. E la ragione sta nel fatto che non può esservi autentica autonomia senza autonomia sostanziale nel finanziamento. Missione impossibile, fino a quando l'università pubblica continua a dipendere dai fondi ministeriali. Una modesta proposta? Eliminiamo il valore legale del titolo di studio e vedrete che un po' di mercato,"buono" davvero, comincerà a entrare... basta una leggina, di un solo articolo. Ah, quanto è difficile il semplice, sigillo del vero!

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Titolo: MASSIMO CACCIARI : "L'impasse è colpa del Pd doveva aiutare Fini"
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2010, 09:55:54 pm
Politica

14/12/2010 - INTERVISTA

Cacciari:"L'impasse è colpa del Pd doveva aiutare Fini"

«Fini, Casini e Rutelli non bastano, ma è mancato il tempo per costruire il Terzo Polo»

MARCO ALFIERI

MILANO

«Purtroppo l’alternativa politica a Berlusconi al momento non c’è. C’è solo un’ammucchiata che vorrebbe buttarlo giù da palazzo Chigi. E la colpa è del Pd che ha tradito la sua missione riformatrice, incapace di dare sponda ai vagiti terzopolisti...». Massimo Cacciari, alla vigilia della conta in Parlamento, torna ad accusare l’insipienza democratica. E’ un suo rovello classico ma questa volta il fallimento brucia ancor di più perché finalmente c’era partita.

Per l’ex sindaco di Venezia «la novità degli ultimi mesi è la grande fronda di Gianfranco Fini che ha portato alla fine del Pdl e del bipolarismo all’italiana. Ma è altrettanto evidente che per la formazione di un blocco innovativo e riformatore al centro dello schieramento, sono mancati i tempi. Probabilmente lo stesso Fini pensava che la crisi non precipitasse subito».

Così il premier può sbandierare l’unica carta che gli è rimasta. Altro che Germania e la sfiducia costruttiva. Siete solo un’accozzaglia di partiti che vuol farmi fuori. E’ l’unico punto che vi unisce…
«La cosa sta in questi termini. Giustamente dal loro punto di vista sia Fini che Casini escludono la possibilità di un’alleanza di governo con il Pd. Al limite immaginano un governo tecnico per fare la riforma elettorale. Ma è un’altra cosa».

Quindi…
«Quindi siamo allo stallo. Da un lato Berlusconi è decotto, insieme al bipolarismo muscolare per come l’abbiamo conosciuto in Italia; dall’altro la mancanza di una vera alternativa lo fa sopravvivere».

Di chi sono le responsabilità dell’impasse?
«Fini ha avuto il coraggio di uscire dalla palude e gettare il cuore oltre l’ostacolo. Casini lo aveva già fatto 2 anni fa. Rutelli è stato l’unico leader Pd a criticare l’aborto democratico, uscendo dal partito. Ma loro 3 da soli non bastano, tanto più che il Terzo polo è ancora una prospettiva senza un vero programma».

Dunque la mancanza di alternativa a Berlusconi è senza colpevoli?
«Macché. La responsabilità immensa è tutta del Pd. Un partito nato male, o forse mai nato. Dopo la caduta del governo Prodi c’erano tutte le possibilità per lavorare ad un’alternativa forte al berlusconismo usurato. Avevamo cinque anni davanti, ma è mancata completamente la classe dirigente, la strategia, la cultura politica e un agenda nuova per il paese».

E’ impietoso, professore…
«Il più grande partito di opposizione, nel bel mezzo della deflagrazione del centrodestra, è rimasto ai margini della partita, senza mai incidere. Paradossale. Ovvio che al momento della fiducia Berlusconi ha buon gioco a dirti: volete solo buttarmi giù…»

In cosa è mancata questa visione strategica?
«Non si è sfondato nel ventre molle berlusconiano, tra quei ceti moderati delusi dalle promesse al vento del Cavaliere. O fai manovre, anche spregiudicate, per guadagnare consensi al centro o dove vuoi andare?»

Sta parlando di Milano, vero?
«Certo. Gabriele Albertini poteva essere convinto a scendere in campo. Avrebbe dato cemento al Terzo polo e sarebbe stata una botta tremenda al berlusconismo nella sua capitale. Invece il Pd non ha voluto fare sponda all’ex sindaco, è rimasto immobile nel suo brodo, facendo primarie tra 3 candidati di sinistra. Ma se non sfrutti le condizioni di favore che ti si aprono a Milano, mica a Reggio Emilia, che razza di alternativa vuoi costruire? E potrei continuare…».

Ad esempio?
«Ad esempio il Pd non ha mai saputo scalfire l’egemonia forza-leghista al nord, maturando un vero autonomismo e una capacità di relazione con gli attori del capitalismo diffuso. Così come non ha mai costruito una relazione strategica con l’Udc. Forse aspettava cadesse nelle sue braccia per semplice antiberlusconismo. Allora non conoscono Casini. Dopodiché mi auguro che il premier collassi ma per senso di verità devo ammettere che al momento non vedo alternative…».

Nemmeno se uscisse un nome nuovo a rilanciare il Terzo polo? Si parla ciclicamente di Luca di Montezemolo…
«Che volete, restiamo in attesa. Il sottoscritto insieme ad altri amici lancia, stimola, propone. Come per Albertini del resto. Già questi signori non sono dei cuor di leone, se poi non trovano nemmeno puntelli concreti nel Pd…».

Non sembra ottimista, Cacciari?
«Se oggi Berlusconi vince è chiaro che sarebbe la sconfitta di tutti quelli che hanno presentato mozioni di sfiducia. Ci sarebbero probabilmente pattuglie di incerti che tornerebbero all’ovile. A quel punto il mare si richiude, avremmo perso una grandissima occasione».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/379884/


Titolo: MASSIMO CACCIARI 'Fidatevi: Casini non ci ricasca'
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 03:14:35 pm
'Fidatevi: Casini non ci ricasca'

di Massimo Cacciari

Nel centrosinistra molti pensano che sia un errore cercare un'alleanza con l'Udc, perché alla fine il suo leader tornerà con il Cavaliere.
Non è così. Il demiurgo del terzo polo sa che il berlusconismo sta finendo. Quindi...

(23 dicembre 2010)

Vae victoribus": questo i perdenti del 14 dicembre sperano di poter iscrivere sulle loro bandiere. Nobile massima, propria della vera politica: il difficile viene, infatti, per i "politici di vocazione", dopo le vittorie, quando si tratta di risolvere con l'azione di governo i problemi e le contraddizioni che hanno generato le "guerre". Peccato che da noi di politici di questo tipo non vi sia neppure più traccia, e che lo sforzo dei vincitori di turno si esaurisca il giorno dopo nel tirare avanti. Chi ha assistito al dibattito sulla fiducia, avrà avuto occasione più volte di rabbrividire di fronte allo spettacolo culturale offerto. Veniva in mente la battuta di Mark Twain:"Supponi di essere un idiota. Supponi di essere un membro del Congresso. No, mi sto ripetendo. Supponi semplicemente di essere un membro del Congresso". Nessuna "tremenda" responsabilità, perciò, dei vincitori. Che traccheggeranno grazie magari a qualche nuovo acquisto, fino a quando non decideranno che è il momento giusto, per loro, di tornare a votare.

E "i vinti"? Nel Pd soffiano ancora venti di delirio. Chi ostenta supponente indifferenza. Chi accusa di aver inseguito Fini. Chi vuole l'Ulivo disastro-ter. Chi l'alleanza con Casini. Non si tratta che della fotografia del mancato Pd: le diverse correnti culturali-politiche che avrebbero dovuto trovare una nuova sintesi stanno lì, immobili nella loro configurazione passata, contrapposte le une alle altre. Un fallimento che tutti i leader cercano di coprire; e così, non venendo mai "lavorato", il lutto blocca ogni disegno di qualche respiro. Il Pd nasce con vocazione esplicitamente maggioritaria. Come è concepibile sostenerla senza affermare nei fatti la propria centralità rispetto ai problemi delle riforme, della modernizzazione del Paese, delle nuove forme di lavoro, nella lotta a tutti i corporativismi? Centralità, non centrismo, come ho detto mille volte. E moderati, certo, anche, perché refrattari a ogni demagogia, ai sogni da comizio, alle ideologie in sedicesimo, e capaci di comprendere e corrispondere al modus, che significa l'ora, questa ora, questo tempo, e non quello dei padri e dei nonni, in tutti i suoi aspetti. Il Pd ha perduto la sua vocazione maggioritaria, perché nulla ha saputo elaborare in tal senso. Col 25 per cento non si è maggioranza con nessuna legge elettorale. Lo si può diventare con i Di Pietro e i Vendola? Liberi di provarci, ma è evidente che marciare in una tale direzione significherà perdere ogni contatto con quanto potrebbe maturare tra Fini, Casini, Rutelli e oltre. Sarebbe invece saggio scommettere con decisione sulla tenuta di chi ha rotto, in stagioni diverse, con Berlusconi, passando anche per la prova del 14 dicembre (dove il gruppo di Fini ha retto benissimo, per essere appena sorto e per le pressioni straordinarie di cui è stato bersaglio).

Casini potrebbe cadere vittima del grande seduttore? Pensarlo significa non far gran conto della sua intelligenza. Casini può aspirare a crescere come figura-chiave dell'opposizione moderata al berlusconismo in irreversibile crisi. L'Udc appare al momento come l'unica forza in grado di raccogliere ampi consensi dai delusi del Pdl e dal non-voto di centrodestra. Perché dovrebbe regalare questa posizione per rimescolarsi con le rovine dell'antico alleato? E perché dovrebbe "abbandonare" Fini, che ha una base elettorale e si rivolge a un pubblico poco o nulla "concorrenti" a quelli del suo partito? Ragionamento analogo vale per Rutelli. La loro opposizione penso perciò sia destinata a tenere e a crescere.

Cosa del tutto diversa è chiedersi se essa possa costituire un nuovo polo, con le caratteristiche che prima ricordavo. La questione della leadership è secondaria. Ciò che appare ancora, e forse necessariamente, peggio che sfuocato è l'immagine complessiva e il programma di questo costituendo polo. Elezioni o non elezioni, Casini, Fini, Rutelli dovrebbero lavorarci immediatamente - e lasciar perdere Berlusconi. A partire dal sistema elettorale: guai se dessero l'impressione di voler tornare a un proporzionalismo da prima Repubblica. E poi sulla riforma federale: la loro immagine romano-centrica è fortissima. È bene lo riconoscano, e la modifichino al più presto. Anzitutto, organizzandosi con un forte radicamento territoriale, garantendo alle strutture regionali e comunali quella centralità, che mai hanno avuto nei vari Ds, Margherita, Pd. Una coalizione politica può aspirare a divenire centrale solo se i suoi programmi indicano con assoluta chiarezza come le risorse da destinare a sviluppo, innovazione, ricerca, de-precarizzazione possano essere trovate da concrete misure di liberalizzazione, superamento di ogni assistenzialismo clientelare, eliminazione di ogni catafalco burocratico. Il nuovo polo potrà uscire dalla fase del mero concepimento soltanto dimostrando la sua reale attrattiva per i ceti davvero produttivi-imprenditoriali del Paese, soprattutto al Nord. O, che poi è lo stesso, soltanto quando da questi ceti si muoveranno iniziative autonome, ma politicamente efficaci anche sul piano organizzativo. Allora neppure un Berlusconi potrebbe più dire "inesistente"...

   
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Come salvare la Cultura
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 06:49:18 pm
Come salvare la Cultura

Massimo Cacciari

Fare di musei e teatri anche spazi aperti e agibili a iniziative di enti e associazioni culturali fuori dal giro istituzionale

(14 gennaio 2011)

Tra un'impotente volontà di tutto conservare e l' incuria e ignoranza, che si traducono in continuo e sistematico taglio dei finanziamenti, sembra che la Cultura in questo Paese versi in non brillanti condizioni. Naturalmente gli omaggi alla suddetta Signora continuano a sprecarsi. Ma si tiene in scarsa considerazione il fatto che essa non vive che rinnovandosi, inventando nuove forme e linguaggi, e che nel mondo contemporaneo (ma chi ha detto che nei buoni tempi antichi fosse diverso?) lo può fare soltanto disponendo di risorse, pubbliche o private che siano, di committenze e mercati forti.

Encomiabile avere quattrini per l'ennesima messa in scena della grande opera dell'Ottocento, straordinario allestire l'ennesima esposizione traslocando opere da un museo all'altro. Il saper ricordare è certamente elemento essenziale di una Cultura - ma solo quando sia davvero immaginativo. Quando si rivolga al passato in base agli interessi, alle urgenze, alle domande presenti. Altrimenti è, se va bene, sedentaria erudizione. Ci vuole anche questa - ma per essa bastano, o dovrebbero bastare, università e accademie.
Doveroso, oltreché necessario,anche per il nostro sacro Pil, evitare il crollo di Pompei o del Palazzo Ducale - che non si trovino risorse per tali nobili fini è segno non soltanto di indecente ignoranza, ma di assoluta miopia economica da parte delle nostre classi dirigenti. E tuttavia dubito che mantenere buoni ospizi e attrezzate cliniche per i nostri monumenti, musei e siti archeologici, significhi fare politica culturale.

Diceva un tale che conosceva bene i classici e se ne nutriva come del pane, che la venerazione per la storia passata è destinata a rendere estremamente difficile fare la propria. I classici non vogliono essere contemplati, ma usati come potenti contraddizioni nei confronti dei luoghi comuni, delle banalità, delle volgarità del linguaggio presente. Insomma, la memoria va bene soltanto quando ci serve a fare la nostra storia. E questo è il vero insegnamento dell'Umanesimo. Leggersi le Deche su Livio del Machiavelli. O i luoghi della conservazione divengono questo o non sono luoghi di produzione culturale. O i teatri mettono in dialogo e in contrasto passato e presente, o non fanno né teatro né musica.

Ma ciò non significa certo aprire un book shop o un caffè nel museo, o ospitarvi una festa da ballo. Né commissionare un nuovo allestimento per la miliardesima edizione della meravigliosa Traviata. Ciò significa far diventare la parte didattica, editoriale e di ricerca il core business del museo, e commissionare nuove opere liriche e teatrali. Ma soprattutto significa fare di musei e teatri anche spazi aperti e agibili a iniziative di enti e associazioni culturali fuori dal giro istituzionale. Un po' di off Broadway, insomma.
Mettere in comunicazione l'ufficiale, costretto a certi standard, assillato com'è dalla paura di veder scendere spettatori, abbonati, ecc., con lo sperimentale, anche più arrischiato. Se Cultura è innovazione, innovazione non può darsi senza prova e senza errori, ma soprattutto senza sfidare i gusti consolidati di un pubblico sempre più vecchio e pigro. E una politica di questo genere potrebbe essere avviata anche senza spesa - o soltanto premiando in qualche forma le istituzioni che la perseguissero.
Spesso le idee non mancano, i gruppi di giovani, nel teatro, nell'arte, nella musica, ci sono. Chiedono solo attrezzature e luoghi, magari copertura delle utenze essenziali. Diciamo, costi in un anno pari al cachet di una star per una serata.

So bene quanto difficile sia questa strada. Una dozzina e passa d'anni come sindaco me lo hanno dolorosamente insegnato. Diseducazione del pubblico, inerzia burocratica delle istituzioni, corporativismo dilagante indurrebbero alla disperazione. Ma, allora, per favore, smettiamola di piangere su Madame la Cultura, e limitiamoci, sulla base del più volgare calcolemus, a salvare almeno qualche rovina.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Attenti, B. è effetto e non causa
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:38:57 pm

Attenti, B. è effetto e non causa

di Massimo Cacciari

Oggi la politica in Italia produce solo finzione, spettacolo e narrazione.

Senza avere più a che fare con la realtà.

Ma questa è una degenerazione che investe tutta la società. E non basta mandare a casa il signore di Arcore per uscirne


(04 febbraio 2011)

Tutto sommato potremmo dire che dalla vera tragedia della fine della prima Repubblica siamo giunti alla farsa-pochade che conclude la mai nata seconda, e così consolarci. Per apprezzare il "salto d'epoca" basterebbe paragonare il discorso in Parlamento di Craxi alle auto-difese televisive di Berlusconi. Non c'entra nulla. Appunto. Lì un politico di razza, nel bene e nel male, che denuncia una crisi di sistema e, indirettamente, si appella ad un generale discorso "di verità", che avrebbe forse anche potuto aprire una nuova fase della Repubblica; oggi un privato, che vuole giustificare vizi privati, e che con ogni mezzo difende affari e interessi soltanto suoi. Lì partiti, organizzazioni di massa, radicati nella vita e nella storia del Paese, che vivevano la propria catastrofe nel destino dei loro leader; oggi una moltitudine di cortigiani, favoriti, cooptati che non possono (ancora) abbandonare il padrone per quanta voglia ne abbiano, e che trasformano il Parlamento non, come si diceva una volta, nell'anticamera dei partiti, ma nell'alcova di Arcore.


E tuttavia temo che le squallide vicende che siamo costretti a vivere abbiano un significato per certi aspetti ancora più drammatico di quelle di allora. Sarebbe forse utile alzare lo sguardo per coglierlo. So che è difficile farlo quando attraversi un pantano, o qualcosa di peggio. So che si corre il rischio di passare per quelli che vogliono parlar d'altro. Ma bisogna anche scommettere che questo Paese saprà tornare a ragionare di politica e sul proprio futuro.

Il berlusconismo, depurato da tutte gli evidenti "disturbi" di ordine psicologico che caratterizzano chi lo incarna, rappresenta la fase estrema di un processo generale di de-responsabilizzazione dell'agire politico. Il principio di responsabilità implica il "primato" dell'analisi, della definizione razionale di obiettivi e programmi, che si ritengono rispondenti, appunto, all'interesse comune, sulla base di trasparenti "calcoli" costi-benefici, e la messa tra parentesi di ogni altra finalità.

Ma questo modello è in radicale crisi da molto tempo. E di questa crisi il berlusconismo è un prodotto, non certo la causa. Le sue ragioni sono diverse, ma tutte radicate nell'attuale sistema: dalla formazione di blocchi economico-politici, dentro i quali è inevitabile collocarsi se si vuol competere sul mercato politico, alla fisiologica auto-referenzialità dei grandi apparati tecnocratici, dall'organizzazione della stessa ricerca, all'economia e alla finanza globali.

Di fronte a queste potenze, quella dell'agire politico tradizionale decade di minuto in minuto. E in proporzione diretta si accresce la funzione dell'annuncio, della promessa, della ricerca a breve del consenso, che può essere garantita solo dal possesso di importanti mezzi di informazione e manipolazione dell'opinione pubblica. L'immaginazione va allora "al potere".

Il politico de-responsabilizzato non produce più né analisi, né programmi, e neppure utopie, ma narrazioni fantastiche, "spettacoli", "irresponsabili" per natura. Non si tratta di "bugie", ma di invenzioni. La scena ha realmente sostituito la realtà. Il mondo si è trasformato davvero in "volontà e rappresentazione". Chi ne è più intimamente convinto, saprà essere anche il più convincente nel trasmetterne l'immagine. Nessun "piano", nessun complotto, nessun "grande fratello" a dirigere la partita. Si tratta di processi intimamente connessi a questa fase del mondo occidentale e dei regimi democratici. È in gioco lo stesso principio della rappresentanza, poiché l'eliminazione di ogni "principio di realtà" ha come conseguenza logica l'idea di una "simbiosi" tra il politico e il suo rappresentato - idea che sta al fondamento di ogni demagogia e di ogni populismo.

Il potere politico tende allora a farsi immanente alla vita dell'individuo. Come il sistema produttivo è anzitutto produzione dello stesso consumo, così l'agire politico si fa mera produzione di consenso. Ogni altra finalità tramonta. Berlusconi, a modo suo, interpreta questo drammatico passaggio. Non ne è né inventore, né regista, ma piuttosto il perfetto burattino - quello ontologicamente legato alla sua scena, incapace anche solo di concepirsi fuori di essa.

Qualunque sia la parte che è chiamato a recitarvi (e infatti le vorrebbe tutte per sé), per lui si tratta di vita, non di finzione. I costumi degli italiani erano forse i più disposti al mondo a condividere questo processo di de-responsabilizzazione dell'agire politico. Anche per questo non sarà affatto né semplice né breve risalire la china. E non raccontiamoci che basterà pensionare il signore di Arcore. berlusconismo

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da - espresso.repubblica.it


Titolo: MASSIMO CACCIARI La Lega ha fallito. Ma lo sa?
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2011, 04:42:37 pm
La Lega ha fallito. Ma lo sa?

di Massimo Cacciari

Con il premier chiuso nel bunker, nessun vero federalismo vedrà mai la luce.

Al massimo passeranno un paio di leggine, ma l'obiettivo storico del Carroccio sarà clamorosamente mancato.

E quando se ne accorgeranno, l'alleanza col Pdl entrerà in crisi

(18 febbraio 2011)

Manifestazione della Lega Manifestazione della LegaNon sembra che la (pseudo) politica della "spallata" stia dando i frutti sperati. Forse sarebbe stato più saggio, nella prospettiva del progressivo disfacimento del Pdl, lavorare alla costruzione di una nuova polarità capace davvero di ereditarne la base elettorale, piuttosto che puntare sull'azzardo di quell'un-voto-uno alla Camera, che avrebbe dovuto pensionare Silvio Berlusconi.
L'impazienza non è soltanto pessima consigliera ma, diceva quel tale, il peccato più imperdonabile. Forse si sarebbe dovuto, in alternativa, afferrare al volo le prime grida del sopra citato,"alle urne! alle urne!", piuttosto che cullare l'illusione di governi di transizione, per "ritirarsi" a chiedere il voto dopo la sconfitta sulla fiducia.

Ma lasciamo perdere la tattica (di cui anche, si dovrebbe sapere, è fatta la politica) e veniamo alla cosa. E questa consiste in due motivi strettamente connessi. Che la forza residua, ma nient'affatto trascurabile, del regime berlusconiano sta nel suo rapporto con la Lega, e che al Nord, o almeno nel Lombardo-Veneto, si è formato qualcosa di molto simile a una "egemonia" del centrodestra più Lega, che rende al momento assolutamente minoritaria anche la presenza di quel futuribile soggetto, Casini-Fini-Rutelli, la cui "vocazione" dovrebbe essere quella di predisporre il "luogo" in cui "contenere" l'auspicata crisi dello pseudo-partito berlusconiano. Da ciò deriva more geometrico che è politicamente nei confronti della Lega che sarebbe necessario lavorare.
Per quanto negli anni "romanizzata" e ministerializzata, per quanti intrallazzi di ogni genere possano avere avuto i suoi capi con il Capo, la Lega rimane "ontologicamente" legata all'obiettivo della riforma federalistica. Ora, i suoi leader seri, da Umberto Bossi a Roberto Maroni, sanno benissimo che gli attuali provvedimenti nulla hanno a che vedere con il federalismo comunque inteso.

Le idee-chiave di autonomia impositiva e piena corresponsabilizzazione degli enti locali nella politica fiscale vi sono totalmente assenti. Neppure il pieno potere in materia di imposta sugli immobili è stato conferito ai Comuni! Chi ne voglia sapere di più legga ciò che ne dicono i federalisti veri, da Luca Ricolfi a Gianluigi Bizioli, sul piano economico-amministrativo, da Giuseppe Duso a Mario Bertolissi, su quello storico-teorico. Ma i Bossi e i Maroni sanno altrettanto bene che la ragione per cui la montagna di chiacchiere sul federalismo (che Gianfranco Miglio ce li perdoni) ha partorito i topolini dei provvedimenti Calderoli, sta nel fallimento di quella riforma costituzionale che rappresenta il quadro e il fondamento anche di ogni federalismo fiscale e che ha al suo centro la costituzione di un Senato delle Autonomie, con la conseguente e inevitabile radicale modifica del sistema elettorale.

Ora è a tutti ormai evidente che una riforma di tale pregnanza è assolutamente impossibile con un capo del governo nelle condizioni di endemico conflitto di interessi come Berlusconi, incapace di ogni rapporto costruttivo con gli altri poteri dello Stato, per non dire con l'opposizione. E una riforma costituzionale mai è stata o sarà realizzabile se non aprendo una fase seriamente costituente, che sappia coinvolgere tutte le forze politico-culturali in campo. La Lega lo sa. Come lo sapeva probabilmente anche nel 1994. Lasciamo perdere le ampolle del dio Po e le mitologie secessioniste. La realtà politica di allora fu che nessuno nel centrosinistra aprì un rapporto serio, programmatico, con la Lega intorno ai temi di suo vitale interesse.
E ora? Può il Pd, può il possibile, ma forse poco probabile, nuovo "polo", sfidare su questo terreno la Lega e metterne così alla prova il vincolo, che non credo affatto immortale, con le sorti di Berlusconi? Ed è evidente come questa prospettiva si affiancherebbe nel modo più efficace a proposte di coerente, autentica liberalizzazione, che i Fini e i Casini dovrebbero avanzare all'elettorato Pdl. Per dirne una soltanto: che cosa aspettiamo a esigere la vendita di mamma Rai? O altrimenti rassegnamoci all'attesa messianica della "pistola fumante". Ma la professione del politico non è quella del detective o del giudice. O mi sbaglio?

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Titolo: MASSIMO CACCIARI - B. è un comico, in senso tecnico
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:49:51 pm
B. è un comico, in senso tecnico

di Massimo Cacciari

Sulle rive del Mediterraneo è in corso una tragedia. mentre da noi è tutta una farsa.

Guidata da un attore che mette in scena, infinitamente, la nuda esibizione di se stesso

(04 marzo 2011)

È propria della vita - e in qualche modo anche delle più grandi espressioni artistiche - l'indistricabile relazione tra tragedia e farsa. Forse un modo "nobile" di leggere la situazione attuale del nostro Paese è proprio questo. Esplode l'intero Maghreb; la micro-politica europea e occidentale nei confronti del mondo islamico, priva di qualsiasi filo conduttore, fatta di rimozioni, compromessi, ipocrisie e assurde violenze, giunge al suo inevitabile fallimento; si spalancano falle paurose attraverso cui possono irrompere in Italia e in Europa centinaia di migliaia di disperati, con effetti sociali e politici ingovernabili; sul fronte interno, per dirne una che basterebbe e avanzerebbe da sola a denunciare il fallimento di una classe dirigente, è stata sprecata (Draghi dixit) un'intera generazione - ma i destini della patria sembrano in gran parte dipendere dalle avventure erotico-giudiziarie di un leader che affida le proprie difese come i propri attacchi a show che sono comici, nel senso tecnico, nient'affatto semplicemente spregiativo, del termine.
Comica è, infatti, quella figura che vuole esprimersi o assumere ruoli secondo una misura che essenzialmente e evidentemente non le compete. In questo senso, è comica la pretesa di rappresentarsi sulla scena internazionale come grande protagonista - quando ciò sarebbe, per un Paese come il nostro oggi, impossibile a chiunque. Comica, ancora di più, la grinta decisionistica (che porta, poi, inevitabilmente, al di là del gioco degli affari che ci starà sotto, alle amicizie con rais e dittatorelli), quando non si riesce a partorire che topolini come le cosiddette riforme dell'università o il "federalismo fiscale", nient'altro che traslochi di vecchi mobili da una stanza all'altra dell'antico palazzo. Comica l'ira con la quale ci si abbatte sugli altri poteri dello Stato, mascherandosi da "rivoluzionario", quando questi atteggiamenti non rivelano che l'incapacità o l'impossibilità (vista la mole del conflitto di interessi) di dialogare con essi, per giungere davvero finalmente alla necessaria riforma del sistema giudiziario.

Insomma, questo personaggio meriterebbe un vero autore. Un autore che ne comprendesse anche l'intima relazione con gli aspetti tragici del nostro tempo, poiché il personaggio comico deve poterli rivelare attraverso il suo stesso comportamento. E questo è il caso, se ci riflettiamo seriamente, dei tratti narcisistici, per certi versi deliranti, del tipo-Berlusconi. Tutto sembra disporsi per lui sul piano del valore d'uso e di scambio. Ogni cosa esiste per essere acquisita e goduta distrattamente, pronti a passare ad altra. Il ritmo della vita è quello del movimento del denaro, dell'"universale bagascia del genere umano", per dirla con Shakespeare.
È questo irrefrenabile movimento la vera amante del nostro leader - che poi si "incarni" in questa o quella fanciulla conta niente. E lo spettacolo, come la moda, deve rinnovarsi in ogni stagione. È il mondo della universale e permanente esposizione quello in cui lui vive, il mondo della coazione a ripetere il nuovo e a esporlo in modo seducente, il mondo, insomma, letteralmente, dell'osceno. Ma, se è così, ecco allora che egli rivela, per quanto appunto comicamente, un mondo comune. De te fabula narratur. Mai si potrà comprendere il successo del "tipo", senza averne coscienza, e tantomeno combatterlo con efficacia. Ciò che dovrebbe essere spiegato coi fatti al vasto mondo comune col tipo-Berlusconi, è che il movimento della produzione di merci e di consumo si regge alla lunga soltanto fondandosi su autentici produttori, o aspiranti tali, che, a difesa dei propri legittimi interessi, richiedono e promuovono autentiche riforme, capaci di stabilizzare il sistema. Il produttore che inventa le mode non ha alcun bisogno di politici alla moda. Chi produce il consumo attraverso la perenne metamorfosi della merce, non saprebbe che farsene di chi la imita recitandola. Il vero produttore sa distinguere tra quella "universale bagascia" con cui deve quotidianamente trattare e le funzioni di governo e parlamento. Piaccia o no, non saranno ragioni "morali" a spezzare definitivamente il suo play con il personaggio-Berlusconi, ma una proposta politica credibile su tutti gli obbiettivi di riforma e di liberalizzazione clamorosamente mancati da quest'ultimo.

Non riusciremo, certo, per questo a liberarci dal mondo della universale esposizione. Dall'anelito per i "mondi nuovi" siamo purtroppo guariti. Ma almeno ci risparmieremo, finalmente, lo spettacolo dell'attore che, avendo riposto tutta la propria vita sulla nuda esibizione di sé, ora, comicamente, esige una rigorosa difesa della privacy, anche quando dei poveri magistrati vanno indagando intorno a ipotesi di reato. Nessuno in politica è più pericoloso di colui che ignora la parte che la storia e il suo carattere gli assegnano.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Ma in Italia c'è la democrazia?
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:15:49 pm
Ma in Italia c'è la democrazia?

di Massimo Cacciari

Il 'potere esercitato dal popolo' funziona solo se questo è capace di scegliere i migliori, non gli idioti populisti.

Altrimenti si svuota, perde senso: diventa piaggeria verso gli elettori e compiacimento di una massa di infanti

(29 marzo 2011)

Oggi che, da non molto per la verità, siamo felicemente tutti diventati democratici, dovremmo forse cercare di spiegarci che cosa intendiamo con questo termine. Esso si adatta poco agli entusiasmi ideologici da neofita e ha più a che fare con sobrietà, disincanto e, soprattutto, realismo. la domanda radicale è allora la seguente: che cosa possono, quale potere detengono e a quale potere possono oggi realisticamente aspirare i principi democratici? Non c'è dubbio che i loro limiti risultano più evidenti di giorno in giorno.

Scelte decisive per la nostra vita avvengono in ambiti e attraverso procedure sottratte per loro natura a ogni forma di "legittimazione" democratica e spesso anche di semplice controllo ex-post. Tuttavia proprio questo dovrebbe spingere a cercare in ogni modo di sfruttare al meglio i margini ancora concessi per l'esercizio di un "potere democratico". Nulla potrà mai impedire, per fare qualcosa più di un esempio, a capitali e merci di muoversi sotto la bandiera dell'"ubi pecunia ibi patria" (e ai poveri di andare dove sperano di trovare pane e lavoro) ma sono sempre possibili severe norme antimonopolistiche, armonizzazione delle politiche fiscali (almeno nell'ambito dell'Unione europea!), leggi che colpiscano il conflitto d'interesse a tutti i livelli, ecc.

La debolezza conclamata dell'idea democratica nei confronti delle "grandi potenze" dell'epoca, del "complesso" economico-finanziario e tecnico-scientifico, dovrebbe rendercela ancora più preziosa e indispensabile, e ancor più urgentemente invitarci a dimostrarne, pur in tutti i suoi limiti, una sua attuale efficacia. O altrimenti rassegniamoci alla nobile "difesa" del suo passato.

Come sono esistite "rivoluzioni conservatrici", forse oggi viviamo, più modestamente, in "democrazie della conservazione", caratterizzate da pachidermici tempi nell'assumere qualsiasi decisione - ma come sapranno confrontarsi tali regimi con una storia mondiale che sta assumendo caratteri del tutto rivoluzionari, rimane misterioso.

E già qui tocchiamo un punto essenziale. Attualizzare e rafforzare l'idea democratica, renderla capace di confronto effettivo con le "grandi potenze", significa disporre di una classe politica formata dai "migliori". Migliori in greco si dice "aristoi". � paradossale ma, a un tempo, del tutto logico: democrazia esige aristocrazia. Il popolo esige, o dovrebbe esigere, di essere rappresentato dai migliori; non vogliamo correre il rischio di essere governati da idioti per diritti divini o successori, o da caste che si autoperpetuano. E' un'idea regolativa, ma serve a ragionare: se a un certo punto si avverte che la procedura democratica non funziona più nel promuovere gli "aristoi", ma magari proprio a rovescio, e che la classe politica ha come proprio fine l'investitura di cortigiani e fedeli, l'idea democratica perde di senso, prima ancora che di funzione.

Quando i partiti politici si riducono a oligarchie e comitati elettorali, quando selezionano invece che competenze economiche, giuridiche, istituzionali, retori, ideologi e portaborse, possono proclamarsi democratici da qui all'eternità, ma agiscono nei fatti per precipitare la democrazia a demagogia e populismo. Questi non rappresentano infatti che l'esito della crisi dell'idea di rappresentanza agli occhi dei "rappresentati".

Ma tutto dovranno fare i "migliori" tranne che "piaggiare" (da cui "piaggeria") e cioè lusingare, blandire, compiacere i "rappresentati". Sono appunto i populisti di ogni colore a trattare paternalisticamente il popolo, come una massa di infanti incapaci di intendere e far proprio un discorso che aspiri a essere se non vero, almeno verosimile. E' del demagogo procedere per seducenti "immagini", invece che ragionamenti. Un popolo maturo rifiuta chi non è responsabile nei confronti delle domande che esso pone (oppure chi presuma che basti ascoltarle!), ma ancor più chi non lo tratta da responsabile.

La democrazia entra in una crisi senza sbocco allorché il politico irresponsabile si sposa a un'opinione pubblica che, per i motivi più vari, abbia rinunciato alle proprie responsabilità, e cioè ai propri doveri. Quando il popolo cessa di essere formato da persone responsabili, allora vince necessariamente il demagogo che gli dice: eccomi qui, faccio io, adesso ti prometto...

Quando, invece, la persona comprende che il suo stesso "privato" ha interesse e valore pubblico, quando essa esige che siano applicati rigorosamente i principi di sussidiarietà, cuore dell'autentico federalismo, e che i suoi rappresentanti politici dicano in modo competente ciò che ritengono realisticamente essere il "bene comune" perseguibile, e a che prezzo, allora e soltanto allora la democrazia potrà iniziare a funzionare.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Perché Berlusconi urla tanto
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 04:05:59 pm
Perché Berlusconi urla tanto

di Massimo Cacciari

I toni da guerra civile e gli attacchi continui fanno parte di una strategia precisa: costringere gli altri a giocare in difesa di qualcosa (la Costituzione, la magistratura, la democrazia etc.) e ribaltare così il tavolo della politica

(26 aprile 2011)

E' possibile spiegare razionalmente l'escalation berlusconiana?
E' pensabile che i toni da guerra civile dell'ultimo periodo esprimano soltanto una delirante paura per i procedimenti giudiziari in corso? oppure è ormai necessario ricorrere a spiegazioni di ordine clinico-psicologico? Io credo che, come tutta la storia di questo ventennio ci insegna, il comportamento di Berlusconi corrisponda, invece, a disegni e calcoli precisi, anche se condotti con una spregiudicatezza straordinaria, ai limiti dell'irresponsabile. D'altra parte, questa capacità di movimento e di "assalto", non condizionata da alcuna organizzazione di partito e culturalmente estranea a ogni "diplomazia" politica, è sempre stata un'arma essenziale del Presidente del Consiglio, e un'arma, temo, in profonda sintonia antropologica con una buona fetta, se non la maggioranza, dei nostri concittadini.

Anzitutto, si tratta per Berlusconi di capitalizzare al meglio e nel più breve tempo possibile lo scampato pericolo del voto sulla fiducia. Quella vittoria poteva subito trasformarsi in rapida agonia se non fosse stata immediatamente rilanciata. Una classica manovra di contropiede, altrimenti gli avversari avrebbero occupato stabilmente, soffocandolo, la sua metà campo. Non si è da decenni presidenti del Milan per nulla. Ma ancor più pericoloso appariva il gioco che si andava aprendo all'interno del Pdl. Qui tutto indica, comunque, un futuro di indecente disgregazione correntizia, da Democrazia cristiana degli anni più bui ma senza neanche lo straccio di un cavallo di razza. Credo che Berlusconi sia abbastanza cinico e disincantato da conoscere bene tale destino ma, fino a quando sarà in sella, dovrà assolutamente lottare per rimandarlo. Non solo perché refrattario psicologicamente all'idea di finire sconfitto, ma per portare a termine tutte le iniziative che gli appaiano indispensabili a garantirgli immunità assoluta, personale e dei suoi colossali business. Alzare al parossismo il tono dello scontro ha come necessario effetto eliminare ogni seria discussione interna e concentrare il proprio "popolo" sull'agenda dettata dal Capo. Stabilita questa situazione, ci si può anche concedere il lusso di "abbondare", facendo intendere che anche l'erede sarà scelto, alla fine, da chi impera.

Ma il risultato forse più cospicuo del berlusconiano richiamo alle armi è disarmare ulteriormente l'opposizione. Paradossale, ma logico. Costringere l'opposizione all'angolo, in difesa degli "inviolabili principi" della democrazia e della Costituzione è il gioco in cui Berlusconi è apparso fino a oggi più abile. E di fronte ai furibondi attacchi di questi giorni è davvero difficile non sentirsi obbligati a "difendere", non essere "conservatori". Come poter, obiettivamente, far intendere la propria voce sui disastri della scuola, sul precariato universale dei giovani, sul colpevole dilettantismo di cui ha dato prova la nostra politica estera in questo periodo di crisi epocali, sull'impreparazione totale ad affrontare il drammatico problema dell'immigrazione, di fronte a chi "piccona" quotidianamente i cardini dell'attuale ordinamento democratico, delle regole vigenti? "Bucare" oggi le grida di Berlusconi è veramente un compito improbo.
Certo, completamente diverso sarebbe il quadro se il centrosinistra, nelle sue varie denominazioni, avesse posto al centro della propria strategia già da anni il tema di una riforma di respiro costituzionale, radicale quanto coerente. Ma così non è avvenuto, e forse non poteva avvenire, per la cultura e la storia dei suoi gruppi dirigenti.

Così si continua nell'inseguimento. Oppure si ripetono proposte oggi "irricevibili", che potevano avere un senso soltanto alla vigilia della fallita "spallata" finiana, su governi di "decantazione". Nel frattempo, Berlusconi radicalizza ogni dimensione del confronto, spiazzando ancora una volta l'opposizione. La sua uscita a Milano è emblematica. Da un anno e passa il sottoscritto va insistendo sull'importanza politica del voto di Milano e sulla necessità per il centrosinistra di aprire in questa città un autentico "laboratorio politico", provando a dar vita a un "nuovo polo" riformatore. Questa prospettiva, del tutto realistica, è stata gettata via per incapacità, per inerzia burocratica, per cupo conservatorismo. Berlusconi ha capito la posta in gioco, e la debolezza della Moratti, e si spende senza alcun "pudore". I capi dell'opposizione seguiranno. Speriamo non sia l'ennesima occasione perduta.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI - Un laboratorio sotto la Madunina
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 11:17:08 am
L'opinione

Un laboratorio sotto la Madunina

di Massimo Cacciari

Solo un'alleanza tra sinistra e centro a Milano può dare qualche speranza all'Italia

(13 maggio 2011)

Non sarà questa un'ora fatale per la Patria, ma certo molto importante, quella che passa per il cielo di Milano con le imminenti elezioni comunali. Il loro esito inciderà profondamente sugli equilibri e le prospettive, non solo politiche, della nostra amata, e mai nata, Italia. Se l'ex capitale morale non riparte, valorizzando, coordinando e "liberando" tutte le sue energie ed eccellenze, rimane impensabile la ripresa nazionale. E se Milano non riscopre, rinnovandola, la sua anima riformista europea, quella che l'ha fatta "avanguardia" in tutti i campi fino ai fatali anni ottanta, altrettanto impensabile è il suo rilancio. O una nuova classe politica e un nuovo ceto dirigente iniziano a delinearsi proprio a Milano, nel concreto dell'esperienza amministrativa della metropoli, o dubito assai che maturi tra Montecitorio, Palazzo Madama e le ridotte romane degli ex partiti.

Berlusconi ha compreso l'importanza della sfida ed è sceso in campo a modo suo, chiamando a raccolta, o meglio, alle armi, tutti i peggiori umori del suo elettorato - che rimane vastissimo e inossidabile (non male se finalmente lo si capisse) a scandali e a procedimenti giudiziari. La barcollante Moratti, che forse per gusto ed educazione avrebbe fatto volentieri a meno dell'aiuto, non era nelle condizioni di rifiutarlo, perché comunque il premier si gioca a Milano una fetta decisiva delle sue possibilità di terminare il Ventennio, e magari anche battere il record. L'appuntamento era suo - con buona pace delle anime belle che pensavano al confronto programmatico-amministrativo e alle autonomie locali! E con buona pace della Lega, che si accingeva a giocare da protagonista sulla scena elettorale, dopo aver tentato di far fuori la Moratti, ed è costretta a inseguire l'ondata berlusconiana.

Berlusconi e Lega sono semplicemente terrorizzati dal secondo turno. I malumori e peggio della base leghista diverrebbero dilaganti se mancasse la vittoria secca. E già l'andare al secondo turno rappresenterebbe una evidente sconfitta di Berlusconi in persona. Si aprirebbe uno scenario dagli esiti imprevedibili. Ma lo scenario in sé non solo era prevedibilissimo, ma concretamente previsto da tutti coloro dotati di senno all'ombra della Madonnina. Il confronto di Milano doveva essere pensato e preparato in questa chiave dall'opposizione, in anticipo sulle inevitabili mosse del premier. E questo doveva significare presentarsi ai milanesi con una proposta politica di respiro strategico, innovativa, che dichiarasse con franchezza i limiti dell'iniziativa del centrosinistra nel Paese e nel Nord, e indicasse la volontà concreta di voltar pagina sia sul terreno dei programmi, che delle alleanze.

Il Pd ha preferito il quieto vivere, i percorsi inerziali, raschiando il fondo delle sue rendite. E rischiando così di fallire un'occasione storica. Eppure sembra che i leader nazionali intendano davvero "provarci" con forze di centro vecchie e nuove, che abbiano (quasi) compreso che con partiti schierati in un certo modo su giustizia o politica estera è un po' difficile pensare di far molta strada come forza di governo. Eppure, forse, hanno prestato un orecchio alle parole di Napolitano. Tuttavia, questa volta, un dio potrebbe salvarci.

Il centro o "nuovo polo" presenta una candidatura giovane, preparata, quella di Palmeri, che può sottrarre voti preziosi all'armata berlusconiana, unita solo dalla sacra fames, e nel Pd il capolista Boeri, vittima sacrificale del rito delle primarie, è uomo di cultura e di idee. Insieme possono esprimere un'offerta politica convincente, fuori da decrepiti schemi ideologici e da appartenenze partitiche ormai ridotte a puri fantasmi. Insieme potrebbero rappresentare i cardini di una futura, buona amministrazione di svolta. Se ci sarà il secondo turno, così dovranno giocare. Ma dicano subito che il loro futuro governo sarà della città tutta, dicano che si impegnano a raccogliere le competenze e i progetti più validi da qualsiasi parte essi provengano. Come l'Italia, così Milano ha bisogno estremo di una fase costituente. E questa la si apre soltanto col coraggio di uscire dal blocco dell'attuale pseudo-bipolarismo - proprio se di uno autentico si avverte l'esigenza.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Ora basta con questo decrepito bipolarismo
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 10:22:30 am
L'opinione

Ora basta con questo decrepito bipolarismo

di Massimo Cacciari

Pisapia dovrà presentarsi non come il candidato di una parte, ma come sindaco dell'intera città e mostrare di agire fin d'ora per formare una governance aperta, innovativa

(19 maggio 2011)

Che cosa è successo a Milano? Le dimensioni della sconfitta del berlusconismo sono tali che non bastano i fattori locali o contingenti a spiegarla. Era scontata la straordinaria debolezza della candidatura della Moratti; largamente previsto l'effetto del "disagio" della base leghista per la figura del suo grande e ingombrante alleato, così come della candidata da lui imposta; più o meno calcolabile il peso che avrebbero avuto sull'esito elettorale scissioni e crisi all'interno dello stesso Pdl. Aggiungiamo a tutto ciò gli harakiri commessi con una campagna "di guerra" sconclusionata, dettata evidentemente da un panico di sconfitta, che ha accreditato ulteriormente Pisapia presso l'opinione pubblica cosiddetta moderata. Tutto ciò e altro ancora - ivi compresa l'intelligente condotta dello stesso Pisapia, che è riuscito a far "dimenticare", almeno per il momento, l'obsoleta forma ulivistica della sua coalizione - non basta a spiegare la straordinarietà dell'evento, da nessuno, checché ora se ne chiacchieri, prevista o prevedibile. Si tratta, potrebbe trattarsi dell'inizio del venir meno dell'appoggio reale, strutturale da parte di corposi, materiali interessi sociali e economici delle aree più forti del Nord al centrodestra berlusconiano-bossiano.

Del primo, ma eclatante, sintomo di rigetto del berlusconismo da parte di ampi settori di ceto medio e borghesia "nordista". Cartellino giallo o rosso? Su questo dovrebbe interrogarsi a fondo l'opposizione. Il risultato dimostra che la situazione era comunque matura per tentare un coraggioso "spariglio" e offrire fin d'ora all'elettorato tradizionale di centrodestra una soluzione di governo innovativa. Per l'intero Paese e non solo a Milano, ma a partire da Milano. Non si è voluto aprire questo laboratorio - scelte strategiche, buone non solo a vincere di quando in quando, ma a governare, sono state una volta ancora rimandate - e tuttavia la partita si è aperta. E' probabile che la Lega renda ora esplicita la sua volontà di "superare" il ventennio berlusconiano e punti decisamente al passaggio del testimone a personalità come Tremonti.

Difficile che Bossi resti ancora sul carro perdente. E' possibile che la batosta induca lo stesso Berlusconi a non opporre la sua più psicologica, che politica, repulsione al pensionamento. Insomma, un'accelerazione della crisi in atto da tempo nel centrodestra appare più che probabile. Ma essa passa attraverso almeno due condizioni.

La prima, elementare, è vincere a Milano. La seconda è che questa vittoria sia presentabile davvero all'intero Paese come l'inizio di una fase nuova, come la fine del lungo, estenuante aborto della seconda Repubblica, con energia e respiro costituenti.

