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Autore Discussione: MASSIMO CACCIARI  (Letto 72742 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:34:00 pm »

Opinione

Perché non si può votare adesso

di Massimo Cacciari

Napolitano non vuole, l'Europa nemmeno. E i partiti sanno che una crisi ora non avrebbe sbocchi. Ma proprio per questo, bisogna che Letta governi davvero e non si accontenti del 'bricolage'. Perché la disperazione cresce

(23 settembre 2013)

Scrivo nelle ore di angosciosa attesa che separano gli italiani dalla votazione in Senato sulla decadenza di Berlusconi. Sarà o no voto segreto?
Chi saranno, se ci saranno, i traditori? E il Cavaliere decaduto che farà? Servizi sociali o un meritatissimo incarico universitario in scienza delle comunicazioni? Ma prima scatenerà la crisi, con i profeti Brunetta e Santanchè? Questa è la sola reale preoccupazione, perché oggi una crisi appare priva di ogni ragionevole sbocco. Napolitano si dimetterebbe prima di indire nuove elezioni col Porcellum e con l'Europa che incalza, a un passo dal commissariarci. L'unica prospettiva potrebbe essere quella di un nuovo governo tecnico-di scopo per riforma elettorale e legge finanziaria, ma dovrebbe durare fino al semestre italiano di presidenza Ue, per tutto il 2014. Nel frattempo c'è da temere (o sperare per qualcuno) che gli italiani si dimentichino anche dell'esistenza dei partiti politici.

Letta, saggiamente, gioca sull'impotenza altrui per andare avanti col suo governo, inventato daNapolitano. Il suo ragionamento si svolge sul filo elementare del "cui prodest?", quesito cui nessuno risponde. Ma spesso nella storia accade proprio ciò che nessuno ha voluto. A volte gli attori finiscono col muoversi su piani inclinati secondo le leggi della fisica, con tanti saluti a progetti e libero arbitrio. Per evitare il collasso, non basterà continuare a evocare lo spettro del dissesto finanziario e confidare in un senso di responsabilità che non si vede in giro da trent'anni

Letta deve fare qualcosa, il tempo del bricolage è scaduto: eliminazione dei bonus per le ammissioni all'Università, qualche briciola a sostegno di un diritto allo studio calpestato da una generazione, qualche rammendo sul fronte degli ammortizzatori sociali. E ancor più drastico deve essere il volta-pagina nei confronti delle pressioni demagogiche che provengono dagli spiriti animali della sua maggioranza. La pagliacciata dell'Imu non abbia seguito! Che cosa accadrà quando gli italiani scopriranno di continuare a pagarla con gli interessi metamorfizzata in Service tax? Funzionerà ancora il trucco di scaricare sulle autonomie locali la "colpa"?

Letta deve fare qualcosa per i milioni di produttori di questo Paese vicini o ormai oltre la soglia dell'esasperazione: ridurre a tutti i costi la pressione fiscale sul lavoro; semplificare tutte le procedure per la nascita di nuove imprese; detassare ogni nuova assunzione; sostenere il terzo settore no-profit, il solo che ha visto in questi anni aumentare l'occupazione; essere concretamente vicino a quegli ultimi baluardi dell'operaio-massa (Ilva e non solo), che scontano sulla pelle trent'anni di anti-politiche industriali. Soltanto così si fa anche una politica per l'esercito dei giovani disoccupati.

Elezioni o non elezioni? Senza scelte ormai improcrastinabili, l'esasperazione delle persone, qualunque sia la loro storia politica, è destinata a crescere, e al Nord in modo drammatico, fino a generare una crisi radicale di rappresentanza - e cioè la crisi della nostra stessa democrazia. Precariato di massa, piccola-media impresa di ogni settore, lavoratori "esodati" dalle piattaforme produttive dismesse, non hanno da anni rappresentanza politica se non nei programmi elettorali e nelle promesse dei talk-show. Ma sta crollando anche quella dei lavoratori "garantiti"e del pubblico impiego: continuo taglio dei salari reali, preoccupazioni stressanti per il futuro proprio e dei figli, condizioni di lavoro frustranti. E su tutto il sapere che crescono le disuguaglianze, che il reddito nazionale si distribuisce in modo del tutto iniquo, prescindendo ormai in toto dal contributo a esso di ciascuno. Altro che Grillo all'orizzonte se Parlamento e Governo non sapranno dar presto segni di vita nuova.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-non-si-puo-votare-adesso/2215361/18
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« Risposta #76 inserito:: Ottobre 20, 2013, 11:10:50 pm »

Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Qui ci vorrebbe un Savonarola

L’irresponsabilità si diffonde e nessuno dà segni di ravvedimento. Così il Paese si sfascia e il suo ceto dirigente continua a ripetere di “avere ragione”. Urge un governo con un programma di emergenza
È possibile covare ancora qualche scintilla di ragionevolezza sulla nave dei folli della politica italiana? Forza Italia, in totale tossico-dipendenza dalle vicende del Capo, è precipitata in una battaglia a perdere di inaudita efficacia. Aveva ogni interesse a tenere in vita il governo e col governo le insuperabili “inquietudini” del Pd, e ora, forse pensando inizialmente a un bluff clamoroso, che la stragrande maggioranza del Pd non vedeva l’ora di andare a scoprire, lo ricompatta, e addirittura finisce col spaccarsi. Possibile pensassero seriamente a un Napolitano che perde la faccia e indice nuove elezioni col Porcellum prima di provarle tutte, ma tutte? Non sapevano che qualsiasi governo, dopo questo, avrebbe avuto un segno a loro radicalmente più sfavorevole? Forse una buona notizia: il dio li ha accecati e finalmente li vuole perdere.

La domanda è se non voglia perderci tutti. Credo stiamo attraversando, malgrado certi colori da farsa, la più drammatica crisi politico-sociale del dopoguerra. Negli anni Settanta, di fronte al collasso di un certo sistema di potere e in presenza di un autentico salto culturale, avevamo, bene o male, una classe politica, qualche leader responsabile, capacità di mediazione. All’inizio dei Novanta, dopo Tangentopoli, la classe politica era già sfasciata, ma vi erano ancora grandi risorse economico-produttive, la competizione globale batteva alle porte, tuttavia il Paese poteva reggerla, la “terza Italia” celebrava i suoi miracoli… E ora? Crisi politica e decadenza economica si alimentano a vicenda in una spirale che potrebbe risultare tragica. Il Pd avrebbe avuto in questo quadro la sua carta strategica da giocare: mentre l’avversario non badava che alle sorti del Capo, delirando su golpe e Aventini, un partito serio si sarebbe presentato ai cittadini, in ogni sede, prospettando realistici e radicali percorsi per affrontare la crisi, dimostrando piena consapevolezza della fine di un’epoca e delle ricette di destra, sinistra e centro che l’avevano caratterizzata. I suoi dirigenti avrebbero discusso di questo, si sarebbero uniti e magari divisi intorno ai problemi che interessano tutti, avrebbero costruito intorno a questi, e col tempo necessario per un autentico confronto, il loro congresso.