Guai a dare per scontata a Milano l'automatica conferma dello straordinario risultato di domenica scorsa. E' necessario annullare "in contropiede" l'unica arma efficace di cui la destra potrebbe disporre: chiamare a raccolta tutti i suoi elettori, indurli a tornare massicciamente al voto di fronte al "pericolo rosso". E questa volta anche la Lega, tradizionalmente poco propensa alle fatiche del doppio turno, potrebbe mobilitarsi.

Perdere Milano rappresenta una sciagura anche per lei. Altrimenti il recupero appare statisticamente del tutto improbabile.

Pisapia dovrà perciò presentarsi fin d'ora non come il candidato di una parte (e di quella parte che a livello nazionale non ha risolto nessuno dei suoi problemi programmatici e politici), ma come sindaco dell'intera città e mostrare di agire fin d'ora per formare una governance aperta, innovativa. Nessuna trattativa partitica per apparentamenti o compromessi. Un discorso, invece, alla città e al Paese che esprima la volontà di interpretare una fase nuova, oltre il decrepito bipolarismo che ci affligge, e la coscienza della crisi non solo del centrodestra, ma anche delle difficoltà di fondo dell'opposizione nell'elaborare una strategia alternativa credibile.

Questo discorso è destinato a incontrare nei fatti intenzioni e aspettative anche di quei settori di opinione pubblica che hanno votato Manfredi Palmeri e "nuovo polo", ampi o no che siano (ma certo, in prospettiva, molto più larghi di quanto appaia nel voto di oggi, e certamente decisivi domani in elezioni politiche). Così si blinda il risultato di Milano, ma soprattutto si gettano le fondamenta per la svolta nazionale. Ricordiamoci del '93 e delle cieche speranze che allora perdettero il centrosinistra, dopo il clamoroso en plein in tutte le grandi città. Elezioni per autonomie locali seguono sempre anche logiche autonome. Il voto a questo livello, politicamente parlando, è sempre anche più "libero". Pensare che lo schema-Milano, così come si è realizzato, possa a breve valere per l'intero Paese sarebbe cullarsi nell'ennesima illusione. Ma già per il ballottaggio si può dare, proprio a Milano, il segnale concreto di aver compreso la lezione della storia e, proprio perché forti del risultato, iniziare a costruire solidi rapporti con gli interessi, le componenti sociali, le correnti culturali che hanno segnato in questi ultimi anni la crisi del centrodestra. Questo lo si fa con proposte di riforma e di governo, non con compromessi tra oligarchie romanocentriche. Lo si fa parlando anzitutto di "questione settentrionale", che significa autentico federalismo, riforma della pubblica amministrazione, politiche industriali e per la ricerca, nuovo welfare "a immagine" dei giovani, della scuola, della ricerca.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Italia, rivoluzione in arrivo?
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2011, 06:31:39 pm
Italia, rivoluzione in arrivo?

di Massimo Cacciari

Quando un establishment non riesce a dare un motivo di fiducia alle nuove generazioni, scoppia tutto.

E da noi la rivolta sarà dei giovani professionisti, del ceto medio impoverito, di tutti quelli che stanno fuori dalle caste

(24 agosto 2011)


Primavera italiana?

L'espressione potrebbe davvero ricordare le drammatiche esperienze che si stanno vivendo in molti Paesi dell'altra sponda dell'antico mare nostrum? Le somiglianze non sono di ordine politico o istituzionale. Per quanto l'immagine della nostra politica sia giunta a livelli di indecenza impensabili fino a qualche anno fa, non siamo nelle mani né dei Mubarak né dei Ben Ali e ancor meno degli Assad. Alla peggio siamo stati fedeli alleati dei Gheddafi. Il parallelo può risultare istruttivo sotto altri profili. Occorre però partire da un'analisi non molto diffusa degli avvenimenti che stanno sconvolgendo gli equilibri sociali e politici dei Paesi islamici. Gli stereotipi della rivolta "islamica", così come quelli su occulti complotti ai vertici del potere, risultano del tutto inadeguati a giudicare la novità del fenomeno.

Sostanzialmente, la rivolta si diffonde del tutto al di fuori delle correnti religiose, ideologiche e politiche tradizionali. E con mezzi che non hanno più nulla a che vedere con quelli dell'appello carismatico e della direzione organizzativa "dall'alto". Chi sono i protagonisti? Giovani, operai e studenti, un ceto medio spesso anche altamente qualificato e comunque molto più qualificato della generazione precedente, con forti aspirazioni di mobilità sociale, colpiti da una crisi che si rovescia essenzialmente sulla loro condizione e sulle loro speranze.

Medici, ingegneri, architetti, giovani professionisti, generazione Erasmus bene o male anche questa, che si credevano fondatamente nuova classe dirigente nei loro Paesi e che si trovano sotto-occupati, peggio che precari quando va bene, disoccupati in massa, aspiranti solo a un posto sui barconi in fuga dall'assoluta miseria non solo economica ma umana. I regimi di quei Paesi hanno fallito per mille motivi ma il motivo scatenante della rivolta a me pare questo: nessuna classe dirigente può sopravvivere se non riesce a dare motivo di fiducia alle nuove generazioni. Anzi, direi paradossalmente, agli stessi non-nati, se non riesce a farle partecipare alla costruzione del loro destino.

Non c'entrano fondamentalismi, non c'entrano ideologie. La domanda di democrazia è concreta, materiale. Giustamente questi giovani concepiscono il valore della democrazia nella sua essenza, non per le chiacchiere che ne sommergono l'immagine. E questa è: garanzia di mobilità sociale, abbattimento delle barriere dei privilegi corporativi, intollerabilità di una fisiologica corruzione, partecipazione effettiva, e non "discutidora", alle decisioni che contano per la vita collettiva. Quando tutti questi meccanismi si inceppano, la pressione sale fino allo scoppio. E non se ne accorge soltanto chi vede la pignatta dall'esterno e non avverte il vulcano dentro.

Perché questa rivolta è risultata tanto imprevedibile ai potentati di Occidente? Come mai "esperti", quali il focoso Strauss-Kahn, allora direttore del Fondo monetario internazionale, potevano additare ad esempio di buona gestione dell'economia e delle politiche sociali il governo tunisino qualche giorno prima che lo stesso venisse cacciato? O il nostro povero Berlusconi poteva ritenere Gheddafi un invincibile alla vigilia della guerra civile? Semplicemente perché anche da noi, mutatis mutandis, la politica, nel senso più generale e proprio del termine, ha cessato di considerare ciò che si svolge e matura nel cuore di quelle energie che daranno vita comunque al Paese di domani. Ha cessato di guardare al non-ancora, a ciò che ancora non è organizzazione stabile, corporazione consolidata, lavoro garantito, e che comunque mai lo sarà nelle vecchie forme, come al problema decisivo dell'agenda politica.

Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C'è da credere o temere che la loro pazienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Non aspettiamoci che la "rivolta" avvenga, se avverrà, attraverso dichiarazioni di principio, pubblicazione di quei bei programmi in 5 mila pagine che elaborano i partiti prima delle elezioni. Come i loro colleghi d'oltre mare, si riconosceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade "immateriali". E quando finalmente si manifesterà la loro "potenza", oggi tutta ancora "potenziale", i vecchi, c'è da giurarlo, diranno: "Imprevedibile". Poiché "il vecchio" è caratterizzato appunto dall'ignorare il possibile.

Per l'organismo capace solo di sopravvivere o difendersi vale soltanto la forza delle corporazioni e degli ordini vigenti, i settori garantiti del lavoro, delle pensioni e magari della rendita. Esattamente come per quei regimi che la "primavera araba" promette di spazzare via. C'è ancora tempo da noi per una soluzione ragionata? Ogni intervento che si limiti a tamponare l'emergenza, senza prefigurare anche e soprattutto un nuovo patto tra generazioni (e generi e genti) non sarà che l'ennesima irresponsabile scelta di abbandonare agli eredi tutti i nostri misfatti.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI I barbari sono già dentro casa
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 05:01:41 pm
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L'opinione

I barbari sono già dentro casa

di Massimo Cacciari

L'Impero del Grande Occidente ha fallito.

Non si è accorto che i veri nemici li aveva intorno a sé: quelli che ci hanno portato al crack finanziario.

E che sono stati salvati perché continuino a fare come prima

(22 settembre 2011)

L'incredibile farsa con cui si stanno chiudendo gli anni perduti della "seconda Repubblica"(d'altra parte dramma satiresco e tragedia si accompagnavano anche nelle rappresentazioni antiche) minaccia di nascondere i tratti davvero, per certi versi, rivelatori della crisi che attraversiamo. Nel corso degli anni novanta si era fatta prepotentemente strada l'idea che un Ordine globale - satanico o divino, a seconda dei punti di vista, ma un Ordine - fosse non solo possibile, ma in corso di concreta realizzazione. Dopo l'11 settembre a molti sembra che gli Stati Uniti abbiano irreversibilmente deciso di diventarne il Soggetto se non esclusivo, certo egemone. Il Soggetto che per potenza economica e militare, per supremazia nella ricerca tecnico-scientifica, per vocazione di popolo, per visione ideale e strategica, è chiamato, quasi per dovere, a rappresentare l'autorità capace di "tenere in forma" il mondo, contenerne e mediarne i conflitti, debellare i superbi, benevolmente accogliere i "convertiti". E soprattutto rassicurare i "buoni": borse, mercati, imprese.

Questa utopia imperiale è durata meno di un mattino. E non perché l'"impero" ha fallito nel superare il famoso "clash of civilizations"(che è problema mille leghe oltre ogni "giurisdizione" politica), ma per la sua manifesta incapacità di gestire il "crash" all'interno dello stesso sistema socio-economico dominante - che si chiama capitalismo. Si è scoperto che i barbari non premevano ai confini, ma erano saldamente radicati in casa. A caccia dell'Ordine, l'"Impero" ha lasciato fare a quelle forze di cui grandi liberali, à la Weber o à la Keynes, dicevano: vorrebbero spegnere il sole perché non dà dividendi. E quando le indomabili energie raccolte sotto la bandiera dell'"ubi pecunia, ibi patria" hanno minacciato di travolgere tutto nel loro crack, sono state salvate - affinché continuino a operare esattamente come prima. Il grande Ordine democratico mondiale, che era stato progettato dall'alto di Capitol Hill, sembra non fare per loro. Ci siamo finalmente destati? Abbiamo compreso che il vero, drammatico problema del secolo avvenire sarà la regolazione globale dei flussi finanziari, del commercio mondiale, l'armonizzazione delle politiche economiche e fiscali nei paesi più forti - e non la "repressione" del fondamentalismo islamico? Sono le contraddizioni interne al "grande Occidente" che possono determinare anche esiti catastrofici, e non lo "scontro tra civiltà"!

Ma perché è così difficile fare politica su tali questioni? Perché manca o è fallito un Impero? Perché è utopia una Repubblica universale? Per "colpa" degli staterelli l'un contro l'altro armati? Per una general-generica "crisi" della politica o inadeguatezza delle classi politiche? Credo che anche su questo punto gli ultimi anni siano stati rivelatori. Smettiamola di ragionare come se il Politico, nel mondo attuale, potesse essere considerato "autonomo" rispetto al sistema economico-finanziario, al mondo della comunicazione, a quello della ricerca più avanzata. Le classiche distinzioni tra poteri, e quella tra Politico ed Economico, appartengono tutte all'altro secolo. Non esistono moderni Principi che controllino, contengano, medino dall'esterno - esiste un impersonale sistema di potere, di cui la politica è parte e in cui continui sono gli scambi di ruolo - un sistema costituito tanto da convergenze e alleanze, quanto da sanguinosi conflitti. Affari, politica, media formano aggregati che si fanno e disfano a ritmi sempre più sincopati. E non vi è Piano, non vi è occulta plancia di comando che operi sulla base di "visioni del mondo". Tutto è connesso, tutto "in rete", si dice, in questo nuovo Evo - e volete che non sia così anche tra le diverse potenze che dovrebbero regolare la nostra vita? Il problema è che questa "rete" sembra ogni giorno che passa più strappata e incapace di risolvere le crisi che essa stessa produce.

Chi ci salverà? Salviamoci per il momento, almeno in Italia, da Berlusconi - ma si sappia che il sopra citato non è che la rappresentazione grottesca, strapaesana e ormai vergognosa di un dramma di portata epocale.

  11 settembre

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Impero americano Prometeo non abita più qui
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:10:29 am
Cultura

12/10/2011 - IDEM ANALIZZA L’AMERICAN DREAM

Impero americano Prometeo non abita più qui

Le illusioni create dalla caduta del Titano sovietico non si sono avverate, nell'incapacità di "vincere la pace"

MASSIMO CACCIARI

IDEM è una nuova rivista bimestrale di cultura e società diretta da Vittorio Emanuele Parsi, nel cui comitato editoriale figurano, fra gli altri, Massimo Cacciari, Camilla Baresani, Angelo Panebianco, Nicola Pasini. I numeri sono monografici: quello in distribuzione, American dream , è sull'America come paesaggio simbolico e analizza il suo rilievo e il suo ruolo nel mondo contemporaneo. Pubblichiamo un ampio stralcio dal testo di Massimo Cacciari L'ideale dell'Impero da Prometeo a Epimeteo . Info www.idem-on.net

Il periodo che va dal crollo del «socialismo reale» alla nuova «grande crisi» che stiamo attraversando può forse davvero essere definito un’epoca. (...) Alla vigilia di un’epoca i segnali per leggerla rimangono nascosti. I tempi sembrano, anzi, favorire previsioni opposte. La vigilia di un’epoca si caratterizza per la chiacchiera sulle nostre capacità di «controllare» il futuro, mentre l’epoca, che poi ne segue, sembra «fatta» per dimostrare l’eterna legge dell’eterogenesi dei fini. Così avvenne nell’anno mirabile 1989. La terza guerra mondiale era finita. Un solo Titano rimaneva sulla scena, dalla potenza inavvicinabile. Ma era un Titano, a dispetto del nome, che si voleva non violento. Era un Prometeo benefattore nei confronti dei miseri mortali, che avrebbe lavorato e si sarebbe volentieri sacrificato per ordinare ad unità i loro contrasti e assicurare loro giustizia e benessere. Come Prometeo, aveva per noi in serbo il dono più prezioso: la ragione, il numero, la capacità di calcolare e trasformare. L’affermazione del suo modello di razionalità sarebbe stato il fondamento della sicurezza e della pace.

Alba o tramonto? L’epoca avvicina i colori fino a confonderli. Ma tutti o quasi obbedirono a quell’Annuncio come all’alba di un Nuovo Inizio. Tramontava finalmente il tragico Novecento della «tirannia dei valori», sorgeva l’età della concordia tra scienza, tecnica, mercato, democrazia e «diritti umani». Che potesse esservi stata una inconfessabile simbiosi tra i due Titani (a partire dallo loro stessa comune origine!) - che soltanto insieme essi potessero regnare - e che dunque la fine dell’uno potesse significare una mortale minaccia per l’altro - tutto ciò non fu neppure sospettato. Semmai i tradizionali avversari del vincitore si esercitarono nel deprecarne la solitaria potenza - giustificati in questo soltanto dall’indecente giubilo dei suoi vassalli.

L’epoca che allora si è aperta ha fatto giustizia di questo ciarpame, ricordandoci il grande motto romano: vae victoribus . La guerra non si vince fino a quando non si vince la pace. Poteva vincerla Prometeo? Poteva questo Titano condurre a termine l’ ordinatio ad unum , cui si sentiva da sempre vocato, di questo sempre più piccolo e povero pianeta? Certo, egli rappresentava la corrente spirituale e politica più forte dell’Occidente, l’unica potenza egemonica sopravvissuta al suicidio d’Europa, profondamente radicata in una grande cultura popolare, forte di valori condivisi. Ma qui stava anche la sua debolezza. La sua stessa potenza creava l’illusione che il mondo potesse essere guidato dalla cima del Campidoglio. Già a stento lo era stato nei decenni precedenti attraverso il foedus, sempre incerto, ma anche sempre operante, tra Impero d’Occidente e Impero d’Oriente. Il crollo di quest’ultimo terremotava automaticamente intere regioni geo-politicamente strategiche, sulle quali il vincitore non aveva quasi presa alcuna; «liberava» energie prima in qualche modo controllate o costrette a giocare sempre, comunque all’interno della «guerra mondiale»; frantumava il conflitto rendendolo illeggibile a chi si era educato a calcolarlo secondo i parametri «universalistici» di quella guerra.

L’epoca ha posto all’ordine del giorno, prepotentemente, l’idea di Impero e altrettanto prepotentemente l’ha smantellata. Ecco un esempio eclatante di quella morsa del tempo che un’epoca rappresenta. L’occasione imperiale si affacciava quasi di necessità alla proclamazione della vittoria. I vassalli europei seguivano plaudenti il suo carro. Ma altrettanto facevano gli avversari. Nessuna apologia dell’Impero fu più convincente, riguardo al destino che esso avrebbe dovuto rappresentare, delle loro critiche. Ma Prometeo non è intrinsecamente capace di Impero. Non sa concepirlo ex nationibus ; non ha alcuna idea del pluralismo che è immanente al suo stesso concetto (pluralismo ideologico, religioso, culturale); di conseguenza, non riesce a dar vita a forme di governo autenticamente «imperiali». La guerra - che, già lungo tutti gli Anni 60 e 70, il vincitore aveva dimostrato di non essere in grado di condurre efficacemente al di fuori degli schemi di razionalità militare fondati sul concetto di iustus hostis - non è che la prosecuzione del fallimento della politica con altri mezzi. L’Impero dura fino all’11 settembre. E poi l'epoca ne consuma il tracollo.

L’11 settembre crea l’illusione di un rilancio in grande stile dell’idea imperiale; in realtà ne segna la fine. Le sciagurate guerre di Bush junior ne inseguono il fantasma, mentre cercano di mascherare le cause anche materiali che ne decretano il fallimento.

Era accaduto, sempre in questo tempo breve, nel breviloquio dell’epoca, che il nuovo Impero avesse costruito gran parte della propria egemonia sul dilagare del debito; era accaduto che il suo popolo, anche in base alla fede nella propria missione, si fosse andato caratterizzando per un risparmio negativo. Era accaduto che le politiche dell’aspirante Impero avessero dato il via libera al più glorioso periodo di deregulation che la storia del capitalismo forse ricordi, al crollo di ogni forma di controllo sulle attività economiche e finanziarie. Era accaduto che tutto questo portasse il vincitore a dipendere prima dal Giappone e poi dalla Cina per il finanziamento del proprio debito. Era accaduto che questo comportasse la «resa» alla Cina su questioni fondamentali come il suo ingresso nel Wto in quanto economia di mercato (sic!) e il mantenimento della sua moneta a valori incredibilmente bassi. Accade ora che l’Impero si trovi a «sovranità limitata» come qualsiasi Stato della vecchia Europa.

Naturalmente, le risorse di Prometeo sono immense. Ma è evidente che le sue velleità di ordinatio ad unum sono fallite. E non potevano che fallire. La presidenza Obama registra e amministra questo fallimento. Sarà blasfemo anzi, certamente lo è - ma il pensiero viene inevitabile. Chi non salutò come luci dell’alba anche la perestrojka gorbacioviana? Qualcuno se ne ricorda? Ma Gorbaciov era, tragicamente, soltanto rex destruens . (...) Obama: ecco la possibilità di rilanciare l’idea imperiale secondo il filo d’Arianna dei «diritti umani», del vangelo democratico, dell’ecumenismo dialogico. E con l’eterna icona di JFK alle spalle. Ma non sembra restargli, invece, che «smontare» guerre altrui, trattare con le «maledette» agenzie di rating, che, dopo aver fatto strame di ogni effettivo controllo negli anni della grande bolla, ora segnalano da severi censori le imminenti vittime alla speculazione internazionale; cercare di dar forma plausibile al groviglio indistricabile che si è formato tra economia americana e Repubblica Popolare Cinese.

Non c'è alcun Impero alla fine dell’epoca, e meno ancora un’organizzazione multi-polare fondata su autentici foedera . Chi sembrava poter aspirare a fungere da «nocchiero» globale vent’anni fa, ora si regge in piedi a fatica. Chi ora svolge una funzione economico-finanziaria chiave non è in alcun modo in grado di svolgere una funzione politicamente egemone. Potrà rinascere il primo? Potrà trasformarsi in potenza politica globale il secondo? Potranno vecchie e nuove potenze dar vita a una organizzazione comune, a partire dai «fondamentali» finanziari, economici e commerciali? L’epoca sospende il giudizio. I Prometeo, coloro che credono di tutto prevedere, sono soltanto coloro che la preparano, la progettano. Alla fine, si «calcola» come ciò che è avvenuto corrisponda all’atteso per una percentuale minima e non si azzardano previsioni. L’epoca inizia con Prometeo e termina con Epimeteo. Dalla modestia del suo dubitare, e dal realismo disincantato delle sue analisi, potremo forse trarre qualche beneficio.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/424457/


Titolo: MASSIMO CACCIARI Magari tornasse lo spirito borghese
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2011, 11:45:14 pm
Opinione

Magari tornasse lo spirito borghese

di Massimo Cacciari

Montezemolo, Profumo, Marcegaglia. L'interesse per la politica di manager e imprenditori potrebbe segnalare un ritorno della borghesia a quei sani principi che l'etica capitalista ha dimenticato

(20 ottobre 2011)

Quale significato attribuire alle ricorrenti notizie sulla "discesa in campo" dei Montezemolo, dei Profumo, delle Marcegaglia? Soltanto prodotto dell'"angoscia" per le sorti della Patria? O dell'affannosa ricerca di "re stranieri" da parte di politici e partiti per lo meno "perplessi" intorno alla propria sorte?

E' possibile tentare un discorso che non resti schiacciato sulle nostre quotidiane miserie? Attraversiamo una crisi che pone drammaticamente in luce le conseguenze del trionfo dell'anonimo potere di amministratori e manager, del trasformarsi del profitto da mezzo per l'accumulazione allargata e l'innovazione a fine in sé, dell'endemico conflitto di interessi, denunciato assai per tempo da studiosi come Guido Rossi, tra imprese, agenzie di controllo, lo stesso ceto politico. Erano queste le forze economiche e sociali che esigevano deregulation e che, alla fine, concepivano come norma valida esclusivamente quella mercatoria.

Forse, consapevolmente o no, al fondo del rinnovato impegno politico di tanti imprenditori balena uno spirito o un'"etica" borghese, che si poteva ritenere sepolta, e che da noi mai è esistita, se non per qualche individualità. Spirito borghese e capitalismo, in particolare capitalismo finanziario, non sono affatto la stessa cosa. Vi corre, se vogliamo, una differenza analoga a quella che certa sociologia e filosofia dell'inizio del XX secolo poneva tra Cultura e Civilizzazione.

Il borghese colloca il proprio "affare" in un contesto di relazioni sociali, culturali, etiche. Egli tenta di legittimare il proprio potere anche come moralmente autorevole. E questa autorevolezza cerca di ottenerla anche attraverso l'esercizio di "antiche virtù", come la moderazione e un certo grado di "ascesi" (il famoso principio del differimento del consumo caro ai neo-classici). L'essere proprietario è per lui una condizione che obbliga, è fonte di doveri. E il primo dei doveri consiste nella partecipazione consapevole alla res publica.

Il capitalista "puro" vorrebbe lo Stato come suo "ministro", da minus, e cioè sempre al proprio servizio, e mai e poi mai come magister (da magis). Il "borghese", o il capitalista "borghese", lo concepisce, invece, soprattutto come fattore di integrazione sociale, di promozione di nuove opportunità per i meno abbienti, di servizi "universali".

In Italia, almeno da una generazione, lo Stato ha cessato di svolgere queste funzioni. Ha mancato ogni patto tra generazioni, ogni foedus tra territori, ha assistito al frantumarsi di ogni ethos nazionale (quel pochissimo che poteva ancora esserci) in guerra per caste, ha condotto i processi formativi al collasso. E tutto nella quasi completa indifferenza, fino, appunto, agli anni dell'emergere della crisi, da parte di un capitalismo nostrano egemonizzato dalla "cultura" della deregulation - quando non impegnato a inseguire i favori del governo - da un capitalismo, dunque, estraneo alla "cultura borghese".
Scocca finalmente l'ora del riscatto di quest'ultima? Una neo-borghesia, che non sia "borghigiana", come diceva De Mita, può esistere in questo Paese? Qualcosa si muove in tal senso, dietro alle dichiarazioni e denunce di questo o quel personaggio? Difficile per ora dire quanto esse siano il frutto di un'autentica maturazione politico-culturale, e quanto, invece, semplicemente il grido di allarme per l'intollerabilità della situazione al termine dell'abortita seconda Repubblica.

Più in generale, è difficilissimo dire se vi sia ancora spazio nel mondo del "capitalismo cinese" per un'etica borghese. Ma forse un contraccolpo, da questa parte sociale, alle sciagurate conseguenze del neo-liberismo e del capitalismo finanziario "scatenato" è nell'ordine delle cose, e guai a quelle forze politiche che non ne comprendono la possibilità e l'opportunità che ciò rappresenta. Nessuna fase costituente si aprirà mai in Italia senza l'appoggio e la partecipazione di un capitalismo imprenditoriale per qualche verso erede dello spirito borghese.

 
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Democrazia, riflessioni sull'uso
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:55:07 pm
Opinione

Democrazia, riflessioni sull'uso

di Massimo Cacciari

Il governi nazionali svuotati dai poteri economici. L'esigenza diffusa di un 'tribuno' popolare.

I rischi del ricorso continuo ai referendum.

Come si fa, oggi, a stabilire nuovi ed efficaci canali per la rappresentanza dei cittadini?

(15 novembre 2011)

La decisione (poi revocata) del Governo greco di sottoporre a referendum popolare gli accordi con l'unione europea solleva questioni storiche, politiche e dottrinarie di grande rilievo. Peccato che il dramma abbia come interpreti Sarkozy e la Merkel invece che De Gaulle e Adenauer. c'è imperatore e imperatore anche nel Reich franco-carolingio... La domanda essenziale sta in questi termini: a quale vuoto fantasma si è mai ridotta l'idea di sovranità popolare di fronte a quel sistema di potere che "mette in rete", su scala planetaria, pubblico e privato,tecnocrazie e finanza, imprese multinazionali e comunità scientifica?

Questo sistema non ammette un Sovrano sopra di sé: in ampia misura le stesse antiche sovranità statali si sono ridotte a sue funzioni. I governi nazionali possono fare altro che amministrare in sede locale le conseguenze del groviglio di decisioni, compromessi, conflitti di cui quell'insieme è formato? E se è così per i governi, quanto può contare il "popolo", che da quelli dovrebbe essere rappresentato?

Già i singoli governi, ridotti a "autonomie locali" e sempre più "neutralizzati" da assilli elettoralistici e ideologie parlamentaristiche, hanno l'aria di nascondere la propria impotenza dietro ai diktat di quella sovranità-senza-sovrano, presentandola come una legge di natura. Come potrebbe il "popolo" (addirittura un singolo "popolo") esprimersi in modo competente, e corrispondente al proprio interesse di lungo periodo, su problemi economico-finanziari globali? Attraverso partecipazioni meramente "discutidore" si corre il rischio di rafforzare il discredito di cui già godono le istituzioni democratiche: a che serve un Parlamento che non decide, che non sa agire da mio rappresentante proprio sulle questioni per me più vitali? Perché pagare per la politica impotente?

La decisione (poi revocata) del Governo greco di sottoporre a referendum popolare gli accordi con l'unione europea solleva questioni storiche, politiche e dottrinarie di grande rilievo. Peccato che il dramma abbia come interpreti Sarkozy e la Merkel invece che De Gaulle e Adenauer. c'è imperatore e imperatore anche nel Reich franco-carolingio... La domanda essenziale sta in questi termini: a quale vuoto fantasma si è mai ridotta l'idea di sovranità popolare di fronte a quel sistema di potere che "mette in rete", su scala planetaria, pubblico e privato,tecnocrazie e finanza, imprese multinazionali e comunità scientifica?

Questo sistema non ammette un Sovrano sopra di sé: in ampia misura le stesse antiche sovranità statali si sono ridotte a sue funzioni. I governi nazionali possono fare altro che amministrare in sede locale le conseguenze del groviglio di decisioni, compromessi, conflitti di cui quell'insieme è formato? E se è così per i governi, quanto può contare il "popolo", che da quelli dovrebbe essere rappresentato?

Già i singoli governi, ridotti a "autonomie locali" e sempre più "neutralizzati" da assilli elettoralistici e ideologie parlamentaristiche, hanno l'aria di nascondere la propria impotenza dietro ai diktat di quella sovranità-senza-sovrano, presentandola come una legge di natura. Come potrebbe il "popolo" (addirittura un singolo "popolo") esprimersi in modo competente, e corrispondente al proprio interesse di lungo periodo, su problemi economico-finanziari globali? Attraverso partecipazioni meramente "discutidore" si corre il rischio di rafforzare il discredito di cui già godono le istituzioni democratiche: a che serve un Parlamento che non decide, che non sa agire da mio rappresentante proprio sulle questioni per me più vitali? Perché pagare per la politica impotente?

Il "popolo" esige decisioni, non referendum, ma decisioni intorno alle quali sia possibile discussione e controllo. Parlamento e governo sembrano sempre meno in grado di offrire tale garanzia. E ciò finirà col mettere in crisi l'idea stessa di rappresentanza. La sovranità popolare non può ridursi oggi alla procedura elettorale. Ma meno ancora si può pensare di rianimarla con l'esaltazione ideologica dello strumento referendario. La stima che circonda alcuna figure (come da noi il presidente Napolitano) sta a indicare come il "popolo" avverta l'acuto bisogno di propri tribuni, un organo di potere effettivo e permanente, autonomo rispetto al "palazzo", capace di confrontarsi con esso su basi realistiche e con competenza. Ma nulla nelle vigenti costituzioni apre a una simile prospettiva.

E poi ci vorrebbe il "popolo", che non è "moltitudine", e cioè aggregato di individui, interessi e passioni, o occasionale ritrovarsi di "movimenti".

Il discorso riporta così a quegli organi che, nell'attuale situazione storica, almeno in Europa, potrebbero svolgere una funzione "tribunizia" e rappresentare per quanto possibile un "potere popolare" nei confronti delle potenze dominanti della globalizzazione. Si tratta del "sistema delle autonomie": da quelle che si esprimono nella rete delle città, a quelle del "terzo settore", a quelle stesse dei sindacati e dei partiti. In particolare queste ultime non erano state pensate essenzialmente proprio così nella nostra Costituzione, e cioè come defensor populi? Ma la loro trasformazione in strumenti di difesa corporativa e in comitati elettorali può apparire anch'essa un esito necessario della "evoluzione" della forma democratica, in un mondo dove la forma-Stato europea tradizionale (inapplicabile ai "grandi spazi" russi, asiatici e anche americani) resiste nel proprio tramonto.

Eppure, moltitudine o popolo che sia, il suo potere, nella storia, è tutt'altro che un mito. Magari come puro potere negativo, esso è realissimo. Alla fine, quando tutti i canali di rappresentanza si rivelassero bloccati, quando finisse l'illusione di potervi supplire attraverso l'azione di altri organi dello Stato (come la magistratura), nascano o meno nuovi "tribuni", abbia volto o no il sistema sovranazionale di potere oggi dominante, esploderà il no delle masse subordinate. E non vi sarà referendum, allora, che ne potrà arrestare la potenza.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/democrazia-riflessioni-sulluso/2166104/18/1


Titolo: MASSIMO CACCIARI Monti può durare oltre il 2013
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2011, 10:48:23 pm
Monti può durare oltre il 2013

di Massimo Cacciari

«Altro che tecnico, questo è un governo politico. Infatti alcuni partiti iniziano a temerlo.

Anche perché sanno che se riesce a durare ancora un po', al prossimo giro le elezioni le vincerebbe lui».

Il parere di un filosofo

(22 dicembre 2011)

C'E' una parte, non proprio inconsistente, del "ceto politico" che crede di mostrare la propria "potenza" minacciando l'attuale governo di impedirgli di fare. E' questa l'unica arte politica in cui vantiamo un indiscusso primato. Nel frattempo mario Monti, all'ombra del Presidente giorgio napolitano, sembra crescere in autorevolezza e popolarità. ed E' ogni giorno più chiaro che gli equilibri politici futuri ,o almeno l'esito delle prossime elezioni, si giocheranno sul ruolo politico del tecnico professor Monti e di alcuni dei suoi più vicini ministri.

Non penso affatto a nuovi partiti, ma alla aggregazione intorno alla sua figura di un arcipelago di soggetti diversi, a partire da quelli che, a dispetto di ogni geografia, si chiamano "terzo polo". Se Monti, oltre la conclusione della manovra, riuscirà a durare fino al 2013, questo scenario mi pare obbligato: vincerà quella coalizione che sarà in grado, allora, di presentarlo come proprio leader - e poco importa se per palazzo Chigi o per il Quirinale. Chi volesse impedirlo non ha che una carta da giocare, contro gli interessi del Paese: mandare a casa il governo al più presto.

Smettiamola, dunque, con le ipocrisie e cerchiamo invece di comprendere la lezione di questo drammatico momento. Il governo Monti è politicus maxime per il significato che riveste e la prospettiva che può aprire. E' politico perché governo del Presidente, secondo la lettera della stessa Costituzione (ma non il suo spirito, certamente, e tanto meno la sua tradizione non scritta). E' politico perché accerta difficoltà sistemiche del funzionamento delle istituzioni ad affrontare crisi complesse e globali, come quella attuale. E' politico perché manifesta irreversibilmente il tracollo di un sistema parlamentaristico puro come quello italiano e dovrebbe spingere tutti i desti a metter mano a riforme radicali nel rapporto tra il cosiddetto potere esecutivo e le assemblee elettive. E' politico perché esige il ripensamento altrettanto radicale della forma-partito e dei meccanismi di selezione delle élite dirigenti.

Senza la più decisa assunzione di responsabilità su questi temi, il crollo di credibilità e di fiducia di cui "gode" l'attuale politica diverrà un abisso incolmabile. E se Monti vorrà o potrà continuare la sua avventura, questi temi dovrà avere, prima o poi, la forza di porre. Con ciò stesso imponendo finalmente alle forze politiche, sindacali e imprenditoriali decisioni da decenni sempre rinviate. Decisioni che, nomen omen, le divideranno al loro interno. Ma da cui potrebbe nascere finalmente una coalizione capace di governare - cioè di affrontare la prospettiva oggi necessariamente impraticabile, quella della crescita e dell'equità. Quella di un nuovo welfare, non più ingessato da "ordini", non più congelato da corporazioni e lobbies - e non più in superstiziosa adorazione di feticci parlamentaristico-assembleari.

Credo che il Paese attenda con ansia questo momento, in cui cesseremo anche di doverci baloccare con l'assurdo dei "governi tecnici", che tecnici non sono né potrebbero essere, con le ideologie da un secolo fuori mercato della "tecnica" come qualcosa di "libero dai valori" o politicamente e culturalmente neutrale, con l'idoletto della scienza per grazia veritiera e obbiettiva. Il momento in cui Monti & Co. dovranno prendere posizione, decidere e dividere. Sarà un momento in cui questo Paese, ancora per tanti versi "infante", troppo facile preda di demagoghi e ipocrisie, potrebbe crescere e maturare un poco.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI I giovani sono i nuovi schiavi
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 05:01:04 pm
La polemica

I giovani sono i nuovi schiavi

di Massimo Cacciari

Uno su tre è disoccupato, gli altri due lavorano senza previdenza, senza diritti, in imprese con tassi di mortalità elevatissimi e costrette a una competizione pazzesca. Mentre sono del tutto ignorati dalla politica. E' a loro, oggi, che bisogna guardare

(16 gennaio 2012)

Sulle trasformazioni dell'organizzazione e della composizione del lavoro e sulla fine dell'epoca "fordista" circolano da decenni biblioteche di studi, che più o meno ormai si ripetono, usque ad nauseam. Non occorre essere esperti per capire che l'eroico tempo della grande concentrazione operaia e industriale, dei grandi conflitti tra capitale e lavoro, è tramontata per sempre. almeno da noi (risorgerà, chissà in quali forme, in India, in Cina?): basta avere occhi e girare per le nostre metropoli.

Quel tempo è diventato archeologia. Ma l'inerzia delle organizzazioni sindacali e politiche è pari soltanto a quella delle nostre lingue: le loro strategie mutano con fatica e lentezza anche maggiori. Tutto l'attuale dibattito in materia di occupazione e diritti del lavoro ha l'aria di un nostalgico revival tra vecchie destre e vecchie sinistre. Forse che gli articoli 18 hanno impedito licenziamenti di massa in questi anni, o possono frenare, non dico arrestare, i mutamenti del processo produttivo, della composizione dell'occupazione, la delocalizzazione? E, altra faccia della stessa medaglia fuori corso, le apologie più o meno mascherate su flessibilità, mobilità, ecc. Forse che è sufficiente la disponibilità sindacale su tali materie perché si decida di investire? Come se tale disponibilità non si manifestasse già, piena, a volte anche troppo, nella realtà dei rapporti di lavoro. Forse che investire, oggi, significa automaticamente aumentare la domanda di lavoro?

E mentre ci si balocca a difendere trincee sulle quali il "nemico" è già passato coi carri armati, tutta una generazione aspetta di essere riconosciuta nei suoi nuovi, specifici problemi e, magari, di organizzarsi. Come lavora quel 60 per cento di giovani "fortunati" che un lavoro ce l'hanno? Inventandoselo, nella maggior parte dei casi. Lavoro nelle maglie della piccola o piccolissima impresa; lavoro autonomo di servizio, anche ad alta intensità di "conoscenza"; free lance di ogni tipo. Quel poco di occupazione che si crea, si crea fuori o ai margini dei settori tradizionali. Vuol dire più autonomia e "libertà"? Non scherziamo.

Nella maggioranza dei casi, queste nuove imprese, di dimensioni quasi individuali, senza alcun sostegno finanziario, con tassi di mortalità elevatissimi, erogano un lavoro ancor più dipendente di quello salariato di una volta. Non solo perché "servono" a imprese pubbliche o private più strutturate e politicamente e sindacalmente più influenti, non solo perché ne sono in larga misura l'effetto del processo di "esternalizzazione", ma perché costrette a una competizione "mortale" tra loro per ottenere commesse, che si vedono poi pagate con ritardi insostenibili. Mille volte peggio che precari! E ciò che fa schifo è appunto questo: che il lavoro giovane, che aspira certamente a essere autonomo, che è certamente più ricco culturalmente di quello antico, debba pregare per farsi riconoscere, per potersi sviluppare. Che il futuro, bello o brutto che sia, debba stare al servizio del passato: questo condanna un paese, una nazione, una civiltà.

Quanti giovani lavorano "dispersi" in questa galassia? Senza alcun sostegno dal sistema bancario, ignorati dalla cosiddetta politica. Senza garanzia previdenziale. Con sussidi di disoccupazione, tra un periodo di lavoro e l'altro, che sono i più bassi di Europa. E non certo di semplici "ammortizzatori" vi sarebbe bisogno ma di una politica del lavoro capace di strutturare queste nuove forme di impresa, di puntare sulla loro crescita. O pensiamo di poter aumentare l'occupazione nel lavoro pubblico dipendente a tempo indeterminato? Una politica attiva del lavoro è oggi pensabile soltanto come tutela, sostegno strategico, organizzazione sindacale delle nuove professionalità che, al di là dei vecchi ordini e del loro decrepito corporativismo, si vanno formando nella "rete" dei servizi alle imprese globali, nell'informazione, nella cultura (patrimoni artistici, paesaggistici, turismo). Sarebbe ora di metter mano all'aratro e cessare di volgere indietro lo sguardo.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-giovani-sono-i-nuovi-schiavi/2171879/18


Titolo: MASSIMO CACCIARI I giovani sono i nuovi schiavi
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 10:01:53 pm

I giovani sono i nuovi schiavi

di Massimo Cacciari

Uno su tre è disoccupato, gli altri due lavorano senza previdenza, senza diritti, in imprese con tassi di mortalità elevatissimi e costrette a una competizione pazzesca. Mentre sono del tutto ignorati dalla politica. E' a loro, oggi, che bisogna guardare

(16 gennaio 2012)

Sulle trasformazioni dell'organizzazione e della composizione del lavoro e sulla fine dell'epoca "fordista" circolano da decenni biblioteche di studi, che più o meno ormai si ripetono, usque ad nauseam. Non occorre essere esperti per capire che l'eroico tempo della grande concentrazione operaia e industriale, dei grandi conflitti tra capitale e lavoro, è tramontata per sempre. almeno da noi (risorgerà, chissà in quali forme, in India, in Cina?): basta avere occhi e girare per le nostre metropoli.

Quel tempo è diventato archeologia. Ma l'inerzia delle organizzazioni sindacali e politiche è pari soltanto a quella delle nostre lingue: le loro strategie mutano con fatica e lentezza anche maggiori. Tutto l'attuale dibattito in materia di occupazione e diritti del lavoro ha l'aria di un nostalgico revival tra vecchie destre e vecchie sinistre. Forse che gli articoli 18 hanno impedito licenziamenti di massa in questi anni, o possono frenare, non dico arrestare, i mutamenti del processo produttivo, della composizione dell'occupazione, la delocalizzazione? E, altra faccia della stessa medaglia fuori corso, le apologie più o meno mascherate su flessibilità, mobilità, ecc. Forse che è sufficiente la disponibilità sindacale su tali materie perché si decida di investire? Come se tale disponibilità non si manifestasse già, piena, a volte anche troppo, nella realtà dei rapporti di lavoro. Forse che investire, oggi, significa automaticamente aumentare la domanda di lavoro?

E mentre ci si balocca a difendere trincee sulle quali il "nemico" è già passato coi carri armati, tutta una generazione aspetta di essere riconosciuta nei suoi nuovi, specifici problemi e, magari, di organizzarsi. Come lavora quel 60 per cento di giovani "fortunati" che un lavoro ce l'hanno? Inventandoselo, nella maggior parte dei casi. Lavoro nelle maglie della piccola o piccolissima impresa; lavoro autonomo di servizio, anche ad alta intensità di "conoscenza"; free lance di ogni tipo. Quel poco di occupazione che si crea, si crea fuori o ai margini dei settori tradizionali. Vuol dire più autonomia e "libertà"? Non scherziamo.

Nella maggioranza dei casi, queste nuove imprese, di dimensioni quasi individuali, senza alcun sostegno finanziario, con tassi di mortalità elevatissimi, erogano un lavoro ancor più dipendente di quello salariato di una volta. Non solo perché "servono" a imprese pubbliche o private più strutturate e politicamente e sindacalmente più influenti, non solo perché ne sono in larga misura l'effetto del processo di "esternalizzazione", ma perché costrette a una competizione "mortale" tra loro per ottenere commesse, che si vedono poi pagate con ritardi insostenibili. Mille volte peggio che precari! E ciò che fa schifo è appunto questo: che il lavoro giovane, che aspira certamente a essere autonomo, che è certamente più ricco culturalmente di quello antico, debba pregare per farsi riconoscere, per potersi sviluppare. Che il futuro, bello o brutto che sia, debba stare al servizio del passato: questo condanna un paese, una nazione, una civiltà.

Quanti giovani lavorano "dispersi" in questa galassia? Senza alcun sostegno dal sistema bancario, ignorati dalla cosiddetta politica. Senza garanzia previdenziale. Con sussidi di disoccupazione, tra un periodo di lavoro e l'altro, che sono i più bassi di Europa. E non certo di semplici "ammortizzatori" vi sarebbe bisogno ma di una politica del lavoro capace di strutturare queste nuove forme di impresa, di puntare sulla loro crescita. O pensiamo di poter aumentare l'occupazione nel lavoro pubblico dipendente a tempo indeterminato? Una politica attiva del lavoro è oggi pensabile soltanto come tutela, sostegno strategico, organizzazione sindacale delle nuove professionalità che, al di là dei vecchi ordini e del loro decrepito corporativismo, si vanno formando nella "rete" dei servizi alle imprese globali, nell'informazione, nella cultura (patrimoni artistici, paesaggistici, turismo). Sarebbe ora di metter mano all'aratro e cessare di volgere indietro lo sguardo.

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Titolo: Massimo CACCIARI - L'eredità pesante della demagogia
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2012, 11:58:53 pm
Opinione

L'eredità pesante della demagogia

di Massimo Cacciari

Se per vent'anni le promesse si sostituiscono ai programmi il paese va verso la decadenza.

Vincono lobby e interessi particolari.

Una società si regge solo se tra i cittadini esistono dialogo e solidarietà

(02 febbraio 2012)

Quanto sia arduo risalire la china di un ventennio dominato dalla "politica come demagogia", è quotidiana esperienza di questo governo (politico quant'altri mai, essendo sostanziale espressione della massima carica dello Stato). Quando per un'intera generazione le promesse si sostituiscono ai programmi, la prassi politica si commisura ai tempi delle scadenze elettorali e l'analisi sociale si riduce alla lettura dei sondaggi, ciò non è segno soltanto della "miseria" di idee e di uomini: è il nostro stesso linguaggio che minaccia di "catastrofizzare" in un magma di quasi-parole, di esclamazioni, di moti del sentimento oppure, peggio, di aggrapparsi a poche convinzioni, altrettanto semplici che vuote, refrattarie al confronto, esclusive, fermissime nella certezza di rappresentare la vox populi o il mitico "bene comune".

Una politica demagogica non sarebbe neppure concepibile in un "contesto comunicativo" diverso. C'è una profonda "complicità" tra il demagogo e la tendenza in noi forse innata di rifuggire dalla fatica di conoscere, di comprendere, di esprimere motivatamente e responsabilmente idee e intenzioni.

Il demagogo non è colui che seduce e guida: è essenzialmente chi segue e "serve" le peggiori inclinazioni del suo popolo, chi a priori ne asseconda e giustifica i desiderata. Così questi vent'anni, alla faccia di tutte le radicali "inimicizie" che hanno messo in scena e delle reciproche "demonizzazioni", sono stati l'incarnazione della pigrizia: nulla vi è stato fatto, nulla risolto, nulla progettato seriamente, nulla tenacemente perseguito se non, appunto, la demolizione delle capacità denotative del linguaggio politico, lo svuotamento di tutti i suoi termini-chiave.

La demagogia vive in un contesto di "irresponsabilità". E cioè in un contesto sociale in cui nessun interesse specifico "risponde" a interessi diversi, in cui ciascuno ritiene fermamente di far mondo a sé. Anche l'interesse più legittimo si rappresenta come esclusivo, esattamente come il privilegio più iniquo. E ciò disfa il tessuto sociale.

La società che si esprime in questi giorni nei confronti delle misure governativo-europee (a prescindere dal loro valore e dalla loro efficacia) non è una società ma una somma di diversi, disparati e incomunicabili interessi. Viene meno l'idea di reciprocità e relazione, anni luce prima di quella, ben più impegnativa, di solidarietà. La vita si rinserra all'interno di lobby e corporazioni, la cui azione è rivolta alla propria tutela o a pressanti richieste di interventi a spese del prossimo.

Una società non è riducibile alla competizione tra burocrazie politiche e sindacali, tra i diversi organismi cui danno vita le sue potenze economiche, tecniche, scientifiche. Una società può reggersi soltanto se i cittadini avvertono tra loro una relazione che in qualche modo precede e condiziona ogni loro scelta individuale. O altrimenti "società" diviene una vuota astrazione, un puro artificio.

I regimi demagogici, proprio anche attraverso la retorica, che è sempre, per sua natura, irresponsabile, su Valori, Tradizioni, Identità tendono sempre a condurre a un tale esito. E una volta qui sprofondati è difficile far ritorno alla luce. Ma è necessario, ancor più per quei milioni di giovani che aspettavano l'Europa della conoscenza e della innovazione, e che stanno vivendo quella della disoccupazione di massa, del precariato e della crisi del Welfare.

Se essi finiranno col disperare che esistano rapporti di reciprocità e colloquio nel nostro Paese, potremo allora concludere: "Il gioco è fatto". E noi lo abbiamo voluto.


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Titolo: MASSIMO CACCIARI Lo scenario della grande coalizione
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2012, 10:29:10 am
Lo scenario della grande coalizione

di Massimo Cacciari

Le idee di Monti e del mondo che rappresenta sono più vicine a quelle del centro-destra.

Se il Pd vuole evitare l'isolamento deve lavorare da subito all'obiettivo di una 'Grosse Koalition'

(16 febbraio 2012)

Più procede l'esperimento-Monti, più se ne manifesta la novità politica. Le risibili interpretazioni in chiave tecnico-neutrale lasciano il passo al vero interrogativo: come si de-costruiranno e ricomporranno intorno a Monti, alla sua squadra e ai poteri (forti e palesi) che egli rappresenta, gli attuali schieramenti politici quando dovranno affrontare la battaglia elettorale? Hic Rhodus, hic salta. L'alternativa al "non saltare" è solo quella di affossare Monti ora. E ciò, per i nostri ex poli, con l'aria che tira nei confronti dei partiti, equivarrebbe al suicidio.

Naturalmente, in ogni crisi, in ogni periodo di reale discontinuità, le forze in campo sono lungi dall'essere pienamente consapevoli del senso del loro agire e delle prospettive che esso apre. L'uomo fa certo la storia, ma quasi mai conosce la storia che fa, come ci hanno insegnato grandi compatrioti. E solo ex post, qualche volta, riusciamo a cavare una ragione dei fatti. Tuttavia è inevitabile cercare di orientarci sulla base di alcune regolarità, che rendono un accadimento più probabile di un altro. Ora, per cultura, per storia personale, ma soprattutto per le idee in materia economico-sociale che ha sempre espresso, e che alcuni lapsus non fanno che evidenziare anche in modo un po' grottesco, è improbabile che Monti (intendo sempre il mondo di cui è espressione) possa ritrovarsi in una coalizione più o meno "ulivista". E' l'antica area di centro-sinistra che dovrà "dirigersi" verso le sue posizioni, se la sua dirigenza riterrà che una tale alleanza sia necessaria per sé e per il Paese. E' assai più probabile, però, che questa convergenza si avvii da parte dell'antico centro-destra.

La frantumazione del Pdl è già in atto, e la sua componente maggioritaria non può avere altro destino. Ciò condurrebbe inevitabilmente alla "riappacificazione" con il centro di Casini e di Fini, che sarebbe certamente benedetta dalla stragrande maggioranza delle forze economiche e finanziarie internazionali. La condicio sine qua non, ovvio, è il definitivo abbandono della scena da parte di Berlusconi. Mi pare, peraltro, che l'addio ufficiale sia ormai nell'aria. Se a esso, poi, si accompagnasse quello di Bossi, anche la già tentata alleanza generazionale tra Alfano e Maroni potrebbe essere rilanciata (e la Lega continuerà nel 2013 a essere decisiva per vincere al Nord).

Esistono le condizioni, invece, per realizzare un programma di coalizione di governo tra il Pd e il cosidetto "terzo polo", oggi unico sostenitore sine glossa del governo Monti? E' evidente che non potrebbe mai presentarsi come un'alleanza strategica. Ma potrebbe avere un forte appeal nella prospettiva di una sorta di Grosse Koalition, di un governo di unità nazionale (non più solo di emergenza), in grado di farci recuperare un po' del tempo sciaguratamente perduto dalla Seconda Repubblica. Credo che sarebbe necessario lavorare in questa direzione. Qualche pezzo "a sinistra" il Pd così lo perderebbe, ma sfuggirebbe all'inevitabile "sciogliete le righe"cui andrebbe incontro se optasse per un nuovo Ulivo, schierato contro Monti. Sarà comunque vitale per il Pd impedire l'aggregarsi strategico intorno all'attuale presidente del Consiglio di un polo "classico" di centro, esplicitamente appoggiato dalle componenti maggioritarie del mondo cattolico, da metà del movimento sindacale, dalla Confindustria.

E' realistico pensare che ce la faccia? Certo non ce la farà ricorrendo ai tatticismi, evitando ogni decisione e crepando così come l'asino di Buridano. Semmai può provare a recuperare alcune idee che stavano, o avrebbero dovuto stare, alla base della costituzione del Pd: riforma federalistica, nuovo Welfare fondato sulla sussidiarietà, priorità assoluta per formazione e ricerca, appoggio alle giovani energie imprenditoriali, laicità senza arcaici laicismi. Quel partito non è mai nato. Se non nascerà (e se Monti non collasserà) le regolarità della storia invitano a ritenere che andremo, anche oltre il 2013, a un confronto tra una coalizione di centro sostanzialmente "montiana" e un ibrido di "sinistra" condizionato dalle sue componenti "estreme"( intendo: estremamente reazionarie). Grosse Koalition salvaci tu.

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Titolo: Massimo CACCIARI. Lo scenario della grande coalizione
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2012, 04:36:25 pm
Opinione

Lo scenario della grande coalizione

di Massimo Cacciari

Le idee di Monti e del mondo che rappresenta sono più vicine a quelle del centro-destra.

Se il Pd vuole evitare l'isolamento deve lavorare da subito all'obiettivo di una 'Grosse Koalition'

(16 febbraio 2012)

Più procede l'esperimento-Monti, più se ne manifesta la novità politica. Le risibili interpretazioni in chiave tecnico-neutrale lasciano il passo al vero interrogativo: come si de-costruiranno e ricomporranno intorno a Monti, alla sua squadra e ai poteri (forti e palesi) che egli rappresenta, gli attuali schieramenti politici quando dovranno affrontare la battaglia elettorale? Hic Rhodus, hic salta. L'alternativa al "non saltare" è solo quella di affossare Monti ora. E ciò, per i nostri ex poli, con l'aria che tira nei confronti dei partiti, equivarrebbe al suicidio.

Naturalmente, in ogni crisi, in ogni periodo di reale discontinuità, le forze in campo sono lungi dall'essere pienamente consapevoli del senso del loro agire e delle prospettive che esso apre. L'uomo fa certo la storia, ma quasi mai conosce la storia che fa, come ci hanno insegnato grandi compatrioti. E solo ex post, qualche volta, riusciamo a cavare una ragione dei fatti. Tuttavia è inevitabile cercare di orientarci sulla base di alcune regolarità, che rendono un accadimento più probabile di un altro. Ora, per cultura, per storia personale, ma soprattutto per le idee in materia economico-sociale che ha sempre espresso, e che alcuni lapsus non fanno che evidenziare anche in modo un po' grottesco, è improbabile che Monti (intendo sempre il mondo di cui è espressione) possa ritrovarsi in una coalizione più o meno "ulivista". E' l'antica area di centro-sinistra che dovrà "dirigersi" verso le sue posizioni, se la sua dirigenza riterrà che una tale alleanza sia necessaria per sé e per il Paese. E' assai più probabile, però, che questa convergenza si avvii da parte dell'antico centro-destra.

La frantumazione del Pdl è già in atto, e la sua componente maggioritaria non può avere altro destino. Ciò condurrebbe inevitabilmente alla "riappacificazione" con il centro di Casini e di Fini, che sarebbe certamente benedetta dalla stragrande maggioranza delle forze economiche e finanziarie internazionali. La condicio sine qua non, ovvio, è il definitivo abbandono della scena da parte di Berlusconi. Mi pare, peraltro, che l'addio ufficiale sia ormai nell'aria. Se a esso, poi, si accompagnasse quello di Bossi, anche la già tentata alleanza generazionale tra Alfano e Maroni potrebbe essere rilanciata (e la Lega continuerà nel 2013 a essere decisiva per vincere al Nord).

Esistono le condizioni, invece, per realizzare un programma di coalizione di governo tra il Pd e il cosidetto "terzo polo", oggi unico sostenitore sine glossa del governo Monti? E' evidente che non potrebbe mai presentarsi come un'alleanza strategica. Ma potrebbe avere un forte appeal nella prospettiva di una sorta di Grosse Koalition, di un governo di unità nazionale (non più solo di emergenza), in grado di farci recuperare un po' del tempo sciaguratamente perduto dalla Seconda Repubblica. Credo che sarebbe necessario lavorare in questa direzione. Qualche pezzo "a sinistra" il Pd così lo perderebbe, ma sfuggirebbe all'inevitabile "sciogliete le righe"cui andrebbe incontro se optasse per un nuovo Ulivo, schierato contro Monti. Sarà comunque vitale per il Pd impedire l'aggregarsi strategico intorno all'attuale presidente del Consiglio di un polo "classico" di centro, esplicitamente appoggiato dalle componenti maggioritarie del mondo cattolico, da metà del movimento sindacale, dalla Confindustria.

E' realistico pensare che ce la faccia? Certo non ce la farà ricorrendo ai tatticismi, evitando ogni decisione e crepando così come l'asino di Buridano. Semmai può provare a recuperare alcune idee che stavano, o avrebbero dovuto stare, alla base della costituzione del Pd: riforma federalistica, nuovo Welfare fondato sulla sussidiarietà, priorità assoluta per formazione e ricerca, appoggio alle giovani energie imprenditoriali, laicità senza arcaici laicismi. Quel partito non è mai nato. Se non nascerà (e se Monti non collasserà) le regolarità della storia invitano a ritenere che andremo, anche oltre il 2013, a un confronto tra una coalizione di centro sostanzialmente "montiana" e un ibrido di "sinistra" condizionato dalle sue componenti "estreme"( intendo: estremamente reazionarie). Grosse Koalition salvaci tu.

 
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Perché a mia suocera piace Monti
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 04:16:04 pm
Opinione

Perché a mia suocera piace Monti

di Massimo Cacciari

Il governo del prof incanta i molti che si sono stufati degli antagonismi e delle idee contrapposte.

Però è proprio dal conflitto che nasce la partecipazione dei cittadini alla politica.

Di qui il grande paradosso del nostro presente e del nostro futuro

(08 marzo 2012)

Nel suo ultimo libro ("Gramsci, Manzoni e mia suocera") Ilvo Diamanti invita con sapiente ironia politologi e politici a non lasciarsi incantare da apparati, lobby e istituzioni, e a far ritorno alla analisi dei rapporti e dei movimenti sociali. Richiamo mai più di oggi urgente; la scena sembra, infatti, occupata dagli appassionanti interrogativi su quanto Monti sia di destra, o Veltroni di sinistra, o quanto credibilmente Berlusconi reciti da uomo di Stato. Ma alla domanda non si può rispondere soltanto con la fotografia della nuova composizione sociale, come si è già fatto mille volte, raccontando di epoca post-fordista, di nuove forme di lavoro o della loro fisiologica precarietà e mobilità. Davvero è necessario interrogarsi anche sul senso comune, buono o cattivo che sia. Insomma, su "come la pensa mia suocera".

E' refrain costante il lamento sulla scarsa o nulla propensione alla partecipazione politica. Se non nella forma negativa della protesta e della denuncia. E la questione si derubrica immediatamente pensando di poterla risolvere con maggiore "capacità di ascolto", maggiore democrazia interna nei partiti e gli immancabili appelli alle civiche virtù. Ma che cosa significa un'autentica, forte partecipazione politica, come certamente vi fu anche nella Prima Repubblica, almeno fino agli anni Ottanta? Chi partecipava erano soggettività antagonistiche sul piano dei valori e delle strategie. La storia questo insegna: che tanto più si prende parte, e cioè si partecipa, al gioco politico, quanto meno esso appare un gioco, una semplice competizione di tipo mercantile (il "mercato politico"). Insomma, partecipazione è sinonimo di conflitto. Ma proprio intorno a questo ruota oggi, invece, la concorrenza tra le leadership politiche: su chi possa più efficacemente garantire il superamento del conflitto, e cioè la liquidazione delle ragioni stesse della partecipazione.

E non c'è dubbio che "il pensiero di mia suocera" si muova oggi tutto nella prospettiva di questa liquidazione. Che è quella di una democrazia essenzialmente procedurale. La cultura di cui Monti è raffinato esponente è questa e non potrebbe essere diversamente. Solo che al posto di sua suocera il bocconiano citerebbe Joseph Schumpeter. Una democrazia procedurale si auto-riproduce attraverso il meccanismo del voto, come si trattasse di un bene in sé. Quando partecipazione era, invece, conflitto, tutte le parti concepivano, nei fatti, la democrazia come una via, un metodo per conseguire obiettivi-valori - non solo ciò valeva, in Italia, per socialisti e comunisti, ma anche, e per certi versi ancor più, per molti e decisivi settori del mondo cattolico, sulla base anti-liberista della dottrina sociale della Chiesa e, poi, dell'umanesimo integrale di Maritain.

Ma, ecco il paradosso in cui ci troviamo, proprio nel momento in cui la democrazia da mezzo o strumento o via diviene bene in sé, proprio in questo momento essa cessa di essere considerata un bene. O lo diventa soltanto per chi, attraverso le procedure che essa stabilisce, intende conquistare seggi, rendite, finanziamenti pubblici e non. Cessa di esserlo sia per l'"indignato", sia per chi l'indignato vorrebbe vederlo ai ferri senza processo; sia per chi non vuole la Tav, punto e basta, che per lo pseudo-futurista che la mitizza come l'Opera del millennio. Mia suocera (e suo nipote) vogliono decisioni - in senso magari opposto, ma decisioni - e a nulla sono interessati meno che a "partecipare". Questa è la ragione antropologica per cui Monti a loro "va bene" - o comunque mille volte meglio di quelli che avevano votato. Doloroso, ma vero. Risalire la china, giungere a concepire democrazia come partecipazione e conflitto, spazio dove strategie e culture politiche sanno confrontarsi, e non mera procedura di scambi e compromessi dietro l'oscena maschera delle grida mediatiche, sarà la "missione impossibile" della Terza Repubblica, dopo la mai nata seconda e i suoi mai nati partiti.

 
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Dietro l'art. 18 un progetto politico
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2012, 05:24:43 pm
Opinioni

Dietro l'art. 18 un progetto politico

di Massimo Cacciari

Dividere i sindacati. Spaccare il Pd. E saldarsi con l'ala alfaniana del Pdl.

Sembra che Monti punti a questo scenario.

Ma per l'Italia è meglio una grande coalizione aperta ai democratici "liberal"

(29 marzo 2012)

Grandi manovre in corso per la successione nel regno di Danimarca. Altrimenti sarebbe impossibile spiegare la battaglia sulla cosiddetta riforma del mercato del lavoro. A prescindere dalle modifiche che il sovrano Parlamento vi apporterà, mai nessuna montagna partorì un più grande topolino. Qualche colpo al cerchio (più costoso per le aziende il tempo determinato), un colpo alla botte (qualche tutela in meno per la "flessibilità in uscita"), compensato per modo di dire con leggeri miglioramenti per assegni di disoccupazione e cassa integrazione. Rinviate alle calende greche tutte le vere decisioni: defiscalizzare il costo del lavoro (e aumentare il potere d'acquisto delle retribuzioni), tutelare l'universo del lavoro flessibile e dei free lance, potenziare gli ammortizzatori. Esercizio difficile, non v'è dubbio, col 120 per cento di debito sul sacro Pil - ma nessuno si è certo scervellato per stanare qualche risorsa. Tasse patrimoniali, liberalizzazioni vere, riduzioni dei costi dell'amministrazione e della politica, dove siete?

Nessun imprenditore serio aveva fatto barricate sull'articolo 18. Solo i pasdaran berlusconiani erano giunti a sostenere che la sua "correzione" poteva, in quanto tale, favorire investimenti e assunzioni. Che il sovrano Parlamento dia segni di vita modificando leggi e normative, delegiferi, sburocratizzi, riduca con opportuni provvedimenti i tempi della giustizia, altro che articolo 18. Ma è un simbolo, si dice, una bandiera. E nulla sarebbe più irragionevole che sottovalutare il peso di "irrazionali" simboli e miti nell'agire politico. Ma irrazionale non significa vuoto o privo di significato. E allora qual è il senso di quest'azione del governo che ha voluto porre in primo piano la questione dell'articolo 18 nell'affrontare il problema infinitamente più complesso (e appena sfiorato dai provvedimenti in discussione) del mercato del lavoro nel post-fordismo e nella globalizzazione? Gli effetti che questa decisione sta producendo erano stati previsti, o addirittura voluti? Poiché questi sono del tutto evidenti: ridividere il sindacato, che stava lanciando qualche timido segnale di ritrovata unità, drammatizzare le divisioni nel Pd, rafforzare l'intesa con l'ala "alfaniana" del Pdl. L'articolo 18, insomma, come catalizzatore politico: accelerare la resa dei conti nei due ex-poli, facendovi emergere l'ala decisa a proseguire sulla via aperta dal governo Monti; collocare "fuori gioco", all'opposizione, l'ala Fiom della Cgil (non ha detto proprio il neopresidente della Confindustria Squinzi che i chimici, invece, sono molto ragionevoli?).

C'è da chiedersi se Monti stesso sia consapevole del significato della linea assunta dal suo governo. A meno che non lo concepisca come un "pronto intervento" per poi riconsegnare tutto al malato, le decisioni che vengono oggi prese indicano almeno un'ipotesi di alleanze future. Si prefigura una coalizione tra "liberali" Pdl e "terzo polo", montiana e benedetta dalle più importanti corporazioni? Ma questo costringerebbe tutto il Pd a mettere la sordina al dibattito interno e a serrare le righe a sinistra con i "compagni che sbagliano". Eppure l'ipotesi di vittoria di una coalizione ulivista nel 2013 rimane assai più probabile di quella di un centrodestra per quanto rinnovato. Non converrebbe allora a Monti (e magari al Paese) lasciare che maturino le contraddizioni strategicamente e culturalmente insanabili nel centrosinistra, piuttosto che dar l'impressione di imporre la resa? L'ho già detto altre volte: dopo Monti il Paese avrà ancora bisogno di "grande coalizione" ma questa non può fare a meno di quelle forze del Pd, e non solo, che a questo partito avevano guardato come a una forza costituente e non alla sommatoria di album di famiglia e alla tutela di rendite politiche. L'Italia ha bisogno di una "grosse Koalition" liberal, e non liberista. E credo, spero, che quest'idea rappresenti anche l'"anima" di Monti. Se è così, corregga, professore, rotta e immagine del suo governo; non ci riconsegni, la prego, nel 2013 a una riedizione, con nuovi attori (neppure tutti), dei duelli dello sciagurato ventennio.

 
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Titolo: Massimo Cacciari. Ma al nord il Pd latita ancora
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 05:22:11 pm
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Ma al nord il Pd latita ancora

di Massimo Cacciari

La crisi della Lega non sposta di un millimetro un problema antico: chi può dare rappresentanza al ceto medio del settentrione? La sinistra fa una gran fatica a rientrare in gioco

(26 aprile 2012)

La crisi della Lega sembra riaccendere l'attenzione politica sulla "questione settentrionale". Speriamo che il tema sia affrontato con l'ottimismo della volontà e non all'unico scopo di trarne qualche vantaggio elettorale.

Che la faglia storica del Paese tra Nord e Sud si sia addirittura aggravata nell'ultimo ventennio di non-governo è una drammatica realtà che nessuna retorica patriottica può coprire. Così come è una realtà che il Paese si regga sostanzialmente sulla tenuta produttiva, occupazionale (e sul gettito fiscale) del Nord.

Fatti, dati e numeri sono testardi. Il fallimento politico del bossismo (che è effetto anche, ma non solo, dell'alleanza con Berlusconi) deriva dall'errore di aver voluto trasformare la "questione settentrionale" in una questione "nazionale", come se la spaccatura di interessi materiali potesse o dovesse essere spiegata, e venire rafforzata, nei termini di una contrapposizione tra "nazioni", un po' sul modello catalano, basco, fiammingo o irlandese.

Errore di irrealismo e mancanza di cultura (cui Gianfranco Miglio aveva invano tentato di porre rimedio): chi avesse letto Guicciardini e Leopardi mai l'avrebbe commesso. Come sono pensabili ideologie secessioniste-indipendentiste in un Paese in cui ciascun individuo fa "nazione" a sé? Tuttavia si tratta forse di quegli errori necessari di cui la storia è piena. E poi è ben noto: chi sa non può. L'ideologia ha impedito di definire programmi coerenti. La matrice federalista si è trasformata in un centralismo regionalistico che ha partorito, alla fine, giunte e regimi formigoniani, contribuendo al fraterno livellamento delle pubbliche amministrazioni ai gradini più bassi dell'efficienza e della correttezza.

L'inevitabile vocazione ministeriale e centralistico-burocratica di ogni forma-partito ha avuto come effetto, del tutto fisiologico, per nulla "magico", correnti, "famiglie" e rendite connesse. Ma la "questione settentrionale" rimane sempre lì, più forte e più esplosiva che mai.

Mi piacerebbe chiedere agli stati maggiori dei Ds d'antan (peraltro in buona sostanza gli stessi del Partito democratico attuale), ai leader di querce, ulivi, asinelli e margherite vari, quale sarebbe la situazione attuale, quali sarebbero gli equilibri politici al Nord, se si fosse realizzata la proposta di un'organizzazione federalistica interna di queste forze, con una loro presenza davvero autonoma nelle regioni settentrionali. Quale risposta positiva sarebbe ora possibile avanzare alla crisi della Lega. E invece, come tutte le indagini dimostrano, neppure un voto sembra recuperabile.

La storia non si fa con i "se", ma solo ragionando su ciò che poteva essere la si comprende. Il confronto, su questo terreno, è avvenuto nel corso del ventennio tra vecchie politiche centralistiche e pseudo-federalismi ideologici, irrealistici e protestatari. E il problema rimane lì, del tutto irrisolto: chi sarà capace di dare risposte di governo, positive, ai concreti interessi di quel complesso ceto medio produttivo del Nord, stra-studiato e altrettanto poco rappresentato? Potrà candidarsi a farlo ancora la Lega? Forse, vista l'assenza degli altri a tutt'oggi. Ma solo nella sua variante maroniana, senza compromessi col passato.

E una Lega di governo non è concepibile senza rapporti organici con il resto della destra ex berlusconiana. Operazione difficilissima, anche perché in mezzo ci sta il rapporto con Monti e il suo governo tecnico. Ma fino a quando, dall'altra parte, non c'è che il piangere sul latte versato, le straordinarie occasioni perdute e il dilemma del rapporto coi Vendola e i Di Pietro, anche Roberto Maroni e il suo ceto amministrativo locale, tutto sommato decente, possono sperare.

 
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Due patti per salvare l'Italia
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:38:57 am
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Due patti per salvare l'Italia

di Massimo Cacciari

Il primo è quello generazionale, perché in questo Paese i vecchi stanno facendo la guerra ai giovani. Il secondo è fra i contribuenti: perché metà della popolazione paga troppe tasse e l'altra metà evade. Se non si risolvono questi nodi, è finita

(10 maggio 2012)

Aula di Montecitorio Aula di MontecitorioChe la crisi economica, non affrontata alle radici, debba sfociare in crisi sociale, non occorre esser dotati di spirito profetico per saperlo. Le "forze" politiche non sembrano intenzionate a mettere a profitto il ponticello offerto loro dal governo Monti per iniziare le prove di un'autentica fase costituente. Pensano a elezioni, a Grillo, a come salvare il proprio finanziamento, a marcarsi l'un l'altra, a declamare la propria autonomia e il proprio libero arbitrio. E lo fanno così bene da correre addirittura il rischio di resuscitare i cari trapassati. Con i Berlusconi e i Bossi ancora sulla scena, riusciremo forse nell'impresa di azzerare anche la partecipazione al voto, dopo quella di aver annullato la fiducia nei partiti.

Due drammi, ben distinti per natura e soggetti, si congiungono e possono concludersi in tragedia. Il primo riguarda la rottura del patto generazionale. Ogni res publica vi si fonda. I padri non possono preparare, lungo tutta una fase storica, la rovina dei figli. I padri hanno auctoritas soltanto se, come indica il termine stesso, creano le condizioni perché aumentino le opportunità, sia materiali sia spirituali, per la generazione a venire. O almeno, a essere cinici, sanno rappresentarsi in una tale veste. Neppure di simili travestimenti la classe dirigente passata è stata, invece, capace. Alle grandi faglie tradizionali che spezzano questo bel Paese, Nord-Sud, laici-cattolici, si è così aggiunta questa: di gran lunga la più perniciosa. Ricomporla sarà arduo poiché solo un'azione politica praticata in prima persona dalle nuove generazioni potrebbe farlo. Mai come oggi, però, proprio la prassi politica appare in sé corrotta (magari fosse solo in senso morale!), quando non impotente. Siamo nel famoso paradosso: la politica può anche apparire necessaria ma, insieme, altrettanto a ragione, essere detestata.


Anche il secondo è un dramma, per così dire, della scissione. L'ingiustizia del sistema impositivo ha superato ogni livello di guardia. Nessun paese può reggere se una metà della popolazione paga per una massa parassitaria delle dimensioni che tutte le statistiche sull'evasione denunciano. E se soltanto su lavoro dipendente, pensionati, consumi di massa grava il peso di ogni manovra. Nessuno Stato può reggere se non sa distribuire con un minimo di equità tra i suoi territori e tra le diverse categorie le entrate che riscuote.

Qui crolla il secondo patto della res publica: tassazione e rappresentanza politica sono, infatti, indisgiungibili. Inutili prediche, lamentazioni e scomuniche: se lo Stato non darà immediatamente prova di essere organo efficiente di spesa, di saper svolgere un'equa, necessaria funzione ridistributiva, e di combattere l'evasione, non a spot (vanno bene anche quelli...in assenza di meglio) ma con una riforma complessiva del sistema fiscale (a partire dal rendere davvero conveniente per chi acquista l'esigere fatture e scontrini), il vizio italico secolare - tutti individui, nessuna "società" - potrà anche trovare un validissimo alibi nell'aureo motto liberale: no taxation without representation.

Per i nostri partiti è ultimo appello. Rendano evidenti nelle loro proposte il nesso tra tassazione e nuovo welfare (nuovo perché quello statalista-socialdemocratico, glorioso finche si vuole, ha compiuto il proprio ciclo storico una generazione fa). Dicano dove trovare le risorse per gettare le fondamenta di un nuovo patto con i giovani (risorse che non potranno mai più venire da aumenti di spesa ma solo da rigorose politiche di liberalizzazione che riguardino anzitutto proprietà e partecipazioni pubbliche). Costituiscano coalizioni coese su questi obiettivi.

Perché se anche dopo il 2013 si dovesse tradire il mandato ricevuto, come, per non andar lontani, nel 2006 e nel 2008, altro che governi tecnici, altro che fustigarci sui commissariamenti europei. Altro che Grecia.

 

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Due patti per salvare l'Italia
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:53:51 am
Opinione

Due patti per salvare l'Italia

di Massimo Cacciari

Il primo è quello generazionale, perché in questo Paese i vecchi stanno facendo la guerra ai giovani.

Il secondo è fra i contribuenti: perché metà della popolazione paga troppe tasse e l'altra metà evade.

Se non si risolvono questi nodi, è finita

(10 maggio 2012)

Aula di Montecitorio Aula di MontecitorioChe la crisi economica, non affrontata alle radici, debba sfociare in crisi sociale, non occorre esser dotati di spirito profetico per saperlo. Le "forze" politiche non sembrano intenzionate a mettere a profitto il ponticello offerto loro dal governo Monti per iniziare le prove di un'autentica fase costituente. Pensano a elezioni, a Grillo, a come salvare il proprio finanziamento, a marcarsi l'un l'altra, a declamare la propria autonomia e il proprio libero arbitrio. E lo fanno così bene da correre addirittura il rischio di resuscitare i cari trapassati. Con i Berlusconi e i Bossi ancora sulla scena, riusciremo forse nell'impresa di azzerare anche la partecipazione al voto, dopo quella di aver annullato la fiducia nei partiti.

Due drammi, ben distinti per natura e soggetti, si congiungono e possono concludersi in tragedia. Il primo riguarda la rottura del patto generazionale. Ogni res publica vi si fonda. I padri non possono preparare, lungo tutta una fase storica, la rovina dei figli. I padri hanno auctoritas soltanto se, come indica il termine stesso, creano le condizioni perché aumentino le opportunità, sia materiali sia spirituali, per la generazione a venire. O almeno, a essere cinici, sanno rappresentarsi in una tale veste. Neppure di simili travestimenti la classe dirigente passata è stata, invece, capace. Alle grandi faglie tradizionali che spezzano questo bel Paese, Nord-Sud, laici-cattolici, si è così aggiunta questa: di gran lunga la più perniciosa. Ricomporla sarà arduo poiché solo un'azione politica praticata in prima persona dalle nuove generazioni potrebbe farlo. Mai come oggi, però, proprio la prassi politica appare in sé corrotta (magari fosse solo in senso morale!), quando non impotente. Siamo nel famoso paradosso: la politica può anche apparire necessaria ma, insieme, altrettanto a ragione, essere detestata.


Anche il secondo è un dramma, per così dire, della scissione. L'ingiustizia del sistema impositivo ha superato ogni livello di guardia. Nessun paese può reggere se una metà della popolazione paga per una massa parassitaria delle dimensioni che tutte le statistiche sull'evasione denunciano. E se soltanto su lavoro dipendente, pensionati, consumi di massa grava il peso di ogni manovra. Nessuno Stato può reggere se non sa distribuire con un minimo di equità tra i suoi territori e tra le diverse categorie le entrate che riscuote.

Qui crolla il secondo patto della res publica: tassazione e rappresentanza politica sono, infatti, indisgiungibili. Inutili prediche, lamentazioni e scomuniche: se lo Stato non darà immediatamente prova di essere organo efficiente di spesa, di saper svolgere un'equa, necessaria funzione ridistributiva, e di combattere l'evasione, non a spot (vanno bene anche quelli...in assenza di meglio) ma con una riforma complessiva del sistema fiscale (a partire dal rendere davvero conveniente per chi acquista l'esigere fatture e scontrini), il vizio italico secolare - tutti individui, nessuna "società" - potrà anche trovare un validissimo alibi nell'aureo motto liberale: no taxation without representation.

Per i nostri partiti è ultimo appello. Rendano evidenti nelle loro proposte il nesso tra tassazione e nuovo welfare (nuovo perché quello statalista-socialdemocratico, glorioso finche si vuole, ha compiuto il proprio ciclo storico una generazione fa). Dicano dove trovare le risorse per gettare le fondamenta di un nuovo patto con i giovani (risorse che non potranno mai più venire da aumenti di spesa ma solo da rigorose politiche di liberalizzazione che riguardino anzitutto proprietà e partecipazioni pubbliche). Costituiscano coalizioni coese su questi obiettivi.

Perché se anche dopo il 2013 si dovesse tradire il mandato ricevuto, come, per non andar lontani, nel 2006 e nel 2008, altro che governi tecnici, altro che fustigarci sui commissariamenti europei. Altro che Grecia.

 
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Il Pd al Nord perderà ancora
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2012, 07:10:04 pm
Opinione

Il Pd al Nord perderà ancora

di Massimo Cacciari

Crollato l'asse Berlusconi-Lega, il centrosinistra rischia di non ereditare nemmeno uno dei loro voti dal Po in su.

Perché non ha mai capito la questione settentrionale, nè ha mai cercato di farlo

(04 giugno 2012)

La "questione settentrionale" riemerge prepotentemente dal voto. E per forza, visto che è solo l'altra faccia della "questione meridionale". E' il problema ormai secolare, irrisolto e, anzi, per certi versi aggravatosi, della grande faglia che spezza il Paese.

Che cosa era successo dopo la catastrofe dei primi anni '90 nella sud-Mitteleuropa del Lombardo-Veneto? Molto semplicemente si era definito un contratto tra la stragrande maggioranza degli interessi economici e delle categorie professionali di quest'area del Paese, che viveva da anni un suo proprio miracolo ed era universalmente additata a "modello", e i nuovi partiti, Forza Italia e Lega. Miti celtici, dèi padan-pagani, identità cultural-religiose c'entrano come il due di spade quando briscola è bastoni. Di contratto si trattava, scritto o orale, non importa. Tutto "laico", in tutto degno della nostra attuale visione del mondo, che vede l'intero corpo sociale ridotto a rete di contraenti.
 
Il contratto riguardava i seguenti punti: modifica radicale dei flussi di trasferimento dello Stato a Regioni ed Enti Locali, obiettivamente penalizzanti per il Nord; modernizzazione della Pubblica amministrazione e di tutte le reti, conditio sine qua non per continuare nel "miracolo"; riduzione dell'imposizione fiscale su imprese, occupazione, investimenti. Il fallimento è stato totale. Malgrado un ventennio di promesse, populismo e ideologie da strapaese. Malgrado una rappresentanza "nordista" in Parlamento e al governo quale mai in passato. Pdl e Lega pagano questa bancarotta: quelle che ho chiamato le catastrofi etico-estetiche del berlusconismo-bossismo non sono che la ciliegina.
 
Massimo Cacciari Il dramma è che il centro-sinistra non eredita un solo voto da una simile disfatta dell'avversario. E, anche in questo caso, per forza: in una generazione le sue leadership sono passate dalla totale incomprensione della "questione settentrionale" alla completa afasia intorno al problema - afasia progettuale, programmatica e organizzativa. Vincendo, raramente, quando gli altri erano divisi o ormai giunti al digestivo, come a Milano. Tutto confermato nell'ultimo voto: il centro-sinistra vince dove l'avversario si è pressoché liquefatto e riesce a perdere con una "potenza" quale


Grillo, non solo a Parma, ma in roccaforti periferiche come, nel veneziano, a Mira. Ovvero: la sua capacità di "convinzione" nei confronti dell'immensa platea di interessi, che costituiva la base dei successi di Pdl e Lega, è pari allo zero. Pure in cifra assoluta il centro-sinistra, o almeno la sua unica forza potenzialmente di governo, il Pd, perde consensi. Come sia possibile cantar vittoria in tali condizioni è un mistero della fede.
 
Ora, queste regioni decisive per lo sviluppo del Paese, questi territori dai quali soltanto è possibile sperare di avviare processi di crescita, si trovano sostanzialmente privi di rappresentanza politica. Risentimenti e conflitti col Sud potrebbero acutizzarsi, rendendo ancor più quella faglia storica tra Nord e Sud un fatto culturale e, quasi, antropologico. Ed è inutile dire quanto possa incidere sulle nostre possibilità di uscire dalla crisi il venir meno di ogni referente politico per industriali, artigiani, commercianti, professionisti. Ma anche i tradizionali referenti sindacali versano in un'analoga crisi di rappresentatività: sempre più carrozzoni burocratici allenati a stringer "contratti" con apparati ministeriali, del tutto simili per mentalità e cultura.
 
Tuttavia, di positivo resta il fatto che il ventennio delle promesse e delle chiacchiere è per tutti finito: i partiti saranno costretti, per sopravvivere se non per governare, a misurarsi con le domande inevase che il Nord da decenni avanza. E i soggetti fondamentali dello sviluppo economico di queste Regioni dovranno sforzarsi di diventare adulti anche culturalmente e politicamente, se intendono davvero difendere i propri interessi materiali. Spes contra spem? Da qui alle prossime elezioni politiche lo scopriremo comunque. Pdl

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Ma che statalisti questi tecnici
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2012, 10:39:01 am
Opinione

Ma che statalisti questi tecnici

di Massimo Cacciari

Il governo ferma lo smantellamento dello Stato burocratico-ministeriale. E ri-centralizza per controllare la spesa.

Ma autonomia e responsabilità degli enti locali non vanno abbandonati. Se non si vuole tornare indietro

(16 luglio 2012)


Chi ritiene che il governo Monti costituisca l'ultima spiaggia per avviare in Italia una stagione costituente, dovrebbe, invece di ripetere "rancio ottimo e abbondante", chiedersi: emergenza e "logica di sistema" debbono necessariamente contraddirsi? Bisogna solo abbrancare risorse dove si può? Esperienza storica e logica avrebbero voluto che si decidessero l'abolizione della Provincia e il passaggio delle sue competenze a città metropolitane e a Regioni. Non ha alcun senso decretarne la fine in base a criteri essenzialmente quantitativi perché motivi ambientali, territoriali, storici possono rendere una Provincia di 100 mila abitanti meno inutile di una di un milione. E immaginiamoci i mercati che si scateneranno in sede di conversione del decreto! E la sanità? Ma non si trattava di materia di esclusiva competenza delle Regioni? O, almeno, non sarebbe loro sacrosanta responsabilità la definizione delle priorità e l'articolazione della spesa? E prima di giungere a ulteriori e indiscriminati tagli non sarebbe stato logico riferire al pubblico a che punto stava l'applicazione degli standard per le diverse prestazioni, unica cosa sensata dei provvedimenti sul federalismo fiscale?

MA E' FACILE PROFEZIA: Regioni ed enti locali pagheranno il conto (e più "virtuosi" sono, più proporzionalmente salato sarà) mentre poteri più forti o comunque più autonomi rispetto a quelli politici centrali troveranno certo il modo di "correggere" la spending review. E con qualche buona ragione. Alcune delle sedi di tribunale da rottamare sono state costruite l'altro ieri! E se risultano oggi inutili occorrerà che qualche Corte dei conti indaghi su simili sprechi (o sulla propria stessa incapacità di indagare). E quelle che restano presentano strutture adeguate per assorbire personale e funzioni delle soppresse? Esiste un simile calcolo? Logica vorrebbe che una tale verifica fosse il presupposto del decreto.

Perché presentare come una decimazione la riduzione del personale nella Pubblica amministrazione? Solo difetto di comunicazione? Se è così, è tanto macroscopico da superare quello di Brunetta nei suoi giorni migliori. Si ha una pallida idea dei conflitti, dei sospetti, degli arbitrii, delle frustrazioni, della carica demotivante che la sua applicazione può generare in un ufficio? Si pensa così di aumentarne la produttività? Può immaginarlo soltanto chi non ha mai varcato la soglia del più piccolo dei Comuni.

E PERCHE' NON SI E' PROCEDUTO alla trasformazione di tutte le partecipate comunali in società a amministratore unico, eliminando consigli di amministrazione e migliaia di nomine tutte politiche? Risparmio e pulizia etico-politica, invece della "grida" manzoniana sulla loro abolizione tout court. Con quali procedure? Quali tempi? Pure a costo di svendere? Perché anche qui, come per le Provincie, mezze misure, che per natura assommano i vizi delle estreme? Forse a causa di veti politici che i nostri "tecnici" sembrano propensi ad avvertire quanto hanno avvertito quelli di lobby e corporazioni in materia di liberalizzazioni?
 
E a proposito di vendite di asset pubblici, logica (e forse anche un po' di giustizia) vorrebbe che prima di decretare dall'alto dei colli romani sul destino delle proprietà degli enti locali, il governo procedesse alla dismissione del suo patrimonio: Eni, ad esempio, perché per mamma Rai solo l'idea sembra troppo audace.
 
Si potrebbe continuare. Ma la morale è semplice e drammatica. Il senso di questi provvedimenti, al di là degli effetti finanziari immediati, va in una direzione che contraddice in toto quel discorso di autonomia, responsabilità, progressivo smantellamento della costruzione burocratico-ministeriale-centralistica del nostro Stato che sembrava aver iniziato a permeare la cultura politica del nostro Paese. Le dinamiche della crisi ri-centralizzano ogni decisione in modo esasperato. Riportano a un modello organizzativo e amministrativo obsoleto trent'anni fa. Almeno prendiamone coscienza, se vogliamo sopravvivervi.


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Titolo: MASSIMO CACCIARI Caro Pd, guardi troppo a Sud
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2012, 05:28:22 pm

Caro Pd, guardi troppo a Sud

di Massimo Cacciari

La probabile coalizione con l'Udc e con Vendola rischia di creare un asse di governo disinteressato al Nord: cioè a quell'area del Paese che avrà il compito più importante per l'uscita dalla crisi

(27 agosto 2012)

Si ruzzola verso le elezioni politiche senza che nessuna delle forze in campo abbia posto sul tappeto il problema forse socialmente e culturalmente più drammatico, che il prossimo governo dovrà affrontare. Il sottoscritto e pochi altri cirenei si sforzano invano di segnalarlo da mesi con assoluta obbiettività - "repetita iuvant", speriamo. Semplice sigillo del vero: le aree del Paese, che sono state il motore primo del suo sviluppo e dalle quali soltanto è realistico attendersi l'avvio della ripresa, hanno visto crollare la propria "rappresentazione" politica. La storia ha già inizio,a guardar bene, con Tangentopoli e il crollo della prima Repubblica - ma da quella crisi d'epoca la grande maggioranza delle categorie produttive e industriali, degli artigiani, commercianti e professionisti del Nord credette di uscire affidandosi al "combinato disposto" del sindacalismo territoriale leghista e del neo-liberismo scatenato berlusconiano (e cito gli aspetti "nobili" della politica di entrambi). Ci son voluti quasi due decenni per giungere all'inevitabile disincanto. Quella rappresentanza politica si è rivelata immaginaria. L'attuale crisi l'ha disfatta come neve al sole. Chi e che cosa coprirà l'immenso vuoto che si è così aperto?

ESISTE LA POSSIBILITÀ di una qualche intesa tra l'area, lato sensu, socialdemocratica del Pd e nuova Lega maroniana? Esisteva, probabilmente. Quando Bossi alla fine del '94 ruppe violentemente con Forza Italia - se nel centro-sinistra di allora fosse emersa una seria cultura federalista e un' altrettanto forte volontà di cambiare l'assetto istituzionale del Paese. In questo senso procedevano allora tante esperienze - il movimento dei sindaci del Nord-est, infinite iniziative locali, tutte "a cavallo" tra istanze leghiste territorialmente radicate e piena consapevolezza della necessità di difendere e rafforzare,in chiave europea, l'unità nazionale. Quanti leader leghisti della prima ora, soprattutto in Veneto, sono stati fatti fuori perché intendevano agire in tale prospettiva, senza trovare la minima "sponda"all'interno del centro-sinistra? Una storia che sarebbe utile raccontare - se mai la storia fosse maestra di vita.

NESSUNO ALLORA SI NASCONDEVA la difficoltà dell'impresa - ma la si poteva tentare. Parlarne oggi è puro esercizio verbale. Non solo sono passati sotto i ponti fiumi di ideologie che hanno ridotto all'insignificanza politica un sostrato materiale, una base popolare per molti aspetti affine tra i due elettorati. Ma ora il Pd non può che guardare a Casini o a Vendola o, da perfetto strabico, a ambedue. In tutti i casi il suo asse politico è destinato a spostarsi a Mezzogiorno e a reggersi su alleanze assolutamente indigeribili alla Lega - almeno quanto intese con la Lega sono impraticabili per i Casini e i Vendola. Ma il dramma è che i suddetti personaggi mai e poi mai potrebbero comunque aiutare a coprire quel vuoto socio-culturale che si è spalancato al Nord dopo il tracollo della rappresentanza immaginaria Bossi-Berlusconi.

L'onore e l'onere della prova ricade dunque tutto sulle gracili spalle del Pd? E, per le ragioni suddette, di un Pd inesorabilmente in concorrenza con ciò che avanza sia di Lega che di Pdl? Si sta attrezzando per la sfida questo partito? Con quali programmi, con quali leader? Hic sunt leones. Ma esiste una variabile, che, essendo nota, potrebbe permettere di risolvere l'equazione. Se Monti, direttamente o per interposta persona, si candidasse a succedere a se stesso, come leader di una coalizione di centro-sinistra, e nel suo programma di governo, tutto politico, citasse esplicitamente la centralità della "questione settentrionale", buona parte del voto "borghese", cosidetto moderato, che c'è ancora, eccome, nel patrimonio della Lega, potrebbe decidersi al salto, che altrimenti non farà mai. Gli anatemi della Lega a Monti non ingannino - servono a scongiurare, per l'appunto, una tale eventualità.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI No, questo bipolarismo no
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:36:16 am
Opinioni

No, questo bipolarismo no

Massimo Cacciari

(18 ottobre 2012)

Uno spettro si aggira per i cieli della nostra politica: ci troveremo alle prossime elezioni nella stessa situazione che ha caratterizzato lo sciagurato ventennio, con un bipolarismo all'italiana? Da un lato, un Ulivo appena riveduto e corretto. Dall'altro, una coalizione "moderata", strapiena, ammesso voglia vincere, di elementi che hanno sempre dato infaticabile prova di estremismo. Da un lato, un'area socialdemocratica, il cui "centro" si riduce a sparsi esponenti ex-Margherita (cioè ex-popolari). Dall'altro, la più improbabile delle sommatorie, da Casini a liste "civiche" montezemoliane, a qualche ministro di Monti, a confusi reduci del berlusconismo. Sarebbe sufficiente l'assenza dei "rifondatori" comunisti, da una parte, e della Lega - e magari dello stesso Berlusconi - dall'altra, per parlare di "novità" rispetto allo pseudo-bipolarismo della seconda Repubblica? Non penso proprio. Saremmo sempre in presenza di coalizioni prive di ogni orientamento strategico comune.

PER FORTUNA , si tratta ancora solo di uno spettro. E' ancora sperabile che qualche chiarimento su come e con chi si intenda governare emerga dalle primarie del Pd (pardon, della coalizione di centro-sinistra). E Casini, molto saggiamente, attende lumi dalla catastrofe del Pdl. Ma se non si andrà al bis, mutatis mutandis, delle antiche coalizioni-confusioni, arrangiate su programmi che nascondono le radicali divergenze grazie agli "omissis" e alla nebbia di speranze e promesse, come potrebbe presentarsi la scena? Hic sunt leones. Certo, il ribaltone avverrebbe se si presentasse Monti: in questo caso una coalizione di centro, per quanto sgangherata nelle sue componenti, verrebbe "sussunta" nella sua persona. Ma ciò non avverrà, per molte e anche buone ragioni (anzitutto, l'aprirsi di una competizione elettorale caotica, all'insegna del "si salvi chi può"). E allora? Siamo destinati a un confronto tra coalizioni che tali non sono, oppure a compromessi da prima Repubblica, resi possibili da un ritorno al sistema proporzionale? Questo secondo, forse, sarebbe il male minore. Ma un "male" comunque capace di governare una situazione così drammatica? Di combinare risanamento e sviluppo, coerente politica europea e riforme all'interno? Nessuno è oggi in grado di rispondere a queste domande. E perciò l'ipotesi di un Monti-bis, dopo le elezioni, e magari di nuovo attraverso un'opera di "persuasione" da parte dell'Europa e del presidente della Repubblica di turno, rimane plausibile (oltre che da molti poteri, occulti e no, quasi implorata). I nostri partiti "popolari" dimostrerebbero prudenza a non escludersi da tale eventualità: per poter contare al suo interno, se si realizzasse.