Che congresso sarà mai un’assise che coinvolgerà gli iscritti(rimasti)per un mese più o meno, e un mese che sarà comunque dominato dai toni della campagna elettorale? E anche a prescindere da simili oziose considerazioni (volete mettere l’importanza delle regole per le primarie?): qual è la reale linea che il Pd intenderà seguire, incassato l’autogol del Cavaliere? Vorranno alcuni ripetere le gustose scenette del corteggiamento ai grillini, in vista di governi “innovativi”? L’opzione di elezioni prima delle Europee è davvero caduta presso tutte le sue “sensibilità”? Come si immaginano il Letta-bis? Una “kleine koalition” ancora più micro della precedente, “forte” di qualche “responsabile” ex-berlusconiano? Sogna qualcuno la resurrezione di facsimili della Dc con i quali soddisfare nostalgie mai spente di “compromesso storico”? Per il momento la straordinaria sequela di follie combinata da Berlusconi copre generosamente ogni affanno. Ma, di certo, è impossibile ormai perdere un solo secondo per definire un autentico programma di governo, e di governo dell’emergenza, che dovrà essere almeno pari per impegno e radicalità a quello Amato di vent’anni orsono per raggiungere il 10 per cento degli obiettivi indicati da Letta nel suo discorso per la fiducia.

Certo, i peccati commessi dalle diverse parti sono diversi e incommensurabili. Ma l’irresponsabilità si diffonde. E nessuno dà segno di ravvedimento (non dico pentimento), e ancor meno di voler mutar mente. Il Paese si sfascia e il suo ceto dirigente, nelle parole di tutti i suoi commensali, continua a ripetere di “aver ragione”. Forse ci vorrebbe per noi un Savonarola, più che un serafico papa Francesco.
03 ottobre 2013 © Riproduzione riservata


Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2013/10/03/news/qui-ci-vorrebbe-un-savonarola-1.135813
   
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« Risposta #77 inserito:: Novembre 01, 2013, 05:59:43 pm »

Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

Alla Bocconi non si insegna Weber

Monti non ha capito la lezione: il vero politico sa unire l’etica della responsabilità alla capacità di convincere, con un po’ di demagogia. Così è finito vittima del suo progetto di un nuovo centro. Che in Italia è ormai pura utopia
   
Le avventure politiche del prof. Monti, anche per la statura intellettuale del personaggio, si prestano a diverse considerazioni non solo riguardanti le italiche contingenze. Anzitutto, sulla natura dell’agire politico, intorno alla quale è preferibile essere disincantati fin dall’inizio che delusi in corso d’opera.

L’etica della responsabilità va benissimo, è fondamentale. Ma non può astrattamente separarsi dalla capacità di convincere. E questa, ahimè, non esiste senza carica anche demagogica. Solo quando le due dimensioni trovano un valido compromesso, allora abbiamo il vero Politico. Ma Weber non è insegnato alla Bocconi. E Monti ha così ribadito la dannazione della politica italiana dell’ultimo ventennio: da un lato, i “puri” responsabili (Cassandre, quando va male), regolarmente e inevitabilmente perdenti allorché “salgono” in politica, e dall’altro demagoghi “senza sapere”.

LA COLPA DI MONTI consiste anzitutto nel non avere conosciuto se stesso, la sua sostanziale “im-politicità”, nell’essersi “tradito” fingendosi un capo politico, invece di proseguire nel suo ruolo di voce nobile ammonitrice. Da questo suo limite “naturale” derivano i colossali errori che ne costellano la breve carriera.
Il collocarsi dall’inizio con i Casini e i Fini, distruggendo ogni immagine di novitas (piaccia o no, elemento essenziale oggi per “convicere” il pubblico) e insieme bruciandosi a priori ogni chance di ascolto presso l’elettorato ex berlusconiano.

L’assemblaggio nelle liste elettorali di personaggi d’ogni stagione, accomunati da una forte libido di salire in Parlamento (meglio al governo) - e di restarci. Possibile che Monti lo scopra solo oggi? Un leader che non sa selezionare il proprio seguito! Quale dimostrazione di palese ignoranza sull’“animale politico” che caratterizza, forse, l’intera vita nazionale: il trasformista!

Ma il fallimento di Monti può aiutare a comprendere un errore di fondo che si continua, da più parti, a compiere nella valutazione del quadro politico, non solo italiano. Anche Monti inseguiva, infatti, l’utopia di un nuovo centro. Sarebbe finalmente utile capire che questa ormai è ou-topia, cioè non-luogo e basta, e non eu-topia, felice dimora che sarebbe così bello raggiungere. Anzitutto perché nessun centro potrebbe mai nascere in Italia senza la radicale de-costruzione delle attuali casematte di centro-destra e centro-sinistra.

UN CENTRO AGGIUNTO A ESSE è fisicamente impossibile. Ma anche nel caso (augurabile o meno, nulla importa)che Pd e Pdl-Forza Italia esplodessero, cambierebbe probabilmente ben poco. Per la semplice ragione che in tutte le democrazie occidentali il centro non è che il fuoco prospettico verso cui convergono le azioni di tutti i contendenti. Non si “sta” al centro, ma si tende al suo punto, per diverse vie.

È questa situazione generale che rende possibili le grandi coalizioni, di cui la coalizione al governo oggi in Italia è tanto paradossale quanto, a mio avviso, necessaria espressione. Quando questa condizione delle democrazie occidentali non venga elaborata dalle forze politiche, la tragedia delle grandi contrapposizioni del secolo breve, 1914-1989, è destinata a finire in farsa - e la favola narra di noi.
Ciò significa che il conflitto diviene esterno rispetto agli spazi istituzionali? “Contingente” rispetto al gioco che vi si svolge? Non lo so. Ma so di certo che nessun grande partito di centro, capace di costituire un sistema di potere, contro una destra e una sinistra, nascerà mai più.
È questa la geografia di un’Atlantide sommersa.

29 ottobre 2013 © Riproduzione riservata
   
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2013/10/23/news/alla-bocconi-non-si-insegna-weber-1.138705
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« Risposta #78 inserito:: Novembre 23, 2013, 04:14:33 pm »

Massimo Cacciari

Parole nel vuoto

Dove vai se il partito non ce l’hai


Pd e Pdl sono sfasciati. Eppure tutti dovrebbero sapere che solo forze politiche organizzate possono fare da contrappeso allo strapotere dei banchieri. Renzi e Alfano ci pensino bene prima di avventurarsi su strade senza ritorno
Vite parallele, quelle di Pd e Pdl-Forza Italia. Costretti in un duello che li rende nemici inseparabili. Da un lato, c’è un partito assolutamente carismatico e perciò impotente a affrontare salto generazionale e cambio di leadership (se non forse per successione ereditaria, iure sanguinis). Dall’altro, un pretendente capo carismatico senza partito. Peggio: con una classe dirigente intorno a sé incapace di trovare un punto di effettivo consenso al proprio interno che non sia la “eliminazione” dell’avversario storico. La “de-costruzione” della forma-partito nel corso degli ultimi trent’anni ha lasciato sulla spiaggia questi brandelli di organizzazione. bene così? partito stesso una rovina otto-novecentesca? Molti lo dicono apertis verbis, ma tutti agiscono come se lo credessero. Naturalmente nessuno si sogna di aggiungere la conseguente domanda: che forma potrà assumere l’azione politica laddove l’organizzazione venga definitivamente sostituita da apparati pubblicitari-elettorali a sostegno del leader-candidato e la competizione programmatica da talk-show, blog e twitter? Una cosa è certa: se i partiti spariscono, cessino i nostri carismatici di suonare le trombe della “politica al comando”, della politica che deve governare economia e finanza, riformare l’Europa dei banchieri, e via popolareggiando. Solo forze politiche organizzate su scala anche sovra-nazionale, dotate al proprio interno di professionalità e competenze, capaci di perseguire strategie ben oltre la scadenza elettorale, potrebbero oggi ambire a produrre norme efficaci nel mercato globale. Nulla è più patetico di leader solitari e non-partiti che predicano contro le sue ingiustizie in nome delle patrie sovranità.

La crisi del Pd e Pdl darà vita a processi di scomposizione e ricomposizione? Se non precipiterà tutto a nuove elezioni politiche prima delle Europee, il sentiero di Renzi è tanto stretto quanto segnato. Qualche rottamazione gli verrà pure concessa ma il punto di rottura sta sulla sua posizione nei confronti del governo. Per quanto tempo l’ala lettiana sopporterebbe, infatti, un segretario di lotta e di governo? E tuttavia con una linea di compromesso la sua immagine si scioglierebbe nei meandri della vecchia oligarchia. Durissimo esercizio restare competitivo fino a elezioni dopo il semestre europeo. E su che linea poi? Sulle politiche di welfare, per esempio, come mettere d’accordo l’anima Cgil del partito con le posizioni di Letta-Saccomanni? O sul sistema elettorale? Parlare di quello per i sindaci come modello da seguire significa parlare di un sistema presidenzialistico. Renzi ne è consapevole? E come è pensabile su questo la mediazione con il garantismo parlamentaristico della stragrande maggioranza del centro-sinistra?

Discorso analogo va fatto per l’altra parte: anche per Alfano & Co. la faglia col Cavaliere corre sui destini del governo. Ma fuori da Forza Italia che cosa potrà contare? Alfano potrebbe trovarsi, obtorto collo, a capo di un suo movimento filo-governativo, come Renzi di uno complementare e opposto anti-governativo. Con quali chance per entrambi di riuscita? Il primo, spoglio di carisma e zavorrato dagli Schifani e dai Formigoni; il secondo, carismatico e senza partito. Con chi potrebbero aggregarsi così da fare massa critica? Forse che l’attuale assetto governativo prefigura una ricomposizione al centro, rendendo così possibile a sinistra un’area socialdemocratica omogenea? Ma che ci starebbe a fare in quest’ultima un personaggio come Renzi? Qualsiasi ricomposizione che conti sulle forze oggi in campo appare, insomma, totalmente trasformistica, puro politichese, privo di ogni consistenza culturale e di ogni appeal.

E allora? Allora o i giochi continueranno a svolgersi all’interno delle attuali casematte, in presenza di tutte le contraddizioni e lacerazioni che hanno loro impedito fino a oggi di governare e riformare, oppure si andrà e processi di scomposizione e frammentazione, ovvero alla formalizzazione notarile delle divisioni già in atto. Con il più cordiale addio a bipolarismi e maggioritari.
19 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2013/11/14/news/dove-vai-se-il-partito-non-ce-l-hai-1.141115
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« Risposta #79 inserito:: Gennaio 24, 2014, 05:54:43 pm »

Massimo CACCIARI

Giusto o sbagliato c’è solo Renzi

È necessario sperare in lui. Anche perché non ci sono alternative. Ma incombe una prova decisiva: le elezioni europee di maggio. Da vincere, insieme a Letta, contro un massiccio blocco populista composto da Beppe Grillo, Berlusconi e Lega
   
Abbiamo passato anni mirabili, e assai più spesso anni orribili, ma anni paradossali come quello che ci lasciamo alle spalle assolutamente mai. Tra i suoi protagonisti, Matteo Renzi è certo quello che meglio ne incarna tale carattere. Diventa leader di un partito, i cui gruppi dirigenti per storia, linguaggio, stile non potrebbero essergli più estranei. Lo diventa suo malgrado, poiché la “forma-partito” gli sta stretta come una camicia di forza, e la sua vocazione evidente era e resta quella di “sindaco d’Italia”. Né può esimersi dal diventarlo, perché i geni rappresentanti tutte le malattie senili della sinistra si suicidano scientificamente nel corso del ventennio sbagliando uomini, campagne elettorali, organizzazione, alleanze.

Quali novità vincono ora contro queste macerie? Da quale dibattito, da quali congressi emerse? Quale cultura politica si afferma contro l’ostinato conservatorismo del centro-sinistra della seconda Repubblica? Per il momento: programmi mille volte ripetuti, lo stesso mix tra vecchio Welfare e proclami anti-corporativi, pro-liberalizzazioni, le stesse idee di riforma istituzionale. Perché non se n’è fatto nulla? Risposta: perché non c’ero “Io”! Dunque: la “novità” della leadership forte e popolare come toccasana risolutivo. Ma con quale staff intorno al Capo? Selezionato come? Per via anagrafica? Il seguito dei fedeli? La “passione” civica, che fa sognare? Lo “spirito di servizio”? E via rovistando nei generosi arsenali della patria retorica.

Tuttavia è necessario sperare, o almeno scommettere. “Nascenti puero”, al nascente fanciullo occorre augurare che Apollo assista benigno il suo regno. Non abbiamo alternative. Possiamo reggere per il prossimo anno, ma certo non oltre con maggioranze parlamentari di questo tipo e fidando nell’autorevolezza di un capo dello Stato costretto, contro tutte le sue convinzioni, a operare “come se” ci trovassimo in un regime semi-presidenziale. Il paradosso renziano fa tutt’uno, infatti, con quello, mai visto né mai vedibile in Europa, di una coalizione di governo tra una forza che si dichiara di centro-sinistra e una che si dichiara di centro-destra. Si dirà che sono ormai nomi. Il sottoscritto l’ha detto (ma nessuno dei leader attuali ha condiviso). Comunque, non sono nomi gli interessi di riferimento, i gruppi sociali, le culture, gli elettorati. Liquida finché si vuole, la società è fatta di drammatiche disuguaglianze, lacerazioni, che andrebbero affrontate con programmi concreti, prendendo parte. Decisioni di questo tipo l’attuale governo non è in grado fisiologicamente di assumerle. Il suo compito è traghettarci verso di esse. Saprà farlo Renzi? E Renzi, di necessità, con Enrico Letta? Piaccia o no, soltanto da qui potrà nascere un nuovo ordo politico, temo non magnus, comunque ordo, per il nostro Paese.