CHE NOIA, SI DIRA'! Che linguaggio da palazzo! Al popolo sovrano interessano salari, occupazione, sanità, scuola. Anche a me e, vorrei dire, esclusivamente. Peccato che questi problemi non basti declamarli perché siano affrontati - e perché lo siano effettivamente, attraverso provvedimenti e leggi, occorrono parlamenti, politici, partiti. E' un gatto che si morde la coda. Ci tocca parlare dei Monti, Bersani, Casini - e se non di loro, di altri, che faranno lo stesso mestiere - perché i drammatici problemi del Paese possano sperare in una risposta.
Tra questi, lo ripeto a costo d'essere lapidato, quello di un'autentica riforma federalista. Le mistificazioni a proposito hanno raggiunto cime abissali. La verità è che in questo ventennio tutto s'è fatto fuorché federalismo, che significa responsabilità, autonomia a partire dall'ente locale, sussidiarietà. Si è fatto soltanto del regionalismo centralista. Condito da chiacchiere separatistico-indipendentistiche. Un po' di pudore, per piacere, signori dei ministeri e dei comitati centrali: il modo in cui avete declinato l'idea federalista negli aborti della riforma del titolo V sembra concepito apposta per sputtanarla. Forse ci siete riusciti. Ma non parlate di federalismo: lasciatelo almeno risposare in pace con Trentin e Spinelli, con Sturzo ed Einaudi.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/no-questo-bipolarismo-no/2193228/18


Titolo: MASSIMO CACCIARI Professor Monti, si candidi
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2012, 06:00:46 pm

Opinioni

Professor Monti, si candidi

di Massimo Cacciari

«Ci si ritira solo dopo aver vinto o fallito. Quindi lei non resti a metà: i tiepidi, dice l'Apocalisse, saranno sputati nel giorno del Giudizio». La lettera-appello al premier di un filosofo e politico

(22 novembre 2012)

Caro Presidente, conoscendo il sense of humour che lei nasconde dietro la maschera di Cincinnato super partes, mi permetto di pregarla di rivolgere fuggevole attenzione a questa modesta proposta. Il presupposto è che lei derida in cuor suo, almeno quanto me, la leggenda metropolitana intorno alle metafisiche separazioni tra "tecnici" e "politici", e al carattere asceticamente tecnico, wertfrei, direbbero i miei e suoi maestri, della "missione" che sta conducendo. Da anni ormai lei svolge importantissimi incarichi che sono indistricabilmente tecnico-politici. Non mi risulta sia stata una commissione di concorso a nominarla commissario europeo in un ruolo chiave. E certamente il presidente Napolitano l'ha voluta alla guida del governo per la sua rappresentatività culturale e politica, non soltanto, credo, in quanto illustre economista. In questo ruolo lei ha segnato un momento necessario di discontinuità e ha iniziato un percorso quasi impossibile di risanamento di questo Paese. Può ritenere di averlo già così bene fondato da affidarlo ad altri? Perché vuol passare alla nostra storia come il personaggio delle "premesse"? Tanta coeptorum moles – montagna delle cose solo iniziate o progettate o pensate – così ora potrebbe suonare il suo motto!

MA, AMMESSO E NON CONCESSO, che i provvedimenti adottati dal suo governo, rappresentino gli "elementari" per affrontare la crisi, come può pensare che partiti e leadership politiche siano pronti a ricevere il testimone? Forse le era dato di pensarlo quando, più di un anno fa, è salito all'alto scranno. Ma ora? Si sono create le condizioni per serie coalizioni di governo? Ha letto programmi, corredati da qualche plausibile calcolo, in materia di debito, occupazione, lavoro, previdenza? Per non dire delle liberalizzazioni, tanto care alla sua cultura, per le quali, lo ammtterà, poco o nulla lei è riuscito fin qui a fare. Anzi, la situazione è ancora più drammatica che all'inizio del suo mandato. Il Pdl è in stato confusionale. Il Pd naviga nel bicchier d'acqua in tempesta delle sue primarie. Crolla perfino Di Pietro! E per forza: Berlusconi e Di Pietro sono stati i due unici prodotti di Tangentopoli (poiché pulizia morale quella stagione non l'ha prodotta, né poteva: le leggi, forse, possono farci migliori, ma di sicuro non le sentenze dei giudici). Simul stant, simul cadunt (insieme stanno, insieme cadono). E credo che il motto valga per tutte le forze della sciagurata seconda Repubblica. C'è Grillo, magari al 20 per cento, ma è un po' arduo presentarlo alla Bundesbank, le pare?

I PIU' "RAGIONEVOLI" PENSANO : facciamo un porcellum prima Repubblica al posto dell'attuale, frantumiamo il quadro politico, una bella emergenza e Monti ritorna. Sono certo che lei, da cittadino responsabile, aborre una tale prospettiva. Essa comporterebbe necessariamente l'aggravarsi della stessa crisi economico-finanziaria a cavallo delle elezioni, coalizioni parlamentari ammucchiate dopo il voto, alle spalle degli elettori, prive di alcun programma e di alcuna autentica leadership (con, ad adiuvandum, questa volta, una opposizione consistente, dalla Lega a Grillo, ai resti di Di Pietro, magari a Vendola). Una coalizione di governo, il suo presidente e il loro programma vanno indicati prima. Un ritorno di Monti post festum non risolverebbe nulla. Un Monti-bis senza alcuna propria base parlamentare governerebbe ancora meno di quanto abbia governato il Monti-uno.

Presidente, ancora uno sforzo. Dia ascolto alla sua vocazione politica! E se non la possiede, la finga! Si candidi. Solo la sua candidatura a capo di un suo movimento può prosciugare molta astensione, e ancora più consensi attrarre da altre aree politiche in crisi. Solo la sua candidatura può sparigliare i giochi di questi agonizzanti partiti e costringerli a coerenti scelte di alleanza e governo. Lo faccia, se non altro, per salvare le fatiche sopportate fin qui. Virtù insegna che ci si ritira soltanto dopo aver vinto o aver fallito. Non resti a metà: i tiepidi, dice l'Apocalisse, saranno sputati nel giorno del Giudizio.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Cosa farà Renzi da grande
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2012, 04:45:01 pm
Sinistra

Cosa farà Renzi da grande

di Massimo Cacciari

Finite le primarie, è scomparso. Ma di qui alle elezioni il Pd e il centrosinistra tutto hanno bisogno di lui.

Non più come rottamatore ma come statista

(10 dicembre 2012)

Del tutto "innocente" per il collasso del berlusconismo, il Pd è certamente riuscito con le primarie a capitalizzare al massimo la momentanea assenza di avversari. Quello tra Bersani e Renzi è stato un confronto vero, ben al di là di contenuti e programmi - e come tale è stato vissuto ben oltre i confini del "popolo del centrosinistra". Potrà quella tradizione politica, fatta di pragmatismo, senso del partito, radicamento territoriale, che Bersani quasi incarna, combinarsi con le aspirazioni a radicali mutamenti organizzativi e di leadership, sulle quali Renzi ha costruito la sua immagine del Giovane Capo?

Il risultato di Renzi è stato certamente positivo, ma l'esito delle primarie non è in alcun modo rappresentativo dei rapporti di forza nel Pd. Il secondo turno lo ha dimostrato in modo lampante: gli stati maggiori di tutte le "anime" del Pd, candidati compresi, erano con Bersani. Ora, Renzi non potrà non tentare di far valere anche all'interno del partito il suo successo popolare, scontrandosi con ciò stesso, inesorabilmente, con le antiche, ferree leggi dell'organizzazione.

Sarà capace di muoversi in questo nuovo contesto, senza tuttavia lasciarsi risucchiare in logiche spartitorie, manuali Cencelli, compromessi da vecchie oligarchie? Per usare l'immagine così cara a Bersani: a che altezza porrà l'asticella? Quale sarà il livello di rappresentanza della sua area nel partito e nel futuro Parlamento, che riterrà irrinunciabile? O sarà tentato dal beau geste di non scendere su simili terreni, attendendo da uomo coraggioso, all'ombra del Cupolone, il suo prossimo turno? Bersani, dal canto suo, anche per emergere rispetto al resto dell'élite dirigente, potrebbe appoggiare le istanze renziane, ma certo non al prezzo di duri contrasti con coloro che hanno sostenuto la sua candidatura. Queste difficoltà, come è ovvio, sarebbero destinate a moltiplicarsi nel caso si restasse col Porcellum.Quello che è certo è che il Pd non potrà rinunciare ai voti che la presenza attiva di Renzi gli garantisce. Ma per questo, e magari per attrarre qualche deluso dal centrodestra (operazione impervia fino all'impossibile per il "tipo" Bersani), c'è bisogno di un Renzi ben vivo, e non oscurato dal vincitore.


Se da qui alle elezioni sono impensabili nel Pd traumi di ogni tipo, a maggior ragione sarà indispensabile che si esprimano con chiarezza le differenze culturali e strategiche tra i protagonisti delle primarie. Le parole di Bersani dopo la vittoria, con l'insistito richiamo al «dire la verità», fanno intendere inequivocabilmente la sua prospettiva: vincere con Vendola, per governare poi con Vendola e il centro pro-Monti.

Ma come? Renzi ha la grande opportunità di poter discutere se e su quali programmi sia concretamente possibile portare a buon fine una tale scommessa. Bersani, candidato alla presidenza, ben difficilmente potrà scoprire le carte su un simile enigma: combinare con Monti (dico la parte per il tutto) chi gli si oppone per ragioni non tattiche o contingenti, ma che hanno radici nella storia della sinistra italiana. Renzi, abbandonando il personaggio del rottamatore (che non so quanto gli abbia giovato), potrebbe, invece, rappresentare la voce che esige dai programmi elettorali del Pd coerenza, concretezza, realismo, solido ancoraggio al contesto europeo.

E questo su tutte le questioni appena sfiorate durante gli show delle primarie, e sulle quali il governo Monti non poteva, in fondo, che parlare: dalla previdenza all'assistenza sanitaria, dalla formazione alle politiche industriali. Non avendo responsabilità primarie nella costruzione della coalizione elettorale, Renzi avrebbe ora l'opportunità di "giocare allo statista" più liberamente di Bersani, e rivolgersi così più incisivamente a quei settori moderati del centrodestra che hanno fatto "grande" il partito del non voto. Ce la farà? E' nelle sue corde la "metamorfosi"?

Quel che è certo è che un Renzi agguerrito, e non "in maniche di camicia", sui programmi di governo arricchirebbe straordinariamente la "offerta politica" del Pd. E poiché prima o poi il Pd dovrà ritornare a confrontarsi con qualche avversario, che non sia il grillismo, c'è da augurarsi che il rinnovamento rappresentato dai Renzi scopra le sue carte, se ci sono, e cessi di apparire un fenomeno soltanto generazionale.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Ci serve l'asse Monti-Bersani
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 11:30:01 pm
Ci serve l'asse Monti-Bersani

di Massimo Cacciari

Sarebbe 'patriottico', ovvero utile per il risanamento del Paese, un accordo tra il professore, il centro casiniano e Bersani.
L'uno dovrebbe abbandonare l'idea che l'uguaglianza sia un mito sessantottino. L'altro invece dovrebbe impegnarsi su riforme più radicali

(27 dicembre 2012)

Ciò che da mesi sono andato ripetendo in queste "parole nel vuoto" è stato,nella sostanza, ribadito autorevolmente da Scalfari: "patriottica" davvero sarebbe un'intesa tra Pd e Monti, il che significa un'intesa di governo tra Pd, Monti e il "centro" casiniano, poiché un'alleanza Monti-Bersani-Vendola e stop sarebbe ufologia quasi quanto quella Monti-Berlusconi. Che Monti voglia guidare ancora il governo, più che immorale, a me pare semplice senso di responsabilità. In quest'anno non ha potuto fare molto più che impedire il naufragio.

Sull'avvio di una autentica politica di risanamento, non parliamo per carità di sviluppo o ripresa, l'assenza di una maggioranza politica parlamentare ha bloccato ogni sforzo. Monti dovrebbe sentire il dovere di dimostrare le sue capacità effettive di leader. Sacrosanto cercare l'intesa col Pd, che l'ha bene o male appoggiato - ma non mi pare l'abbia appoggiato Vendola. Ha obblighi morali anche nei confronti del governatore delle Puglie? Monti di nuovo premier ha perciò senso soltanto se si ritiene indispensabile in questa fase per il nostro Paese un governo di larghe intese, una kleine Koalition. E sono certo che indispensabile lo ritengono in camera caritatis anche Bersani e D'Alema - ma pensano che si possa realizzare secondo i costumi della prima Repubblica, post festum, a elezioni avvenute. Auguri.

METTIAMO CHE QUESTO ACCORDO, logico oltre che virtuoso, si possa in qualche modo realizzare (speranza che si fonda, ancora una volta, sui buoni uffici del nostro provvidenziale presidente Napolitano). Sempre parlando nel vuoto, mi permetto di formulare alcuni modesti consigli ai nostri eroi.

Caro Monti, so bene che lei è liberale e non liberista, e non crede nelle miracolose capacità di auto-regolazione dei mercati - si liberi anche dal preconcetto che il vizio stia sempre e soltanto dalla parte di chi ha fatto debiti. Chi li concede a volte è peggiore. E chi li contrae, altre volte, può avere ottime ragioni. Dia un'occhiata al bel libro di Ruffolo e Sylos Labini, "Il film della crisi". A proposito di sacri valori, poi, non dia l'impressione di credere che l'idea di uguaglianza sia un mito sessantottino. Piaccia o no, è la ragione d'essere, propriamente intesa, del regime democratico. Sul tema le suggerirei un'altra lettura, "La fine dell'uguaglianza", di Vittorio Parsi. Caro Bersani, ho molto apprezzato la tua decisione di "dire la verità". E' ora di dirla anche in merito a "sovranità nazionali" e "primati della politica", non ti pare? Un po' di disincanto: se uomini come Monti "scendono in campo" e da Obama alla Merkel lo invocano, ci sarà un senso, o è complotto plutocratico? Occorrono riforme più che radicali perché la politica serva di nuovo. Che il tuo programma elettorale sia: fase costituente, e cioè nuovo Parlamento, nuovo governo, nuovo assetto politico-amministrativo del Paese. Finora, neppure il micro-topolino della riduzione del numero delle Provincie! E torniamo a votare col porcellum... A cosa può servire la politica? A combattere la formazione di monopoli di ogni genere, a ridurre i poteri di veto delle corporazioni, a eliminare previlegi.


MONOPOLI, corporazioni, previlegi - tutte cose di "destra"? No - mali presenti ovunque nelle democrazie, e in Italia radicati in vizi secolari. Dì la "verità": che li combatterai a 360°: a partire dai previlegi dei partiti, dall'assurdo regime delle società partecipate, dalla auto-referenzialità dei poteri burocratico-amministrativi e, diciamolo, per molti aspetti, della stessa funzione giudiziaria. A proposito, non dimenticare Renzi; evitaci lo spettacolo di contrattazioni sul numero dei deputati-nominati garantiti. Sorrido all'idea di quanto Renzi debba risultarti indigeribile, ma certo non appartiene alla schiatta di quei (pochi) giovani yes-man che cercano di far carriera nel Pd, all'ombra di questo o quello.

Evita la rottamazione a rovescio che è stata il costume dei partiti da due generazioni a questa parte, e che ha prodotto retoriche, narrazioni e riforme zero. Falla finita con le cooptazioni. Piccolo passo anche questo sulla via della lotta ai previlegi. E vedremo con regole delle primarie e liste se su questa via ci siamo. Caro Monti, caro Bersani, spero insomma di poter votare l'uno votando l'altro. Diceva un saggio: chi non spera l'impossibile, non realizzerà neppure il possibile.

   
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Alla faccia della rottamazione
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 03:47:47 pm

Opinione

Alla faccia della rottamazione

di Massimo Cacciari

Dunque, alla fine Berlusconi è tornato in campo, Renzi è scomparso, c'è l'assalto dei politici alla tv e nel Paese la decadenza continua. Insomma, grandi novità

22 gennaio 2013

Si narrava che sarebbe stata la volta se non della rottamazione, di generosi rinnovamenti. Si alzava a diritta lo squillo grillino, a sinistra rispondeva quello di Fiorenza. E a seguire gli altri,tutti impegnati a coprire l'abisso tra "casta"politica e "società civile". Primarie dappertutto. Competition is competition. Slogan, sia chiaro, che non ho mai frequentato e ai quali ancora meno ho creduto. Ma certo era difficile immaginare che avrebbero partorito così infinitesimi topolini. Renzi ha salvato qualcuno dei suoi e ha evitato la rottamazione - poco altro poteva combinare. Le primarie del Pd non hanno risolto alcun problema di "linea" (come si sarebbe detto all'epoca di Bersani), né avrebbero potuto, trattandosi esattamente dell'opposto di un confronto congressuale all'interno di un partito-partito. Tanto meno risulta chiarito il rapporto con il compagno Vendola, anche se insisto nel dirmi convinto che al momento buono non farà alcuna barricata contro un'intesa con Monti. Come previsto, le pseudo-novità à la Grillo illanguidiscono non appena le televisioni si trovano in altre faccende affaccendate (grande rivoluzione anche questa: gli italiani guardano ancora la tv e sono influenzati dalle sue meraviglie mille volte più che da social network, Twitter, ecc.).

Ma il colmo della novità, da Guinness dei primati, lo abbiamo raggiunto con la "risalita in politica" di Silvio Berlusconi, candidato premier. In qualsiasi Paese sulla faccia della terra la ricandidatura di una persona vicina all'ottantina per la sesta volta, e dopo prove fallimentari di ogni genere e su tutti i palcoscenici del mondo, sarebbe stata immediatamente accolta da una tale omerica risata e da un grido così unanime di "basta!", da costringerla al ritiro in tempo reale. Da noi, no; noi siamo nuovi, originali, un laboratorio. Anzi,il replicante viene invitato dappertutto, fa audience, la gente dice che recita bene e cresce nei sondaggi. Per spiegare simili fenomeni occorre l'antropologo o lo scrittore, più che il politologo. Chi può dirsi innocente per una simile tragica farsa? Chi non ha responsabilità per l'immobilismo culturale, etico, politico, per la decadenza di questo Paese, che essa da sola basta e avanza a rappresentare? Invidio chi riesce ad assolversi, imprenditore o professore, politico o giornalista che sia.

Ma ci si può forse consolare con la certezza che il tempo del centrodestra berlusconiano e della Lega di Bossi sono comunque finiti. Sì, ma quanto potranno ancora condizionare i non pochi resti della loro antica potenza all'interno di un Parlamento, i cui meccanismi nessuno ha saputo modificare, malgrado due decenni di chiacchiere? Poiché il problema ormai non sono le elezioni, ma il governo che ne nascerà. Sarà un governo davvero costituente? Allora l'agenda va ben oltre quanto hanno detto sia Bersani che Monti. Non perché si tratti di inventare impossibili miracoli sul fronte dello sviluppo o della riduzione dell'imposizione fiscale. Ci sono vincoli e priorità "ragionieristici" che sarà bene ripetere, visto che né Bersani né Monti sono costretti a fare demagogia per vincere. La mission possibilissima del prossimo governo è tutta politica: eliminare le ingessature amministrative-burocratiche che fanno sì che aprire o svolgere qualsiasi attività in Italia costi dieci volte più in denaro e tempo che in qualsiasi altro Paese occidentale; delegiferare e costruire snelli testi unici su tutte le materie interessanti imprese e occupazione; eliminare le provincie, conferendone le competenze a città metropolitane e regioni; dar corpo effettivo al federalismo fiscale, a partire dalle spese sanitarie (assumendo come ministri ad hoc uomini come Ricolfi!); avviare una revisione complessiva della nostra Costituzione, che è bellissima quanto, con buona pace di Benigni, da due decenni almeno, palesemente bisognosa di importanti restauri, almeno per superare il bicameralismo, istituire il senato della autonomie e normare la vita dei partiti; fare una legge definitiva sul conflitto di interessi. E usare ogni euro resosi disponibile per sostenere l'avvio di nuove imprese e garantire solidi ammortizzatori sociali.

La "novità" attuale è che ancora una volta pochissime idee in questo senso circolano tra partiti e movimenti in lizza. E ancora meno uomini in grado di comprenderle e volerle realizzare. Le liste dell'uno e dell'altro sono giustapposizioni di personalità diversissime, in gran parte stra-collaudate. Chissà perché non ci sarebbero potuti stare anche D'Alema e Veltroni... Ne risulteranno maggioranze politiche solide?
Si faranno le riforme necessarie? Hic sunt leones...

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Titolo: MASSIMO CACCIARI La speranza si chiama Ambrosoli
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2013, 11:13:01 pm
Opinione

La speranza si chiama Ambrosoli

di Massimo Cacciari

Il voto della Lombardia è diventato fondamentale. Quello per il Parlamento, ma anche quello per la regione. Perché se si dimentica il nord, l'Italia non va da nessuna parte

(11 febbraio 2013)

Sarebbe stato lecito augurarsi una campagna elettorale improntata a realismo, impegni possibili, qualche frammento di idee nuove. Se non altro per rispetto a quel 40 per cento di giovani senza lavoro e di quell'altro 60 o quasi che gode delle affascinanti inquietudini della precarietà. Anche grazie alla ri-ascesa in politica di Berlusconi, siamo invece costretti a ri-assistere alla scena del conflitto tra la vacua promessa liberista che con la riduzione dell'imposizione fiscale tutto si risolva e slogan paleo-socialdemocratici. Non che la presenza di Monti abbia, per il momento, modificato di molto la situazione.

La campagna si svolge sostanzialmente tra chi le spara impudicamente e chi più moderatamente sulla riduzione delle tasse, sull'Imu, e via cantando. Al solito, forze politiche che non sono riuscite nell'ultimo anno neppure a eliminare provincie, ridurre il numero dei parlamentari, fare una legge decente sul finanziamento ai partiti, eliminare il Porcellum, garantiscono che "faranno" ciò che il paese attende da oltre vent'anni. Invano cercheremmo nelle varie "agende" risposte tecnicamente definite su come eliminare i "vincolismi" assurdi che fanno sì che per aprire un'impresa in Italia occorre spendere in tempo e denaro dieci volte più che in qualsiasi altro paese europeo, oppure su come sostenere, non con qualche sconto fiscale pressoché ininfluente, ma con strumenti creditizi e finanziari innovativi le giovani imprese, il terzo settore (destinato a diventare fondamentale per il nuovo Welfare), chi si inventa attività e professioni nel mondo globale.

ANCHE SULLA LOTTA ALL'EVASIONE si chiacchiera come ci trovassimo nel secolo scorso e potesse essere ridotta a scontrini, pagamento con la carta di credito e blitz della finanza, nel mondo in cui i capitali possono legalmente andarsene o venire con un colpo di telefono. Sarebbe, ho l'impressione, più utile discutere sulle condizioni di sistema che occorre realizzare, per fare in modo che chi ha i mezzi e le capacità investa ancora da noi, promuovendo in tutti i modi occupazione aggiuntiva. Fondamentale oggi è la flessibilità all'"ingresso", esattamente quella che la Fornero, o chi per lei, ha imbalsamato.

Ma per venire anche alle questioni politico-politicistiche, mi sembra corra anche scarsa consapevolezza sulla partita più delicata che si giocherà il 24 febbraio. Essa riguarda la Lombardia - ma non per la maggioranza al Senato, la quale, se Bersani si mostrerà vincitore intelligente, comunque sarà formata da un'intesa Pd-Monti. In gioco è la rappresentatività e la capacità di governare della maggioranza futura. O c'è ancora qualcuno, da Bologna in giù, che pensa sia possibile combinare qualche sensata riforma senza avere con sé Piemonte, Lombardia e Veneto?

ESISTE ANCORA, MALGRADO le dure repliche della storia, chi pensa che l'Italia possa essere governata senza che il Nord condivida davvero le scelte del governo nazionale? Per vent'anni mi sono consumato a spiegare che cosa sia il federalismo a Ds, margherite, ulivi, Pd, perché abbia lingua per ripeterlo ancora. Possono immaginare le teste pensanti Pd quale sarebbe la situazione politica se questo partito fosse nato con una struttura federale e oggi fosse in campo quel Pd del Nord, autonomo, proposto non da un "alieno" come il sottoscritto, ma da un fedelissimo come Chiamparino?

E così il risultato il Lombardia è a rischio - e con la possibilità che si affermi un leader non decotto, non destinato ad accompagnare Berlusconi nella sua disperata sopravvivenza, come Maroni, intorno al quale potrebbe anche rianimarsi un centro-destra più Lega in Piemonte e Veneto. La vera opposizione al prossimo governo sarà quella di queste Regioni, altro che alla Camera o al Senato! E la crisi del paese potrebbe raggiungere dimensioni sociali e culturali ancora più drammatiche. Sostenere Ambrosoli non significa, allora, "voto utile" per la maggioranza Pd-Vendola al Senato, ma per mantenere ancora viva la fiammella di speranza che questo Paese, tutto intero, ce la possa fare.


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Titolo: MASSIMO CACCIARI Elezioni, Cacciari commenta i risultati: Sono teste di cazzo..
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 05:19:11 pm
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Elezioni, Cacciari commenta i risultati: “Sono teste di cazzo, era meglio Renzi”

L'ex sindaco di Venezia, da sempre critico all'interno del Partito democratico, è arrabbiato per l'esito delle urne: "Un disastro, dovevamo puntare su un rinnovamento radicale, invece siamo rimasti a metà". E la colpa è del "gruppo dirigente che circonda Bersani"


di Redazione Il Fatto Quotidiano | 26 febbraio 2013


Se fossimo stati in televisione sarebbe stato un continuo “bip” “bip” per eliminare parolacce e improperi dalle parole di Massimo Cacciari.
Ex sindaco di Venezia, filosofo, da sempre una voce critica all’interno del Partito democratico. È avvelenato. Ci parla con un tono tra l’avvilito di chi lo aveva detto da tempo, e l’arrabbiato di chi non vuole smettere di dirlo. “Senta, è un disastro. Un vero disastro”.
Ancora non è definitivo (sono le sei del pomeriggio). “Eccome se lo è. Peggio di così…”
Partiamo dai motivi.
Sono gli stessi da vent’anni, da sempre, da quando perdiamo.
Va bene, mi indichi i principali.
Questa volta dovevamo puntare su un rinnovamento radicale. Dovevamo scegliere dove stare e cosa fare! Non restare a metà.
Nel contesto.
Le cito Kant, quando parlava della somma dell’inerzia…
Nel pratico.
Il Pd è rimasto a metà tra il voler interpretare le spinte arrivate dalla parte di Grillo e quella di strizzare l’occhio al gruppo di Monti e alla sua visione dello Stato e dell’Europa.
Figure politiche antropomorfe.
Come al solito siamo gente affetta da snobismo e da puzza sotto il naso. Come sempre!
Sarebbe stato meglio avere Renzi?
Aspetti. Prima di dire certe cose, legga i risultati locali.
A quali si riferisce, in particolare?
(Qui il tono della voce si alza) Al nord è una catastrofe sia per Pdl che per la Lega! Eppure il centrosinistra non ha fatto un cazzo.
Non è cresciuto.
Hanno sottovalutato l’avversario?
Di più, peggio! (il tono cresce ancora, notevolmente) Sono delle teste di cazzo! Loro sanno tutto, loro capiscono tutto.
Loro possono insegnare tutto a tutti. Mentre gli altri sono dei cretini.
Quindi?
Le faccio un esempio: è impossibile spiegargli che c’è una questione settentrionale. Eppure continuano a sbatterci la faccia.
La loro vita si sviluppa solo tra Botteghe Oscure, il Nazareno e Montecitorio. Del resto non sanno nulla. Gli basta quel triangolo.
Colpa di Bersani?
No. Ma di quel gruppo dirigente che continua a circondarlo. Gente completamente fallita.
A chi si riferisce, in particolare?
Tutti quelli che stanno da sempre lì e che non abbiamo ancora cacciato. Sì, abbiamo sbagliato a non appoggiare Matteo Renzi.
È stato un grande errore.
Ora i democratici cosa devono fare?
(Qui cala i toni, diventa quasi più riflessivo) L’unica strategia è mantenere i nervi saldi. E cerchiamo di dialogare in Parlamento con gli eletti nelle liste di Grillo. Se ci riusciamo.

di Alessandro Ferrucci

Da Il Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/26/elezioni-cacciari-commenta-risultati-sono-teste-di-cazzo-era-meglio-renzi/513648/


Titolo: MASSIMO CACCIARI E Monti è sparito dai radar
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 11:23:45 pm

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E Monti è sparito dai radar

di Massimo Cacciari

Pensava di essere decisivo al Senato, invece è ininfluente. E di lui non parla più nessuno.
Eppure un ruolo nei giochi può ancora averlo. Se si chiama fuori dalle alchimie di Palazzo

(06 marzo 2013)

Il trionfo grillino rende superfluo discettare su ciò che Monti avrebbe potuto fare se avesse raggiunto i traguardi sperati alla vigilia e previsti dai nostri fantastici sondaggisti. Anche col 15 per cento, poco o nulla: lo stallo, almeno al Senato, era inevitabile. Ma perché un esito tanto modesto? E ora? La ragione del flop mi pare chiarissima; Monti aveva un solo, vero asso da giocare: quello della netta discontinuità rispetto a tutte le coalizioni, destra e sinistra. Doveva rappresentare,
in qualche modo, la protesta seria, costruttiva, europeista nei confronti della palese impotenza e decrepitezza degli schemi ideali e programmatici di tutte le forze politiche della seconda Repubblica. La popolarità di cui godeva all'inizio della sua Presidenza del Consiglio dipendeva da questo.

E' finito col caratterizzare la sua immagine in senso opposto, fin dal primo istante, presentandosi (dopo defatiganti incertezze, che certo non lo hanno aiutato) come leader di una mini-coalizione in perfetta continuità con i disastri del non più recente passato, zavorrata dai Casini e dai Fini. Alleati che ha finito col vampirizzare, senza probabilmente sottrarre un voto alla destra.

Chi lo abbia consigliato in questa mossa suicida non saprei - forse la paura di non farcela organizzativamente da solo, forse la sopravvalutazione del peso reale di certe componenti della storia politica italiana. Ma più probabilmente sono emersi tutti i limiti del Monti politico, tutta la fragilità della sua "vocazione" politica. Vi può essere in lui etica della responsabilità, coscienza anche drammatica della crisi ormai culturale-antropologica del Paese, ma vi manca del tutto la necessaria forza retorico-persuasiva, la capacità di "incarnare" i programmi, di trasformarli in parole-chiave, di accordarli al vissuto della crisi, alle sue figure concrete. Le gaffe in questo senso sui giovani e sul precariato sono emblematiche. Manca in lui il territorio della politica - così come manca al Pd, con la solita eccezione dell'Appennino tosco-emiliano. E il territorio, non rappresentato più neppure dalla Lega (esempio clamoroso: nella sua patria trevigiana la Lega crolla dal 48 per cento delle Regionali al 13) si rovescia col più classico dei voti di opinione su Grillo. Sarebbe forse servito al centro-sinistra un centauro virtuoso fatto di Monti e Renzi - forse bastava un Renzi (e faccio auto-critica per non averlo capito).Ma ora? Se la crisi precipita e la situazione economico-finanziaria diviene ingovernabile, il ritorno rapido alle urne ("alla greca") sarà inevitabile.

Monti potrebbe certo puntare a un risultato migliore. Molti concittadini, a quel punto, comprenderebbero che non è salubre giocare col voto di pura protesta. Ma dovrà cambiare radicalmente immagine, consiglieri, referenti sul territorio. Insomma, "convertirsi" in capo politico. Molto arduo, per le ragioni suddette. Altrimenti? Nessuna possibilità di nuovi governi "tecnici", né di mega-compromessi storici.

Un ruolo di Monti come ministro in un governo di minoranza presieduto da Bersani (o chi per lui del Pd)? Potrebbe risultare utile come segnale al mondo che l'Italia non è ormai la nave dei folli, ma allontanerebbe anche le già remotissime possibilità di un'intesa su qualche punto con Grillo, almeno al fine di non rendere traumatica la fase che si apre. Grillo potrebbe essere disposto a una soluzione a termine "more siculo", ma non certo con un Monti nel governo. Forse l'unica mediazione praticabile tra Pd e Grillo (e che altro tentare, ammesso sia evitabile la morte immediata della legislatura?) resta Vendola - il quale ritiene addirittura che sia Monti la causa delle sventure elettorali della sinistra.

Ma proprio il non avere al momento alcun futuro politico è l'unica chance di Monti: quella di rappresentare la condizione di estraneità, di "esiliati" in patria di tutti coloro che hanno compreso le ragioni della nostra crisi di sistema, lo spappolamento delle vecchie geografie politiche e non vogliono arrendersi alle derive delle retoriche e delle demagogie. Che una simile posizione possa assumere rilievo elettorale e politico in un Paese allo sbando, non so. Che Monti ne sia capace, meno ancora. Ma so che se si metterà ora a giocare nel Palazzo, il suo mezzo fallimento odierno diventerà una bancarotta patetica.

 
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Quirinale, uno scontro di civiltà
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2013, 05:54:31 pm
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Quirinale, uno scontro di civiltà

di Massimo Cacciari

Ci vorrebbe Shakespeare per raccontare l'imminente incontro tra Napolitano e Grillo: un'irreale collisione tra la cultura politica del Novecento e il mito del 'popolo sovrano'

(15 marzo 2013)

E' inutile almanaccare oggi sull'esito, certo comunque fragilissimo, degli sforzi del Pd per formare un governo. Ed è ancor più inutile ripetere che queste elezioni hanno messo a nudo una crisi sistemica, che in altre epoche e in altri contesti si sarebbe risolta soltanto con rivoluzioni politiche vere e proprie. Come consolidata abitudine, accadono cose nel nostro Paese che sono per un verso autentica follia, al di là di ogni schema interpretativo standard, e, per un altro, anticipazioni di scenari possibili, premonizioni di comuni destini per gli attuali, asfittici regimi democratici.

Il mix forma a volte autentici drammi, che potrebbero essere degni di un tragi-comico Shakespeare più che di Dario Fo. Tra le scene del dramma, per assistere al quale darei un anno di vita, porrei l'incontro tra il Presidente Napolitano e il vincitore delle elezioni, nonché leader del primo partito-non-partito italiano, Grillo.

Nessuna fantasia di poeta avrebbe potuto immaginare "collisione" più irreale, "guerra" di mondi più lontani e l'un l'altro estranei, eppure costretti, magari per un momento, a "incontri ravvicinati". Solo da noi poteva accadere. Laboratorio o delirio? All'inclito pubblico la sentenza.

Faccia a faccia l'incomponibile, ecco il dramma: da una parte, la cultura politica del Novecento, in uno dei suoi volti più nobili, il leader che ha concepito tutta la propria "missione" nel senso del contenere e frenare gli impulsi eversivi provenienti dalla propria stessa base sociale, di dare a essi una forma organizzativa e politica, inseguendo l'ideale del partito "moderno Principe", autorevole non solo per solidità morale, ma per la selezione, preparazione e competenza della sua classe dirigente; dall'altra, il rappresentante dello sfascio storico, almeno in Italia, di quell'ideale, e che sulle sue rovine costruisce le proprie fortune; il sintomo, preziosissimo a saperlo leggere, della crisi dell'idea stessa di rappresentanza, sostituita dai miti della partecipazione diretta e della "bontà" tout-court del "popolo sovrano".

Da una parte, il Novecento delle grandi organizzazioni di massa, della "battaglia delle idee", tragedia e nobiltà; dall'altra, la "società liquida", sterminata massa di solitudini che si incontrano nel web "immateriale", la cui Voce Grillo raccoglie e ripete. Naturalmente, finge, da artista qual è, di raccogliere e ripetere. E' lui, e solo lui, a orchestrare il rapporto. Ma è la finzione che conta, e questa per il momento è perfettamente riuscita.

Ma occorrerebbe che il nostro poeta riuscisse a far intendere anche l'aspetto umano di questo "scontro di civiltà". Nelle parole che Napolitano rivolge a Grillo dobbiamo avvertire il timbro di una profonda delusione, se non del fallimento: come è potuto accadere? Quali colossali errori abbiamo commesso, noi vecchi e quelli da noi allevati, perché le culture politiche di questo Paese naufragassero così miseramente? Per arrivare al 75 per cento degli italiani che o non votano o votano populismi di diversa natura, e questa volta senza neppure crederci, con perfetto disincanto?

Ma anche nel discorso di Grillo, o meglio nei suoi apodittici enunciati, un senso di angoscia è necessario che traspaia. Arriva il momento in cui occorre decidere. Abissale distanza tra protesta, denuncia e decisione, tra la rendita che ottieni dalla protesta e il momento in cui sei costretto a investirla decidendo.

Naturalmente, è possibile fingere anche di voler decidere: sparando richieste che automaticamente impediscono ogni compromesso. Un artista può farlo. Ma ogni commedia o tragedia giunge alla fine: anche quelle dell'assurdo, di un assurdo che neppure Ionesco avrebbe mai immaginato, come quella che per involontarissimi protagonisti ha in questi giorni il Presidente Napolitano e Beppe Grillo.


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Titolo: MASSIMO CACCIARI Il Matto non può farsi Re
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2013, 10:46:18 pm
Opinioni

Il Matto non può farsi Re

di Massimo Cacciari

La crisi dei partiti assomiglia a quella che portò alla repubblica di Weimar. I grillini hanno dimostrato l'incapacità degli altri leader ma non sono in grado di prenderne il posto. Napolitano può fare un altro miracolo ma in futuro...

(10 aprile 2013)

Che cosa accade in questo Paese? Davvero gli dèi hanno deciso di perderci? In qualsiasi altro luogo, di fronte a una crisi di tali proporzioni, nel pieno di un declino che pare inarrestabile, le forze politiche avrebbero cercato un compromesso, prodotto un accordo di qualche tipo. Alla regola del primum vivere non sarebbero venute meno. Situazioni analoghe, di partiti con l'acqua ormai sopra la testa, incapaci di liberarsi delle catene che essi stessi si sono stretti addosso, non si conoscevano dall'avvento al potere di fascisti e nazisti. La stessa impotenza a rinnovarsi, a liberarsi da arcaici steccati ideologici, ad affrontare il "salto d'epoca". Lo stesso testardo insistere su ciò che separa, lo stesso caparbio ostinarsi nell'illusione di poter conservare le proprie rendite di posizione. Per fortuna nessun Hitler è alle porte, nè lo sarà mai più.

Ma la figura che i nostri eroi fanno è del tutto paragonabile a quella di comunisti, socialisti, partiti conservatori e partiti cattolici della sventurata Repubblica di Weimar. E il dramma è che davvero, allora come ora, queste forze non possono trovare un punto di mediazione. La storia del Pd impedisce a questo partito un accordo col Pdl che non ne comporti il suicidio; il Pdl lo sa benissimo,e soltanto per questo lo propone. E i grillini vincitori? Forse ignorano il motto "guai ai vincitori!", ma forse anche, ragionando di politica, non riescono a vedere quale utilità potrebbero trarre da alleanze di qualsiasi tipo con forze chiaramente decotte. Se il Pd si fosse presentato all'appuntamento inequivocabilmente sulla via del rinnovamento, il discorso sarebbe forse potuto essere un altro. Ma ora? Anche i grillini appaiono prigionieri di se stessi. Il nostro Fool (Matto) ha mostrato per intero la follia del Re e la sua impotenza a governare, ma accade ora che nessuno si mostra in grado di ereditare il regno. Nessun fool è stato mai così matto da pensare di potersi lui da solo sostituire al Re impazzito. Naturalmente, nessun matto è più matto di quel Re che abdica da ogni sua funzione, che si rivela drammaticamente impotente e che pure pretende di continuare a regnare. Ma la situazione non potrà mai essere quella di una successione da parte del più o meno saggio fool, che aveva denunciato la follia del Re. I veri matti lo sanno benissimo. Ma arrivano momenti in cui debbono fingere di non saperlo, illudendosi così di potersi salvare dalla catastrofe generale. Shakespeare insegna che invece ciò non si dà.

Morale della metafora? Vogliamo per una volta guardare in faccia la realtà? Vogliamo prendere lezione da tutti gli ultimi avvenimenti o almeno, per chi ha la memoria corta, dal mandato a Monti da parte di Napolitano? Il Paese è in condizioni drammatiche, la mancanza di governo non riguarda questo o quel Governo, ma il crollo di rappresentatività e funzionalità di ogni istituzione. I partiti usciranno dalla loro crisi chissà quando e chissà come. Se ci siamo salvati finora è per l'energia del Capo dello Stato. Ma non si tratta del "ruolo della personalità nella storia". E' chiaro, invece, che la natura stessa della crisi impone di ripensare alla figura e al ruolo del Presidente. Che cosa significa, dopo i vani tentativi di questi giorni, che Napolitano personalmente verificherà gli orientamenti dei diversi gruppi? Significa che, per le ragioni indicate all'inizio, le forze politiche,nella loro normale dialettica, non ce la fanno a governare la situazione.

Non si tratta di un semplice passaggio. Da trent'anni è così. Riconosciamolo finalmente: la logica di questa seconda, fallita Repubblica impone nuove forme di parlamento e di governo. E il governo, in Italia, va pensato in una prospettiva presidenzialistica. C'è chi lo dice da Tangentopoli, c'è chi ne ha spiegato la necessità anche in un quadro di vera riforma federalistica. Ma come si fa a non comprenderlo ora, di fronte allo spettacolo cui siamo costretti ad assistere? Per il momento, che Napolitano cerchi di varare un altro governo delle "larghe intese", inventi un altro uomo (e questa volta magari anche un gabinetto) capace di farci sopravvivere. E che Dio gli renda merito. Ma i pannicelli non servono per affrontare alla radice il problema del governo in Italia; non possiamo continuare a giocare alla "repubblica presidenziale", senza che un presidente democraticamente eletto ne abbia i poteri. Tirare avanti è ormai un modo per precipitare.

     
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Pd, se si scinde è meglio
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 05:32:59 pm
Sinistra

Pd, se si scinde è meglio

di Massimo Cacciari

Il partito è una melassa indigeribile. E la convivenza forzata ha generato mostri. Ma adesso la situazione sta per esplodere. Da una parte i cattolici-liberali, magari con Renzi; dall'altra i neo-socialisti, magari con Barca

(26 aprile 2013)

Il modo in cui il PD si è sfasciato, in diretta tv, e in occasione della scadenza istituzionale più solenne, l'elezione del capo dello Stato, ancora offende - ma la sostanza della questione non muta, e non sarebbe cambiata neppure se per qualche voto fossero passati Marini o Prodi. Piangere sulle macerie del suo gruppo dirigente non serve.

E molto poco ormai anche narrare la triste istoria dei suoi errori, conclusasi con lo stato di pura confusione mentale emerso nelle ultime vicende. Lasciamo pure il giudizio alla pietas delle generazioni future. Ciò che conta oggi per chi a quell'area politica si era rivolto, e per gli equilibri democratici dell'intero Paese, è comprendere come potrebbe evolversi la sua crisi e quali esiti dovremmo auspicarne. Fingere che le rotture esplose siano malessere passeggero, che il gruppo dirigente possa magicamente trovare un'unità mai esistita intorno a questo o a quel nuovo leader, significa pura Illusionspolitik. Celebrare un congresso, nominare un segretario rappresentante necessariamente una delle anime in conflitto e sperare che poi costui possa far meglio di Bersani, significa soltanto protrarre l'agonia - che ha come naturale scadenza la riconsegna del Paese a Berlusconi. Saggio sarebbe, invece, riconoscere con disincanto e sobrietà le faglie reali che dividono irrimediabilmente il Pd e il fallimento dell'idea da cui era nato. Avendola in prima persona per vent'anni coltivata, credo di sapere che il lutto non è facile da "lavorare", ma un organismo politico si dimostra adulto se sa affrontare tale fatica.

La scommessa poteva essere vinta soltanto se i gruppi dirigenti provenienti da aree, culture, storie anche antropologicamente diverse avessero individuato un destino, una destinazione comune, che non trovavano nel proprio, individuale "patrimonio". E occorreva l'affermarsi in generale di una cultura politica maggioritaria, che è risultata contrastare "radicitus" il cattivo senso comune patrio.

Si riparta perciò dalle linee di rottura interne al Pd. Si faccia ordine a partire da esse. La convivenza coatta genera mostri, parricidi, fratricidi, infanticidi e purtroppo anche tragicommedie, come l'ultima. Il Pd è stato una melassa indigeribile che ha lasciato "fuori campo" sia una seria corrente ex Pci - socialdemocratica, che quella cattolico-popolare davvero rappresentativa in molti territori, rimasta succube della forza (si fa per dire) burocratico-organizzativa che i Ds avevano ereditato dal Pci, e perdendo così via via la propria stessa base elettorale. A migliorare la situazione, si è aggiunto il giovanilismo ultima-moda bersaniano, con la cooptazione di qualche "nuovo politico", di quelli che prendono la "linea" dagli amici di Facebook. Non sono componenti componibili! Invece di aumentare le forze, insieme possono solo distruggersi.

Abbiamo bisogno di ulteriori prove? E invece, ben distinte, queste aree potrebbero svolgere missioni importanti e in qualche modo complementari, rendendo possibili compagini di governo operative. Ricordiamoci quale potenzialità aveva dimostrato, non millenni orsono, un'area di sinistra facente riferimento a Cofferati. Mi pare che il "manifesto" di Fabrizio Barca si muove nella prospettiva della fondazione di un partito socialdemocratico, solidamente organizzato, in cui riunire, in un'ottica esplicitamente europea, sia Sel, che altre formazioni-relitti ex comunisti. E' una prospettiva culturalmente opposta a quella di Renzi. Nulla di male. La cultura politica che Renzi esprime, tra liberalismo e un cattolicesimo popolare che ne ripensa i caratteri organicistico-solidaristici alla luce della "società liquida" prodotta dalla Rete, può aggregare, ben oltre il Pd, vasti settori di opinione pubblica (anche "grillina") e concreti interessi economici. Ma queste due aree fondamentali debbono definirsi autonomamente e con la massima chiarezza. Cosa impossibile se continueranno a inseguirsi e combattersi all'interno della stessa casamatta. La loro "offerta politica" deve al più presto presentarsi ed essere percepita come un'alternativa razionale, legittima, storicamente fondata, all'interno di un quadro politico dove la distinzione delle posizioni non preclude in alcun modo la possibilità di compromessi e collaborazione.

Il centro-sinistra, dopo l'indecente spettacolo fornito in questi giorni, ha il dovere di ripensarsi alla radice, di tentare un "nuovo inizio". E questo non si può inventare, non può ridursi a ciance e cieche speranze. Deve emergere dalla sua storia reale e dalle potenzialità oggi presenti. Non ne vedo altre al di fuori di quelle sopra citate. Insomma, una nuova Quercia, senza equivoci post-modern, da una parte, e un partito-movimento, partito leggero e ideologia dello "Stato minimo", dall'altro. Insieme sono due anime che finiranno col contare il 10 per cento - ben distinte potrebbero pure governare.