Ma la prima prova è imminente, e nessuno ne discute. È quella delle elezioni europee. Non è questa la sede per ripetere i lamenti sulle miserie dell’unità politica. Ma si va profilando, per la prima volta, uno schieramento esplicitamente anti-europeista che va dall’estrema destra a Berlusconi, alla Lega, a Grillo. Potrebbe raggiungere una maggioranza schiacciante. Nei confronti della propaganda populistica scatenata di costoro, la “demagogia soft” renziana risulterebbe inefficace. Ma Renzi stesso potrebbe perdere di forza attrattiva, soprattutto nei confronti dell’elettorato grillino (cui egli evidentemente aspira). E,soprattutto, una pesante sconfitta degli europeisti indebolirebbe lo stesso governo (o addirittura ne determinerebbe il collasso, se il nuovo centro-destra si lasciasse sedurre dalle antiche sirene). Letta e Giorgio Napolitano inizierebbero il “loro” semestre europeo con un voto che sconfessa il ruolo continentale dell’Italia! Le elezioni europee rappresentano perciò forche caudine inevitabili per riuscire ad affrontare la crisi. Le opposizioni si stanno preparando alla scadenza. E i nostri eroi? E il Pd? Organizzeranno le primarie per le candidature?

09 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/01/03/news/giusto-o-sbagliato-c-e-solo-renzi-1.147542
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« Risposta #80 inserito:: Gennaio 30, 2014, 11:55:35 pm »

Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Repubblica inetta nazione corrotta

Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi

Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes?

Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.Fico. Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti.

E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”.

Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta.

Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano.

Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica.

Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai.

Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.

30 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/01/22/news/repubblica-inetta-nazione-corrotta-1.149494
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« Risposta #81 inserito:: Febbraio 14, 2014, 06:28:09 pm »

Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Porcellum e vecchi vizietti
La riforma elettorale nasce da un inciucio. E non sarà garanzia di governabilità né eviterà le liti quotidiane.
Renzi e Berlusconi avevano in testa un sistema presidenzialistico. Ma non hanno avuto il coraggio di dirlo chiaro

Proclamata madre di tutte le riforme, quella del porcellum sembra finalmente in dirittura d’arrivo. Che fosse fondamentale per le sorti del ceto politico, nessun dubbio. Che lo fosse anche per Electrolux e Italsider, qualcuno, ma tant’è; La Palisse dichiara: meglio questa “riforma” che nessuna. Il problema semmai sta nel fatto che il dibattito intorno ad essa denuncia una sorta di “cretinismo elettoralistico” che la dice lunga sullo stato dell’arte(politica) in questo Paese. Ci viene infatti garantito dai suoi autori e sostenitori che essa impedirà ogni diritto di veto da parte degli “dèi minori”, costringerà al bipolarismo, segnerà il trionfo del “deliberare” (per citare ancora il fiorentino Machiavelli) sulla “dannosissima” via di mezzo della “mescolanza” tra ordini vecchi e nuovi e delle risoluzioni ambigue e lente.

È vero che questa panacea contro ogni inciucio nasce da un inciucio, ma, come i grandi condottieri hanno sempre sostenuto che la loro guerra sarà l’ultima delle guerre, indispensabile premessa alla pace perpetua, così questo inciucio è destinato a essere l’ultimo degli inciuci, necessario preambolo alla contesa bipolare, chiara, trasparente, ultra-democratica. Ottime intenzioni, che speriamo non lastrichino la strada per dove si sa. Ma certo non sarà questa legge elettorale, come nessun’altra, a porle in atto. Se l’obbiettivo era quello del “chi vince prende tutto”, il porcellum (fatto valere anche per il Senato) andava benissimo. La governabilità e l’efficacia decisionale non sono garantite dal fatto che la competizione si decida tra due partiti o coalizioni, ma dalla coesione interna di coalizioni e partiti. Non è per il sistema elettorale che in Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna i governi governano, ma perché chi vince è, bene o male, ancora una forza politica la cui storia si incarna nella vita sociale e culturale del proprio Paese, un movimento reale e non d’opinione, le cui diverse correnti questa storia e questo movimento intendono rappresentare, e non si riducono mai a mucchi di idee e interessi. Simili forze politiche sarebbe stato necessario cercare di costruire trent’anni fa, alla fine del “secolo breve”. In loro assenza, una legge elettorale serve solo a definire alcune convenienze da parte di questo o quel settore di ceto politico nello stare insieme o dividersi. La riforma del porcellum costringe alla coabitazione; manca il denaro per due affitti, divorzio impossibile. Ma nient’affatto impossibili le liti quotidiane. Diverso solo il caso si fosse davvero giocato al “sindaco d’Italia”. Allora il modello non avrebbe potuto essere che presidenzialistico. Io credo sia questo che hanno in testa entrambi gli autori dell’ultimo inciucio, che a tutti pone fine. Perché non dirlo chiaro? Questo sì sarebbe un dibattito all’altezza dei tempi, tale da costringere a ripensare tutto il nostro sistema istituzionale!

Ai custodi della Costituzione pronunciarsi, poi, sulla costituzionalità della riforma, ma due considerazioni di buon senso. Date le premesse sopra esposte, forse che la riforma impedisce le ammucchiate? Assolutamente no. Lo sbarramento al 4,5 o al 5 per cento per le liste nella coalizione non impedirà in alcun modo, se la forza maggiore lo riterrà conveniente, il moltiplicarsi delle stesse. I modi per ripagarle dopo la vittoria sono infiniti. Quello di parlamentare un officium tra gli altri. Si voleva un sistema davvero rappresentativo, riducendo al minimo il pericolo del multipartitismo, e un Parlamento non di nominati (secondo i pii desiderata della Corte)? Elementare Watson: collegi uninominali a doppio turno. Allora avremmo avuto tanti Renzi fiorentini eletti a destra e a sinistra! Ma quando mai i Renzi romani l’avrebbero accettato!
13 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/02/05/news/porcellum-e-vecchi-vizietti-1.151427
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« Risposta #82 inserito:: Marzo 13, 2014, 11:38:29 pm »

Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Beppe Grillo tendenza Führerprinzip

Il Capo dei 5 Stelle esprime una rigidità centralistica compensata dai continui appelli al “popolo delle reti”. Ma il suo modo di agire sembra un’ammissione di impotenza. Non potendo prendere decisioni politiche, si limita a recitarle
   
Nobili lamenti si levano un po’ da ogni parte sull’assenza di democrazia nelle Cinque Stelle e più interessati appelli ai suoi onorevoli perché contestino o abbandonino il comico-dittatore. Più arduo ragionare sul fenomeno, perché forse molti scoprirebbero che la favola parla anche di loro. La sgangherata, analfabeta ripresa di ideologie di “democrazia diretta” condite in salsa web non può che produrre gli effetti oggi così deprecati dai “veri democratici”.