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Titolo: MASSIMO CACCIARI Renzi e Grillo hanno rotto
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 11:13:36 am
Opinione

Renzi e Grillo hanno rotto

di Massimo Cacciari

I due 'innovatori' della politica italiana hanno argomenti e strumenti diversi, ma in realtà puntano allo stesso obiettivo: un sistema in cui possono continuare a vivere di rendita, sfruttando la pochezza della politica

(12 giugno 2013)

Esistono comportamenti nella politica nazionale che sembrano spiegabili solo ricorrendo alle più pessimistiche delle antropologie. L'incapacità di avviare qualsiasi seria riforma, la nauseante ripetitività, che perfino il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ha dovuto avvertire, del discorso sui trent'anni buttati, sono forse la spia di un nostro "male radicale". L'"asse che non vacilla" della nostra cultura politica, nei rapporti tra partiti così come all'interno di ognuno di essi, consiste nell'impedire che la competizione giunga a vere conclusioni e chi vince vinca davvero.

Democrazia, invece, piaccia o no, significa competizione tra élite per governare con efficacia e efficienza. Se il sistema funziona al contrario, la dialettica democratica si trasforma in assemblea "discutidora" e la sovranità popolare in ideologia buona a nascondere l'impotenza degli esecutivi. Preoccupazione essenziale di chi non ne fa parte è costringerli a un defatigante lavorio di opportunistici accomodamenti, che è l'opposto di ogni coerente compromesso, lavorio dal quale ogni provvedimento esce stravolto o indebolito, così che, alla fine, risulta impossibile imputarlo con chiarezza a qualcuno. Il sistema genera perciò deresponsabilizzazione e forma l'humus ideale per ogni pratica trasformistica (altro atavico peccato nazionale).

Da questo antichissimo vizio sembrano non essere immuni l'"uomo nuovo" Renzi e neppure il "nuovissimo" Grillo. Quest'ultimo, anzi, appare anche culturalmente l'alfiere della "consuetudo patria" consistente nella legge non scritta per cui conta, anzitutto, che un governo non sia più forte del minimo indispensabile per sopravvivere. La maniacale esaltazione del grillismo sul "controllo" (quel refrain: noi siamo i "giusti" chiamati nelle istituzioni per verificare, certificare, sorvegliare e punire), l'ossessione della trasparenza (tutti ottimi valori ma che valgono, ovviamente, solo se possono applicarsi all'azione di effettivi governi e ne presuppongono perciò la formazione), tutto questo armamentario retorico è quanto di meno "rivoluzionario" si possa immaginare rispetto alle tradizioni del Paese.

Analogo ragionamento si potrebbe tentare a proposito del discorso sul partito politico. Tutto il "nuovismo" sembra tenerlo in gran dispitto. Le sue mode lo considerano obsoleto. Ed è posizione quanto mai trasversale: partito non è certo, infatti, quello di Berlusconi, né quello di Grillo, né la sua idea parrebbe coerente con comportamenti e strategia del giovane Renzi. Grillo teorizza esplicitamente una democrazia diretta di movimenti e sondaggi Web, senza partiti. Cosa che in natura non si è mai data, né mai si darà, ma è tenace componente di certa cultura di sinistra, come di destra: il partito deve "sciogliersi" nel movimento e il movimento nel popolo. Renzi non lo teorizza, ma opera spesso in senso analogo. Che altro significato può avere la sua ambizione al premierato senza puntare, allo stesso tempo, alla guida del partito che a quel ruolo dovrebbe candidarlo? Su quale pianeta il premier non è anche il capo riconosciuto del partito che lo esprime? E come è immaginabile un esecutivo davvero forte e capace di riforme se (come accade ora) i suoi membri non tengono in mano anche le redini della maggioranza parlamentare? Misteriose alchimie che si fanno subito chiare non appena ricordiamo la cultura politica di cui sono espressione: governi deboli e partiti-non-partiti sono due facce della stessa medaglia. Ed è tale debolezza a permettere che ogni "competitore" continui a godere di rendite, a esercitare diritti di veto, e a tutti di mascherare le proprie responsabilità. E di accusare di disfattismo chi denuncia l'intollerabilità della situazione e ne ricerca le cause.


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Titolo: CACCIARI Briatore? Un cafone megagalattico, è l’idea platonica del cafone
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2013, 12:28:18 pm
Cacciari: “Briatore? Un cafone megagalattico, è l’idea platonica del cafone”

“Briatore? E’ un cafone megagalattico, universale, è l’idea platonica del cafone“. E’ il dissacrante giudizio che Massimo Cacciari, ospite de “La Zanzara”, su Radio24, dà dell’imprenditore piemontese, che su twitter lo ha chiamato “cacciati” e “nullità tutto chiacchiere e barba“. Il filosofo veneziano lancia una stoccata poderosa anche a Matteo Renzi: “Onestamente non so come una persona possa andare a pranzo con Briatore. Se sei un leader politico, andare a pranzo con Berlusconi ti tocca, ma con Briatore perché? Io non ci andrei neanche per sogno”. E sottolinea: “E’ circondato da bellissime donne? Su quelle potrei fare un’eccezione, neanche a me mancano. Ma quelle che amo frequentare io sono di altro tipo, dal punto di vista estetico”. Cacciari si esprime anche sulla presunta discesa in campo di Marina Berlusconi: “E’ una scelta intelligente, ma nello stesso tempo è una sciagura, perché è la rappresentazione più pazzesca del blocco totale, politico, sociale, culturale, etico e mentale di questo Paese. Una sfida” – continua – “tra Matteo Renzi e Marina Berlusconi sarebbe bella per Renzi, mica è roba semplice per lui”. Ma osserva: “Chi volete che mettano a capo di questa Forza Italia? E’ un incubo. Siamo nel 2013 a ragionare di un ritorno a Forza Italia, come se qualcuno dicesse: ‘Torniamo al PCI‘”. E sulla contrarietà di Renato Brunetta a un ingresso di Marina Berlusconi in politica, afferma: “La figlia di Berlusconi è una grande accentratrice, non darebbe molto spazio alle seconde file e ai Brunetta di turno. Anzi” – precisa – “ai perdenti di turno, perché poi questo Brunetta è inaudito: tutte le volte che ha tentato di farsi eleggere normalmente è stato sconfitto, anche nei momenti di massimo splendore di Berlusconi”. Riguardo all’attuale compagine governativa, Cacciari non ha dubbi: “Berlusconi non farà mai cadere il governo Letta, che è la sua assicurazione sulla vita. Il Cavaliere ha fatto una grande partita da pokerista dopo le elezioni e ha vinto. Bastava” – prosegue – “che dall’altra parte ci fossero dei giocatori abili e lo facevano fuori. Ma la sinistra, da D’Alema a Prodi, lo ha sempre fatto risorgere”

28 giugno 2013

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Non si vive solo di Imu e primarie
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2013, 07:42:34 pm
Opinioni

Non si vive solo di Imu e primarie

di Massimo Cacciari

Va bene parlare di Grillo, dei processi a Berlusconi o delle micromanovre del governo.

Ma sono altre le novità, sulle quali il Pd dovrebbe discutere: dalla tragedia siriana alle disuguaglianze nel mondo, ai fermenti in Turchia e Brasile

(27 giugno 2013)

C'era una volta un Paese dove in un partito, quando era tempo di congresso, anche il più sprovveduto segretario della più scalcagnata sezione di campagna teneva il suo discorso introduttivo di circa due ore, iniziando dall'analisi sui conflitti mondiali in atto, sulla crisi e prospettive del sistema capitalistico, sui mondi futuri e desiderabili. E la discussione per il 90 per cento si agitava alle medesime altezze.

Angosciosi ricordi. Siamo davvero definitivamente usciti da tali barbarie e entrati nell'età del disincanto. Non più chiacchiere de universo et quibusdam aliis, solo decisioni e programmi concreti. Come dovranno svolgersi le primarie? Potrà votare senza giustificazione al secondo turno chi ha l'influenza al primo? Potranno liberamente votare per la segreteria del partito anche coloro che mai vi hanno fatto parte, mai lo faranno, e che quel partito mai hanno votato? Dilemmi concretissimi, come si vede. E ancora: potrà candidarsi al premierato chi neppure partecipa alle primarie per la segreteria? Qui si decide davvero - altro che i tempi in cui ci si divideva sull'invasione di Praga, come fosse stato in nostro potere di cambiare qualcosa! Il nostro mondo si è fatto maturo - maturità è tutto, diceva un grande. Marciume forse meno. Possibile davvero che la questione riguardi come riformulare l'Imu, quanto aumentare o non aumentare l'Iva e implorare la Mitteleuropa di guardare al Mediterraneo e alle miserie di noi Welsche con occhio meno severo?

Non nutro alcuna nostalgia per l'internazionalismo dei miei giovani anni (non vi partecipavo neanche allora), ma forse non è troppo igienico dimenticare che apparteniamo a un mondo che trascende di qualche spanna le contese Renzi-Letta-D'Alema, e anche quelle Pd-Pdl. Forse sarebbe interessante che il congresso di un partito che retoricamente si richiama a "scuole di cultura politica" si interrogasse sulla crisi che oggi attraversa la forma democratica della rappresentanza, sulla rottura del "compromesso storico" tra democrazia e mercato, sulle ragioni dell'irresistibile crescita delle disuguaglianze in tutto l'Occidente. Forse, si potrebbe anche manifestare qualche preoccupazione per alcune tragedie in corso nell'indifferenza generale, come quella siriana. Forse, si dovrebbe anche cercare di comprendere la natura di quei movimenti che si accendono in tutto il mondo, che hanno determinato svolte epocali e tuttora dall'esito incerto in tanti Paesi mediterranei, che sono al centro del conflitto politico in un Paese assolutamente strategico come la Turchia, e ora anche in Brasile.

Che cosa li accomuna? Come si organizzano? Quali leadership esprimono? Certo, non c'entrano nulla con la democrazia Web à la Grillo, non hanno leader da avanspettacolo, non mandano nei parlamenti chi prende dieci preferenze sulla mail. Ma neppure sono lontanamente parenti della forma-partito di un tempo, né sembrano evolversi in quella direzione.

Tutti sintomi del nuovo Millennio, la cui analisi non sembra stare particolarmente a cuore ai duellanti democratici. Chissà allora su cosa dovranno decidere le primarie. Età? Abilità retorica? Bella presenza? Enfasi particolare nella ripetizione dei programmi e dei desideri che da vent'anni andiamo ascoltando (ottimi programmi,magari, e virtuosi desideri)?

Ma le vere novità sono quelle che ho prima ricordato; è da esse che sorgerà, bello o brutto, il mondo di domani. E i leader di domani saranno quelli che le sanno interpretare e comprendere per tempo, e portarne l'acqua ai loro mulini. Bene l'esame filologico quotidiano delle esternazioni di Grillo; ottimo attendere ansiosamente l'esito dei processi a Berlusconi; encomiabile discutere sulle sorti del governo in base a micro-manovre sull'Imu - ma forse esiste ancora una storia da narrare, fatta di grandi conflitti, di tragedie sociali e umane, e un fermento vitale di tracce, indizi, movimenti che stanno scardinando le casematte dove resistiamo arroccati. Forse è preferibile abbandonarle o aprirle, prima che ci crollino addosso.

 
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Titolo: MASSIMO CACCIARI Giudici, non siate casta anche voi
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:36:35 am
Opinioni

Giudici, non siate casta anche voi

di Massimo Cacciari

Non può essere un potere politico sempre meno autorevole a riformare la giustizia. Devono essere i magistrati a farsi promotori dei cambiamenti necessari. Pena il rischio di apparire conservatori e di perdere credibilità

(18 luglio 2013)

Un regime politico qualsiasi che possa essere sconvolto da indagini e decisioni della magistratura denuncia per ciò stesso il suo profondo stato di crisi. E ancora di più un partito che si dichiara a priori acefalo (cioè decapitato, cioè crepato), nel caso un suo leader, magari anche maximo, venga, a ragione o a torto, condannato. Fosse però possibile, per una volta, porre tra parentesi tali evidenti, drammatiche anomalie, dovremmo interrogarci sul nodo dei rapporti oggi tra politica e magistratura con uno sguardo alquanto più "globale".

Il concetto di "divisione dei poteri" su cui si regge lo Stato di diritto non ha nulla di statico o pre-determinabile. Esso vale in astratto come garanzia di ciascun potere nei confronti degli altri. Ma non garantisce affatto che ciascuno abbia uguale potere. Possono determinarsi situazioni storiche in cui il potere giudiziario è oggettivamente (e non per ignoranza o malafede o perché il regime è in sé autoritario) "egemonizzato" dall'autorità politica.
L'élite dirigente che si forma è, allora, mista. Così fu in Italia sostanzialmente fino agli anni '70. Ragioni altrettanto storiche hanno condotto alla sua rottura. Fino a determinare la fine di ogni "immunità". A un tempo, è la necessità di perseguire reati di tipo economico e finanziario, o attività criminali per loro natura "globali", a rendere, almeno potenzialmente, l'ambito di intervento della magistratura "superiore" a quello in cui si esercitano gli altri poteri, ancora ridotti, in sostanza, nei confini di sovranità territorialmente determinate.

Questi e altri fattori, non di carattere occasionale o contingente, né riferibili ad personam alcuna, hanno prodotto una dissimmetria nella divisione dei poteri, non solo in Italia. Richiamarsi agli antichi principi serve a poco. La stessa confusione legislativa, che è caratteristica di regimi in crisi, favorisce prepotentemente la tendenza che il realismo giuridico ha sempre riconosciuto: parte integrante della legge è la sua stessa interpretazione. Né l'interpretazione è isolabile alla sola decisione-sentenza, poiché essa pervade la stessa procedura che nei diversi casi viene seguita, lasciando larghi, inevitabili margini al "libero arbitrio". La decisione-sentenza inizia con l'impostazione della stessa indagine. Che in tale situazione possano emergere dèmoni inquisitori o, se non ideologie di giustizia redentrice, tentazioni di "supplenza" al Politico, lo diceva un Bruti Liberati 15 anni fa ( lo dicevano tutti i garantisti "di sinistra" all'epoca della legislazione di emergenza anti-terroristica, restando affatto inascoltati).

Il rilievo estremo che ha perciò assunto il problema della giustizia e del potere della magistratura non potrà essere esorcizzato con leggi o grida provenienti da un potere politico sempre meno autorevole. Ma è questione che dovrebbe essere assunta in primis dagli organi stessi della magistratura con spirito innovativo. Questo è ciò che è mancato da Tangentopoli in poi. Qui sta il problema: nelle capacità o incapacità di intendere la necessità di una propria riforma da parte di questo settore fondamentale della classe dirigente del Paese.

Il conflitto si è svolto finora, a me pare, tra due conservatorismi: quello (più reazionario che conservatore, invero) nostalgico di "immunità" defunte per sempre, e quello che si ostina a trincerarsi dietro il sacrosanto principio dell'indipendenza della magistratura, senza riconoscere i pericoli connessi alla situazione che ho indicato. I temi della maggiore collegialità, della responsabilità dei magistrati in accordo con l'art. 28 della Costituzione, della parità effettiva tra difesa e accusa in ogni fase del procedimento, una volta formalmente aperto, e molti altri altrettanto gravi, non appaiono più rinviabili.
E' la magistratura "custode del diritto" che è chiamata oggi a contribuire a definire le nuove norme capaci di "custodirla". Nulla sarebbe oggi più letale per la democrazia italiana di una magistratura che finisse con l'apparire una "casta" tra le altre, facendo così perfettamente il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione.

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Titolo: MASSIMO CACCIARI Silvio gioca al gatto col topo
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 11:37:03 pm
Opinione

Silvio gioca al gatto col topo

di Massimo Cacciari

Il Cavaliere ha capito che se mollasse l'alleanza con il Pd, lo ricompatterebbe. Invece così si gode ogni giorno di più lo spettacolo della sua lacerazione e del suo crollo di consensi. Ecco perché la tirerà ancora in lungo con Letta

(29 agosto 2013)

Non avrà "the great Entertainer" sbagliato mossa questa volta? Come è possibile non afferri la straordinaria occasione che il caso avverso gli offre? Presentarsi sul palcoscenico dichiarando: ingiusti gli ordinamenti della città, ingiusti i suoi tribunali, e tuttavia le sentenze che questi pronunciano vanno rispettate. Che i politicanti pro tempore facciano quel che vogliono - la credibilità di cui godono è ben nota - "decadere" dai loro senati può forse arrecare più prestigio che disonore.

Ma Legge è Legge, e anche se colpisce l'innocente volerla evadere equivale a minare i fondamenti dell'Ordine su cui si regge la polis. Com'è che il grande Comunicatore vuol privarci del sublime spettacolo di un gesto di sovrana indifferenza nei confronti delle prossime decisioni senatorie e di qualche mese di puntuale presenza, magari presso Mario Capanna, ai servizi sociali, monopolizzando giornali, reti, blog, twitter, gossip di ogni risma? La sua leadership nel centrodestra diventerebbe inossidabile.

Nulla e nessuno potrebbe, poi, vietargli di condurre campagne elettorali, magari via-video dai luoghi di pena, firmare cartelloni e liste. Cosa può mai contare l'essere o meno candidato? Beppe Grillo era forse candidato da qualche parte? La candidatura conta solo per i peones. E la responsabilità per eventuali crisi del governo Letta si scaricherebbe così integralmente sul Pd e sull'esito del suo congresso.

Perché Berlusconi non sceglie questa strada, che appare senza dubbio quella più favorevole ai suoi interessi non solo politici? Perché non è Socrate? Ma via! Socrate beve la cicuta per restare integralmente fedele a se stesso, qui si parla di miseri calcoli di convenienza, di quale maschera convenga indossare per l'ultima recita a Silvio Berlusconi. La teoria del bluff non convince. Troppo scoperto. Il suddetto non può ignorare che la partecipazione al governo del Pdl è per lui oggi l'unica autentica "garanzia", che abbandonare Enrico Letta significherebbe ricompattare il partito democratico, magari attorno a Matteo Renzi, che una maggioranza potrebbe sempre formarsi in Parlamento in toto alternativa all'attuale,e che, comunque, andare a elezioni col cerino in mano di quelli che hanno fatto scoppiare la crisi - e per evidenti motivi riguardanti esclusivamente le sorti del Capo - renderebbe impossibile a priori il successo.

A quale gioco, allora,sta giocando? Forse soltanto a stressare il Partito democratico e condurlo al congresso nello stato di massima confusione. La sola presenza di Berlusconi ancora vociante sembra sufficiente a impedire ai dirigenti di questo cosidetto partito ogni intesa programmatica e ogni iniziativa autentica di governo.
Letta può valere come "primum vivere" - ma poi? Con ciò che passa il convento, con i pezzi dell'attuale ceto politico, quale governo-governo è possibile ipotizzare? Un en plein di Renzi come segretario del Partito democratico e candidato premier, senza sconquasso dell'intero condominio, appare del tutto irrealistico. La sua candidatura a premier può passare oggi soltanto attraverso l'accordo con i D'Alema - e cari saluti alla grinta rottamatrice.

Ragionevole sarebbe un'intesa tra Letta e Renzi, non solo per motivi generazionali, ma anche per una certa complementarietà tra le due "immagini". Un periodo consolare o di direttorio condiviso l'hanno passato anche i futuri Cesari. Ma qui riemerge l'eterno istinto fratricida della politica italiana. Ancora più eterno della transizione che dagli anni Settanta è la nostra dimora.


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Titolo: MASSIMO CACCIARI “Barbara Berlusconi bravissima, meglio di Marina”
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:23:40 pm
Cacciari: “Barbara Berlusconi bravissima, meglio di Marina”


“Barbara Berlusconi? L’ho conosciuta come studentessa qualche anno fa ed è una ragazza bravissima, appassionata e di una assoluta modestia. In politica potrebbe funzionare meglio di Marina Berlusconi”. Sono le parole di Massimo Cacciari, ospite de “La Zanzara”, su Radio24. L’ex sindaco di Venezia nel 2010 era pro Rettore dell’Università San Raffaele di Milano dove si è laureata la figlia del Cavaliere. “Barbara” – continua – “non faceva assolutamente pesare il suo cognome. E in politica può funzionare perché ha curiosità e cultura. Marina mi dicono invece sia una brava amministratrice ma gli imprenditori veri vogliono comandare e non possono fare politica”. Cacciari commenta con toni critici l’ultima assemblea del Pd: “E’ stata una cosa scandalosa, uno schifo. E’ un piccolo grande scandalo che un partito discuta da mesi di stupidaggini che non hanno nessuna importanza per i cittadini in un momento così drammatico”. E su Matteo Renzi, di cui riconosce però il valore politico, è altrettanto duro: “Poverino, si agita continuamente. Va a pranzo con chi gli capita, va in cerca di immagine e una volta va con Cavalli, l’altra con Signorini. Ogni giorno deve vedere la sua immagine sui giornali. Renzi” – prosegue – “per la sua cultura pensa di poter fare il premier senza partito, ma non esiste. L’uomo è agitato, per ora va avanti a battute”. Il filosofo si pronuncia anche sulla questione del transito delle grandi navi da crociera a Venezia: “Le grandi navi sono dannose, è scientificamente provato, e chi dice di no mente sapendo di mentire”. Ma contesta la recente campagna di Adriano Celentano, che ha comprato una intera pagina del Corriere della Sera per schierarsi contro il passaggio delle navi nelle acque della laguna. “Bisogna sempre sapere ciò di cui si parla, ma la democrazia spesso è anche chiacchiera. Cosa devo pensare allora quando della costituzione italiana o di Dante mi parla Benigni? Sono parole così, Celentano è autorizzato a parlare di tutto, come Benigni”

di Gisella Ruccia
25 settembre 2013

da - http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/09/25/cacciari-barbara-berlusconi-bravissima-meglio-di-marina/246060/


Titolo: MASSIMO CACCIARI Perché non si può votare adesso
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:34:00 pm
Opinione

Perché non si può votare adesso

di Massimo Cacciari

Napolitano non vuole, l'Europa nemmeno. E i partiti sanno che una crisi ora non avrebbe sbocchi. Ma proprio per questo, bisogna che Letta governi davvero e non si accontenti del 'bricolage'. Perché la disperazione cresce

(23 settembre 2013)

Scrivo nelle ore di angosciosa attesa che separano gli italiani dalla votazione in Senato sulla decadenza di Berlusconi. Sarà o no voto segreto?
Chi saranno, se ci saranno, i traditori? E il Cavaliere decaduto che farà? Servizi sociali o un meritatissimo incarico universitario in scienza delle comunicazioni? Ma prima scatenerà la crisi, con i profeti Brunetta e Santanchè? Questa è la sola reale preoccupazione, perché oggi una crisi appare priva di ogni ragionevole sbocco. Napolitano si dimetterebbe prima di indire nuove elezioni col Porcellum e con l'Europa che incalza, a un passo dal commissariarci. L'unica prospettiva potrebbe essere quella di un nuovo governo tecnico-di scopo per riforma elettorale e legge finanziaria, ma dovrebbe durare fino al semestre italiano di presidenza Ue, per tutto il 2014. Nel frattempo c'è da temere (o sperare per qualcuno) che gli italiani si dimentichino anche dell'esistenza dei partiti politici.

Letta, saggiamente, gioca sull'impotenza altrui per andare avanti col suo governo, inventato daNapolitano. Il suo ragionamento si svolge sul filo elementare del "cui prodest?", quesito cui nessuno risponde. Ma spesso nella storia accade proprio ciò che nessuno ha voluto. A volte gli attori finiscono col muoversi su piani inclinati secondo le leggi della fisica, con tanti saluti a progetti e libero arbitrio. Per evitare il collasso, non basterà continuare a evocare lo spettro del dissesto finanziario e confidare in un senso di responsabilità che non si vede in giro da trent'anni

Letta deve fare qualcosa, il tempo del bricolage è scaduto: eliminazione dei bonus per le ammissioni all'Università, qualche briciola a sostegno di un diritto allo studio calpestato da una generazione, qualche rammendo sul fronte degli ammortizzatori sociali. E ancor più drastico deve essere il volta-pagina nei confronti delle pressioni demagogiche che provengono dagli spiriti animali della sua maggioranza. La pagliacciata dell'Imu non abbia seguito! Che cosa accadrà quando gli italiani scopriranno di continuare a pagarla con gli interessi metamorfizzata in Service tax? Funzionerà ancora il trucco di scaricare sulle autonomie locali la "colpa"?

Letta deve fare qualcosa per i milioni di produttori di questo Paese vicini o ormai oltre la soglia dell'esasperazione: ridurre a tutti i costi la pressione fiscale sul lavoro; semplificare tutte le procedure per la nascita di nuove imprese; detassare ogni nuova assunzione; sostenere il terzo settore no-profit, il solo che ha visto in questi anni aumentare l'occupazione; essere concretamente vicino a quegli ultimi baluardi dell'operaio-massa (Ilva e non solo), che scontano sulla pelle trent'anni di anti-politiche industriali. Soltanto così si fa anche una politica per l'esercito dei giovani disoccupati.

Elezioni o non elezioni? Senza scelte ormai improcrastinabili, l'esasperazione delle persone, qualunque sia la loro storia politica, è destinata a crescere, e al Nord in modo drammatico, fino a generare una crisi radicale di rappresentanza - e cioè la crisi della nostra stessa democrazia. Precariato di massa, piccola-media impresa di ogni settore, lavoratori "esodati" dalle piattaforme produttive dismesse, non hanno da anni rappresentanza politica se non nei programmi elettorali e nelle promesse dei talk-show. Ma sta crollando anche quella dei lavoratori "garantiti"e del pubblico impiego: continuo taglio dei salari reali, preoccupazioni stressanti per il futuro proprio e dei figli, condizioni di lavoro frustranti. E su tutto il sapere che crescono le disuguaglianze, che il reddito nazionale si distribuisce in modo del tutto iniquo, prescindendo ormai in toto dal contributo a esso di ciascuno. Altro che Grillo all'orizzonte se Parlamento e Governo non sapranno dar presto segni di vita nuova.


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Titolo: MASSIMO CACCIARI Qui ci vorrebbe un Savonarola
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2013, 11:10:50 pm
Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Qui ci vorrebbe un Savonarola

L’irresponsabilità si diffonde e nessuno dà segni di ravvedimento. Così il Paese si sfascia e il suo ceto dirigente continua a ripetere di “avere ragione”. Urge un governo con un programma di emergenza
È possibile covare ancora qualche scintilla di ragionevolezza sulla nave dei folli della politica italiana? Forza Italia, in totale tossico-dipendenza dalle vicende del Capo, è precipitata in una battaglia a perdere di inaudita efficacia. Aveva ogni interesse a tenere in vita il governo e col governo le insuperabili “inquietudini” del Pd, e ora, forse pensando inizialmente a un bluff clamoroso, che la stragrande maggioranza del Pd non vedeva l’ora di andare a scoprire, lo ricompatta, e addirittura finisce col spaccarsi. Possibile pensassero seriamente a un Napolitano che perde la faccia e indice nuove elezioni col Porcellum prima di provarle tutte, ma tutte? Non sapevano che qualsiasi governo, dopo questo, avrebbe avuto un segno a loro radicalmente più sfavorevole? Forse una buona notizia: il dio li ha accecati e finalmente li vuole perdere.

La domanda è se non voglia perderci tutti. Credo stiamo attraversando, malgrado certi colori da farsa, la più drammatica crisi politico-sociale del dopoguerra. Negli anni Settanta, di fronte al collasso di un certo sistema di potere e in presenza di un autentico salto culturale, avevamo, bene o male, una classe politica, qualche leader responsabile, capacità di mediazione. All’inizio dei Novanta, dopo Tangentopoli, la classe politica era già sfasciata, ma vi erano ancora grandi risorse economico-produttive, la competizione globale batteva alle porte, tuttavia il Paese poteva reggerla, la “terza Italia” celebrava i suoi miracoli… E ora? Crisi politica e decadenza economica si alimentano a vicenda in una spirale che potrebbe risultare tragica. Il Pd avrebbe avuto in questo quadro la sua carta strategica da giocare: mentre l’avversario non badava che alle sorti del Capo, delirando su golpe e Aventini, un partito serio si sarebbe presentato ai cittadini, in ogni sede, prospettando realistici e radicali percorsi per affrontare la crisi, dimostrando piena consapevolezza della fine di un’epoca e delle ricette di destra, sinistra e centro che l’avevano caratterizzata. I suoi dirigenti avrebbero discusso di questo, si sarebbero uniti e magari divisi intorno ai problemi che interessano tutti, avrebbero costruito intorno a questi, e col tempo necessario per un autentico confronto, il loro congresso.

Che congresso sarà mai un’assise che coinvolgerà gli iscritti(rimasti)per un mese più o meno, e un mese che sarà comunque dominato dai toni della campagna elettorale? E anche a prescindere da simili oziose considerazioni (volete mettere l’importanza delle regole per le primarie?): qual è la reale linea che il Pd intenderà seguire, incassato l’autogol del Cavaliere? Vorranno alcuni ripetere le gustose scenette del corteggiamento ai grillini, in vista di governi “innovativi”? L’opzione di elezioni prima delle Europee è davvero caduta presso tutte le sue “sensibilità”? Come si immaginano il Letta-bis? Una “kleine koalition” ancora più micro della precedente, “forte” di qualche “responsabile” ex-berlusconiano? Sogna qualcuno la resurrezione di facsimili della Dc con i quali soddisfare nostalgie mai spente di “compromesso storico”? Per il momento la straordinaria sequela di follie combinata da Berlusconi copre generosamente ogni affanno. Ma, di certo, è impossibile ormai perdere un solo secondo per definire un autentico programma di governo, e di governo dell’emergenza, che dovrà essere almeno pari per impegno e radicalità a quello Amato di vent’anni orsono per raggiungere il 10 per cento degli obiettivi indicati da Letta nel suo discorso per la fiducia.

Certo, i peccati commessi dalle diverse parti sono diversi e incommensurabili. Ma l’irresponsabilità si diffonde. E nessuno dà segno di ravvedimento (non dico pentimento), e ancor meno di voler mutar mente. Il Paese si sfascia e il suo ceto dirigente, nelle parole di tutti i suoi commensali, continua a ripetere di “aver ragione”. Forse ci vorrebbe per noi un Savonarola, più che un serafico papa Francesco.
03 ottobre 2013 © Riproduzione riservata


Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2013/10/03/news/qui-ci-vorrebbe-un-savonarola-1.135813
   


Titolo: MASSIMO CACCIARI Alla Bocconi non si insegna Weber
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2013, 05:59:43 pm
Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

Alla Bocconi non si insegna Weber

Monti non ha capito la lezione: il vero politico sa unire l’etica della responsabilità alla capacità di convincere, con un po’ di demagogia. Così è finito vittima del suo progetto di un nuovo centro. Che in Italia è ormai pura utopia
   
Le avventure politiche del prof. Monti, anche per la statura intellettuale del personaggio, si prestano a diverse considerazioni non solo riguardanti le italiche contingenze. Anzitutto, sulla natura dell’agire politico, intorno alla quale è preferibile essere disincantati fin dall’inizio che delusi in corso d’opera.

L’etica della responsabilità va benissimo, è fondamentale. Ma non può astrattamente separarsi dalla capacità di convincere. E questa, ahimè, non esiste senza carica anche demagogica. Solo quando le due dimensioni trovano un valido compromesso, allora abbiamo il vero Politico. Ma Weber non è insegnato alla Bocconi. E Monti ha così ribadito la dannazione della politica italiana dell’ultimo ventennio: da un lato, i “puri” responsabili (Cassandre, quando va male), regolarmente e inevitabilmente perdenti allorché “salgono” in politica, e dall’altro demagoghi “senza sapere”.

LA COLPA DI MONTI consiste anzitutto nel non avere conosciuto se stesso, la sua sostanziale “im-politicità”, nell’essersi “tradito” fingendosi un capo politico, invece di proseguire nel suo ruolo di voce nobile ammonitrice. Da questo suo limite “naturale” derivano i colossali errori che ne costellano la breve carriera.
Il collocarsi dall’inizio con i Casini e i Fini, distruggendo ogni immagine di novitas (piaccia o no, elemento essenziale oggi per “convicere” il pubblico) e insieme bruciandosi a priori ogni chance di ascolto presso l’elettorato ex berlusconiano.

L’assemblaggio nelle liste elettorali di personaggi d’ogni stagione, accomunati da una forte libido di salire in Parlamento (meglio al governo) - e di restarci. Possibile che Monti lo scopra solo oggi? Un leader che non sa selezionare il proprio seguito! Quale dimostrazione di palese ignoranza sull’“animale politico” che caratterizza, forse, l’intera vita nazionale: il trasformista!

Ma il fallimento di Monti può aiutare a comprendere un errore di fondo che si continua, da più parti, a compiere nella valutazione del quadro politico, non solo italiano. Anche Monti inseguiva, infatti, l’utopia di un nuovo centro. Sarebbe finalmente utile capire che questa ormai è ou-topia, cioè non-luogo e basta, e non eu-topia, felice dimora che sarebbe così bello raggiungere. Anzitutto perché nessun centro potrebbe mai nascere in Italia senza la radicale de-costruzione delle attuali casematte di centro-destra e centro-sinistra.

UN CENTRO AGGIUNTO A ESSE è fisicamente impossibile. Ma anche nel caso (augurabile o meno, nulla importa)che Pd e Pdl-Forza Italia esplodessero, cambierebbe probabilmente ben poco. Per la semplice ragione che in tutte le democrazie occidentali il centro non è che il fuoco prospettico verso cui convergono le azioni di tutti i contendenti. Non si “sta” al centro, ma si tende al suo punto, per diverse vie.

È questa situazione generale che rende possibili le grandi coalizioni, di cui la coalizione al governo oggi in Italia è tanto paradossale quanto, a mio avviso, necessaria espressione. Quando questa condizione delle democrazie occidentali non venga elaborata dalle forze politiche, la tragedia delle grandi contrapposizioni del secolo breve, 1914-1989, è destinata a finire in farsa - e la favola narra di noi.
Ciò significa che il conflitto diviene esterno rispetto agli spazi istituzionali? “Contingente” rispetto al gioco che vi si svolge? Non lo so. Ma so di certo che nessun grande partito di centro, capace di costituire un sistema di potere, contro una destra e una sinistra, nascerà mai più.
È questa la geografia di un’Atlantide sommersa.

29 ottobre 2013 © Riproduzione riservata
   
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2013/10/23/news/alla-bocconi-non-si-insegna-weber-1.138705


Titolo: MASSIMO CACCIARI Parole nel vuoto Dove vai se il partito non ce l’hai
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2013, 04:14:33 pm
Massimo Cacciari

Parole nel vuoto

Dove vai se il partito non ce l’hai


Pd e Pdl sono sfasciati. Eppure tutti dovrebbero sapere che solo forze politiche organizzate possono fare da contrappeso allo strapotere dei banchieri. Renzi e Alfano ci pensino bene prima di avventurarsi su strade senza ritorno
Vite parallele, quelle di Pd e Pdl-Forza Italia. Costretti in un duello che li rende nemici inseparabili. Da un lato, c’è un partito assolutamente carismatico e perciò impotente a affrontare salto generazionale e cambio di leadership (se non forse per successione ereditaria, iure sanguinis). Dall’altro, un pretendente capo carismatico senza partito. Peggio: con una classe dirigente intorno a sé incapace di trovare un punto di effettivo consenso al proprio interno che non sia la “eliminazione” dell’avversario storico. La “de-costruzione” della forma-partito nel corso degli ultimi trent’anni ha lasciato sulla spiaggia questi brandelli di organizzazione. bene così? partito stesso una rovina otto-novecentesca? Molti lo dicono apertis verbis, ma tutti agiscono come se lo credessero. Naturalmente nessuno si sogna di aggiungere la conseguente domanda: che forma potrà assumere l’azione politica laddove l’organizzazione venga definitivamente sostituita da apparati pubblicitari-elettorali a sostegno del leader-candidato e la competizione programmatica da talk-show, blog e twitter? Una cosa è certa: se i partiti spariscono, cessino i nostri carismatici di suonare le trombe della “politica al comando”, della politica che deve governare economia e finanza, riformare l’Europa dei banchieri, e via popolareggiando. Solo forze politiche organizzate su scala anche sovra-nazionale, dotate al proprio interno di professionalità e competenze, capaci di perseguire strategie ben oltre la scadenza elettorale, potrebbero oggi ambire a produrre norme efficaci nel mercato globale. Nulla è più patetico di leader solitari e non-partiti che predicano contro le sue ingiustizie in nome delle patrie sovranità.

La crisi del Pd e Pdl darà vita a processi di scomposizione e ricomposizione? Se non precipiterà tutto a nuove elezioni politiche prima delle Europee, il sentiero di Renzi è tanto stretto quanto segnato. Qualche rottamazione gli verrà pure concessa ma il punto di rottura sta sulla sua posizione nei confronti del governo. Per quanto tempo l’ala lettiana sopporterebbe, infatti, un segretario di lotta e di governo? E tuttavia con una linea di compromesso la sua immagine si scioglierebbe nei meandri della vecchia oligarchia. Durissimo esercizio restare competitivo fino a elezioni dopo il semestre europeo. E su che linea poi? Sulle politiche di welfare, per esempio, come mettere d’accordo l’anima Cgil del partito con le posizioni di Letta-Saccomanni? O sul sistema elettorale? Parlare di quello per i sindaci come modello da seguire significa parlare di un sistema presidenzialistico. Renzi ne è consapevole? E come è pensabile su questo la mediazione con il garantismo parlamentaristico della stragrande maggioranza del centro-sinistra?

Discorso analogo va fatto per l’altra parte: anche per Alfano & Co. la faglia col Cavaliere corre sui destini del governo. Ma fuori da Forza Italia che cosa potrà contare? Alfano potrebbe trovarsi, obtorto collo, a capo di un suo movimento filo-governativo, come Renzi di uno complementare e opposto anti-governativo. Con quali chance per entrambi di riuscita? Il primo, spoglio di carisma e zavorrato dagli Schifani e dai Formigoni; il secondo, carismatico e senza partito. Con chi potrebbero aggregarsi così da fare massa critica? Forse che l’attuale assetto governativo prefigura una ricomposizione al centro, rendendo così possibile a sinistra un’area socialdemocratica omogenea? Ma che ci starebbe a fare in quest’ultima un personaggio come Renzi? Qualsiasi ricomposizione che conti sulle forze oggi in campo appare, insomma, totalmente trasformistica, puro politichese, privo di ogni consistenza culturale e di ogni appeal.

E allora? Allora o i giochi continueranno a svolgersi all’interno delle attuali casematte, in presenza di tutte le contraddizioni e lacerazioni che hanno loro impedito fino a oggi di governare e riformare, oppure si andrà e processi di scomposizione e frammentazione, ovvero alla formalizzazione notarile delle divisioni già in atto. Con il più cordiale addio a bipolarismi e maggioritari.
19 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2013/11/14/news/dove-vai-se-il-partito-non-ce-l-hai-1.141115


Titolo: MASSIMO CACCIARI Giusto o sbagliato c’è solo Renzi
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 05:54:43 pm
Massimo CACCIARI

Giusto o sbagliato c’è solo Renzi

È necessario sperare in lui. Anche perché non ci sono alternative. Ma incombe una prova decisiva: le elezioni europee di maggio. Da vincere, insieme a Letta, contro un massiccio blocco populista composto da Beppe Grillo, Berlusconi e Lega
   
Abbiamo passato anni mirabili, e assai più spesso anni orribili, ma anni paradossali come quello che ci lasciamo alle spalle assolutamente mai. Tra i suoi protagonisti, Matteo Renzi è certo quello che meglio ne incarna tale carattere. Diventa leader di un partito, i cui gruppi dirigenti per storia, linguaggio, stile non potrebbero essergli più estranei. Lo diventa suo malgrado, poiché la “forma-partito” gli sta stretta come una camicia di forza, e la sua vocazione evidente era e resta quella di “sindaco d’Italia”. Né può esimersi dal diventarlo, perché i geni rappresentanti tutte le malattie senili della sinistra si suicidano scientificamente nel corso del ventennio sbagliando uomini, campagne elettorali, organizzazione, alleanze.

Quali novità vincono ora contro queste macerie? Da quale dibattito, da quali congressi emerse? Quale cultura politica si afferma contro l’ostinato conservatorismo del centro-sinistra della seconda Repubblica? Per il momento: programmi mille volte ripetuti, lo stesso mix tra vecchio Welfare e proclami anti-corporativi, pro-liberalizzazioni, le stesse idee di riforma istituzionale. Perché non se n’è fatto nulla? Risposta: perché non c’ero “Io”! Dunque: la “novità” della leadership forte e popolare come toccasana risolutivo. Ma con quale staff intorno al Capo? Selezionato come? Per via anagrafica? Il seguito dei fedeli? La “passione” civica, che fa sognare? Lo “spirito di servizio”? E via rovistando nei generosi arsenali della patria retorica.

Tuttavia è necessario sperare, o almeno scommettere. “Nascenti puero”, al nascente fanciullo occorre augurare che Apollo assista benigno il suo regno. Non abbiamo alternative. Possiamo reggere per il prossimo anno, ma certo non oltre con maggioranze parlamentari di questo tipo e fidando nell’autorevolezza di un capo dello Stato costretto, contro tutte le sue convinzioni, a operare “come se” ci trovassimo in un regime semi-presidenziale. Il paradosso renziano fa tutt’uno, infatti, con quello, mai visto né mai vedibile in Europa, di una coalizione di governo tra una forza che si dichiara di centro-sinistra e una che si dichiara di centro-destra. Si dirà che sono ormai nomi. Il sottoscritto l’ha detto (ma nessuno dei leader attuali ha condiviso). Comunque, non sono nomi gli interessi di riferimento, i gruppi sociali, le culture, gli elettorati. Liquida finché si vuole, la società è fatta di drammatiche disuguaglianze, lacerazioni, che andrebbero affrontate con programmi concreti, prendendo parte. Decisioni di questo tipo l’attuale governo non è in grado fisiologicamente di assumerle. Il suo compito è traghettarci verso di esse. Saprà farlo Renzi? E Renzi, di necessità, con Enrico Letta? Piaccia o no, soltanto da qui potrà nascere un nuovo ordo politico, temo non magnus, comunque ordo, per il nostro Paese.

Ma la prima prova è imminente, e nessuno ne discute. È quella delle elezioni europee. Non è questa la sede per ripetere i lamenti sulle miserie dell’unità politica. Ma si va profilando, per la prima volta, uno schieramento esplicitamente anti-europeista che va dall’estrema destra a Berlusconi, alla Lega, a Grillo. Potrebbe raggiungere una maggioranza schiacciante. Nei confronti della propaganda populistica scatenata di costoro, la “demagogia soft” renziana risulterebbe inefficace. Ma Renzi stesso potrebbe perdere di forza attrattiva, soprattutto nei confronti dell’elettorato grillino (cui egli evidentemente aspira). E,soprattutto, una pesante sconfitta degli europeisti indebolirebbe lo stesso governo (o addirittura ne determinerebbe il collasso, se il nuovo centro-destra si lasciasse sedurre dalle antiche sirene). Letta e Giorgio Napolitano inizierebbero il “loro” semestre europeo con un voto che sconfessa il ruolo continentale dell’Italia! Le elezioni europee rappresentano perciò forche caudine inevitabili per riuscire ad affrontare la crisi. Le opposizioni si stanno preparando alla scadenza. E i nostri eroi? E il Pd? Organizzeranno le primarie per le candidature?

09 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/01/03/news/giusto-o-sbagliato-c-e-solo-renzi-1.147542


Titolo: MASSIMO CACCIARI Parole nel vuoto Repubblica inetta nazione corrotta
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2014, 11:55:35 pm
Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Repubblica inetta nazione corrotta

Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi

Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes?

Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti.

E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”.

Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta.

Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano.

Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica.

Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai.

Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.

30 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/01/22/news/repubblica-inetta-nazione-corrotta-1.149494


Titolo: MASSIMO CACCIARI Parole nel vuoto Porcellum e vecchi vizietti
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:28:09 pm
Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Porcellum e vecchi vizietti
La riforma elettorale nasce da un inciucio. E non sarà garanzia di governabilità né eviterà le liti quotidiane.
Renzi e Berlusconi avevano in testa un sistema presidenzialistico. Ma non hanno avuto il coraggio di dirlo chiaro

Proclamata madre di tutte le riforme, quella del porcellum sembra finalmente in dirittura d’arrivo. Che fosse fondamentale per le sorti del ceto politico, nessun dubbio. Che lo fosse anche per Electrolux e Italsider, qualcuno, ma tant’è; La Palisse dichiara: meglio questa “riforma” che nessuna. Il problema semmai sta nel fatto che il dibattito intorno ad essa denuncia una sorta di “cretinismo elettoralistico” che la dice lunga sullo stato dell’arte(politica) in questo Paese. Ci viene infatti garantito dai suoi autori e sostenitori che essa impedirà ogni diritto di veto da parte degli “dèi minori”, costringerà al bipolarismo, segnerà il trionfo del “deliberare” (per citare ancora il fiorentino Machiavelli) sulla “dannosissima” via di mezzo della “mescolanza” tra ordini vecchi e nuovi e delle risoluzioni ambigue e lente.

È vero che questa panacea contro ogni inciucio nasce da un inciucio, ma, come i grandi condottieri hanno sempre sostenuto che la loro guerra sarà l’ultima delle guerre, indispensabile premessa alla pace perpetua, così questo inciucio è destinato a essere l’ultimo degli inciuci, necessario preambolo alla contesa bipolare, chiara, trasparente, ultra-democratica. Ottime intenzioni, che speriamo non lastrichino la strada per dove si sa. Ma certo non sarà questa legge elettorale, come nessun’altra, a porle in atto. Se l’obbiettivo era quello del “chi vince prende tutto”, il porcellum (fatto valere anche per il Senato) andava benissimo. La governabilità e l’efficacia decisionale non sono garantite dal fatto che la competizione si decida tra due partiti o coalizioni, ma dalla coesione interna di coalizioni e partiti. Non è per il sistema elettorale che in Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna i governi governano, ma perché chi vince è, bene o male, ancora una forza politica la cui storia si incarna nella vita sociale e culturale del proprio Paese, un movimento reale e non d’opinione, le cui diverse correnti questa storia e questo movimento intendono rappresentare, e non si riducono mai a mucchi di idee e interessi. Simili forze politiche sarebbe stato necessario cercare di costruire trent’anni fa, alla fine del “secolo breve”. In loro assenza, una legge elettorale serve solo a definire alcune convenienze da parte di questo o quel settore di ceto politico nello stare insieme o dividersi. La riforma del porcellum costringe alla coabitazione; manca il denaro per due affitti, divorzio impossibile. Ma nient’affatto impossibili le liti quotidiane. Diverso solo il caso si fosse davvero giocato al “sindaco d’Italia”. Allora il modello non avrebbe potuto essere che presidenzialistico. Io credo sia questo che hanno in testa entrambi gli autori dell’ultimo inciucio, che a tutti pone fine. Perché non dirlo chiaro? Questo sì sarebbe un dibattito all’altezza dei tempi, tale da costringere a ripensare tutto il nostro sistema istituzionale!