Obsoleti arnesi del Moderno mediazioni e partiti; ergo, necessaria la loro eliminazione; solo il Movimento esiste, e nel Movimento tutti uguali, puri individui senza storia né appartenenza. Guai a “corpi intermedi” negli Stati assoluti. Ma anche il Movimento, per essere tale, ha bisogno di una direzione, se no cade per legge di gravità. Ergo, il puro Movimento esige il puro Capo. Il puro Capo non può logicamente ammettere che il Movimento si articoli per correnti e distinte leadership - e gli appartenenti al Movimento che volessero assumere una propria autonoma fisionomia dimostrano semplicemente di non comprendere nulla della logica del Movimento, cui hanno appassionatamente aderito. Certo, l’equilibrio è precario; la rigidità centralistica del Fuehrerprinzip immanente a quella logica può essere compensata solo attraverso continui appelli plebiscitari al “popolo delle reti” (ovvero al “popolo nella rete”), e ciò finisce col contraddirne l’istanza decisionistica; d’altra parte, la finzione di un simile fantasma di “popolo” può in ogni istante evaporare sotto la pressione di interessi e culture determinate.

Tuttavia, in questa fase, l’ideologia del Movimento sembra conoscere vasta fortuna, ben oltre il cielo delle Cinque Stelle. Nell’interpretare il catastrofico dissolversi delle forme tradizionali di organizzazione e direzione politica, almeno da noi, nel corso dell’ultimo ventennio, si è enfatizzato troppo il fenomeno della “personalizzazione” della leadership, dimenticando che esso si regge sull’idea di un pubblico allo stato liquido, se non gassoso. La liquidazione della forma-partito non è che il prodotto di questa idea di società.

Differenze o confini al suo interno sono considerate come tendenti al “grado zero” - e perché, allora, del tutto coerentemente, non potrebbe, ad esempio, ogni cittadino partecipare alla nomina di deputati, segretari, ecc. di qualsiasi formazione politica? Non le “primarie” come mero strumento tecnico, o elemento di un sistema elettorale precisamente strutturato, ma le ideologie movimentiste che le vorrebbero “aperte che più aperte non si può” vanno esattamente in questa direzione. Tutti decidono, nessuno decide; ogni parola funziona, basta che convinca; ogni prodotto va bene, basta che venda.
E, d’altra parte, il conservatorismo ossessivo, dalle politiche sociali a quelle istituzionali, che ha caratterizzato l’“aurea catena” svoltasi da Pds a Ds a Ulivi vari a Pd non poteva produrre che tali esiti.

Non si sta parlando che di un aspetto, e neppure di quello essenziale (che riguarda il rapporto tra il Politico e le autentiche “grandi potenze” dell’epoca, quelle tecnico-economiche), della crisi della stessa idea democratica. Democrazia ha senso soltanto come discussione e conflitto reali; ha perciò bisogno di protagonisti altrettanto reali, responsabili e convinti. Idee di società liquida e Capi che la rappresentano proprio per questa pretesa assenza di ogni forma, non esprimono alla fine che aspetti del tramonto forse in atto del Politico stesso.

Chi ritiene di poter tutto rappresentare perché ogni sostanziale differenza sarebbe venuta meno, mediti sul fatto che, se questo è il mondo, esso potrebbe funzionare secondo modelli, ordini, procedure che rendono del tutto superflua, accessoria, ornamentale la decisione politica. Il Capo che recita la decisione, impotente a compierla (to act al posto di to do), sarà l’ultima maschera del teatro politico europeo?

12 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/03/05/news/grillo-tendenza-fuhrerprinzip-1.155956
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« Risposta #83 inserito:: Marzo 29, 2014, 12:07:21 pm »

Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

L’Europa si scioglie e nessuno ci pensa
Le forze populiste e i movimenti di protesta possono prevalere nelle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo. E i nostri partiti, diversi da tutti gli altri, rischiano solo di contribuire allo stato confusionale dell’Unione   
L’Europa si scioglie e nessuno ci pensa


Le prossime elezioni possono consegnarci un parlamento europeo in cui le forze politiche che hanno fin qui promosso e sostenuto la costruzione unitaria si ritrovino se non in minoranza, comunque sconfitte e gravemente indebolite. Effetto forse inevitabile di un ventennio in cui né socialdemocratici, né conservatori-popolari hanno saputo ripensare l’Europa alla luce della fine del “secolo breve”. Le stesse innovazioni introdotte, la moneta unica, sono state vissute in chiave conservatrice: come se dovessero garantire il permanere di vecchie rendite di posizione, impossibili dopo la guerra fredda e l’affermazione di antichi-nuovi celesti imperi. Da qui il fallimento del processo “costituzionale”, i colossali ritardi in materia di unificazione, o almeno “convergenza parallela”, tra le politiche sociali e fiscali, il nullismo in politica estera. La grande sfida, culturale prima di tutto, su come coniugare partecipazione democratica e cittadinanza europea a sviluppo, innovazione, potenza tecnico-economica, capacità e efficacia decisionale, è stata diligentemente evitata o sommersa in retoriche e burocratismi.

Oggi le forze che si confrontano possono essere sostanzialmente comprese in cinque gruppi. 1: un’area vasta e composita di movimenti puramente regressivi. Essi pensano che micro-nazionalismi, staterelli-individui, possano ancora giocare un ruolo nella competizione internazionale; 2: populismi che cavalcano la protesta e gli effetti della crisi sui ceti popolari e medi, senza presentare alcuna alternativa, a caccia di voti da spendere all’interno dei propri Paesi; 3: “sinistre” varie, che opinano sia sufficiente fortemente volere per continuare con le tradizionali politiche di welfare; generosa e vana utopia, che ha immaginato in Tsipras una propria bandiera; 4: un diffuso euro-scetticismo di stampo anglo-sassone, che in Gran Bretagna ha da sempre la sua naturale dimora (l’Europa è strutturalmente debole sul confine atlantico, quanto su quello mediterraneo); 5: i “conservatori” dell’idea dell’unità politica europea, ancora forti nelle due grandi “famiglie” del parlamento, ma sempre più visti dall’opinione pubblica come tutt’uno con le onnipervadenti e costose burocrazie tecnico-finanziarie dell’Unione.

Se questo è il quadro, i rischi che dalle prossime elezioni l’area 5 esca peggio che drasticamente ridimensionata sono enormi. Il gatto può finire con l’impiccarsi con la propria stessa coda: il dilagare di localismi, nazionalismi, populismi provocherà necessariamente un’ulteriore “serrata” delle burocrazie centralistiche, con tanti cari saluti agli spiriti di Ventotene – e quest’ultima moltiplicherà le spinte anti-euro, prima, e anti-europeiste tout court, dopo.