Ai custodi della Costituzione pronunciarsi, poi, sulla costituzionalità della riforma, ma due considerazioni di buon senso. Date le premesse sopra esposte, forse che la riforma impedisce le ammucchiate? Assolutamente no. Lo sbarramento al 4,5 o al 5 per cento per le liste nella coalizione non impedirà in alcun modo, se la forza maggiore lo riterrà conveniente, il moltiplicarsi delle stesse. I modi per ripagarle dopo la vittoria sono infiniti. Quello di parlamentare un officium tra gli altri. Si voleva un sistema davvero rappresentativo, riducendo al minimo il pericolo del multipartitismo, e un Parlamento non di nominati (secondo i pii desiderata della Corte)? Elementare Watson: collegi uninominali a doppio turno. Allora avremmo avuto tanti Renzi fiorentini eletti a destra e a sinistra! Ma quando mai i Renzi romani l’avrebbero accettato!
13 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/02/05/news/porcellum-e-vecchi-vizietti-1.151427


Titolo: MASSIMO CACCIARI Beppe Grillo tendenza Führerprinzip
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2014, 11:38:29 pm
Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Beppe Grillo tendenza Führerprinzip

Il Capo dei 5 Stelle esprime una rigidità centralistica compensata dai continui appelli al “popolo delle reti”. Ma il suo modo di agire sembra un’ammissione di impotenza. Non potendo prendere decisioni politiche, si limita a recitarle
   
Nobili lamenti si levano un po’ da ogni parte sull’assenza di democrazia nelle Cinque Stelle e più interessati appelli ai suoi onorevoli perché contestino o abbandonino il comico-dittatore. Più arduo ragionare sul fenomeno, perché forse molti scoprirebbero che la favola parla anche di loro. La sgangherata, analfabeta ripresa di ideologie di “democrazia diretta” condite in salsa web non può che produrre gli effetti oggi così deprecati dai “veri democratici”.

Obsoleti arnesi del Moderno mediazioni e partiti; ergo, necessaria la loro eliminazione; solo il Movimento esiste, e nel Movimento tutti uguali, puri individui senza storia né appartenenza. Guai a “corpi intermedi” negli Stati assoluti. Ma anche il Movimento, per essere tale, ha bisogno di una direzione, se no cade per legge di gravità. Ergo, il puro Movimento esige il puro Capo. Il puro Capo non può logicamente ammettere che il Movimento si articoli per correnti e distinte leadership - e gli appartenenti al Movimento che volessero assumere una propria autonoma fisionomia dimostrano semplicemente di non comprendere nulla della logica del Movimento, cui hanno appassionatamente aderito. Certo, l’equilibrio è precario; la rigidità centralistica del Fuehrerprinzip immanente a quella logica può essere compensata solo attraverso continui appelli plebiscitari al “popolo delle reti” (ovvero al “popolo nella rete”), e ciò finisce col contraddirne l’istanza decisionistica; d’altra parte, la finzione di un simile fantasma di “popolo” può in ogni istante evaporare sotto la pressione di interessi e culture determinate.

Tuttavia, in questa fase, l’ideologia del Movimento sembra conoscere vasta fortuna, ben oltre il cielo delle Cinque Stelle. Nell’interpretare il catastrofico dissolversi delle forme tradizionali di organizzazione e direzione politica, almeno da noi, nel corso dell’ultimo ventennio, si è enfatizzato troppo il fenomeno della “personalizzazione” della leadership, dimenticando che esso si regge sull’idea di un pubblico allo stato liquido, se non gassoso. La liquidazione della forma-partito non è che il prodotto di questa idea di società.

Differenze o confini al suo interno sono considerate come tendenti al “grado zero” - e perché, allora, del tutto coerentemente, non potrebbe, ad esempio, ogni cittadino partecipare alla nomina di deputati, segretari, ecc. di qualsiasi formazione politica? Non le “primarie” come mero strumento tecnico, o elemento di un sistema elettorale precisamente strutturato, ma le ideologie movimentiste che le vorrebbero “aperte che più aperte non si può” vanno esattamente in questa direzione. Tutti decidono, nessuno decide; ogni parola funziona, basta che convinca; ogni prodotto va bene, basta che venda.
E, d’altra parte, il conservatorismo ossessivo, dalle politiche sociali a quelle istituzionali, che ha caratterizzato l’“aurea catena” svoltasi da Pds a Ds a Ulivi vari a Pd non poteva produrre che tali esiti.

Non si sta parlando che di un aspetto, e neppure di quello essenziale (che riguarda il rapporto tra il Politico e le autentiche “grandi potenze” dell’epoca, quelle tecnico-economiche), della crisi della stessa idea democratica. Democrazia ha senso soltanto come discussione e conflitto reali; ha perciò bisogno di protagonisti altrettanto reali, responsabili e convinti. Idee di società liquida e Capi che la rappresentano proprio per questa pretesa assenza di ogni forma, non esprimono alla fine che aspetti del tramonto forse in atto del Politico stesso.

Chi ritiene di poter tutto rappresentare perché ogni sostanziale differenza sarebbe venuta meno, mediti sul fatto che, se questo è il mondo, esso potrebbe funzionare secondo modelli, ordini, procedure che rendono del tutto superflua, accessoria, ornamentale la decisione politica. Il Capo che recita la decisione, impotente a compierla (to act al posto di to do), sarà l’ultima maschera del teatro politico europeo?

12 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/03/05/news/grillo-tendenza-fuhrerprinzip-1.155956


Titolo: MASSIMO CACCIARI Parole nel vuoto
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 12:07:21 pm
Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

L’Europa si scioglie e nessuno ci pensa
Le forze populiste e i movimenti di protesta possono prevalere nelle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo. E i nostri partiti, diversi da tutti gli altri, rischiano solo di contribuire allo stato confusionale dell’Unione   
L’Europa si scioglie e nessuno ci pensa


Le prossime elezioni possono consegnarci un parlamento europeo in cui le forze politiche che hanno fin qui promosso e sostenuto la costruzione unitaria si ritrovino se non in minoranza, comunque sconfitte e gravemente indebolite. Effetto forse inevitabile di un ventennio in cui né socialdemocratici, né conservatori-popolari hanno saputo ripensare l’Europa alla luce della fine del “secolo breve”. Le stesse innovazioni introdotte, la moneta unica, sono state vissute in chiave conservatrice: come se dovessero garantire il permanere di vecchie rendite di posizione, impossibili dopo la guerra fredda e l’affermazione di antichi-nuovi celesti imperi. Da qui il fallimento del processo “costituzionale”, i colossali ritardi in materia di unificazione, o almeno “convergenza parallela”, tra le politiche sociali e fiscali, il nullismo in politica estera. La grande sfida, culturale prima di tutto, su come coniugare partecipazione democratica e cittadinanza europea a sviluppo, innovazione, potenza tecnico-economica, capacità e efficacia decisionale, è stata diligentemente evitata o sommersa in retoriche e burocratismi.

Oggi le forze che si confrontano possono essere sostanzialmente comprese in cinque gruppi. 1: un’area vasta e composita di movimenti puramente regressivi. Essi pensano che micro-nazionalismi, staterelli-individui, possano ancora giocare un ruolo nella competizione internazionale; 2: populismi che cavalcano la protesta e gli effetti della crisi sui ceti popolari e medi, senza presentare alcuna alternativa, a caccia di voti da spendere all’interno dei propri Paesi; 3: “sinistre” varie, che opinano sia sufficiente fortemente volere per continuare con le tradizionali politiche di welfare; generosa e vana utopia, che ha immaginato in Tsipras una propria bandiera; 4: un diffuso euro-scetticismo di stampo anglo-sassone, che in Gran Bretagna ha da sempre la sua naturale dimora (l’Europa è strutturalmente debole sul confine atlantico, quanto su quello mediterraneo); 5: i “conservatori” dell’idea dell’unità politica europea, ancora forti nelle due grandi “famiglie” del parlamento, ma sempre più visti dall’opinione pubblica come tutt’uno con le onnipervadenti e costose burocrazie tecnico-finanziarie dell’Unione.

Se questo è il quadro, i rischi che dalle prossime elezioni l’area 5 esca peggio che drasticamente ridimensionata sono enormi. Il gatto può finire con l’impiccarsi con la propria stessa coda: il dilagare di localismi, nazionalismi, populismi provocherà necessariamente un’ulteriore “serrata” delle burocrazie centralistiche, con tanti cari saluti agli spiriti di Ventotene – e quest’ultima moltiplicherà le spinte anti-euro, prima, e anti-europeiste tout court, dopo.

Troppo facile prevedere che di tutto ciò non si parlerà nella campagna elettorale in Italia (e poco, temo, anche altrove). Le questioni epocali riguarderanno da noi la tenuta di Renzi e la candidatura sì-no di Berlusconi. Tuttavia, le conseguenze, anche per il governo, di un’affermazione delle componenti 1,2,3,4, per quanto non si tratti certo di voti politicamente sommabili, sarebbe pesante. Il paese che si accinge ad assumere la presidenza dell’Unione (il più europeista, a chiacchiere, fino a qualche tempo fa) contribuirebbe non poco a aumentare delusione e sfiducia. Già contribuiremo comunque ad accrescere lo stato un po’ confusionale delle suddette grandi famiglie, piazzando nel gruppo socialdemocratico le variopinte “anime” del Pd, e in quello conservatore-popolare il compatto schieramento formato dai Berlusconi, dagli Alfano, dai Casini e qualche altro residuo di prima e seconda Repubblica. Il nostro apporto alla metamorfosi in stato liquido di ideologie e partiti è già cospicuo; cerchiamo di non aggiungervi anche un voto di condanna per il processo unitario. E ciò sarà possibile solo parlando “in verità” di Europa, della sua idea, del suo destino, dei suoi drammatici problemi e di come si pensa realisticamente di affrontarli.

25 marzo 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/03/19/news/l-europa-si-scioglie-e-nessuno-ci-pensa-1.157754


Titolo: MASSIMO CACCIARI L’Europa si scioglie e nessuno ci pensa
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:32:22 pm
Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

L’Europa si scioglie e nessuno ci pensa
Le forze populiste e i movimenti di protesta possono prevalere nelle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo. E i nostri partiti, diversi da tutti gli altri, rischiano solo di contribuire allo stato confusionale dell’Unione

Le prossime elezioni possono consegnarci un parlamento europeo in cui le forze politiche che hanno fin qui promosso e sostenuto la costruzione unitaria si ritrovino se non in minoranza, comunque sconfitte e gravemente indebolite. Effetto forse inevitabile di un ventennio in cui né socialdemocratici, né conservatori-popolari hanno saputo ripensare l’Europa alla luce della fine del “secolo breve”. Le stesse innovazioni introdotte, la moneta unica, sono state vissute in chiave conservatrice: come se dovessero garantire il permanere di vecchie rendite di posizione, impossibili dopo la guerra fredda e l’affermazione di antichi-nuovi celesti imperi. Da qui il fallimento del processo “costituzionale”, i colossali ritardi in materia di unificazione, o almeno “convergenza parallela”, tra le politiche sociali e fiscali, il nullismo in politica estera. La grande sfida, culturale prima di tutto, su come coniugare partecipazione democratica e cittadinanza europea a sviluppo, innovazione, potenza tecnico-economica, capacità e efficacia decisionale, è stata diligentemente evitata o sommersa in retoriche e burocratismi.

Oggi le forze che si confrontano possono essere sostanzialmente comprese in cinque gruppi. 1: un’area vasta e composita di movimenti puramente regressivi. Essi pensano che micro-nazionalismi, staterelli-individui, possano ancora giocare un ruolo nella competizione internazionale; 2: populismi che cavalcano la protesta e gli effetti della crisi sui ceti popolari e medi, senza presentare alcuna alternativa, a caccia di voti da spendere all’interno dei propri Paesi; 3: “sinistre” varie, che opinano sia sufficiente fortemente volere per continuare con le tradizionali politiche di welfare; generosa e vana utopia, che ha immaginato in Tsipras una propria bandiera; 4: un diffuso euro-scetticismo di stampo anglo-sassone, che in Gran Bretagna ha da sempre la sua naturale dimora (l’Europa è strutturalmente debole sul confine atlantico, quanto su quello mediterraneo); 5: i “conservatori” dell’idea dell’unità politica europea, ancora forti nelle due grandi “famiglie” del parlamento, ma sempre più visti dall’opinione pubblica come tutt’uno con le onnipervadenti e costose burocrazie tecnico-finanziarie dell’Unione.

Se questo è il quadro, i rischi che dalle prossime elezioni l’area 5 esca peggio che drasticamente ridimensionata sono enormi. Il gatto può finire con l’impiccarsi con la propria stessa coda: il dilagare di localismi, nazionalismi, populismi provocherà necessariamente un’ulteriore “serrata” delle burocrazie centralistiche, con tanti cari saluti agli spiriti di Ventotene – e quest’ultima moltiplicherà le spinte anti-euro, prima, e anti-europeiste tout court, dopo.

Troppo facile prevedere che di tutto ciò non si parlerà nella campagna elettorale in Italia (e poco, temo, anche altrove). Le questioni epocali riguarderanno da noi la tenuta di Renzi e la candidatura sì-no di Berlusconi. Tuttavia, le conseguenze, anche per il governo, di un’affermazione delle componenti 1,2,3,4, per quanto non si tratti certo di voti politicamente sommabili, sarebbe pesante. Il paese che si accinge ad assumere la presidenza dell’Unione (il più europeista, a chiacchiere, fino a qualche tempo fa) contribuirebbe non poco a aumentare delusione e sfiducia. Già contribuiremo comunque ad accrescere lo stato un po’ confusionale delle suddette grandi famiglie, piazzando nel gruppo socialdemocratico le variopinte “anime” del Pd, e in quello conservatore-popolare il compatto schieramento formato dai Berlusconi, dagli Alfano, dai Casini e qualche altro residuo di prima e seconda Repubblica. Il nostro apporto alla metamorfosi in stato liquido di ideologie e partiti è già cospicuo; cerchiamo di non aggiungervi anche un voto di condanna per il processo unitario. E ciò sarà possibile solo parlando “in verità” di Europa, della sua idea, del suo destino, dei suoi drammatici problemi e di come si pensa realisticamente di affrontarli.
25 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/03/19/news/l-europa-si-scioglie-e-nessuno-ci-pensa-1.157754


Titolo: MASSIMO CACCIARI Parole nel vuoto Deregulation la vera riforma
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 05:55:18 pm
Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Deregulation la vera riforma
Invece che dalle Province, o dal Senato, Renzi avrebbe fatto meglio a far partire il cambiamento con leggi più semplici e poteri definiti più chiaramente. Forse le astuzie mediatiche sono necessarie, ma ora serve la forza
   
Nessuna riforma, nessun risultato ha prodotto coi suoi governi durante il ventennio che abbiamo alle spalle, eppure è indubitabilmente Berlusconi la figura che ha connotato la recente storia del Paese. Non ha saputo modificarne gli ordini e le leggi, se non in peggio, ma certo ha profondamente inciso sulla sua “mente” e sui suoi costumi. Sarà saggio prenderne realisticamente atto, se non si vuol predicare al deserto. I tratti più tipici della retorica berlusconiana, la sua tendenza all’ultra-semplificazione plebiscitaria, la sua fede narcisistica sulle virtù del Capo, l’insofferenza per ogni mediazione o “corpo intermedio” tra sé e il “popolo sovrano”, rappresentano tutti elementi del gioco politico che si sono radicati nel sentire comune. Elementi che sarebbe assai ingenuo derubricare a passeggere patologie, poiché esprimono invece sintomi di una crisi profonda delle forme di “democrazia rappresentativa” che si erano consolidate dopo la Seconda Guerra.

Nulla di scandaloso perciò se li ritroviamo anche nella retorica e nel comportamento del Leader giovane, per tanti aspetti antropologicamente lontanissimo dal Cavaliere. Qualsiasi leadership è costretta, cosciente o meno, a seguire pulsioni e desideri del popolo che pretende di governare. E il nostro esige oggi cambiamenti radicali, decisioni rapide, protagonisti nuovi. Avvisare i naviganti che la fretta potrebbe rivelarsi cattiva consigliera, che riforme istituzionali non dovrebbero farsi sulla base di occasionali compromessi tra forze del tutto eterogenee, conta, a questo punto, assai poco. Navigare necesse. Arriverà la navicula in porto?

Non che le prime manovre, al netto di perdonabili sbruffonerie, appaiano del tutto incoraggianti. E, di nuovo, non mi riferisco a quegli aspetti dell’azione di Renzi che ne denunciano l’appartenenza, come anagraficamente inevitabile che sia, all’ethos politico di questo ventennio. Mi riferisco al metodo che egli ha tracciato per perseguire il suo disegno riformatore. Perché iniziare dall’“universale”? Perché “spettacolarizzare” l’iniziativa intorno a problemi sui quali non sembra proprio che un Parlamento come questo, anche a prescindere dalla sentenza della Consulta, abbia l’autorevolezza necessaria per decidere? De-legiferare nei settori che bloccano le amministrazioni locali (assetto delle Partecipate, appalti nei lavori pubblici, conflitto di competenze) non sarebbe risultato anche più economico della semi-abolizione delle Province? E senza ridefinizione del ruolo di quei catafalchi che sono le Regioni, ha una pallida idea il nostro giovane leader dei conflitti che si produrranno tra Città metropolitane, nuove Province e, appunto, Regioni?

Infinitamente più economico, anche a questo proposito, promuovere meccanismi di governance leggera, su base contrattuale, in attesa di riforme sistemiche, di cui sembra non esservi ancora la più pallida idea (quale forma di Governo si ipotizza? E che senso ha riformare il Parlamento senza rispondere contestualmente a questa domanda?). Puntare davvero sulla spending review e, conseguentemente, su una riduzione significativa del cuneo fiscale, non sarebbe stato più prudente e, a un tempo, forse più rivoluzionario che partorire con i Berlusconi e i Verdini una riforma del Senato (anch’essa esigenza, in sé, sacrosanta, sia chiaro)? Basterebbe applicare sistematicamente costi-standard a tutti i servizi erogati dal pubblico, a partire dalla sanità…

Ma assai poco nella storia può essere perseguito con metodo e ragionevolezza. Il nostro sistema è così corrotto, così paralizzato intorno all’asse dei suoi corporativismi, delle sue rendite, della sua inefficiente burocrazia, delle sue intollerabili disuguaglianze, che le antiche leggi non basteranno più a frenarne il disfacimento. È necessaria perciò «maggior forza, la quale è una mano regia» (Machiavelli, Discorsi I, 55). Sarà “regia”, e cioè capace di reggere, di governare, di scavare e decidere con metodo, la mano di Renzi? Finora ha dimostrato d’essere volpe; non sarà virtù sufficiente già da domani.
17 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/04/09/news/deregulation-la-vera-riforma-1.160511


Titolo: MASSIMO CACCIARI - Deregulation la vera riforma
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 11:23:46 am
Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

Deregulation la vera riforma
Invece che dalle Province, o dal Senato, Renzi avrebbe fatto meglio a far partire il cambiamento con leggi più semplici e poteri definiti più chiaramente.
Forse le astuzie mediatiche sono necessarie, ma ora serve la forza


Nessuna riforma, nessun risultato ha prodotto coi suoi governi durante il ventennio che abbiamo alle spalle, eppure è indubitabilmente Berlusconi la figura che ha connotato la recente storia del Paese. Non ha saputo modificarne gli ordini e le leggi, se non in peggio, ma certo ha profondamente inciso sulla sua “mente” e sui suoi costumi. Sarà saggio prenderne realisticamente atto, se non si vuol predicare al deserto. I tratti più tipici della retorica berlusconiana, la sua tendenza all’ultra-semplificazione plebiscitaria, la sua fede narcisistica sulle virtù del Capo, l’insofferenza per ogni mediazione o “corpo intermedio” tra sé e il “popolo sovrano”, rappresentano tutti elementi del gioco politico che si sono radicati nel sentire comune. Elementi che sarebbe assai ingenuo derubricare a passeggere patologie, poiché esprimono invece sintomi di una crisi profonda delle forme di “democrazia rappresentativa” che si erano consolidate dopo la Seconda Guerra.

Nulla di scandaloso perciò se li ritroviamo anche nella retorica e nel comportamento del Leader giovane, per tanti aspetti antropologicamente lontanissimo dal Cavaliere. Qualsiasi leadership è costretta, cosciente o meno, a seguire pulsioni e desideri del popolo che pretende di governare. E il nostro esige oggi cambiamenti radicali, decisioni rapide, protagonisti nuovi. Avvisare i naviganti che la fretta potrebbe rivelarsi cattiva consigliera, che riforme istituzionali non dovrebbero farsi sulla base di occasionali compromessi tra forze del tutto eterogenee, conta, a questo punto, assai poco. Navigare necesse. Arriverà la navicula in porto?

Non che le prime manovre, al netto di perdonabili sbruffonerie, appaiano del tutto incoraggianti. E, di nuovo, non mi riferisco a quegli aspetti dell’azione di Renzi che ne denunciano l’appartenenza, come anagraficamente inevitabile che sia, all’ethos politico di questo ventennio. Mi riferisco al metodo che egli ha tracciato per perseguire il suo disegno riformatore. Perché iniziare dall’“universale”? Perché “spettacolarizzare” l’iniziativa intorno a problemi sui quali non sembra proprio che un Parlamento come questo, anche a prescindere dalla sentenza della Consulta, abbia l’autorevolezza necessaria per decidere? De-legiferare nei settori che bloccano le amministrazioni locali (assetto delle Partecipate, appalti nei lavori pubblici, conflitto di competenze) non sarebbe risultato anche più economico della semi-abolizione delle Province? E senza ridefinizione del ruolo di quei catafalchi che sono le Regioni, ha una pallida idea il nostro giovane leader dei conflitti che si produrranno tra Città metropolitane, nuove Province e, appunto, Regioni?

Infinitamente più economico, anche a questo proposito, promuovere meccanismi di governance leggera, su base contrattuale, in attesa di riforme sistemiche, di cui sembra non esservi ancora la più pallida idea (quale forma di Governo si ipotizza? E che senso ha riformare il Parlamento senza rispondere contestualmente a questa domanda?). Puntare davvero sulla spending review e, conseguentemente, su una riduzione significativa del cuneo fiscale, non sarebbe stato più prudente e, a un tempo, forse più rivoluzionario che partorire con i Berlusconi e i Verdini una riforma del Senato (anch’essa esigenza, in sé, sacrosanta, sia chiaro)? Basterebbe applicare sistematicamente costi-standard a tutti i servizi erogati dal pubblico, a partire dalla sanità…

Ma assai poco nella storia può essere perseguito con metodo e ragionevolezza. Il nostro sistema è così corrotto, così paralizzato intorno all’asse dei suoi corporativismi, delle sue rendite, della sua inefficiente burocrazia, delle sue intollerabili disuguaglianze, che le antiche leggi non basteranno più a frenarne il disfacimento. È necessaria perciò «maggior forza, la quale è una mano regia» (Machiavelli, Discorsi I, 55). Sarà “regia”, e cioè capace di reggere, di governare, di scavare e decidere con metodo, la mano di Renzi? Finora ha dimostrato d’essere volpe; non sarà virtù sufficiente già da domani.

17 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/04/09/news/deregulation-la-vera-riforma-1.160511


Titolo: MASSIMO CACCIARI Cacciari: «È vero, ho chiesto aiuto per un’azienda. E allora?»
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 07:11:45 pm
L’intervista

Cacciari: «È vero, ho chiesto aiuto per un’azienda. E allora?»
Nel memoriale sulle presunte tangenti per il Mose, Mazzacurati sostiene di aver avuto rapporti anche con l’allora sindaco. Lui: «Le mie lettere erano alla luce del sole»

di Marco Imarisio

Così fan tutti?
«Manco per sogno. Non ci provare, non te lo permetto».

Anche lei, professor Cacciari?
«Che bel segreto di Pulcinella. E mica l’ho fatto una volta sola, di chiedere un intervento a Giovanni Mazzacurati e al Consorzio Venezia Nuova».

Non erano i suoi nemici del Mose?
«Ma che discorso è? Se ho bisogno di chiedere aiuto per un’impresa che sta fallendo da chi vuole che vada, dal mendicante di Rialto? Sono cose ufficiali, le mie».

Nero su bianco?
«Tutto, per quel che mi ricordo. Ho scritto a Mazzacurati, ad altre associazioni cittadine, ho chiesto aiuti anche all’Eni, con cui baruffavo un giorno sì e l’altro pure per via di Porto Marghera».

Ha qualche ricordo inedito?
«Sicuramente nel 1996 chiesi in modo del tutto trasparente a Mazzacurati di aiutarmi a ricordare come si deve l’alluvione di trent’anni prima».

E lui?
«Mai cacciato una lira, a mia memoria. E non ci vuole molto a capire perché. Non aveva interesse a farlo».

Non sente odore di incoerenza?
«Sento odore di ridicolaggine e di piccole vendette personali da parte dei meschini di sinistra. Come si fa a dare retta a simili boiate?»

È consolante trovarsi in buona compagnia?
«Ma smettila di fare il mona. Non permetto paragoni. Il mio caso è molto diverso da quello del patriarca Scola e da Enrico Letta».

Le faccio notare che non si tratta di due noti criminali...
«Certo, anche se Letta era tra quelli del centrosinistra nazionale che non mi hanno mai dato ascolto sul Mose, come Prodi e D’Alema».

Dov’è la differenza?
«Io non ho mai chiesto favori personali, ma solo interventi per aziende in crisi o per faccende di interesse locale, come la squadra di calcio. Facevo il mio mestiere di sindaco».

Preoccupato?
«Stai scherzando? Neppure infastidito. La gente mi conosce, e sa bene come sono andate le cose, allora e oggi».

Era amico di Mazzacurati?
«Parola grossa. Immaginavo quel che poi sarebbe successo, anche perché con un governatore come Galan che andava in giro sventolando la bandiera del Mose le domande sorgevano spontanee. Ma dell’ingegnere ho sempre avuto grande stima».

Lo conosceva bene?
«Abbastanza. Abbiamo avuto centinaia di rapporti e incontri, mica è un crimine. Intanto era un uomo colto, cosa non da poco e molto rara in quel consesso. Prima dell’inchiesta tendevo anche a considerarlo una persona perbene».

L’ha fatto per avidità?
«Non credo. Lui no. Da tecnico, Mazzacurati era l’unico davvero innamorato di quell’opera. Ne era entusiasta. La sua missione di vita. Avrebbe fatto di tutto per realizzarla. E in effetti».

Quindi fingevate di essere nemici?
«Mazzacurati sapeva come la pensavo. Credo che anche lui provasse stima nei miei confronti, proprio perché sapeva che ero distante da lui e in-cor-rut-ti-bi-le».

Chiedere un favore non significa creare un precedente?
«Un intervento, non un favore! C’è differenza. Comunque questo è giustizialismo di bassa lega. Non avevano alcun interesse a blandirmi. Era noto che non avrei mai cambiato idea».

Avversario e richiedente?
«Ci può stare. Senza alcun imbarazzo. Ho sempre detto peste e corna del Mose, e in quei paraggi non ero certo gradito. Avevo la coscienza così libera e tranquilla che mi potevo permettere di chiedere cose utili alla città senza neppure essere sfiorato dall’ombra del do ut des».

Quante volte figliolo?
«Con il Consorzio, con Eni, con Fincantieri. Sempre per salvare aziende e posti di lavoro. Mai per me. In quindici anni da sindaco di Venezia l’avrò fatto almeno un migliaio di volte. Abbondiamo, che non vorrei mai dimenticarmene qualcuna...».

12 giugno 2014 | 07:42
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_12/cacciari-vero-ho-chiesto-aiuto-un-azienda-allora-5656e5b2-f1f2-11e3-9d0d-44dc1b5aab8c.shtml


Titolo: MASSIMO CACCIARI Cacciari: “Matteo è più debole. Un errore la sua retromarcia”
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:34:01 pm
Cacciari: “Matteo è più debole. Un errore la sua retromarcia”
Il filosofo: il patto del Nazareno è la sua unica salvezza

07/01/2015
Francesca Schianchi
Roma

«Renzi sta vivendo un indebolimento fisiologico».

Cosa intende, professor Cacciari? 

«La debolezza di Renzi viene dal fatto che non si esce dalla crisi e l’80% delle riforme non interessa ai cittadini. Ed è destinato a indebolirsi sempre più man mano che le riforme stentano a decollare o escono col contagocce».

Ha contribuito a indebolirlo anche il caos sulla delega fiscale? 

«Nella genesi è un infortunio, un incidente di percorso. Il modo in cui invece è stato gestito è al limite dell’osceno».

A cosa si riferisce? 

«Quello che mi scandalizza è la marcia indietro del governo: se riteneva che la norma fosse giusta, ritirarla perché poteva favorire Berlusconi è una follia inaudita. E sono allibito da come i giornali non lo abbiano sottolineato».

Lei non crede quindi a chi pensa a uno scambio di favori tra Renzi e Berlusconi? 

«Io non ho mai fatto il dietrologo in vita mia. Con un governo composto da ministri debolissimi, penso che qualche tecnico abbia ritenuto buona quella norma senza rendersi conto di favorire Berlusconi».

C’è un altro episodio che ha messo in difficoltà Renzi, il volo di Stato per Courmayeur. Come lo definirebbe? 

«Inopportuno. Lui che è quello che va in bici, prende un volo di Stato per andare a sciare… Ma io dico: fatti accompagnare in auto!».

Debolissimi i ministri, indebolito Renzi, pure il patto del Nazareno è più fragile? 

«Ma dove vuole che vadano? Finché Renzi non trova una maggioranza alternativa - e Grillo non è ancora seriamente interessato a una trattativa - è costretto a tenere in piedi il patto del Nazareno. Renzi non può fare a meno di Berlusconi e Berlusconi non può fare a meno di Renzi. Tra i due poi c’è affinità psicologica: e guardi che la personalità conta molto in politica. Dopodiché, il patto si può rompere anche al di là della volontà dei due interessati».

Ad esempio come? 

«Ad esempio se vanno a sbattere sull’elezione del presidente della Repubblica».

Secondo lei vanno a sbattere o il patto terrà? 

«Mah… Io penso che terrà, e me lo auguro, perché un casino sull’elezione del capo dello Stato sarebbe un male per il Paese. È una partita imprevedibile, ma penso possa esserci qualche nome che metta d’accordo un’area vasta del Pd e Berlusconi».

Chi? 

«Amato. Ma anche Veltroni. Mentre la vedo più difficile per altri nomi, come D’Alema o Prodi».

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/07/italia/politica/cacciari-matteo-pi-debole-un-errore-la-sua-retromarcia-njdJZaLcI7jzVmeN7kiQdK/pagina.html


Titolo: MASSIMO CACCIARI Cacciari e Sofri rivisitano il concetto di "prossimo"
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2015, 11:19:51 am
Cacciari e Sofri rivisitano il concetto di "prossimo"

L'idea evangelica alla prova di quanto sta accadendo in Medio Oriente. Il filosofo sostiene il fallimento del multiculturalismo, troppo simile all'indifferenza. Per il suo interlocutore, il fine ultimo dello Stato islamico è "riconquistare le donne"

Dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO
21 marzo 2015

UDINE – La prossimità come valore e come azione. Ha ancora un senso la nozione che ha ispirato anche la parabola evangelica? Soprattutto oggi, nel nuovo secolo, davanti a trasformazioni che stanno sconvolgendo stati, confini, equilibri; che ci allontanano dalla pace e ci spingono sempre più verso una guerra? A Repubblica delle Idee a Udine Massimo Cacciari e Adriano Sofri, sollecitati da Simonetta Fiori, si confrontano su una parola che non ha solo un valore filosofico e culturale ma si proietta e si misura su quanto sta accadendo nel Vicino e Medio Oriente.
 
Sotto l’interrogativo “Abbiamo una grammatica per il tempo nuovo?”, nella chiesa sconsacrata di San Francesco, colma di gente attenta e silenziosa, il professore e filosofo veneziano spiega quanto sia difficile capire se si "è prossimi".  "Il concetto cambia, anche letteralmente, nella parabola. Sono io che mi faccio prossimo. E questa dinamica elimina ogni disposizione spaziale". Applicato alla realtà con cui ci confrontiamo più spesso, se ignoriamo l’altrui identità "non possiamo più essere prossimi".
 
Sofri trasferisce il ragionamento sul terreno. Obietta: "Ci sono tuttavia molti modi di essere prossimi. Il Califfato, per esempio, ha una grande voglia di fare di Obama il suo prossimo. Lo sfida sul terreno. E noi facciamo fatica a ricondurci verso il vero jihad, quello grande, esteriore, di attacco, che consiste nel ripristinare il corpo a corpo". Le guerre, ricorda lo scrittore, "siamo abituati a farle lontani. Con i missili o con i droni, guidati da piloti che sono seduti davanti ad uno schermo, chiusi in una stanza, a migliaia di chilometri di distanza". Il nostro prossimo, secondo Sofri, possono essere le ragazze yazide rapite, stuprate, rese schiave dagli jihadisti. "Ma siamo sempre noi che decidiamo chi sono i nostri prossimi".
 
Cacciari insiste sul multiculturalismo. Valore che considera fallito e che ci allontana quindi dalla prossimità. "Per noi", osserva, "va più o meno bene tutto. Ma all’interno di un sistema, di determinate leggi che una volta fissati ci spingono verso l’altro. In realtà è il sintomo di una debolezza estrema. Tanto è vero che ci stupiamo di alcune conquiste dei fondamentalisti".
 
Sofri suggerisce una tesi che può essere vista come una provocazione ma che nasconde una grande verità. Almeno antropologica e culturale. "Questa schifezza dello Stato islamico", ragiona, “la vedo come una grande avanguardia mondiale per la riconquista delle donne: un obiettivo, se si pensa, enorme. Ma questa è solo la premessa della conquista del mondo intero. Le donne, come sappiamo, mancano in molti territori. I rapimenti compiuti dagli jihadisti sono anche un modo di andarle di nuovo a riprendere. Perché sono scappate: dalle case, dai burqa, da quelle origini materiali e metaforiche dove le abbiamo sempre tenute chiuse. Siamo spaventati dalla libertà di qualunque cosa possa portarle vie. Si profila una guerra mondiale che ha come posta le donne: vuole riprenderle, rimetterle a posto, rinchiuderle dopo che sono fuggite”.
 
RepIdee, Sofri: ''Il vero programma dell'Isis? Schiavizzare le donne''
Come reagire ai massacri, alle violenze, alle persecuzioni del prossimo? Lo stesso papa Francesco ha sollecitato un intervento volto a difendere dallo sterminio intere popolazioni di cristiani. Per Cacciari tuttavia "questo non rappresenta una novità". Perché il "concetto di guerra giusta non esiste", commenta. "Da un punto di vista concettuale. Non sta in piedi. I grandi principi che la stabiliscono, come la difesa contro attacchi alle minoranze, hanno fondamento solo sul piano del diritto ma non su quello della giustizia".
 
RepIdee, Cacciari: ''L'Isis usa i nostri strumenti e i nostri tempi per farci la guerra''
Sofri stesso non è così certo che, di fronte ad una guerra che si affaccia prepotente, avremmo la forza di affrontarla. "Non siamo più capaci di combatterla, a differenza dei tanti attentatori suicidi che non vedono l’ora di farsi esplodere". Il prossimo, a parere dello scrittore, ci incalza, ci bracca da vicino. Come misurarci? Di qui la necessità, diventata urgenza, di una polizia internazionale. "Credo che nessuno oggi", osserva Sofri, "sia disposto all’abolizione della polizia. Anche tra i suoi più severi critici, come possono essere gli anarchici". Cacciari lo considera un progetto difficile. "La polizia internazionale non ha senso senza una politica internazionale. Non siamo riusciti, finora, nemmeno a costruire un’Europa politica. La strada da percorrere è ancora lunga".

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/udine2015/2015/03/21/news/sofri_cacciari-110162945/


Titolo: MASSIMO CACCIARI "Felice Casson dice no ai migranti perché teme di non ...
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2015, 03:55:33 pm
Massimo Cacciari: "Felice Casson dice no ai migranti perché teme di non diventare sindaco. Bene Rosso e Daverio in squadra"

Laura Eduati, L'Huffington Post
Pubblicato: 09/06/2015 17:52 CEST Aggiornato: 09/06/2015 17:52 CEST

A pochi giorni dal ballottaggio del 14 giugno, Felice Casson ha buone ragioni per temere di non occupare la poltrona di sindaco di Venezia e per questo ha deciso di giocare due assi: il primo è il rifiuto a ospitare nuovi richiedenti asilo in città, il secondo è l'annuncio di una squadra di alto livello che comprende tra gli altri Renzo Rosso della Diesel e l'esperto di arte Philippe Daverio.

Su tutto pesa la neutralità del voto grillino, che il 1 giugno ha registrato un exploit inaspettato: 12,84%. E per ora sembrano cadere nel vuoto gli appelli di Marco Travaglio e del giudice Ferdinando Imposimato affinché il Movimento 5 Stelle lagunare decida di appoggiare il candidato democratico.

Andiamo con ordine. Al primo turno Casson ha raccolto il 38,01% dei voti contro il 28,5% di Luigi Brugnaro, presidente della Umana che si è presentato come indipendente con un programma in parte bizzarro e simil-leghista - tra le promesse c'è quella di "aumentare" le emozioni dei turisti in una delle città più belle ed emozionanti del mondo.

Brugnaro aveva comunque ricevuto all'inizio l'imprimatur di Forza Italia (in caduta libera con il 3,76%) e soprattutto nei giorni scorsi ha incassato l'appoggio della Lega (oltre il 9%). Il punto di forza dell'imprenditore, però, è la lista civica che è risultata primo partito (20,8%), davanti alla lista di Felice Casson e dello stesso Pd.

Spinto a dichiarare sulla questione dei profughi in arrivo nel Nord, il civatiano Casson ha ricalcato la linea leghista: "Venezia ha già dato, ora basta". Una posizione non isolata all'interno del Pd veneto, anzi, è quella ufficiale dei sindaci della regione rappresentati dalla esponente dem dell'Anci veneta, Maria Rosa Pavanello: ""Il nostro non è un no preventivo, ma un no legato alla disponibilità. I Comuni non hanno spazi agibili, non ci sono spazi liberi".

"Una posizione umana, troppo umana", commenta con ironia all'Huffpost l'ex sindaco Massimo Cacciari, che alle primarie veneziane sostenne Nicola Pellicani e per questo ora non si sorprende delle difficoltà di Casson: "I problemi di Casson non nascono oggi, io lo dicevo ma poi uno predica al vento...".

Per Cacciari l'astensione dei grillini al ballottaggio danneggerà specialmente il candidato Pd: "La loro neutralità ha pagato in termini di voti, sarebbe assurdo che ora appoggiassero uno dei due sfidanti. A meno che l'apparentamento non venga deciso a livello nazionale da Beppe Grillo".

Positivo invece il giudizio del filosofo sui quattro assessori che, Casson ha anticipato, faranno parte dell'eventuale giunta in caso di vittoria, senza alcun compenso: il primo è Renzo Rosso, il patron della Diesel e finanziatore del costosissimo restauro del Ponte di Rialto. Per lui sarebbe pronta la poltrona di assessore alle Imprese e alle attività produttive ("ma avrà il tempo da dedicare a Venezia?", si chiede malignamente Cacciari). Philippe Daverio andrebbe invece alla Cultura e al turismo; l'economista Francesco Giavazzi, che un tempo insegnava a Venezia, naturalmente avrebbe l'assessorato all'Economia. E infine la manager Benedetta Arese, che ha curato l'app della Uber.

Nomi altisonanti e di qualità ai quali Casson aggiungerà un esperto di sicurezza conosciuto a livello nazionale. Il nome, dice l'aspirante sindaco, si saprà a urne chiuse lunedì prossime. Sempre che il Pd riesca a mantenere la carica.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/06/09/cacciari-casson-migranti-elezioni-_n_7542852.html


Titolo: Cacciari: "L'Europa tedesca collasserà. C'è stata una volgare interferenza..."
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 11:18:18 am
Greferendum, Cacciari: "L'Europa tedesca collasserà. C'è stata una volgare interferenza..."

06 luglio 2015, Lucia Bigozzi

 “L'Europa collasserà". E ancora: "Le interferenze di Berlino e di Bruxelles sul voto greco sono stati i protagonisti dell’esito finale. Ora se i leader europei hanno imparato la lezione…”. Non fa sconti l’analisi del filosofo Massimo Cacciari che nella conversazione con Intelligonews individua i limiti di un’Europa “combinata così, a direzione unicamente tedesca e con un nuovo obiettivo di stabilità”. Un’Europa che “sta collassando e collasserà”.

Come legge l’esito del referendum in Grecia?
«E’ un risultato così straordinario, inaspettato da quasi tutti, credo abbia vari fattori, ma soprattutto credo dipenda dall’inaudita e diciamo volgare interferenza da parte di quasi tutte le autorità europee che hanno indotto a un risentimento anche nazionale del tutto legittimo e giustificato da parte dei greci. Non è possibile che personaggi come i Merkel o gli Shauble si permettano di dire cosa devono votare i greci. Credo che proprio loro siano stati i protagonisti del risultato referendario, ovvero questi cosiddetti leader europei dopo aver combinato disastri di tutti i colori e intromissioni sulle decisioni del popolo greco, che è un vero popolo, forse se lo sono dimenticato».

Quali rischi e quali effetti?
«Se a Bruxelles ragionano, se imparano finalmente la lezione…e mi i riferisco a tutti i leader europei ad eccezione di Mario Draghi, unica personalità di statura globale che oggi l’Europa può esibire; se tutti gli altri capiscono la lezione di mettersi seriamente a trattare cercando di rimediare ai guasti che hanno combinato, allora forse… Non dico certo che Tsipras sia un martire, ma è chiaro che se si fosse intervenuti razionalmente quando Papandreu aveva denunciato che i governi precedenti avevano falsificato i bilanci, non saremmo in questa situazione. Ora occorre avviare un trattato serio, ridurre il debito greco, rivedere gli oneri di questo salvataggio e a quel punto, si potranno imporre una serie di riforme anche alla Grecia, ma è inutile parlare di riforme se mi dici che tanto devo morire. Se per salvarmi devo morire, allora lasciamo perdere…».

Come valuta le dimissioni di Varoufakis?
«Credo siano dimissioni pro-forma per dimostrare la loro totale disponibilità a trattare seriamente ma penso non abbia molto senso che un ministro del tesoro greco si dimetta; dovrebbero dimettersi i leader europei. Può anche darsi che ci sia già un accordo preventivo per cui tra le condizioni che l’Ue pone per riprendere seriamente i negoziati e venire incontro al popolo greco, potrebbe esserci la testa di Varoufakis».

C’è chi definisce Tsipras un comunista; lei da tempo va dicendo che le categorie politiche sono superate: non ritiene che oggi nello scenario europeo in realtà vi sia uno scontro tra casta e popolo?

«Sinistra e destra sono categorie superatissime del cavolo… Non credo sia neanche lo scontro tra casta e popolo, ma certamente destra e sinistra di fronte a questi fenomeni non c’entrano nulla. Destra e sinistra si confrontavano su scenari geopolitici completamente diversi; qui, invece, le differenziazioni sono in materia di politiche fiscali europee; su queste questioni ci possono essere le più inaspettate sinergie tra forze politiche di tradizioni diversissime, come pure all’interno delle stesse forze politiche, vedi il Pd».

E quali effetti politici sul fronte anti-renziano a sinistra?
«Beh, adesso diranno ah che bello! Penso ai Fassina… no, non c’entra assolutamente niente. Le situazioni vanno lette in modo concreto, analitico, non secondo i vecchi schemi: se la sinistra italiana pensa di dire … avete visto, avevamo ragione noi… ma su che? Forse sul Jobs Act, sulle politiche finanziarie? Sono stupidaggini. La cosa certa è che un’Europa combinata così, a direzione unicamente tedesca, con un nuovo obiettivo di stabilità sta collassando e collasserà. Su questo bisogna si confrontino politiche e programmi concreti, né di destra né di sinistra ma intelligenti, in grado di comprendere le esigenze dei popoli; ogni Paese ha i suoi problemi specifici che vanno accordati, armonizzati. Per fare questo ci vorrebbero degli statisti: l’unico all’altezza è Draghi ma fa il banchiere, non lo statista, e quindi saluti…».

Lei lo vede il rischio di una nuova guerra fredda?
«L’Europa non ha capito nulla della Grecia, figuriamoci della Russia. L’Europa non ha una politica mediterranea, non ha una politica a Sud e a Nord, non ha una politica ad Est e non ha una politica ad Ovest perché gliela fanno gli Stati Uniti. E’ un’Europa senza politica, cieca totalmente rispetto ai problemi mediorientali: come può comprendere la realtà della Russia? Tra l’altro, Russia e Grecia hanno un rapporto storicissimo e la storia non è acqua. Il Risorgimento greco è stato supportato spiritualmente, culturalmente ed economicamente dalla terza Roma che è Mosca; ci sono legami storici e anche di spiritualità: Mosca si è sempre considerata l’erede di Bisanzio, bisogna saperle queste cose quando si hanno responsabilità di governo. La Grecia va considerata anche come ‘ponte’ nei confronti della Russia. Ma come fanno questi leader europei, dalla Merkel a Renzi a comprenderlo? Per loro è molto difficile…».

Da - http://www.intelligonews.it/articoli/6-luglio-2015/28290/greferendum-cacciari-l-europa-tedesca-collasser-c-stata-una-volgare-interferenza-



Titolo: Cacciari: “A Renzi serve un partito vero. Il Pd non è mai nato”
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:12:52 pm
Cacciari: “A Renzi serve un partito vero. Il Pd non è mai nato”

Massimo Cacciari   

Intervista a Massimo Cacciari: “La scissione è già nei fatti, col segretario e i suoi da una parte e una corrente del partito che va dalla parte opposta. Ma era inevitabile che finisse così”

«Il Pd non è mai nato, strozzato in culla dalle oligarchie ex Dc ed ex Pci, e da questo suicidio nasce l’affermazione politica di Renzi». Filosofo, docente universitario, scrittore, Massimo Cacciari ha la passione della politica: tre volte sindaco di Venezia, ex europarlamentare, candidato governatore del suo Veneto contro il forzista Galan. È da sempre un osservatore critico del Pd, in cui ha sostenuto l’esistenza di una “questione settentrionale”. Adesso analizza i conflitti interni di questi ultimi mesi e le prospettive del partito guidato da Matteo Renzi: «La scissione c’è già nei fatti, solo nel modo più spurio e improduttivo. Ma questo equivoco va sciolto»

Che cosa sta succedendo nel Pd? E’ in corso una mutazione genetica o è un replay della lotta tra correnti a cui abbiamo assistito tante volte in passato?
«Non è la solita lotta, come ne abbiamo già viste, tra correnti che corrispondono ognuna a una storia e a una tradizione comune. Oggi la situazione è diversa. C’è una leadership molto forte che fatica a creare intorno a sé un gruppo dirigente autorevole. Renzi ha autorevolezza, gli altri che lo circondano sono gregari. Dall’altra parte ci sono esponenti di una cultura che con questo capo non ha niente a che fare. La differenza è quasi antropologica».

Quanto è profonda questa ferita per il Pd?
«Direi che non si può parlare di partito. C’è una contrapposizione tra il capo e il suo seguito da una parte, e una corrente che non ha nulla a che spartire con loro dall’altra. E sarebbe utile che l’equivoco si sciogliesse presto. Il perdurare di questa situazione danneggia sia il leader che la minoranza, che potrebbe meglio e con più efficacia curare settori della società e dell’opinione pubblica oggi spaesati».