Troppo facile prevedere che di tutto ciò non si parlerà nella campagna elettorale in Italia (e poco, temo, anche altrove). Le questioni epocali riguarderanno da noi la tenuta di Renzi e la candidatura sì-no di Berlusconi. Tuttavia, le conseguenze, anche per il governo, di un’affermazione delle componenti 1,2,3,4, per quanto non si tratti certo di voti politicamente sommabili, sarebbe pesante. Il paese che si accinge ad assumere la presidenza dell’Unione (il più europeista, a chiacchiere, fino a qualche tempo fa) contribuirebbe non poco a aumentare delusione e sfiducia. Già contribuiremo comunque ad accrescere lo stato un po’ confusionale delle suddette grandi famiglie, piazzando nel gruppo socialdemocratico le variopinte “anime” del Pd, e in quello conservatore-popolare il compatto schieramento formato dai Berlusconi, dagli Alfano, dai Casini e qualche altro residuo di prima e seconda Repubblica. Il nostro apporto alla metamorfosi in stato liquido di ideologie e partiti è già cospicuo; cerchiamo di non aggiungervi anche un voto di condanna per il processo unitario. E ciò sarà possibile solo parlando “in verità” di Europa, della sua idea, del suo destino, dei suoi drammatici problemi e di come si pensa realisticamente di affrontarli.

25 marzo 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/03/19/news/l-europa-si-scioglie-e-nessuno-ci-pensa-1.157754
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« Risposta #84 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:32:22 pm »

Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

L’Europa si scioglie e nessuno ci pensa
Le forze populiste e i movimenti di protesta possono prevalere nelle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo. E i nostri partiti, diversi da tutti gli altri, rischiano solo di contribuire allo stato confusionale dell’Unione

Le prossime elezioni possono consegnarci un parlamento europeo in cui le forze politiche che hanno fin qui promosso e sostenuto la costruzione unitaria si ritrovino se non in minoranza, comunque sconfitte e gravemente indebolite. Effetto forse inevitabile di un ventennio in cui né socialdemocratici, né conservatori-popolari hanno saputo ripensare l’Europa alla luce della fine del “secolo breve”. Le stesse innovazioni introdotte, la moneta unica, sono state vissute in chiave conservatrice: come se dovessero garantire il permanere di vecchie rendite di posizione, impossibili dopo la guerra fredda e l’affermazione di antichi-nuovi celesti imperi. Da qui il fallimento del processo “costituzionale”, i colossali ritardi in materia di unificazione, o almeno “convergenza parallela”, tra le politiche sociali e fiscali, il nullismo in politica estera. La grande sfida, culturale prima di tutto, su come coniugare partecipazione democratica e cittadinanza europea a sviluppo, innovazione, potenza tecnico-economica, capacità e efficacia decisionale, è stata diligentemente evitata o sommersa in retoriche e burocratismi.

Oggi le forze che si confrontano possono essere sostanzialmente comprese in cinque gruppi. 1: un’area vasta e composita di movimenti puramente regressivi. Essi pensano che micro-nazionalismi, staterelli-individui, possano ancora giocare un ruolo nella competizione internazionale; 2: populismi che cavalcano la protesta e gli effetti della crisi sui ceti popolari e medi, senza presentare alcuna alternativa, a caccia di voti da spendere all’interno dei propri Paesi; 3: “sinistre” varie, che opinano sia sufficiente fortemente volere per continuare con le tradizionali politiche di welfare; generosa e vana utopia, che ha immaginato in Tsipras una propria bandiera; 4: un diffuso euro-scetticismo di stampo anglo-sassone, che in Gran Bretagna ha da sempre la sua naturale dimora (l’Europa è strutturalmente debole sul confine atlantico, quanto su quello mediterraneo); 5: i “conservatori” dell’idea dell’unità politica europea, ancora forti nelle due grandi “famiglie” del parlamento, ma sempre più visti dall’opinione pubblica come tutt’uno con le onnipervadenti e costose burocrazie tecnico-finanziarie dell’Unione.

Se questo è il quadro, i rischi che dalle prossime elezioni l’area 5 esca peggio che drasticamente ridimensionata sono enormi. Il gatto può finire con l’impiccarsi con la propria stessa coda: il dilagare di localismi, nazionalismi, populismi provocherà necessariamente un’ulteriore “serrata” delle burocrazie centralistiche, con tanti cari saluti agli spiriti di Ventotene – e quest’ultima moltiplicherà le spinte anti-euro, prima, e anti-europeiste tout court, dopo.

Troppo facile prevedere che di tutto ciò non si parlerà nella campagna elettorale in Italia (e poco, temo, anche altrove). Le questioni epocali riguarderanno da noi la tenuta di Renzi e la candidatura sì-no di Berlusconi. Tuttavia, le conseguenze, anche per il governo, di un’affermazione delle componenti 1,2,3,4, per quanto non si tratti certo di voti politicamente sommabili, sarebbe pesante. Il paese che si accinge ad assumere la presidenza dell’Unione (il più europeista, a chiacchiere, fino a qualche tempo fa) contribuirebbe non poco a aumentare delusione e sfiducia. Già contribuiremo comunque ad accrescere lo stato un po’ confusionale delle suddette grandi famiglie, piazzando nel gruppo socialdemocratico le variopinte “anime” del Pd, e in quello conservatore-popolare il compatto schieramento formato dai Berlusconi, dagli Alfano, dai Casini e qualche altro residuo di prima e seconda Repubblica. Il nostro apporto alla metamorfosi in stato liquido di ideologie e partiti è già cospicuo; cerchiamo di non aggiungervi anche un voto di condanna per il processo unitario. E ciò sarà possibile solo parlando “in verità” di Europa, della sua idea, del suo destino, dei suoi drammatici problemi e di come si pensa realisticamente di affrontarli.
25 marzo 2014 © Riproduzione riservata

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« Risposta #85 inserito:: Aprile 25, 2014, 05:55:18 pm »

Massimo Cacciari

Parole nel vuoto
Deregulation la vera riforma
Invece che dalle Province, o dal Senato, Renzi avrebbe fatto meglio a far partire il cambiamento con leggi più semplici e poteri definiti più chiaramente. Forse le astuzie mediatiche sono necessarie, ma ora serve la forza
   
Nessuna riforma, nessun risultato ha prodotto coi suoi governi durante il ventennio che abbiamo alle spalle, eppure è indubitabilmente Berlusconi la figura che ha connotato la recente storia del Paese. Non ha saputo modificarne gli ordini e le leggi, se non in peggio, ma certo ha profondamente inciso sulla sua “mente” e sui suoi costumi. Sarà saggio prenderne realisticamente atto, se non si vuol predicare al deserto. I tratti più tipici della retorica berlusconiana, la sua tendenza all’ultra-semplificazione plebiscitaria, la sua fede narcisistica sulle virtù del Capo, l’insofferenza per ogni mediazione o “corpo intermedio” tra sé e il “popolo sovrano”, rappresentano tutti elementi del gioco politico che si sono radicati nel sentire comune. Elementi che sarebbe assai ingenuo derubricare a passeggere patologie, poiché esprimono invece sintomi di una crisi profonda delle forme di “democrazia rappresentativa” che si erano consolidate dopo la Seconda Guerra.

Nulla di scandaloso perciò se li ritroviamo anche nella retorica e nel comportamento del Leader giovane, per tanti aspetti antropologicamente lontanissimo dal Cavaliere. Qualsiasi leadership è costretta, cosciente o meno, a seguire pulsioni e desideri del popolo che pretende di governare. E il nostro esige oggi cambiamenti radicali, decisioni rapide, protagonisti nuovi. Avvisare i naviganti che la fretta potrebbe rivelarsi cattiva consigliera, che riforme istituzionali non dovrebbero farsi sulla base di occasionali compromessi tra forze del tutto eterogenee, conta, a questo punto, assai poco. Navigare necesse. Arriverà la navicula in porto?

Non che le prime manovre, al netto di perdonabili sbruffonerie, appaiano del tutto incoraggianti. E, di nuovo, non mi riferisco a quegli aspetti dell’azione di Renzi che ne denunciano l’appartenenza, come anagraficamente inevitabile che sia, all’ethos politico di questo ventennio. Mi riferisco al metodo che egli ha tracciato per perseguire il suo disegno riformatore. Perché iniziare dall’“universale”? Perché “spettacolarizzare” l’iniziativa intorno a problemi sui quali non sembra proprio che un Parlamento come questo, anche a prescindere dalla sentenza della Consulta, abbia l’autorevolezza necessaria per decidere? De-legiferare nei settori che bloccano le amministrazioni locali (assetto delle Partecipate, appalti nei lavori pubblici, conflitto di competenze) non sarebbe risultato anche più economico della semi-abolizione delle Province? E senza ridefinizione del ruolo di quei catafalchi che sono le Regioni, ha una pallida idea il nostro giovane leader dei conflitti che si produrranno tra Città metropolitane, nuove Province e, appunto, Regioni?

Infinitamente più economico, anche a questo proposito, promuovere meccanismi di governance leggera, su base contrattuale, in attesa di riforme sistemiche, di cui sembra non esservi ancora la più pallida idea (quale forma di Governo si ipotizza? E che senso ha riformare il Parlamento senza rispondere contestualmente a questa domanda?). Puntare davvero sulla spending review e, conseguentemente, su una riduzione significativa del cuneo fiscale, non sarebbe stato più prudente e, a un tempo, forse più rivoluzionario che partorire con i Berlusconi e i Verdini una riforma del Senato (anch’essa esigenza, in sé, sacrosanta, sia chiaro)? Basterebbe applicare sistematicamente costi-standard a tutti i servizi erogati dal pubblico, a partire dalla sanità…

Ma assai poco nella storia può essere perseguito con metodo e ragionevolezza. Il nostro sistema è così corrotto, così paralizzato intorno all’asse dei suoi corporativismi, delle sue rendite, della sua inefficiente burocrazia, delle sue intollerabili disuguaglianze, che le antiche leggi non basteranno più a frenarne il disfacimento. È necessaria perciò «maggior forza, la quale è una mano regia» (Machiavelli, Discorsi I, 55). Sarà “regia”, e cioè capace di reggere, di governare, di scavare e decidere con metodo, la mano di Renzi? Finora ha dimostrato d’essere volpe; non sarà virtù sufficiente già da domani.
17 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2014/04/09/news/deregulation-la-vera-riforma-1.160511
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« Risposta #86 inserito:: Maggio 12, 2014, 11:23:46 am »

Massimo Cacciari
Parole nel vuoto

Deregulation la vera riforma
Invece che dalle Province, o dal Senato, Renzi avrebbe fatto meglio a far partire il cambiamento con leggi più semplici e poteri definiti più chiaramente.
Forse le astuzie mediatiche sono necessarie, ma ora serve la forza


Nessuna riforma, nessun risultato ha prodotto coi suoi governi durante il ventennio che abbiamo alle spalle, eppure è indubitabilmente Berlusconi la figura che ha connotato la recente storia del Paese. Non ha saputo modificarne gli ordini e le leggi, se non in peggio, ma certo ha profondamente inciso sulla sua “mente” e sui suoi costumi. Sarà saggio prenderne realisticamente atto, se non si vuol predicare al deserto. I tratti più tipici della retorica berlusconiana, la sua tendenza all’ultra-semplificazione plebiscitaria, la sua fede narcisistica sulle virtù del Capo, l’insofferenza per ogni mediazione o “corpo intermedio” tra sé e il “popolo sovrano”, rappresentano tutti elementi del gioco politico che si sono radicati nel sentire comune. Elementi che sarebbe assai ingenuo derubricare a passeggere patologie, poiché esprimono invece sintomi di una crisi profonda delle forme di “democrazia rappresentativa” che si erano consolidate dopo la Seconda Guerra.

Nulla di scandaloso perciò se li ritroviamo anche nella retorica e nel comportamento del Leader giovane, per tanti aspetti antropologicamente lontanissimo dal Cavaliere. Qualsiasi leadership è costretta, cosciente o meno, a seguire pulsioni e desideri del popolo che pretende di governare. E il nostro esige oggi cambiamenti radicali, decisioni rapide, protagonisti nuovi. Avvisare i naviganti che la fretta potrebbe rivelarsi cattiva consigliera, che riforme istituzionali non dovrebbero farsi sulla base di occasionali compromessi tra forze del tutto eterogenee, conta, a questo punto, assai poco. Navigare necesse. Arriverà la navicula in porto?

Non che le prime manovre, al netto di perdonabili sbruffonerie, appaiano del tutto incoraggianti. E, di nuovo, non mi riferisco a quegli aspetti dell’azione di Renzi che ne denunciano l’appartenenza, come anagraficamente inevitabile che sia, all’ethos politico di questo ventennio. Mi riferisco al metodo che egli ha tracciato per perseguire il suo disegno riformatore. Perché iniziare dall’“universale”? Perché “spettacolarizzare” l’iniziativa intorno a problemi sui quali non sembra proprio che un Parlamento come questo, anche a prescindere dalla sentenza della Consulta, abbia l’autorevolezza necessaria per decidere? De-legiferare nei settori che bloccano le amministrazioni locali (assetto delle Partecipate, appalti nei lavori pubblici, conflitto di competenze) non sarebbe risultato anche più economico della semi-abolizione delle Province? E senza ridefinizione del ruolo di quei catafalchi che sono le Regioni, ha una pallida idea il nostro giovane leader dei conflitti che si produrranno tra Città metropolitane, nuove Province e, appunto, Regioni?

Infinitamente più economico, anche a questo proposito, promuovere meccanismi di governance leggera, su base contrattuale, in attesa di riforme sistemiche, di cui sembra non esservi ancora la più pallida idea (quale forma di Governo si ipotizza? E che senso ha riformare il Parlamento senza rispondere contestualmente a questa domanda?). Puntare davvero sulla spending review e, conseguentemente, su una riduzione significativa del cuneo fiscale, non sarebbe stato più prudente e, a un tempo, forse più rivoluzionario che partorire con i Berlusconi e i Verdini una riforma del Senato (anch’essa esigenza, in sé, sacrosanta, sia chiaro)? Basterebbe applicare sistematicamente costi-standard a tutti i servizi erogati dal pubblico, a partire dalla sanità…

Ma assai poco nella storia può essere perseguito con metodo e ragionevolezza. Il nostro sistema è così corrotto, così paralizzato intorno all’asse dei suoi corporativismi, delle sue rendite, della sua inefficiente burocrazia, delle sue intollerabili disuguaglianze, che le antiche leggi non basteranno più a frenarne il disfacimento. È necessaria perciò «maggior forza, la quale è una mano regia» (Machiavelli, Discorsi I, 55). Sarà “regia”, e cioè capace di reggere, di governare, di scavare e decidere con metodo, la mano di Renzi? Finora ha dimostrato d’essere volpe; non sarà virtù sufficiente già da domani.