È un’analisi molto dura. Implica che difficilmente il Pd potrà uscire dal guado se non cambiano radicalmente le cose…
«C’è un forte elemento di confusione. Il che non esclude che Renzi riesca con il tempo a costruire un vero partito con dirigenti all’altezza e un radicamento territoriale che oggi manca del tutto. Proprio a questa lacuna dobbiamo i risultati catastrofici alle ultime amministrative in Veneto, in Liguria, e poi a Venezia, Arezzo, Livorno. Il premier deve mettersi in testa che se vuole governare a lungo avrà bisogno di un partito vero e più strutturato di questo».

Sembra di capire che, a suo avviso, l’approdo più probabile se non inevitabile sarà una scissione tra maggioranza renziana e minoranza interna del Pd.
«Sì, ma la scissione già c’è, solo nel modo più spurio e improduttivo per tutti. Vivono da separati in casa. Ma quarant’anni fa c’è stato il referendum per il divorzio: nessuno è più obbligato a convivere se non ci sono i presupposti».

Il Pd in queste condizioni è opera di Renzi o sono venuti al pettine nodi preesistenti?
«Certo, è un contesto che risale a ben prima di Renzi. Il Pd non è mai nato e in questo l’attuale segretario non ha responsabilità. Sono state le vecchie oligarchie ex Dc ed ex Pci a strozzare il fantolino nella culla. E bisogna aggiungere che proprio da questo suicidio nasce l’affermazione di Renzi».

 Lei ha espresso critiche sulla nomina del nuovo cda Rai. In questi giorni il ministro della Cultura Franceschini ha nominato 20 direttori di musei, tra cui 7 stranieri, tra le polemiche. Anche su queste scelte ha delle riserve?
«Sulla Rai non ho fatto critiche bensì ragionamenti. Era inevitabile che una leadership come quella di Renzi, fortissima da un lato e debolissima dall’altro perché – come abbiamo detto – non ha creato un suo partito, cerchi di collocare uomini di fiducia nei posti chiave del Paese. Era fisiologico e non capisco di cosa si stupiscano gli avversari».

Per la tornata di nomine nei musei, secondo lei, vale la stessa logica?
«Idem. Alcuni funzionari museali che conosco sono alla pari se non superiori come competenze ai direttori nominati. Ma Renzi ha bisogno di un rinnovamento e di mettere gente sua».

L’approdo della riforma costituzionale al Senato a settembre è considerato il banco di prova per la tenuta del governo. Lei crede che si troverà una quadra all’interno del Pd tra posizioni al momento molto distanti?
«Questo non lo so. Posso dire che il superamento del bicameralismo perfetto è indispensabile ed è ormai una questione vecchia di una generazione e mezzo. Ma il modo in cui sta avvenendo è dilettantesco. Con la cornice di questa legge elettorale il Senato, a cui la riforma attribuisce funzioni ben superiori di quelle della Conferenza StatoRegioni, dovrebbe essere elettivo. Lo richiederebbe la logica istituzionale. Non lo sarà? Pace, ma diventa un pasticcio ridicolo, una sgrammaticatura».

Non crede però che modificare norme che hanno già avuto una doppia lettura conforme, con equilibri politici così fragili, allungherebbe a dismisura i tempi, con il rischio che finisca tutto nel nulla? Sono dieci anni, da quando è entrato in vigore il Porcellum di Calderoli, che si discuteva di cambiare legge elettorale senza riuscire a farlo.

«In questo ha perfettamente ragione Renzi: Bersani e i suoi predecessori non hanno combinato nulla non in dieci ma in vent’anni. Questa riforma è sempre meglio di ciò che c’era prima: è abborracciata, ma risponde all’esigenza reale di superare il bicameralismo paritario». In sintesi: il Pd è un’incompiuta. Che fine farà? «Non è escluso che Renzi riesca a costruire un partito vero. Ma sarà il Partito di Renzi e non più il Partito Democratico».

Da - http://www.unita.tv/focus/a-renzi-serve-un-partito-vero-il-pd-non-e-mai-nato/


Titolo: MASSIMO CACCIARI Siria Io tifo per la Russia sarà sempre meglio Assad che l'Isis
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 05:59:15 pm
Siria, Cacciari: “Io tifo per la Russia, sarà sempre meglio Assad che l’Isis”
Il filosofo: "Si esclude un intervento militare? Non vedo altra mossa risolutiva.
Abbiamo fatto la guerra a chi non ce l'aveva dichiarata e ora porgiamo l'altra guancia"

Di F. Q. | 12 settembre 2015

“Io francamente faccio il tifo per la Russia, a questo punto sarà sempre meglio Assad che l’Isis o no?”. A dirlo è Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia, in un’intervista rilasciata al sito Intelligonews. “La politica occidentale è diventata il campo della pura irragionevolezza, ed è priva di una leadership. Siamo sempre stati incollati all’idea imperiale americana che, fra l’altro, è recentemente passata per la sciagurata esperienza della famiglia Bush”, ha detto il filosofo.

Cacciari ha parlato anche della questione immigrazione: “Assistiamo al tramonto definitivo dell’Occidente, è veramente un situazione tragica. Perché ormai hai queste ondate migratorie, che al di là della fame, derivano dalla conquista di interi territori da parte di una potenza esplicitamente nemica e questo minaccia la pace globale. Occorrerebbe una legislazione europea veramente unitaria sul diritto di asilo. Le posizioni di Juncker sono un passo in avanti, ma quasi di ridicola modestia rispetto all’emergenza. Finché non si stabilizza il Medio Oriente – ha aggiunto – il flusso avrà cifre sempre più imponenti. Ci vorrebbe un intervento anche sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non si capisce chi e come potrebbe farlo. Si esclude quello militare? Ma allora non vedo proprio quale potrebbe essere una mossa risolutiva!”

“Noi siamo quelli che hanno fatto le guerre – e che guerre! – a chi non ci aveva mai dichiarato nulla contro, ora che il sedicente Stato Islamico ci ha dichiarato guerra e avanza con bombe e milizie e noi stiamo a guardare. Ma le sembra che ci sia della razionalità in tutto questo? Insomma – ha concluso Cacciari – abbiamo fatto guerra a chi non ce l’aveva dichiarata e porgiamo l’altra guancia a chi ce la dichiara. Me nemmeno Papa Francesco farebbe così, dal momento che ha detto che darebbe un pugno a chi gli offende la mamma”.

di F. Q. | 12 settembre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/12/siria-cacciari-io-tifo-per-la-russia-sara-sempre-meglio-assad-che-lisis/2029328/


Titolo: MASSIMO CACCIARI "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 28, 2016, 11:55:56 am
Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò".
"Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"


Di EZIO MAURO
27 maggio 2016
   
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".

Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".

Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".

Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".

Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".

Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".

E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia
pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".

© Riproduzione riservata
27 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/?ref=HRER2-1


Titolo: MASSIMO CACCIARI: "Ma quale 'papa straniero', per sfidare Renzi serve team"
Inserito da: Arlecchino - Agosto 23, 2016, 11:15:38 pm
Massimo Cacciari: "Ma quale 'papa straniero', per sfidare Renzi serve team"

Ansa
Pubblicato: 13/08/2016 11:16 CEST Aggiornato: 13/08/2016 12:29 CEST

Nessun 'papa straniero' per guidare la minoranza Pd alla sfida con Renzi, "per carità, il problema è la politica e quelli della sinistra in questi anni non si sono risparmiati nessun errore. Serve un disegno complessivo di società, di sistema, e soprattutto un gruppo dirigente con delle idee". Lo dice Massimo Cacciari a Repubblica.

"I Moro e i Berlinguer nascevano da gruppi dirigenti forti, con delle prospettive chiare. Il carisma va bene ma deve accompagnarsi alle competenze. Altrimenti, se la sinistra si limita alla ricerca di un leader, finisce per scimmiottare Renzi, che ha un'idea carismatica dal Capo, una logica che finisce intrinsecamente per favorire la destra", aggiunge. I componenti della minoranza "devono cercare una squadra, e farlo in fretta, come si faceva nei i vecchi partiti di massa: mettere insieme un gruppo di persone competenti. E dirci cosa pensano davvero del Jobs Act, delle modifiche alla Costituzione che sono necessarie. Finora sono apparsi come quelli della conservazione, al massimo dell'emendamento. Ci sono tante questioni che Renzi neppure affronta, ci dicano cosa vogliono loro".

"Scrivano un documento strategico. Renzi rischia di andare a sbattere, e di portarsi dietro il Paese. Dunque mi pare ora di muoversi". Del team potrebbero far parte Cuperlo e Rossi, "Zingaretti e anche Civati", dice Cacciari. "Serve un mix tra politica e società civile. Basta che taglino il cordone ombelicale con i D'Alema e i Bersani, altrimenti non vanno da nessuna parte".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/08/13/cacciari-papa-straniero_n_11491966.html


Titolo: Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 03, 2016, 10:05:34 am
Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò".
"Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"


Di EZIO MAURO
27 maggio 2016

Massimo Cacciari
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".

Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".

Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".
Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".

Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".

Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".

E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".

© Riproduzione riservata 27 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/


Titolo: MASSIMO CACCIARI "M5S? Banale chi lo riduce a populismo"
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 10, 2016, 12:03:07 pm
Intervista

"M5S? Banale chi lo riduce a populismo"
Parla il filosofo Massimo Cacciari.
A cui abbiamo chiesto se quella attraversata dai pentastellati è una crisi o una metamorfosi.
E da domenica in edicola sull'Espresso il nostro approfondimento con una "Critica della Ragion Grillina"


Di Luca Sappino
07 ottobre 2016

La morte di Casaleggio, la sfida di Roma e Torino, un nuovo statuto. Quella attraversata dal Movimento 5 stelle nell'ultimo anno è una crisi o solo una metamorfosi, come la definiamo nella copertina che dedichiamo al Movimento, in edicola da domenica?
«Non vedo né una crisi né una metamorfosi. Il Movimento 5 stelle sta semplicemente proseguendo il suo percorso, dritto sulla sua linea. Che è l'unica che può percorrere, peraltro, un movimento dalla natura così composita, che mette insieme diverse culture, diversi orientamenti politici, diverse classi sociali e anche diverse fasce anagrafiche, perché mi dovreste anche spiegare cosa c'entra Beppe Grillo con i suoi giovani attivisti. Niente, ecco cosa. Ma Grillo, che è un prodotto degli anni '80, un leader un po' situazionista e anarchico, è riuscito a trovare un collegamento e tenere tutto insieme con questa sorta di religione del web, di cui lui per primo si è dovuto convincere».

Giuliano Ferrara sul Foglio dà una lettura radicale, ma per molti fondata, della crisi romana. «A Roma», dice l'ex direttore, «non è in crisi solo una sindaca e un'assessora. È in stato patologico un intero progetto antipolitico fondato sul pressappochismo, la demagogia, l'inettitudine, l'obliquità, l'uso sbagliato del congiuntivo». C'è del vero?
«Quelle di Ferrara sono le parole di un avversario politico. Sono banali. Non c'è analisi ma solo demonizzazione, un po' come quando si accusa il Movimento di populismo».

Che però è sicuramente una cifra del Movimento, peraltro spesso mischiato a una buona dose di bufale. No?
«Ma non è una cifra anche di Renzi quando tira fuori ponti e tredicesime per vincere una campagna elettorale?»

L'Espresso in edicola dal 9 ottobre
Sono tempi farciti di populismo e retorica, in effetti. Siamo condannati alla semplificazione imperante?
«Lo siamo perché la politica è impotente e si rifugiata nelle frasi fatte. La politica contemporanea ricorre ossessivamente alla retorica, in un modo stucchevole, perché oggi, nel mondo, è difficilissimo impostare una strategia politica complessiva e quindi complessa. È l'impotenza della politica che genera il populismo e poi l'antipolitica, che non è, come si pensa, l'avversione per questa o quella casta, per i deputati o i consiglieri che rubano. Lo è superficialmente, sì, ma in realtà l'antipolitica è la rabbia contro una politica impotente, che non risponde alle domande della gente, che nel frattempo si sono anche moltiplicate».

Che il Movimento 5 stelle sia un movimento antipolitico è però innegabile.
«Lo è perché non ha capito i termini della crisi politica che stiamo vivendo. I 5 stelle non capiscono che intendendo l'antipolitica come anticasta stanno segando lo stesso ramo su cui sono seduti, perché il tema della politica e delle istituzioni impotenti riguarda anche loro. E se ne stanno accorgendo a Roma, ad esempio, dove non poteva che andare così».

Non poteva che andare diversamente il debutto di Virginia Raggi?
«Chiunque a Roma avrebbe combinato quel che sta combinando Raggi, cioè niente. E la ragione è la stessa per cui a Torino, invece, chiunque se la sarebbe cavata come pare se la stia cavando Appendino. È la stessa ragione per cui a Milano Sala avrà vita facile. La complessità di Roma, e la disfatta della sua elité dirigente, fa uscire fuori tutta l'impotenza della politica».

Che però dovrebbe riuscire a nominare almeno i suoi staff…
«Le difficoltà nella nomina degli staff o nella ricerca di un assessore sono sempre il frutto della natura composita del Movimento. Che ovunque, ma a Roma ancora di più, ha messo insieme anime diversissime. Le difficoltà sugli staff altro non sono che difficoltà di sintesi, di sintesi politica tra la destra e la sinistra che si vorrebbero tenere insieme».

La copertina con l'approfondimento sulle aporie del Movimento 5 Stelle e gli esempi di governo locale dalla Sicilia a Torino; le tangenti in Sud America; il sistema di potere di Malagò. Questo e molto altro sull'Espresso in edicola domenica con Repubblica a 2,5 euro e il resto della settimana a 3 euro
Non attraverso un'ideologia, ma il Movimento 5 stelle è uno dei più vasti esempi di mobilitazione e partecipazione, in Italia. Cos'è che tiene insieme gli attivisti 5 stelle?
«A me pare che molti Paesi, in Europa e non solo, abbiano avuto un loro movimento simile, anche se altrove, come in Spagna o in Grecia, si è caratterizzato più a sinistra. In tutti questi casi, però, a tenere insieme attivisti e elettori non è il movimento o il partito che poi li rappresenta ma la rabbia stessa, l'insoddisfazione, i bisogni e i desideri a cui non si trova risposta. Oggi i movimenti politici sono infatti variabili dei movimenti sociali - e qui sta la differenza fondamentale con i partiti di massa novecenteschi».
Per il sociologo Biorcio il Movimento 5 stelle si sta istituzionalizzando, si sta facendo un po' partito nel confrontarsi con l'esigenza di un'organizzazione imposta dall'avvento al potere e dal fallimento dello strumento del Direttorio...
«Qualunque organizzazione scelgano di darsi, il grande pericolo è che questi pseudo-partiti non siano comunque in grado di metabolizzare la protesta sociale. Che è una funzione fondamentale dei partiti a cui questi hanno in effetti rinunciato. Hanno rinunciato alla funzione educativa e di filtro che i partiti hanno sempre rappresentato le molteplici domande che arrivano e le istituzioni. Loro preferiscono inseguire, che in effetti è più comodo».

«Eravamo orgogliosi di avere solo un megafono, ora molti si dicono contenti di avere “finalmente” un capo», dice Pizzarotti. Grillo non è riuscito - ammesso che mai abbia voluto - a fare il passo di lato. Ci si può sottrarre oggi alla politica leaderistica?
«Si può, teoricamente. Ma i leader sono il surrogato di tutto quello che i partiti non sono più, e che non è quindi il Movimento. Grillo ha capito che senza di lui manca un centro, che se togli il leader carismatico non c'è più un punto di orientamento. Vale per il Movimento, vale per Forza Italia con Berlusconi, vale per il Pd».

Per il Pd?
«C'è qualcosa di simile nelle zucche di Bersani e Renzi?».
Sembrerebbe di no. Ma allora il problema, si dovrebbe dire, è stato fare il Pd, tenere insieme due culture politiche diverse, fare un contenitore che potesse, un po' come il Movimento, raccogliere l'intera società...
«No, no. È semplicemente la nostra epoca. Culture diverse possono convivere se poi ci sono anche gli strumenti per fare sintesi, gli strumenti che avevano i partiti, e se la proposta politica si può mantenere complessa. Oggi non è così».

    © Riproduzione riservata
07 ottobre 2016

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/10/07/news/che-banalita-accusare-il-movimento-5-stelle-di-populismo-1.285385?ref=HEF_RULLO


Titolo: MASSIMO CACCIARI Trump, Cacciari: “Per i tecnocrati la partecipazione è un...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 11, 2016, 06:10:36 pm
Trump, Cacciari: “Per i tecnocrati la partecipazione è un optional. Così trionfa il voto anti establishment”
Il filosofo ed ex sindaco di Venezia analizza le ragioni politiche e sociali dell'elezione del repubblicano alla Casa Bianca: "È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di centrosinistra. Dall’immigrazione al lavoro, "la politica diventa populista solo in campagna elettorale.
E senza più la sinistra, contro la 'destra cattiva' in Italia non resta che Grillo"


Di Fabrizio d’Esposito | 10 novembre 2016

Il Sistema, con la maiuscola, ormai esplode ovunque, non solo in Europa. Il professore Massimo Cacciari, filosofo nonché ex sindaco di Venezia, per lustri ha tentato invano di dare contenuti a un riformismo vero per il centrosinistra italiano.

La sconfitta di Hillary Clinton rade al suolo un’epoca. Un quarto di secolo a discettare di Terza Via, ulivismo mondiale, sinistra liberal e altre amenità.
È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di sinistra o centrosinistra. Lo stesso Trump ha vinto nonostante il Partito Repubblicano. Una riflessione analoga si può fare per la Brexit. Io uso questo termine: secessio plebis.

Secessione della plebe. Il popolo. La sinistra, appunto, com’era una volta.
Ovviamente l’effetto del tracollo è più eclatante per le forze democratiche e socialdemocratiche perché sono state soprattutto loro a non comprendere i fenomeni che ci hanno condotto a tutto questo.

L’elenco è lunghissimo.
La moltiplicazione delle ingiustizie e delle diseguaglianze; il crollo del ceto medio; lo smottamento della tradizionale base operaia; l’incapacità di superare lo schema di welfare basato sulla pressione fiscale. Oggi l’unico sindacato che conta è quello dei pensionati e a mano a mano che si pensionavano i genitori sono emersi i figli precari, i figli pagati con il voucher, i figli ancora a carico della famiglia.

La classe dirigente, a destra come a sinistra, ha pensato solo a diventare establishment.
Non è solo questo perché non era semplice prevedere cambiamenti colossali e un Churchill o un Roosevelt non nascono in ogni epoca. Anzi.

Quasi trent’anni fa ormai, in Italia furono pochissimi, tra cui lei, a capire movimenti come la Lega.
Avevi voglia a dire che a Vicenza gli operai votavano Lega oppure che la sinistra a Milano la sceglievano solo contesse e contessine di via Montenapoleone.

Adesso Bersani, per quel che vale, dice: “Basta con la retorica blairiana”.
La sinistra è stata a rimorchio delle liberalizzazioni e dei poteri forti. Ma l’immagine di una donna liberal di sinistra a Wall Street è una contraddizione in termini.

L’ex comunista Napolitano, oggi presidente emerito della Repubblica, se la prende pure con il suffragio universale.
Ecco, appunto. È la conferma che le élite liberal si sono adeguate al trend burocratico e centralistico.

La tecnocrazia al posto delle elezioni.
La partecipazione è diventata un optional.

Di qui la secessio plebis. O il populismo, se vuole.
A me non interessa come definire il fenomeno, a me preme capirlo. Tutti sono populisti in campagna elettorale. Francamente il punto non è questo. Io voglio comprendere questi fenomeni sociali, poi chi li rappresenta può avere un tono o l’altro.

Ora tocca all’Europa.
Dove gli effetti dell’immigrazione sono devastanti. Ma è necessario fare una premessa: l’Europa non sono gli Stati Uniti.

Cioè?
Dove c’è un impero la politica la fa l’impero.

Non Trump, quindi.
Esatto. In fondo basta sentire le sue prime dichiarazioni concilianti.

In Europa, invece?
La storia è matematica, non sbaglia mai. E in assenza di politiche efficienti e credibili, non banali promesse, ci sono tre tappe nel nostro continente. La prima è quella del malcontento o della secessio plebis di cui ho già parlato.

Poi?
Sparare contro i Palazzi, infine l’affermazione di una destra cattiva anti-immigrazione. Penso a Le Pen, Farage, Orban, Salvini e Meloni.

Grillo no?
No, Grillo non fa parte di questa destra cattiva. Ho scritto un articolo su chi saranno i Trump d’Europa e concludo proprio così: in Italia non resteranno che i Cinquestelle.

Un argine contro la peggiore destra.
Renzi si è fatto establishment. Per questo i suoi tentativi populistici puzzano parecchio.

Quale sarà l’effetto Trump sul referendum del 4 dicembre, se ci sarà?
Vedo due tendenze. Da un lato può galvanizzare le forze che vogliono mandare Renzi a casa.

Dall’altro?
In questo clima, gli italiani potrebbero scegliere l’opzione ritenuta più tranquilla e meno traumatica, cioè il Sì.

Di Fabrizio d’Esposito | 10 novembre 2016

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Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/senza-piu-la-sinistra-contro-la-destra-non-resta-che-grillo/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2016-11-10


Titolo: MASSIMO CACCIARI Referendum, Massimo Cacciari: "Campagna faraonica e da ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 11:46:38 pm
Referendum, Massimo Cacciari: "Campagna faraonica e da megalomane: Renzi ha perso ogni autorevolezza"

Repubblica
Pubblicato: 05/12/2016 08:59 CET Aggiornato: 05/12/2016 15:44 CET

È netto e impietoso il giudizio di Massimo Cacciari sul successo del No al referendum. “La responsabilità di questo risultato - dice in una intervista a Repubblica - è al 99 per cento del presidente del consiglio Renzi e della sua scriteriata presunzione. Ha creduto che il referendum sulla riforma costituzionale fosse il terreno buono su cui porre la propria egemonia. Ha perso la scommessa, ma ha così condotto il paese in una situazione di grande difficoltà".

    Professor Cacciari, dimissioni inevitabili per Renzi?
    «Renzi non ha più in alcun modo l’autorevolezza per essere la guida del paese, ma nel senso che occorre approvare la legge di stabilità, quindi fare la legge elettorale e trovare il consenso presso le attuali opposizioni. E non credo che Grillo sia disposto a concedere un’unghia...».

    Quale è il suo stato d’animo?
    «Sono preoccupato, preoccupatissimo, perciò dicevo di votare Sì al referendum. Ma con le “capre pazze” è impossibile ragionare. E la prima è il presidente del consiglio che ha condotto questa battaglia referendaria con istinti suicidi».

    Non doveva personalizzare?
    «Personalizzando come ha fatto, ha coalizzato tutte le opposizioni trasformando il referendum sulla Carta in un referendum su di sé. Se l’avesse condotta pacatamente questa campagna, senza la propaganda faraonica su tutte le reti della tv di Stato, il risultato sarebbe stato diverso».

Quanto al futuro del presidente del Consiglio, Cacciari non reputa finita la sua carriera politica

    "È un animale politico, non rinuncerà alla lotta politica. Si preparerà a sua volta per le prossime elezioni. Farà il partito di Renzi. In Italia c’è stata una legge sul divorzio e nel Pd lo capiranno: Renzi si farà il suo partito, gli altri il loro e potrebbe essere la soluzione ragionevole per rilanciare il centro sinistra: da un lato il patto di centro con Renzi e Ncd, all’altro la sinistra. La profezia è per una legge proporzionale con sbarramento del 3%, e debolissimo premio di coalizione. Un paese che s’impegna va a votare e dice che questo premier non va".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/12/05/referendum-cacciari-renzi_n_13423732.html
 


Titolo: MASSIMO CACCIARI contro "Lady like": «Moretti che c... dice? Berlusconismo puro»
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2016, 01:56:25 pm
Cacciari contro "Lady like": «Moretti che c... dice? Berlusconismo puro»
Di Redazione Online

VENEZIA - Cacciari demolisce "Lady like" e la politica "piaciona" propugnata con forza da Alessandra Moretti, candidata in pectore con il Pd alle prossime Regionali del Veneto, che in un'intervista ha rivendicato il proprio appuntamento settimanale con l'estetista come segno di rispetto nei confronti dell'elettorato oltre che di cura verso se stessa.

«Che c... dice? Un'intervista orribile, ha detto una sciocchezza: la Moretti dimostra di non conoscere la storia di questo Paese - ha replicato l'ex sindaco di Venezia ai microfoni de "La Zanzara" su Radio24 - Ho conosciuto tra le appassionate di politica alcune delle donne più belle, come la Rossanda e la Castellina. E poi una volta l'aspetto fisico era del tutto indifferente».

Cacciari rivela che voterà a Venezia e attribuirà la propria preferenza all'ex vicesindaco di Vicenza: «Non vorrà mica che voti Zaia» ha replicato al conduttore de "La Zanzara" Giuseppe Cruciani. «La Moretti ha detto una sciocchezza, ma si può perdonare, sono giovani: se sarà il candidato del centrosinistra la voterò».

Anche se più di qualche riserva sulla novella "Lady like" il filosofo veneziano non lo nasconde: «Sono un po' imbarazzato - osserva -. L'esibizione di queste cose scontate, come il fatto di tener cura del proprio aspetto esteriore, è la scoperta dell'acqua calda. E Il modo in cui si dicono queste cose è berlusconismo puro, così come questo insistere sulla cura del corpo e sul voler apparire a tutti i costi: è quello che ha portato Berlusconi a dipingersi i capelli sul cranio».

Colpa del degrado dei costumi, comunque, più che dell'eurodeputata vicentina. «E' la politica che è allo sbraco - ammette Cacciari - Alle spalle c'è un ventennio sciagurato, si è perso il senso del gusto E' un crollo etico-estetico-culturale, la Moretti ne è il sintomo, è tra le giovani rampanti che ha fatto comunque esperienze amministrative. Sicuramente di tutte le "renzine" è la più attrezzata».

Giovedì 20 Novembre 2014, 15:20

Da - http://www.ilgazzettino.it/nordest/venezia/massimo_cacciari_alessandra_moretti_bellezza_intervista_zanzara-706618.html


Titolo: Cacciari: “Basta con il mondo di ieri, nessuna sinistra oggi può vincere in ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2017, 06:10:18 pm
Cacciari: “Basta con il mondo di ieri, nessuna sinistra oggi può vincere in Europa”
Filosofo. L’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari

Pubblicato il 31/01/2017 - Ultima modifica il 31/01/2017 alle ore 12:35

FRANCESCA PACI
ROMA

La crisi della sinistra è venuta a noia a Massimo Cacciari, che pure l’ha indagata a fondo come pochi. Ma, nella difficoltà di afferrare il nuovo ordine (o disordine) globale, il Novecento si prende la rivincita sulla Storia e ci riporta sempre al punto di partenza, tornando a proporre le logiche politiche di ieri. 

Cosa possiamo dedurre dal trionfo di Hamon, la sinistra della sinistra francese? 
«Ma di quale trionfo parliamo? Di quale vittoria parliamo? Il problema, in Francia e nel resto d’Europa, non è quale sinistra o cosiddetta sinistra vinca le elezioni interne ma se la sinistra ce la fa poi alle elezioni che contano. E la risposta è no. È già capitato che alle primarie del centro-sinistra, anche alle primarie locali, prevalesse la sinistra sinistra. Come Hamon a Parigi, a Venezia a suo tempo passò Casson. Ma poi si perde regolarmente. Nessuna sinistra, socialdemocratica o meno, può vincere oggi in Europa».
 
Allora rovesciamo la domanda: perché la sinistra non vince più? 
«Ecco la domanda giusta. E la risposta è che ci sono ragioni storiche e strutturali, ragioni obiettive. Da una parte è venuta meno la classe operaia, il suo blocco sociale di riferimento, dall’altra la sinistra non ha capito la crisi fiscale dello Stato. Non c’è più spazio per la sinistra tradizionale, che si ricicli o meno. Certamente non c’è più spazio per i D’Alema e i Bersani. Ma in realtà non ce ne sarebbe neppure per i grandi leader socialdemocratici del passato come Willy Brandt, e non solo perché sono morti ma perché il mondo è cambiato e la sinistra tradizionale appartiene al mondo di ieri. Esattamente come la destra».
 
La destra, no. Altrimenti come spieghiamo l’elezione di Trump? 
«Trump non viene dalla destra tradizionale, tanto che i repubblicani non lo volevano. La destra tradizionale non c’è più, non vengono da quella esperienza né i Grillo, né i Salvini e neppure i pro Brexit del Regno Unito, dove i Tory erano piuttosto europeisti come Churchill. L’unica forza politica un po’ riconducibile al passato è Fratelli d’Italia, che però, non a caso, conta il 2%. Allo stesso modo Renzi non viene dalla sinistra tradizionale. Tutto questo è il mondo di ieri. Basta pensare che la prima clamorosa mossa di Trump è stata riavvicinarsi a Putin e che nel frattempo Putin si è ancor più clamorosamente avvicinato alla Turchia per intuire la portata del cambiamento rispetto al quale i concetti di destra e sinistra non spiegano più niente. O capiamo che i parametri del passato sono finiti, e non per incultura ma per motivi strutturali, o andremo incontro alla catastrofe». 
 
I nuovi populismi intercettano il cambiamento in corso: saranno anche in grado di governarlo? 
«La parola populismi dice poco o nulla. Sono forze a volte più di destra, a volte più di sinistra e di sicuro non si oppongono al cambiamento in corso e non sono in grado di interpretarlo. Ma almeno rappresentano la testimonianza della fine delle politiche tradizionali e dei mutamenti radicali di questi anni. Oggi diciamo “populismi” come le antiche carte geografiche dicevano “hic sunt leones” per indicare le zone inesplorate: ci sembra che il problema siano loro ma il problema è capire dove andiamo smettendola di ragionare con gli schemi del passato». 
 
Gli schemi del passato comprendono le probabilmente obsolete categorie destra e sinistra ma comprendo anche il rapporto tra capitale e lavoro, che invece sembra ancora piuttosto attuale. O no? 
«Anche il capitale e il lavoro non sono più gli stessi. Il capitalismo si è deterritorializzato, lo Stato nazionale non ha più la sovranità politica sui flussi di capitale, il lavoro dipendente è ormai polverizzato e non si organizza più come faceva nell’800 e nel ’900 nei grandi opifici. In realtà sarebbe bastato leggere Marx con attenzione per capire come sarebbe andata a finire, ma ormai ci siamo. Le diseguaglianze globali crescono a dismisura e in modo intollerabile. Questo è un colossale problema che prima o poi potrebbe far scoppiare tutto anche perché le grandi potenze politiche non sono per loro natura capaci di affrontarlo». 
 
Cosa potrebbe fare la politica se, come suggerisce, decidesse di togliersi gli occhiali del passato? 
«Dovrebbe provare a capire e soprattutto dire la verità. Oggi il massimo che un politico può fare è essere onesto. Bisogna smetterla con le chiacchiere e invece elencare le poche cose che si possono fare illustrando come potrebbero funzionare meglio coordinandosi con altri. È assurdo continuare a sbandierare la sovranità illimitata che i politici non hanno più. Sono personalmente molto felice di questo intermezzo di Gentiloni in Italia, perché non dice un gran ché ma almeno non promette nulla».
 
Per quanto sia ancora una volta il mondo di ieri: ha ragione il filosofo sloveno Slavoj Žižek, quando sostiene che la destra cresce cavalcando i temi che un tempo appartenevano alla sinistra? 
«In qualche modo sì. Bisogna guardare ai problemi con modestia. Il lavoro non è più “massa” come quello del passato e i politici non l’hanno capito. I sindacati, per esempio, dovrebbero iniziare a occuparsi del lavoro dipendente disperso, della galassia del lavoro giovanile, del precariato a 500 euro al mese, dei cosiddetti voucher». 
 
A onor del vero qualcuno in Europa ci prova. Il francese Hamon ne parla e anche Martin Schulz si è candidato contro la Cancelliera Merkel per recuperare terreno con le classi operaie migrate dalla socialdemocrazia alla nuova destra. Non è così? 
«Sinceramente mi auguro che in Germania vinca la Merkel, speriamo che prevalga alle elezioni e diventi leader: all’orizzonte la Cancelliera tedesca è l’unica che possa farlo. Lo ripeto: nessun partito socialdemocratico può oggi vincere in Europa. È passato il tempo. Vent’anni fa Tony e Blair e Clinton interpretarono la svolta epocale accodandosi al flusso egemonico della globalizzazione vincente senza alcuna critica. Da allora è andata sempre peggio, le sinistre hanno fatto tutti gli errori possibili, dal seguire l’America nelle sue scellerate guerre alla risposta, quella risposta, alle primavere arabe. E poi ancora, la Grecia, la Brexit, una sequenza di scelte sbagliate. Accodarsi come fecero Blair e Clinton non è una scelta politica ma sub-politica».
 
C’è ancora spazio per l’ambizione dei giovani ad avere un sogno? 
«Poco. Ma è pessimo che i politici facciano finta di niente promettendo loro la sovranità illimitata che non hanno, come avvenuto in Italia negli ultimi tempi. Bisogna spiegare ai giovani come stanno le cose invece di elargire elemosina, come nel caso degli 80 o i 500 euro». 
 
Il reddito di cittadinanza è un buon punto di partenza? 
«Quella è la strada giusta. Se ci illudiamo che ci sarà di nuovo uno sviluppo capace di produrre più lavoro sbagliamo. È ancora il mondo di ieri, quello in cui si credeva che la rivoluzione tecnologica avrebbe aperto nuovi settori. È un fatto: sebbene in occidente la ricchezza continui a crescere si riducono le chance per il lavoro. Ma non per questo bisogna lasciare la gente senza le risorse minime. È una delle poche cose serie e vere dette dal Movimento 5 Stelle: bisogna sganciare le aspettative di vita dal fatto che si lavori, non è impossibile da fare né disastroso. Il reddito di cittadinanza o come altro viene chiamato passa per un’utopia mentre è un approccio pragmatico, solidale e può ricostruire una comunità».
 
Solidale, comunità: non sono parole del mondo di ieri? 
«Da Aristotele a oggi non esiste comunità che possa esistere funzionando solo come un condominio. È razionale, logico. In un condominio, ammesso che sia vero, puoi startene chiuso in casa ma in un Paese, a livello nazionale, è difficile. L’America non funziona come un condominio e neppure la Russia e la Cina: o l’Europa lo capisce e smette di comportarsi come fosse un condominio dove si fanno solo i conti comuni o ci faranno il mazzo. Dobbiamo ragionare per provare a evitare il disastro oppure siamo finiti. Parlo dell’Europa ma anche dell’Italia. Ci sono già delle avvisaglie per noi, abbiamo votato no per salvare la Costituzione e adesso sarà tutto più difficile, ci chiederanno una manovrina, vedremo. Dovremmo ricordarci della Grecia, ho letto che in tre anni di Troika la ricchezza è diminuita del 35%. E voi credete che qui potremmo reggere misure di austerità del genere imposte ad Atene? Pensate che in Italia passerebbero senza sparare? I greci hanno retto ma le condizioni sono diverse, e non parlo solo di dimensione: se cadi dal primo piano puoi sperare di salvarti ma se cadi dal terzo piano crepi». 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/31/esteri/cacciari-nessuna-sinistra-oggi-pu-vincere-in-europa-XjpZFNtE6UsNwaUCay6rNI/pagina.html


Titolo: MASSIMO CACCIARI Cacciari: «Caro Matteo, ascolta il mio consiglio…»
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 24, 2018, 11:41:35 pm
Cacciari: «Caro Matteo, ascolta il mio consiglio…»
«Non c’è alternativa a Renzi al momento. Le opposizioni non sono riuscite a creare una soluzione credibile, mi auguro che l’azione renziana prosegua»
«Non c’è alternativa a Renzi al momento. Le opposizioni non sono riuscite a creare alcuna soluzione credibile, per questo mi auguro che l’azione renziana prosegua». Massimo Cacciari non è mai stato un renziano, eppure spera senza trasporto nelle capacità politiche del nuovo segretario Pd «altrimenti il Paese potrebbe finire tra le braccia dei vari Salvini e Meloni». Che però, sottolinea, non sono la stessa cosa del Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo, per Cacciari, rimane ancora una grande incognita: «Un giorno è anti europeista e l’altro no, un giorno vuole uscire dalla moneta unica e l’altro cambia idea, un giorno dice delle cose sugli immigrati e l’altro esprime opinioni diverse. L’affidabilità del Movimento 5 Stelle, per il momento, è pari a zero».

Professore, partiamo dalle primarie. Lei ha votato?
No, non sono andato. Le primarie fatte così si riducono a un po’ di comizietti senza alcuna preparazione seria, non ci sono documenti degni di questo nome su cui sia possibile aprire un ragionamento. Si presentano solo squadre e personaggi. Non mi convincono per nulla. In più, nessuno dei tre contendenti mi sembrava adeguato.

Che partito sarà il nuovo Pd?
Sarà il partito di Renzi. La trasformazione dell’idea originaria del Pd si è compiuta. Sarà saldamente in mano al segretario che con la storia delle anime che hanno dato vita al partito non c’entra niente. Un partito nuovo. Qualcosa di analogo a ciò che è successo in Francia con Macron: sostanzialmente si tratta di movimenti personali, tutti concentrati sul leader.

Per lei il Pd non fa più parte della famiglia socialista?
Ma questo è il segreto di pulcinella. È dall’inizio che il Pd non c’entra nulla con quella tradizione. È un ibrido: né in continuità con la socialdemocrazia, né col popolarismo. Non è mai riuscito a trasformare la sua eredità in modo produttivo, è nato come assemblaggio di vecchi leader ed è naufragato come si meritava.

Dopo la vittoria, Renzi ha utilizzato la parola «umiltà». Sarà un segretario diverso rispetto al precedente, quello che voleva rottamare la “ditta”?
Sarà costretto a utilizzare un metodo diverso, altrimenti ci sarà un’emorragia continua da quel partito, come negli ultimi due o tre anni. Renzi dovrà fare i conti con alcune componenti interne e mediare. In ogni caso, per ora, il partito è saldamente nelle sue mani, perché i voti ha dimostrato di averli lui e basta. Ma certamente accontenterà, per quanto riguarda i posti in lista, le correnti.

A gazebo ancora “caldi”, è già scoppiata la polemica sui risultati reali tra renziani e orlandiani. Normali scaramucce post elettorali?

Tutte puttanate. Renzi ha stravinto come era previsto, punto e basta. È chiaro che per Orlando, Emiliano e ancor di più per Franceschini, che è il vero pericolo per Renzi, si porrà la questione di ottenere il massimo dal capo.

Ci saranno altre fuoriuscite dal Pd?
Se in tanti verranno fatti fuori dalle compilazione delle liste è possibile.

Ora però si pone il problema delle elezioni, quelle vere. E con ciò che resta dell’Italicum legge elettorale è probabile che non vinca nessuno…
Con l’attuale legge elettorale sarà possibile solo un governo di coalizione. Renzi vuole un sistema che premi in maniera consistente la lista maggioritaria, sfidando su questo terreno il Movimento 5 Stelle che la pensa allo stesso modo. Ma il segretario è disposto a votare anche con una legge sostanzialmente proporzionale, alleandosi dopo con Berlusconi se necessario. Credo che alla fine proveranno a modificare leggermente la legge per renderla omogenea nei due rami del Parlamento, ma il premio alla coalizione lo vuole solo Forza Italia per obbligare la Lega a rimanere alleata.

Renzi, a differenza dello sconfitto Orlando, esclude alleanze a sinistra con chi è uscito dal Pd. È un errore di valutazione o una chiusura scontata?
Come si fa a dialogare il giorno dopo della scissione? Il dialogo riprenderà se ci sarà il problema di formare il governo. Se i voti della sinistra sinistra saranno necessari, il segretario del Pd non avrà alcuna difficoltà a riaprire il dialogo. Il problema, però, è capire cosa cosa vuole fare Renzi da grande. Perché se si ostina con l’idea “premier o morte” gli scenari si complicano.

Pensa che Renzi possa rinunciare alla premiership in caso di vittoria?
Difficile, lui ha quel carattere lì, ma prima di perdere tutto ci penserà due volte. Di certo, giocherà d’azzardo fino all’ultimo, cercherà di fare il premier con qualunque coalizione, ma è difficile che provi un colossale bluff rischiando di rimanere con niente in mano.

Pochi giorni fa, Marco Travaglio ha spiazzato tutti proponendo un’alleanza di governo Pd- 5Stelle. È solo un’ipotesi originale o una possibilità concreta?
È possibile, lo dico anch’io da mesi, però solo ad alcune condizioni: Renzi dovrebbe rinunciare al premierato, il Movimento 5 Stelle dovrebbe battere il Pd alle elezioni e dovrebbe mettersi in moto un processo di avvicinamento tra i due partiti da qui alle Politiche, altrimenti apparirebbe come un tradimento clamoroso dell’elettorato.

Pd e M5S, in una campagna elettorale perenne, continuano a scambiarsi attacchi violentissimi. Sembra complicato immaginarli alleati…

È molto complicato, però non si può escludere. Primum vivere deinde philosophari, questa volta i grillini non possono permettersi il lusso magari di vincere e di rinunciare a governare. Difficilmente verrebbero perdonati.

Come potrebbe il Pd sostenere il suo più acerrimo avversario, e viceversa, proprio mentre i due partiti si allontanano su temi fondamentali come l’immigrazione?
Ormai i partiti sono privi di ogni ubi consistam, di ogni fondamento strategico, ideologico e sociale. È l’epoca del trasformismo scatenato, quindi tutto è possibile. Per un governo Pd- M5S è necessario che si verifichino le due variabili di cui parlavo prima: che Grillo vinca le elezioni e che Renzi rinunci a Palazzo Chigi. Il resto è solo questione di abilità politica che consenta ai due partiti di avvicinarsi sotto qualche forma. O su qualche tema, che potrebbe essere la politica del lavoro.

Anche su questo tema Pd e 5 Stelle sembrano distanti anni luce. Grillo propone il reddito di cittadinanza, Renzi risponde col lavoro di cittadinanza…
Sì, è vero, ma per entrambi si pone la questione decisiva di fornire una risposta seria al problema dell’occupazione e del reddito. Questo sarà un tema determinante anche dal punto di vista dell’appeal elettorale. Certo, c’è il tema dell’immigrazione e quello della sicurezza, ma ciò che deciderà l’esito del voto saranno le questioni sociali, economiche, occupazionali.

Quanto peserà il voto francese sulle elezioni italiane?
Tanto. Come peserà tanto anche il voto tedesco, se arriverà prima di quello italiano. Credo che alla fine condizionerà il nostro dibattito in senso conservativo, favorirà Renzi e le forze di governo.

Da - http://ildubbio.news/ildubbio/2017/05/03/cacciari-caro-matteo-ascolta-il-mio-consiglio/


Titolo: MASSIMO CACCIARI Non ci sono alternative: questo Pd va sciolto
Inserito da: Arlecchino - Aprile 14, 2018, 06:23:19 pm
Non ci sono alternative: questo Pd va sciolto
I democratici dovevano rinnovare la sinistra e invece l’hanno riportata al passato tenendola bloccata su divisioni figlie di tradizioni superate. E no, non possono stare insieme quelli che vogliono dar voce ai nuovi sfruttati e quelli che cercano voti nell’elettorato filo berlusconiano

DI MASSIMO CACCIARI
09 aprile 2018

L’attuale afasia e immobilità anche tattica del Pd rappresentano la fase ultima di quella storia che i miei venticinque lettori mi hanno ascoltato ripetere da un decennio a questa parte. C’è oggi chi ciancia di un’identità da ritrovare. Ma quale identità può ritrovare chi mai l’ha avuta? Un po’ di memoria non guasterebbe.

Mi rendo conto che è difficile averla se certe vicende non si sono vissute dall’interno; la politica si impara anche facendola. E chi l’ha fatta alla fine dello scorso decennio ha sperimentato in corpore vili, cioè sulla propria pelle, come il Pd nascesse da due sub-culture politiche ormai entrambe asfittiche, logorate, incapaci di ripensarsi criticamente. Fosse stata soltanto un’unione “a freddo”, come dicono ancora benevoli critici! Era in realtà il tentativo di comporre due correnti esaurite: una quasi-socialdemocrazia (una forza che da tre decenni tentava invano di farsi socialdemocratica, come Napolitano sa bene), completamente spiazzata di fronte alle trasformazioni del sistema sociale di produzione e delle forme del lavoro al suo interno - e terze file della tradizione cattolico-popolare, tenute sostanzialmente insieme soltanto dalla leadership prodiana. (I pochi veri protagonisti del “popolarismo”, tipo De Mita, seguivano un po’ dall’alto con sufficienza e ironia la navicella degli scadentissimi eredi). Forse all’inizio i Fassino e i Rutelli, segretari Ds e Margherita, erano i più consapevoli di queste strutturali debolezze dell’operazione e della necessità di aprire una vera fase costituente, programmatica e aperta.

Ma troppo modesti, troppo deboli rispetto ai loro azionisti di maggioranza, i quali altro non volevano che tenere in pugno l’azienda, certi che il nemico fosse solo il Cavaliere. La disperata ricerca del leader travolse ogni riflessione e condusse inesorabile a Renzi, cui va se non altro il merito di non avere nulla a che spartire con le “sensibilità” che avevano condotto al partito mai nato, cioè al Pd.

Il caso Renzi sconta tutti i limiti di qualsiasi politica “entrista”: se la conquisti dall’interno ti trovi un’organizzazione già in qualche modo formata e puoi godere di ampie rendite, ma la sua metamorfosi a tua immagine e somiglianza risulterà poi diecimila volte più ardua. E guai comunque, una volta che la vittoria appaia sicura, logorarsi in diatribe, incomprensibili per l’inclito pubblico, con gli sconfitti. Renzi esprimeva un indirizzo culturale e politico egemonizzato dalla narrazione sulle meravigliose sorti che attendevano Paese e Globo grazie all’avvento delle nuove tecnologie, e sulla necessità di adeguare i tempi e i modi della politica a quelli della azione e della decisione economico-imprenditoriale. Anche nelle forme espressive si trattava di una versione aggiornata, più credibile su certi slogan solidaristici, più simpatica esteticamente, della strategia berlusconiana.

Le sue potenzialità di penetrare nel campo elettorale di Forza Italia apparvero subito. E subito si comprese che Renzi non avrebbe potuto sfruttarle. Il Pd impediva a Renzi di svolgere con chiarezza e coerenza la propria partita. Così come impediva agli oppositori di Renzi, al suo interno, di svolgere la loro. Si potrà dire: l’uno e gli altri avevano una idea molto oscura sul che fare. Renzi ha iniziato a sentirsi un potenziale Macron troppo tardi, e comunque dopo l’esempio dell’amico francese. La sinistra nel Pd restava incatenata a ipotesi di Stato sociale-assistenziale condannate da decenni di crisi fiscale (in tutto l’Occidente) e a una difesa semi-reazionaria dell’assetto istituzionale e amministrativo vigente. La fortuna ha voluto, almeno, che la sua antica leadership venisse finalmente spazzata via insieme a Liberi e Uguali.

Una sinistra può nascere soltanto dalla fine del colossale equivoco rappresentato dal Pd. E altrettanto una forza di centro capace di sottrarre voti e consensi all’egemonia leghista. Il Pd come sigla può anche sopravvivere, ma solo rappresentando una delle due parti. Continuare da separati in casa significa continuare a suicidarsi. Quante prove occorre ancora accumulare per convincersene? E quale sinistra? Intanto, una che cessi di credere che basti evocare il nome per significare qualcosa.

Dire sinistra oggi è come dire democrazia. Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Della cosa si tratta, e non di nomi. Si tratta di dar voce, rappresentanza sindacale e politica, garanzie previdenziali alle miriadi di nuove forme di lavoro che di indipendente non hanno che la partita Iva; si tratta di smantellare il sistema amministrativo-burocratico del Paese, che grava sui nostri conti, sulle nostre imprese e sulle possibilità di investimenti dall’estero più di centomila terremoti; si tratta di riprendere con forza un disegno di sistema in merito alle riforme: è necessario abolire davvero Senati e Provincie, è necessario davvero accorpare funzioni e servizi tra Comuni, è necessario davvero disboscare l’intrico delle società partecipate, dove l’interesse politico scorrazza dietro la foglia di fico del diritto privato.

Se c’è qualcuno nella sinistra Pd che ha questo in mente, si faccia avanti, lo dettagli, ne costruisca un programma di governo. Si vuol passare attraverso un Congresso? Bene; se ne definisca al più presto la data; lo si organizzi nel modo più aperto chiedendo a tutti gli interessati anche non iscritti di contribuirvi e garantendone una rappresentanza. Come si fece, si parva licet …, al congresso che pose fine alla storia del Pci.

Il Partito Democratico è nato con l'obiettivo di essere un partito di governo. Ma ora riscopre un ruolo di minoranza. Ma per fare cosa, per essere chi? È il momento di ripensare tutto
Dal Pd di questo decennio occorre comunque uscire. Altrimenti? Altrimenti è probabile, come il 4 marzo ha già indicato, che lo spostamento di opinioni e voti dall’area Pd all’area Cinque Stelle continui - così come, parallelamente, quello da Fi alla Lega. Altrimenti è probabile che il bipolarismo si vada riformando, dopo magari un’esperienza di governo comune, che è arduo ipotizzare abbia lunga vita, tra una destra-destra leghista (capace di mettere la sordina ai suoi vaneggiamenti anti-europeisti e sovranisti), e un centro-sinistra pentastellato. Con possibili momenti di Grosse Koalition all’italiana tra i due. Tutto sommato, operazione più facile ai Cinque Stelle che a Salvini: Salvini deve guadagnarsi una buona fetta ancora di elettorato berlusconiano - e potrebbe incontrare sulla sua strada un rinnovato Renzi -, mentre nulla vieterebbe a Di Maio, soprattutto sui temi fondamentali del lavoro e della difesa dei redditi più bassi, di lanciare una sfida aperta alla sinistra Pd.

Dove sono finiti, d’altronde, socialisti e comunisti greci e spagnoli? O la sinistra significa cultura di governo, approccio sistemico ai problemi di riforma, competenza, autorevolezza - e allora può chiedere anche sacrifici, vero ex Pci? - oppure il suo destino è la liquidazione nell’ampio seno dei movimentismi, dei populismi e delle politiche d’occasione.

© Riproduzione riservata 09 aprile 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/04/09/news/non-ci-sono-alternative-questo-pd-va-sciolto-1.320313


Titolo: Re: MASSIMO CACCIARI
Inserito da: Arlecchino - Maggio 03, 2018, 09:00:51 pm
Massimo Cacciari: "I 5 Stelle hanno fatto una figura di m...."

Il filosofo critica la posizione dei pentastellati sul governo e la premiership di Luigi Di Maio

By Huffington Post

"Se si tornasse al voto potrebbe cambiare qualcosa: i Cinquestelle hanno fatto una figura di merda, la loro posizione di poter fare il governo con uno o con l'altro purché con la premiership di Di Maio non gli ha fatto fare un figurone.

Basta vedere i risultati, anche in Friuli".

Ospite di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari a Un Giorno da pecora, il filosofo Massimo Cacciari fotografa così la situazione politica dopo il niet di Renzi ai 5 Stelle e il successo della Lega in Friuli.

Da - https://www.huffingtonpost.it/2018/04/30/massimo-cacciari-i-5-stelle-hanno-fatto-una-figura-di-m_a_23423688/


Titolo: MASSIMO CACCIARI L'arte del buon governo. Sapere e Potere nemici fraterni
Inserito da: Arlecchino - Maggio 10, 2018, 09:10:52 pm
9 MAG/18
Articolo di Massimo Cacciari (Repubblica 9.5.18)

L'arte del buon governo. Sapere e Potere nemici fraterni

“” Per quanto in molti idiomi i termini che indicano il potere e il sapere sembrino indicare una comune radice, nessuna relazione si presenta in realtà meno facilmente districabile, più complessa. Ma come? Non accade proprio nell’età contemporanea che il sapere, in quanto scienza, raggiunge il massimo del proprio potere, determinando non solo la forma dei rapporti di produzione, ma quella della vita stessa? Una universale Intelligenza, un Intelletto Agente dispiegato sull’intero pianeta, va producendo da qualche secolo un’ininterrotta rivoluzione, che informa di sé ogni aspetto della nostra esistenza. E tuttavia questa formidabile Scienza è co- sciente, e proprio nei suoi esponenti più rappresentativi, che ciò che essa produce continua a non essere in suo potere, continua a trasformarsi in proprietà altrui. Quella libertà, senza di cui la Scienza mai avrebbe potuto o saputo conseguire i suoi formidabili successi, non sa di per sé diventare energia liberante per tutto il nostro genere. I suoi prodotti, di cui non dispone, tendono all’opposto a trasformarsi in fattori di asservimento e omologazione. Il problema diviene allora quello del rapporto tra il sapere e il potere politico. E ne nascono le seguenti domande: sta nell’essenza del sapere rivolgersi al potere politico per informarlo di sé? Se la risposta è affermativa, il sapere avrebbe allora il dovere di impegnarsi politicamente, e cioè di provare a detenere un potere effettuale. Ma quale sapere? Quello propriamente scientifico? O un altro genere di sapere? Il paradigma di un sapere che si pretende epistemicamente fondato e che su tale fondamento intende edificare la Città, rimane quello platonico. Se la Città vuole stare, non ridursi a una navicella su cui sono imbarcate pecore senza pastore, o peggio mascherate tutte da nocchieri, è necessario che essa sia imitazione dell’anima bene educata, e cioè governata dalla sua parte razionale. La Scienza soltanto può unificare il molteplice, conferire ad ogni parte il suo significato e la sua missione, imporre la superiorità del Tutto sulle parti stesse. Nulla è più irragionevole di voler razionalizzare le umane vicissitudini – obbietterà Leopardi.
E in fondo già Aristotele l’aveva sostenuto: mai la Città sarà riducibile ad Uno; la sua forma è un divenire da governo a governo e all’interno di ciascuno la pace non può che essere armistizio. La politica è sì chiamata alla costituzione di un ordine, corrispondente alla stessa natura politica dell’animale uomo, ma quest’ordine non sarà mai quello dei principi e delle leggi che le proposizioni della Scienza sanno esprimere. Quello del Politico è il regno insicuro del per lo più, impotente ad accordare il governo ai principi universali e necessari del sapere. E quest’ultimo, a sua volta, impotente a edificare la Città a vera immagine della coerenza e consistenza del proprio discorso.
Così la virtù politica non andrà confusa con la bontà del vero sapiente. Un’arte della temperanza e della mediazione è richiesta al politico, un’arte che rimarrà sempre estranea alle forme e ai fini della scienza. La riflessione dell’Occidente sul Politico si orienterà sul realismo aristotelico, tuttavia senza mai dimenticare la “nostalgia” platonica per la Kallipolis, per la città bella- e- buona, perfettamente “in forma”.
Tale “nostalgia” si esprime in tutte le varianti della concezione dello Stato come suprema realizzazione della libertà individuale, della sovranità come accordo o sintesi degli interessi in conflitto, della società politica come immagine della civitas in interiore. Qui il sapere filosofico-scientifico vorrebbe ancora esprimere i principi che fondano la sicurezza dello Stato. È questo sapere soltanto che può trasformare l’ostinata ricerca del proprio privato interesse in quella del Bene comune.
Il sapere del Politico si è specializzato come ogni altro. Esso riguarda come acquisire il governo e come durare in esso. Quale sapere presuppone quest’arte? Analisi delle cose come sono e non come crediamo dovrebbero essere; conoscere perciò la insocievole socievolezza della natura umana, che rende necessario lo Stato in quanto misura coercitiva; in base alle regolarità che emergono dallo studio dei cicli politici, saper prevenire i pericoli che corre l’esercizio del potere e prevederne gli sviluppi. Si tratta di un sapere probabilistico e congetturale.
Gli ordini che riesce a costruire saranno sempre più deboli della Fortuna. Questo il solo sapere necessario al governante! E a questo sapere vorrebbe educarlo colui che sa! Ma ecco che il potente lo respinge, lo esilia. Eppure si tratta di un sapere affatto ragionevole nei suoi limiti, del tutto disincantato.
Non induce ad alcuna Magia (magia significa Potenza); è ben cosciente che il Prospero della Tempesta è tanto imbelle al governo, quanto a redimere la cattiveria dei suoi simili. Perché allora il potente non lo ascolta? Forse perché nessun sapere riesce a intendere la natura irrimediabilmente doppia del potere. Non è l’analisi del vero effettuale a costituirne l’essenza, bensì la decisione. La decisione rivolta a qualcosa di soltanto possibile, indistricabilmente connesso al dover-essere.
Ma per “convertire” al dover-essere è necessario qualcosa di tutt’altro genere rispetto al sapere. È necessaria fede nei propri fini; è necessario convincere ad essa chi ascolta. Anche per edificare l’ordine contingente del governo politico risulta dunque necessario il rimando a un ordine di idee che ne trascende il limite. Il sapere sembra arrestarsi di fronte all’intima tragicità dell’agire politico. La pallida ombra del pensiero, la cui dimensione è quella del metodico dubbio, che solo l’evidenza razionale risolve, arresterebbe o ritarderebbe la decisione politica. Il tempo del Politico non è quello del sapere – e però neppure possono astrattamente separarsi, poiché entrambe le professioni, quella del politico e quella dello scienziato, intendono scoprire o scovare ordini possibili nel mescolarsi e rimescolarsi incessante dei casi della vita. Al di là di ogni salvifica magia, così come di ogni sterile amletismo, ci sia cara la loro fraterna inimicizia.””

Da - http://www.iniziativalaica.it/?p=39286#more-39286


Titolo: MASSIMO CACCIARI La Grande crisi. Al punto di non ritorno
Inserito da: Arlecchino - Giugno 11, 2018, 04:47:56 pm

8 GIU/18

La Grande crisi. Al punto di non ritorno

Articolo di Massimo Cacciari (espresso 3.6.18)

“Qualcosa di irrimediabile è già avvenuto: la fine del linguaggio proprio del confronto. Siamo tornati a un pensiero infantile, incapace del linguaggio proprio del confronto. Incapace di discussione pubblica”

“”Com’è stato possibile giungere a una crisi istituzionale di queste proporzioni? C’è stato, certo, chi sul fuoco ha soffiato fino a far divampare l’incendio, ma c’è stato anche chi l’ha, magari per ignoranza o incoscienza, appiccato. E chi non è intervenuto in tempo per spegnerlo. Spiegare questa crisi con i Salvini e i Di Maio è peggio che ridicolmente semplice, ci impedisce di vederne la natura strutturale: la catastrofe di un sistema politico incapace da trent’anni di qualsiasi seria riforma. Prevedere come la situazione potrebbe evolversi è pressoché impossibile, stante l’irragionevolezza dei comportamenti di tutti o quasi i protagonisti. Si riformerà la coalizione Salvini-Berlusconi? Assisteremo, bontà anche del Pd, a una definitiva svolta a destra dei 5 Stelle e a un asse con la Lega fino a qualche mese fa impensabile? Come uscirà il Quirinale dallo scontro? Faremo da grande laboratorio alla prima affermazione di una “destra di massa” in Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale? E chi dovrebbe opporvisi saprà frenare i propri impulsi autodistruttivi? Comunque vada a finire o a iniziare, qualcosa di irrimediabile è già avvenuto. Temo si sia ormai giunti a un punto di non ritorno. E questo riguarda il linguaggio stesso della politica, quel linguaggio che è lo strumento essenziale con il quale possiamo comunicare, intenderci e fra-intenderci, quel linguaggio che è l’arma fondamentale della democrazia, poiché essa è tutta pervasa dall’idea che attraverso la parola ci si possa convincere, che il discorso possa argomentare sulla realtà delle cose in forme tali da essere più forte di ogni violenza o prepotenza.

Questa crisi minaccia di rappresentare la tomba di ogni sforzo per rendere quanto più possibile ragionevole e responsabile il discorso politico. Si tratta di ben altro che della resa incondizionata alle forme di fumettistica gestualità dei social, che sotto la maschera della semplicità e trasparenza occultano perfettamente finalità e fattori della lotta politica. Si tratta, ancora, di un guasto ben più grave di quello derivante dalla retorica dilagante da decenni su rottamazioni e nuove repubbliche al canto di «Giovinezza, giovinezza…». Si tratta dell’affermarsi di una generale forma mentis infantilmente regressiva, drammatico sintomo di una crescente e generale impotenza della politica a comprendere e governare i processi economici, sociali e culturali del nostro mondo fattosi davvero finalmente e compiutamente Globo. Regressiva è l’idea di “ciascuno padrone a casa propria”. Peccato che neppure Trump sia padrone a casa sua: la Cina detiene metà del debito Usa. E non lo è la Cina, dipendente dagli Stati Uniti che comprano i suoi prodotti. L’idea di un’astratta autonomia, di sovranità astrattamente “libere”, è propria dei bambini, di coloro che per crescere debbono in qualche modo fingerla proprio nel momento in cui massimamente dipendono dagli altri. Conseguente e complementare ad essa è sempre la rivendicazione della propria innocenza. Le cose non vanno perché altri ci sfruttano, ci dominano, fanno i padroni in casa nostra. Reo è sempre l’altro. «Non sono stato io» ad ammassare negli anni questo debito pubblico o a non riuscire a ridurlo. «Io non c’ero» quando ogni disegno di riforma falliva. E l’insicurezza che avvertiamo, reale e profonda, non deriva dal fallimento di ogni politica industriale, occupazionale etc: no, deriva dallo “straniero che ci invade”. Colpevoli tutti, fuorché io: questa la regola che si impone in quel che fu il linguaggio politico. E chi semina vento raccoglie tempesta – vero Renzi? Ma l’aspetto più regressivo che si va imponendo sulla scena politica nostrana (e non solo, purtroppo) riguarda l’idea stessa di democrazia.

Ridotta a idolatrico culto della maggioranza. “Contata” la maggioranza tutto è fatto. I bambini non sanno che le democrazie sono tanto più forti quanto più le maggioranze politiche sono bilanciate da funzioni e poteri autonomi e forti. La democrazia è il regime in cui la maggioranza ha la responsabilità di decidere, ma nel pieno riconoscimento della rappresentatività e dell’imprescindibile ruolo delle stesse minoranze. Una maggioranza che ama il “plausus armorum” degli eserciti romani, non è una maggioranza democratica. La maggioranza non diventa il popolo tutto in lotta contro privilegi e palazzi, vindice sovrano dei crimini commessi da minoranze privilegiate. Questo è lo schema che in altre epoche avrebbe portato diritto a soluzioni autoritarie. Il Terzo Stato è tutto – dicevano i rivoluzionari del 1789; il voto altro non fa che mostrare quella che è la volontà generale; una volta che nel voto essa si sia manifestata, tutti devono farla propria! La voce della maggioranza esprime “il vero Io” di ciascuno. Rousseau docet, direbbero Casaleggio e Associati. E invece no, amici: questo è il rovesciamento parodistico del vostro preteso maestro.

Consiglio in proposito la lettura di un aureo libretto uscito nel 1927, scritto da un antifascista vero, Edoardo Ruini, e ancora disponibile nella ripubblicazione di Adelphi. Si intitola “Il principio maggioritario”. Si capisce come Rousseau pensasse a un cittadino che partecipa consapevole e informato alle assemblee che deliberano, a un cittadino che ha potuto formare un proprio pensiero critico nella discussione pubblica. Non all’iscritto a “piattaforme” controllate non si sa da chi e non si sa come. Il “citoyen” rousseauiano si è trasformato con l’ideologia 5 Stelle nel più perfetto individuo “bourgeois”, in un navigante solitario in un oceano di chiacchiere, slogan, opinioni, promesse. Perfetta educazione a quei sentimenti di frustrazione, invidia, risentimento che distruggono non solo la democrazia, ma la possibilità stessa di formare una comunità. Ma questo non riguarda soltanto tali miseri, pretesi rousseauiani; l’interpretazione delirante del principio di maggioranza ha riguardato, seppure in forme diverse, tutti gli attori degli ultimi trent’anni di storia patria. I guasti provocati dal regressivo infantilismo del linguaggio politico sono ovunque presenti e hanno ferito a morte le forme della comunicazione e del dialogo tra le forze in campo. E ci vorrà tutta l’intelligenza delle prossime generazioni per cercare di guarirne.””

DA - http://www.iniziativalaica.it/?p=39577#more-39577


Titolo: Pd, Cacciari bacchetta Renzi: ''Va in giro per il mondo a fare conferenze?
Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2018, 04:43:12 pm
4 GIUGNO 2018

Pd, Cacciari bacchetta Renzi: ''Va in giro per il mondo a fare conferenze? Andrebbe sculacciato''

"La sinistra va riformata, bisogna creare una nuova classe dirigente che non abbia partecipato ai disastri di questi anni. Calenda leader? Ma perché, è di sinistra? Io punterei su Zingaretti". Così il professor Massimo Cacciari, a Milano per un'iniziativa organizzata da Fonti credibili alla Santeria, descrive la situazione delle forze progressiste in Italia. E all'annuncio di Matteo Renzi di sparire per qualche mese dalla politica per andare in giro per il mondo a tenere conferenze, risponde: "Renzi andrebbe sculacciato, ormai è tardi per allontanarsi dalla politica. Doveva farlo dopo il referendum".
 
Di Antonio Nasso



Titolo: MASSIMO CACCIARI l’appello agli intellettuali per salvare l’Europa: “Siamo ...
Inserito da: Arlecchino - Agosto 10, 2018, 01:50:36 pm
Cacciari, l’appello agli intellettuali per salvare l’Europa: “Siamo diversi da Saviano, vogliamo essere pragmatici”
L'ex sindaco di Venezia, su Repubblica del 3 agosto, ha promosso l'iniziativa assieme a Enrico Berti, Michele Ciliberto, Biagio de Giovanni, Vittorio Gregotti, Paolo Macrì, Giacomo Manzoni, Giacomo Marramao, Mimmo Paladino. E precisa: non “generiche adesioni”, ma contributi per un nuovo Pd

Di Fabrizio d’Esposito | 8 agosto 2018   

Professore lei fa l’appello. Contro il pericolo sovranista in tutta Europa.

Anzitutto tengo a precisare che è stato scritto con altri colleghi amici. Su Repubblica è uscito male, sembrava quasi un articolo mio, e sono saltati inspiegabilmente i nomi di altri due autorevoli sottoscrittori, quelli di Maurizio Pollini e Salvatore Sciarrino.

Oltre a riparare alle omissioni, nella sua seconda “puntata” dell’altro giorno, lei precisa di non volere “generiche adesioni”, ma individua prassi e metodo, quasi a temere una deriva firmaiola fine a se stessa.

Infatti la nostra è una chiamata concreta, contro il pericolo di una vittoria di questa destra regressiva alle prossime elezioni europee. Non basta una firma.

Un manifesto pragmatico di intellettuali.

Ognuno promuova iniziative all’interno del proprio settore di appartenenza. Bisogna declinare tutti i problemi a livello continentale, non solo quelli economico-finanziari. Pensi alla scuola.

Fondamentale.

La scuola, la formazione sono colpevolmente assenti da questo governo. Noi ci rivolgiamo a tutti: imprenditori, insegnanti, politici e così via.

Il professore Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, su Repubblica del 3 agosto scorso, ha promosso un appello con Enrico Berti, Michele Ciliberto, Biagio de Giovanni, Vittorio Gregotti, Paolo Macrì, Giacomo Manzoni, Giacomo Marramao, Mimmo Paladino. Indi, l’altro giorno, il 6 agosto, un’appendice per invitare a non fare “generiche adesioni”, ossia a non farsi contagiare dal classico virus presenzialista della sinistra firmaiola, senza sbocchi.

Il vostro punto di partenza è la mancanza di una seria opposizione.

È chiaro che ci si muove perché non c’è nessuna opposizione. Questo lavoro che vogliamo organizzare dovrebbe essere svolto da una grande forza politica d’opposizione.

Facciamolo questo nome: il Pd.

Il senso di questo documento è quello di risvegliare gli assenti, costringere il Pd a dire cosa intende fare, oltre a una sporadica opposizione parlamentare, di quando in quando. Questa è la domanda.

Lei in un’intervista al Fatto di poche settimane fa ha detto che il Pd si salva solo senza i vecchi capi.

È evidente, se non c’è discontinuità, se ci ripresenta con le stesse facce che hanno provocato il disastro, non c’è sbocco.

Il vostro appello resta comunque in quel campo.

Che piaccia o no, il Pd è il principale interlocutore. Non credo che possano nascere nuove forze politiche da qui alle elezioni europee. La nostra speranza è che si mettano in moto anche dinamiche di discontinuità nel Pd.

E il vostro contributo pragmatico?

Deve entrare in un confronto articolato per un congresso vero e aperto, non stabilito a tavolino. Non è una novità questa, è accaduto pure dopo lo scioglimento del Pci. Noi vogliamo aiutare la formazione di un nuovo gruppo dirigente. La mia storia dimostra che non sono uno che aiuta a disfare e basta.

I nomi?

C’è Cuperlo che ha già risposto con un articolo all’appello, c’è Orlando, c’è il governatore del Lazio Zingaretti. E poi ci sono da recuperare Tito Boeri, Fabrizio Barca, Lucrezia Reichlin. L’importante è che ci sia una drastica rottura con il renzismo e tutto il resto.

Nel frattempo voi fate i supplenti. Intellettuali nel senso più gramsciano del termine.

Un intellettuale sa perfettamente che non può essere un supplente della politica. Noi vogliamo fare pressione in un momento drammatico. Ma come si fa a non capire quello che sta succedendo? L’Europa rischia il suicidio.

Da Salvini all’ungherese Orbán.

Attenzione, io non li condanno Salvini e Orbán. Tutto questo è arrivato per un assurdo allargamento dell’Ue a Paesi che non avevano ancora compiuto il loro Risorgimento nazionalista. Quell’allargamento è stato astratto, astorico, direi massonico. Questo per dire che il nostro non è un approccio moralistico, ma improntato al realismo.

A differenza di altri appelli.

Noi non indossiamo alcuna maglietta. Con Saviano abbiamo vari punti in comune, ma il suo approccio è di tipo morale contro Salvini. Il nostro documento è diverso da quelli che se la prendevano con Berlusconi. Realismo significa che qui ci sono in gioco interessi materiali. Se si chiudono gli spazi per uomini e merci, se prevalgono gli interessi degli staterelli, l’Europa è spacciata.

Salvare l’Europa, sia dai burocrati, sia dai sovranisti.

Il nostro è un appello contro questa politica fatta dagli incompetenti, fatta da persone che non sanno un cazzo. Vogliamo uno spazio politico unificato, non identitario.

L’opposizione parlamentare non fa altro che aspettare la fine della luna di miele del governo Conte.

Mangiando popcorn.

Esatto.

Ecco: io penso che la catastrofe di questo governo sia possibile ma non faccio il tifo perché avvenga. Io non mi auguro catastrofi, anche perché se l’opposizione continua a mancare meglio tenerci questo governo.

Realismo a oltranza. Però adesso siete anche voi in campo. Altre adesioni?

Bernardo Bertolucci, Gennaro Sasso. Mi hanno chiamato da Bologna altri amici interessati ai problemi della formazione.

Lei, di solito non brilla mai per ottimismo.

Siamo sulla soglia pure stavolta. Al momento sono voci ancora essenzialmente di intellettuali.

Il cammino è lungo ma il tempo è pochissimo e non bastano solo le firme generiche.

Speriamo di muovere qualcosa.

Altrimenti.

Non lo so.

Da - https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/siamo-diversi-da-saviano-vogliamo-essere-pragmatici/


Titolo: MASSIMO CACCIARI Abbiamo chiesto ad alcune nostre firme diverse per cultura ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2018, 05:52:29 pm
Abbiamo chiesto ad alcune nostre firme diverse per cultura ed esperienza di segnalare la loro parola-chiave, un segno di luce per provare a trovare una speranza per il futuro.
Segnalateci la vostra

DI MASSIMO CACCIARI
10 ottobre 2018

Nessun “noi” è autorizzato a parlare a nome del mio “Io”. È questo il detestabile “Noi” cosi volentieri in bocca a leader e pseudo-leader, a detentori di verità o post-verità, ai “veri” rappresentanti del Popolo o della Gente. Si tratta del “Noi” plurale maiestatis, in cui Tutti dovrebbero ritrovarsi e abbracciarsi armoniosamente. A questa figura totalitaria va opposta la comunità degli Io, la ricerca della loro relazione senza confusione, senza che nessuno perda o dimentichi la propria singolarità. Ogni insieme che non si costituisca sulla base di un tale principio è destinato a trasformarsi in un oscuro grumo, manipolabile da qualsiasi pifferaio o burattinaio.

Ma dall’Io in quanto tale non si passa per miracolo alla comunità. Soltanto da quell’Io che è capace di chiamare l’altro col Tu, che non vede nell'altro l’avversario, l’ostacolo, lo scandalo, ma il Tu - che si fa prossimo dell’altro per giungere a chiamarlo Tu. E che con questo nome potrà essere a sua volta chiamato. L’Io è veramente tale quando viene chiamato Tu dall'altro. La singolarità del mio Io è tale quando cosi la scopro comparandomi al Tu dell’altro. Altrimenti non sono questo Singolo, unico nel proprio valore, non scambiabile con nessuno, merce o strumento di nessuno, ma soltanto un punto indistinto, un granello di sabbia nella indifferenza del Tutto.

Se e soltanto se ognuno riuscisse a “dare del Tu” all’altro e a ritrovare se stesso proprio in questo dare-donare, saremmo autorizzati a usare il Noi. Idea che appare semplice e che forse, invece, è in realtà sovrumana. È l’idea che regge l’intera struttura del Paradiso di Dante: tutti santi nel suo amplissimo abbraccio, tutti insieme beati nell’amore contemplativo del Signore e amici gli uni con gli altri, eppure ognuno si manifesta in un suo luogo, eterno nel suo volto proprio, nel suo nome, nella sua opera, ognuno inconfondibile nella sua preziosissima, inalienabile singolarità. È l’Inferno in terra dove la maledetta lupa dell’invidia, dell’avarizia, della libido di dominare, genera continuamente masse, indifferenza, confusioni, grumi. Ma a differenza che in quello di Dante, nel nostro è forse ancora possibile lottare e sperare in nome del Tu.

Da - http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2018/10/10/news/noi-e-tu-la-parola-per-uscire-dal-buio-di-massimo-cacciari-1.327660


Titolo: MASSIMO CACCIARI E LA LUMPENFOBIA di ANTONIO VIGILANTE
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 19, 2019, 02:28:17 pm
MASSIMO CACCIARI E LA LUMPENFOBIA
   
ANTONIO VIGILANTE
17 gennaio 2019

Ho seguito oggi il convegno La discriminazione razziale fra diritto, etica e scienza presso l’Università di Siena. Mentre la sessione mattutina aveva un carattere tecnico giuridico, quella pomeridiana, su Politiche razziali, verità scientifica ed etica della dignità umana, comprendeva relazioni del genetista Telmo Pievani, del filosofo Massimo Cacciari e del giornalista Gad Lerner.
Non essendo né giurista, né scienziato, scrivo a caldo due righe sulla relazione di Massimo Cacciari. Il cui discorso per comodità sintetizzo nei seguenti punti:

1) Il razzismo è una ideologia. Qualsiasi dimostrazione scientifica sull'inesistenza della razza (sulla quale verteva il bell'intervento di Telmo Pievani) non coglie il punto. Ad una ideologia razzista bisogna contrapporre una ideologia antirazzista.

2) Questa ideologia antirazzista deve partire dalla dignità umana, che la nostra civiltà europea ha elaborato più di qualsiasi altra, sia nell'illuminismo che nella tradizione teologica cristiana.

3) La dignità dell’uomo consiste nella sua possibilità di essere causa sui, nel suo non essere determinato dalla natura, ma di potersi scegliere liberamente.

4) Se la dignità umana consiste in questo, allora ogni volta che si chiude qualcuno in una definizione (tu sei questo) si sta offendendo la sua dignità. Ma il razzismo consiste appunto nel ridurre qualcuno alla sua presunta razza.

5) La libertà non è solo un diritto, ma un dovere. Io devo essere libero, devo corrispondere alla mia dignità.

6) La libertà non comporta alcun solipsismo. Io sono libero, ma presto scopro che non posso essere libero se non grazie e attraverso gli altri. Dunque non posso riconoscere la mia libertà senza riconoscere al contempo la libertà altrui.

Vediamo questi punti. Lasciamo per ora da parte il punto 1), e vediamo il punto

2) Le affermazioni sul primato dell’Europa o dell’Occidente in questo o quello celano pigrizia intellettuale, quando non sono espressione di semplice sciovinismo eurocentrico. Per dirne solo una: se la dignità dell’uomo consiste nella possibilità di essere, di prender forma liberamente, essa è già nel buddhismo, cinque secoli prima dell’era cristiana. Poiché esattamente come l’uomo di Pico, l’uomo buddhista può diventare di volta in volta animale o dio (letteralmente), o liberarsi del tutto dalle forme. Solo chi ignora (chi vuole ignorare) che la storia dell’Europa è stata una storia terribilmente violenta – una storia di violenza dell’europeo sull'europeo (le guerre di religione), ma soprattutto di violenza dell’europeo sull'altro (le crociate, lo schiavismo eccetera) – può ancora rivendicare per l’Europa la scoperta della dignità umana. Una dignità che evidentemente non è riuscita ad arginare l’orrore.

3) Che l’uomo possa essere causa sui, che possa essere realmente libero, è una affermazione che buona parte della tradizione filosofica occidentale – e non certo la peggiore – nega. In questa definizione, l’uomo è colto nella sua differenza dall'animale. Se l’animale può essere solo quello che la natura ha stabilito, l’uomo può scegliere di essere quel che vuole. Ora, questa operazione, che è in effetti tipica dell’Occidente, è pericolosa. Se la dignità dell’uomo consiste nell'essere diverso dall'animale, se ne deduce che l’animale non ha dignità. E se la dignità è ciò che dà valore, che rende una vita degna di rispetto, allora l’animale può non essere rispettato. E’ una operazione pericolosa, dicevo, perché storicamente è accaduto, e può sempre accadere, che la linea di separazione tra uomo e animale venga spostata, in modo da includere l’uomo stesso. Nel conflitto l’altro uomo è degradato ad animale: e se l’animale è l’essere non degno di rispetto, allora l’uomo animalizzato può essere ucciso. E’ quello che accade ordinariamente in guerra. Più che ribadire l’eccezionalità dell’uomo, bisognerebbe piuttosto attaccare la linea di separazione, che finisce per essere la linea che separa il sacro dal massacrabile. La stessa libertà umana, del resto, può essere usata come un argomento per giustificare il massacro. Per approfondire questa affermazione passiamo al punto

5) Dice Cacciari che la libertà non è un diritto, ma un dovere. Tu devi essere libero. E se uno non lo è? Il fatto che l’essere umano sia libero diventa presto un’aggravante verso di lui. La predilezione verso gli animali di molte persone che esprimono per il resto il più feroce razzismo ha qui la sua origine. L’animale, poiché non è libero, è sempre innocente.  Quando il nostro cane azzanna la rondine caduta dal nido, un po’ ci dispiace, ma presto ci diciamo che è la sua natura, e non può farci nulla. Non così l’essere umano. Lo straniero che ci figuriamo come feroce ha scelto la sua ferocia, non è stato sospinto da forze più grandi di lui. E’ noto il meccanismo delle attribuzioni: quando un reato è compiuto da un soggetto verso il quale si prova simpatia sociale, ad esempio un pensionato, si enfatizza la costrizione: ha dovuto rubare perché povero; quando si tratta di uno straniero l’attribuzione è interna: è lui che ha scelto di delinquere. Oppure scatta il dispositivo opposto: lo straniero viene sospinto al di là della linea di confine. Come essere umano potrebbe essere libero, ma lui ha rinunciato alla libertà, è venuto meno a quello che Cacciari considera un dovere, e per questo non ha più alcuna dignità umana. E’ come un animale, anzi peggio di un animale, perché l’animale non ha mai avuto la possibilità di essere libero, mentre lui l’aveva, e vi ha rinunciato.

4) L’uomo può prendere la forma che desidera, dice Pico della Mirandola. Non è proprio così, perché esistono i condizionamenti sociali, economici, culturali, ed anche un genetista avrebbe un nel po’ da dire. Ma può, certo, prendere alcune forme, in modo libero o meno che sia. Ora, una volta che ha preso una forma, quella forma non è definitiva, può sempre diventare altro, e al tempo stesso quella forma, pur provvisoria, lo definisce. Questo vuol dire che se da un lato chiudere qualcuno in una definizione è una violenza, può essere una violenza non minore rifiutarsi di considerare la definizione che qualcuno dà di sé. Un ateo potrebbe diventare credente, ma fino a quando resta ateo, pretende di essere riconosciuto non come essere umano in generale, ma come essere umano che non crede in Dio. Una moderna democrazia non è un patto sociale tra essenze umane proteiformi, ma tra individui che hanno assunto una identità per la quale chiedono riconoscimento. E non riconoscere questa identità circoscritta – provvisoria, magari: ma reale fino a quando c’è – significa violare i diritti umani.

6) Questo è, mi perdoni Cacciari, un teorema che ignora bellamente la complessità della realtà umana e sociale. Non occorre scomodare né Simmel né Freud per constatare che in società la mia libertà è fortemente contrastata, quando non negata. Se vivessi da solo la mia possibilità di azione, il mio potere, sarebbe limitato (e libertà e potere sono intimamente legati), ma anche vivere in società richiede una dolorosa rinuncia delle mie possibilità e pulsioni, a cominciare da quelle sessuali. Soprattutto, il teorema mette sul tavolo una moltitudine di individui, tra i quali immagina un patto sociale razionale. Ma questo patto finisce per istituire un individuo di secondo grado, che è il gruppo. Posso sentire che il mio gruppo è fondamentale per la mia libertà, ma un gruppo si costituisce in contrapposizione e spesso in conflitto con gli altri gruppi. In caso di carenza di risorse, l’individuo libero, investito di dignità, non si percepisce come un umano in generale, ma come il membro di un gruppo che (realmente o, più spesso, in modo immaginario) è danneggiato dall’azione di uno o più gruppi diversi. E quando ciò accade il gruppo diventa violento. Pronto al massacro, non senza prima una degradazione dell’altro ad animale.

La relazione di Cacciari mi sembra una espressione di un bias particolarmente diffuso tra i filosofi, consistente nel ritenere che i problemi storici, sociali, economici si possano risolvere con qualche trovata teorica più o meno edificante, conciliando le cose a livello ideale, quando non retorico. Senza uno straccio di dato sociologico, la questione del razzismo si risolve fin troppo facilmente. E naturalmente tutto resta come prima fuori dalle aule universitarie.

L’intervento di Cacciari era iniziato con uno spunto di grande interesse, purtroppo non sviluppato: il razzismo come discorso funzionale al potere. In origine c’è il dominio di un gruppo sull’altro; la distinzione di razza tra il primo gruppo e il secondo serve a giustificare questo dominio. Il bianco ariano domina il nero indigeno. E’ esattamente quello che sta accadendo oggi, ed è la ragione per la quale, se è importante ricordare che le razze geneticamente non esistono, qualsiasi discorso scientifico rischia di lasciare il tempo che trova. Il nuovo razzismo ha poco a che fare con la genetica. L’altro disprezzato, degradato, odiato, lasciato affogare non è connotato dall’appartenenza a una razza in senso genetico. Il gruppo cui appartiene è quello dei marginali. E’ per questa ragione che il nuovo razzismo può essere filosemita, e al tempo stesso esultare per il pazzo che butta via le coperte al clochard. Il razzismo è, oggi, Lumpenfobia, se mi si passa il neologismo E’ odio dello straccione, del sottoproletario, di chi è sporco, che sia straniero o italiano. Il Lumpen è un essere umano reale, non virtualizzabile; perché mi pare che questo nuovo razzismo sia, tra le altre cose, un effetto indesiderato di decenni di riproposizione televisiva di un mondo lindo, luccicante, perfetto, kitsch nel senso di Kundera, presentato come unico orizzonte umano desiderabile (e, sia detto per inciso, anche per questo immagini come quella di Aylan morto sulla spiaggia rischiano di essere controproducenti). E’ qualcosa che richiede molto più di qualche rassicurante considerazione sulla presunta natura umana.

Da - https://www.glistatigenerali.com/filosofia/cacciari_lumpenfobia/


Titolo: MASSIMO CACCIARI «Crozza mi faceva grasso, ma non sono così ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 02, 2019, 05:46:34 pm
Massimo Cacciari: «Dopo aver letto Nietzsche ho deciso di non sposarmi. E della morte non me ne frega nulla»

Il filosofo: «Crozza mi faceva grasso, ma non sono così. Il brutto carattere non è una fama, ce l'ho veramente perché sono impaziente con chi non capisce. I capelli li taglio da solo, non ho tempo da perdere con il barbiere»

Di Candida Morvillo

Massimo Cacciari: «Dopo aver letto Nietzsche ho deciso di non sposarmi. E della morte non me ne frega nulla» shadow

Massimo Cacciari, a 74 anni, che rapporto ha con la vecchiaia?
«Tremendo. Detesto chi ne parla come di un sereno tramonto. Tremo all’idea che mi parta il cervello».

Pensa mai alla morte?
«Non me ne frega nulla. Ci penso continuamente, ma nei termini in cui ci pensava Spinoza, ma anche Platone, tante volte citati senza capirci nulla. Sapendo di dover finire, nessuna finitezza mi condiziona. Non aspiro a morire, ma mi esercito a morire vivendo bene».

E cos’è «vivere bene»?
«Aver dipeso il meno possibile da condizionamenti esterni, passioni irragionevoli, dagli altri e dai favori altrui. Aver difeso la mia legge interiore, non aver fatto male a nessuno».

Massimo Cacciari, professore emerito della Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che ha fondato con don Luigi Verzè nel 2002, socio dei Lincei, è autore di una sessantina di libri, molti tradotti in più lingue. Ha indagato sulla crisi del pensiero dialettico, ha scritto di borghesia e classe operaia, del Re Lear, di Occidente e utopie, di Dio, Europa e molto altro. L’ultimo libro, «La mente inquieta» (Einaudi) è un saggio sull’Umanesimo. È stato deputato del Pci, eurodeputato, sindaco della sua Venezia tre volte. Dal 2010, ha lasciato la politica attiva, non i talk, dove è garanzia d’invettive furiose. Di recente, ha dato del «pezzo di m... a chi non s’indigna sui migranti» e ha urlato al ministro Alfonso Bonafede «la vostra politica dell’integrazione fa schifo». Seduto nel suo ufficio all’università, abbastanza accigliato, ammette: «Il brutto carattere non è una fama, ce l’ho».

E perché ha un brutto carattere?
«Sono impaziente. Lo sono con chi non capisce e perché il tempo non mi basta mai».

Si narra che, da sindaco di Venezia, desse del cretino ai suoi.
«Mai e poi mai ai miei. Con altri mi è capitato spesso di essere villano e ho chiesto scusa».

È figlio di un pediatra e di una casalinga, che educazione ha ricevuto?
«Nessuna. Grandissimo merito dei miei genitori. Mi hanno insegnato a camminare, a nuotare, a parlare, a non rubare... le cose elementari, presupposto di ogni vita civile. E poi basta, mi hanno lasciato fare, fiducia assoluta, e mi hanno dato tutti i libri che mi servivano».

Come arriva la passione per la filosofia?
«A 15 anni, quando leggo “Fenomenologia dello spirito” di Hegel. La filosofia è il linguaggio dell’Occidente, costituisce la forma del suo sapere e del suo agire, fornisce i concetti fondamentali per intenderne l’inquietudine, le tragedie e la stessa follia».

Crede ancora, come ha detto in passato, che il massimo delle potenzialità cerebrali si tocchi a 26 anni?
«Se a quell’età hai davvero viaggiato, hai fatto tutto o quasi. Parlo non dei viaggi da turista, ma della mente. Li fai e poi, nel resto della vita, li organizzi, li approfondisci, ma le idee fondamentali nascono da giovani. Perciò è peccaminoso come sia stata ridotta la scuola».

Lei aveva 24 anni nel ’68. Ha fatto occupazioni con gli operai, ha fondato riviste, come «Contropiano», «Laboratorio Politico» ...
«Ho iniziato a fare politica a 15 anni, mi sono formato, anche intellettualmente, con Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri, poi ho fatto il dirigente del Pci... Oggi non ci sono movimenti paragonabili. L’era digitale individualizza tutto nell’apparenza della agorà universale; noi ci mettevamo insieme, facevamo società».

Lei che cosa sognava?
«Io non ho mai sognato. Quando sogni, sogni. Poi, ti svegli e pensi a cosa puoi effettivamente fare. In quel ‘68, mi sembrava possibile un’azione all’interno del sindacato e del Pci per porre le basi di una riforma di sistema. Alcuni di noi, invece, presero strade diverse: credevano si aprisse un processo rivoluzionario... Sono cose quasi impossibili da capire oggi. Comunque, la divisione fra lotta rivoluzionaria e riformismo, il delitto Moro, la fine del compromesso storico spiegano il trentennio successivo, il logoramento del ceto politico».

Fu mai tentato da derive rivoluzionarie?
«Mai. Né io né Mario né Asor. Ma ci trovammo stretti fra i partiti della sinistra incapaci di capire il salto d’epoca e, dall’altra parte, l’irrazionalità, i sogni appunto».

«Élite e popolo» è una contrapposizione utile a interpretare i tempi che viviamo?
«È un’idiozia: il popolo in sé non esiste; esistono interessi specifici, corpi intermedi, autonomie. L’ideologia del rapporto diretto fra il capo e la massa è la via maestra a soluzioni autoritarie. La democrazia vive di mediazione. È politeistica nella sua essenza. Il leader deve essere a guida di un gruppo dirigente di persone competenti, con base sociale e voti loro».

Le manca la politica attiva?
«Inascoltato, ho cercato di dare una mano alla formazione di un Pd mai nato. Dopo, non ho mai pensato di ricandidarmi: o sei interno a una struttura coerente con ciò che pensi, o non puoi fare da solo. Da solo, puoi scrivere un libro, non fare politica».

Quanto è solitaria la vita dello studioso?
«Io, quando studio, sono con i miei autori e maestri, parlo con loro. Quando posso ritirarmi una settimana a Venezia nel mio studio fra trentamila libri è qualcosa di molto bello».

Cos’è il «logos incarnato» che don Verzé diceva d’averla chiamata a insegnare?
«È il pensiero che s’incarna. Il pensiero è azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare. Nulla è producibile che non sia pensato. Se nella civiltà europea si è sviluppato un pensiero scientifico di un certo tipo, è anche perché, nella sua tradizione, rimane fondamentale quel prologo del vangelo di Giovanni in cui è detto che il Logos si fa carne. Lì è una rivelazione religiosa, ma lo stesso principio vale anche per la filosofia dell’Occidente».

Quando il Censis rileva un diffuso sentimento di cattiveria, il filosofo che pensa?
«Non si stupisce. Legga Spinoza. La nostra natura è “captiva” in senso letterale, prigioniera di passioni tanto più praticate quanto più deprecate: invidia, gelosia, risentimento, avarizia... La filosofia è l’esercizio di governarle».

Quali di queste passioni hanno afflitto lei?
«Nessuna, il padreterno me ne ha donato la totale assenza».

Per cosa vorrebbe essere ricordato?
«“Krisis”, del ’76, ha forse avuto una certa influenza. Ma tengo molto più a “Dell’Inizio”, che è del ’90, sviluppata in opere successive. Ritengo abbastanza importanti le cose scritte negli anni ‘90 sull’Europa, quando era ancora un principio-speranza».

E oggi cos’è l’Europa?
«Una speranza senza speranza. Ma insegna San Paolo bisogna sperare e, insegna Leopardi, dis-perare è impossibile: persino il suicida spera, magari di far disperare chi resta».

Ha avuto solo due fidanzate note, ma ha fama di piacere molto. Come mai?
«Io questo non l’ho mai constatato».

Perché non si è mai sposato?
«Bisogna aver letto Nietzsche per capire cosa significa dire di sì, quando chiede: hai scavato il fondo della tua anima? Sei pronto a dire “per sempre”? Vale anche per essere padre; infatti, non ho avuto figli».

Ha mai avuto il dubbio di sposarsi o no?
«Tutte le volte che ho amato».

E quante volte ha amato?
«È impossibile a dirsi... Dire amore è come dire popolo: ogni volta, è una cosa diversa».

Al pettegolezzo che la voleva amante di Veronica Lario in Berlusconi, rispose di non conoscerla. Lei è poi capitato d’incontrarla?
«Mai. Né prima né dopo».

Le piaceva Crozza quando la imitava?
«Era grosso e grasso. Non mi assomigliava».

È vero che si taglia barba e capelli da solo?
«Certo, e temo si veda. Non ho tempo da perdere col barbiere».

Si dice che sia superstizioso, in cosa?
«Lo sono un po’ per ridere, un po’ no. Su alcune teorie e pratiche che cataloghiamo come superstizioni, bisogna essere però molto seri. Si tratta di straordinarie tradizioni. Prenda l’astrologia: fino al ‘500 o ‘600 non c’era un potente che non si facesse fare l’oroscopo».

Si ritrova nel segno dei Gemelli?
«Totalmente: è una disperazione. Una concordia oppositorum continua».

Un’altra superstizione?
«I tarocchi. Uno che, come me, studia Umanesimo e Rinascimento, come fa a non conoscerli? Mi sono anche divertito a farli, me la cavavo, ma ripeto: li ho studiati per i miei libri».

L’ultimo, «La mente inquieta», è appunto, un saggio sull’Umanesimo.
«È un’epoca di cui tutti conoscono i capolavori dell’arte, ma che ha pensatori grandissimi, come Pico della Mirandola, e che, a volte, sono massimi artisti, come Leon Battista Alberti. Autori che affrontano una grande crisi religiosa e politica. Anche filosofi successivi, come Giordano Bruno o Giambattista Vico hanno stretti rapporti con questo periodo. Bertrando Spaventa e Giovanni Gentile sono stati i primi a rivendicare questa tradizione».

Citando Nietzsche, ha detto: io sono un uomo postumo. In cosa spera che le verrà dato ragione da postumo?
«Scherza? Questa citazione non me la sono mai attribuita. Si figuri se sono così snob».

20 aprile 2019 (modifica il 22 aprile 2019 | 08:06)
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