17 aprile 2014 © Riproduzione riservata

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« Risposta #87 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:11:45 pm »

L’intervista

Cacciari: «È vero, ho chiesto aiuto per un’azienda. E allora?»
Nel memoriale sulle presunte tangenti per il Mose, Mazzacurati sostiene di aver avuto rapporti anche con l’allora sindaco. Lui: «Le mie lettere erano alla luce del sole»

di Marco Imarisio

Così fan tutti?
«Manco per sogno. Non ci provare, non te lo permetto».

Anche lei, professor Cacciari?
«Che bel segreto di Pulcinella. E mica l’ho fatto una volta sola, di chiedere un intervento a Giovanni Mazzacurati e al Consorzio Venezia Nuova».

Non erano i suoi nemici del Mose?
«Ma che discorso è? Se ho bisogno di chiedere aiuto per un’impresa che sta fallendo da chi vuole che vada, dal mendicante di Rialto? Sono cose ufficiali, le mie».

Nero su bianco?
«Tutto, per quel che mi ricordo. Ho scritto a Mazzacurati, ad altre associazioni cittadine, ho chiesto aiuti anche all’Eni, con cui baruffavo un giorno sì e l’altro pure per via di Porto Marghera».

Ha qualche ricordo inedito?
«Sicuramente nel 1996 chiesi in modo del tutto trasparente a Mazzacurati di aiutarmi a ricordare come si deve l’alluvione di trent’anni prima».

E lui?
«Mai cacciato una lira, a mia memoria. E non ci vuole molto a capire perché. Non aveva interesse a farlo».

Non sente odore di incoerenza?
«Sento odore di ridicolaggine e di piccole vendette personali da parte dei meschini di sinistra. Come si fa a dare retta a simili boiate?»

È consolante trovarsi in buona compagnia?
«Ma smettila di fare il mona. Non permetto paragoni. Il mio caso è molto diverso da quello del patriarca Scola e da Enrico Letta».

Le faccio notare che non si tratta di due noti criminali...
«Certo, anche se Letta era tra quelli del centrosinistra nazionale che non mi hanno mai dato ascolto sul Mose, come Prodi e D’Alema».

Dov’è la differenza?
«Io non ho mai chiesto favori personali, ma solo interventi per aziende in crisi o per faccende di interesse locale, come la squadra di calcio. Facevo il mio mestiere di sindaco».

Preoccupato?
«Stai scherzando? Neppure infastidito. La gente mi conosce, e sa bene come sono andate le cose, allora e oggi».

Era amico di Mazzacurati?
«Parola grossa. Immaginavo quel che poi sarebbe successo, anche perché con un governatore come Galan che andava in giro sventolando la bandiera del Mose le domande sorgevano spontanee. Ma dell’ingegnere ho sempre avuto grande stima».

Lo conosceva bene?
«Abbastanza. Abbiamo avuto centinaia di rapporti e incontri, mica è un crimine. Intanto era un uomo colto, cosa non da poco e molto rara in quel consesso. Prima dell’inchiesta tendevo anche a considerarlo una persona perbene».

L’ha fatto per avidità?
«Non credo. Lui no. Da tecnico, Mazzacurati era l’unico davvero innamorato di quell’opera. Ne era entusiasta. La sua missione di vita. Avrebbe fatto di tutto per realizzarla. E in effetti».

Quindi fingevate di essere nemici?
«Mazzacurati sapeva come la pensavo. Credo che anche lui provasse stima nei miei confronti, proprio perché sapeva che ero distante da lui e in-cor-rut-ti-bi-le».

Chiedere un favore non significa creare un precedente?
«Un intervento, non un favore! C’è differenza. Comunque questo è giustizialismo di bassa lega. Non avevano alcun interesse a blandirmi. Era noto che non avrei mai cambiato idea».

Avversario e richiedente?
«Ci può stare. Senza alcun imbarazzo. Ho sempre detto peste e corna del Mose, e in quei paraggi non ero certo gradito. Avevo la coscienza così libera e tranquilla che mi potevo permettere di chiedere cose utili alla città senza neppure essere sfiorato dall’ombra del do ut des».

Quante volte figliolo?
«Con il Consorzio, con Eni, con Fincantieri. Sempre per salvare aziende e posti di lavoro. Mai per me. In quindici anni da sindaco di Venezia l’avrò fatto almeno un migliaio di volte. Abbondiamo, che non vorrei mai dimenticarmene qualcuna...».

12 giugno 2014 | 07:42
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_12/cacciari-vero-ho-chiesto-aiuto-un-azienda-allora-5656e5b2-f1f2-11e3-9d0d-44dc1b5aab8c.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:34:01 pm »

Cacciari: “Matteo è più debole. Un errore la sua retromarcia”
Il filosofo: il patto del Nazareno è la sua unica salvezza

07/01/2015
Francesca Schianchi
Roma

«Renzi sta vivendo un indebolimento fisiologico».

Cosa intende, professor Cacciari? 

«La debolezza di Renzi viene dal fatto che non si esce dalla crisi e l’80% delle riforme non interessa ai cittadini. Ed è destinato a indebolirsi sempre più man mano che le riforme stentano a decollare o escono col contagocce».

Ha contribuito a indebolirlo anche il caos sulla delega fiscale? 

«Nella genesi è un infortunio, un incidente di percorso. Il modo in cui invece è stato gestito è al limite dell’osceno».

A cosa si riferisce? 

«Quello che mi scandalizza è la marcia indietro del governo: se riteneva che la norma fosse giusta, ritirarla perché poteva favorire Berlusconi è una follia inaudita. E sono allibito da come i giornali non lo abbiano sottolineato».

Lei non crede quindi a chi pensa a uno scambio di favori tra Renzi e Berlusconi? 

«Io non ho mai fatto il dietrologo in vita mia. Con un governo composto da ministri debolissimi, penso che qualche tecnico abbia ritenuto buona quella norma senza rendersi conto di favorire Berlusconi».

C’è un altro episodio che ha messo in difficoltà Renzi, il volo di Stato per Courmayeur. Come lo definirebbe? 

«Inopportuno. Lui che è quello che va in bici, prende un volo di Stato per andare a sciare… Ma io dico: fatti accompagnare in auto!».

Debolissimi i ministri, indebolito Renzi, pure il patto del Nazareno è più fragile? 

«Ma dove vuole che vadano? Finché Renzi non trova una maggioranza alternativa - e Grillo non è ancora seriamente interessato a una trattativa - è costretto a tenere in piedi il patto del Nazareno. Renzi non può fare a meno di Berlusconi e Berlusconi non può fare a meno di Renzi. Tra i due poi c’è affinità psicologica: e guardi che la personalità conta molto in politica. Dopodiché, il patto si può rompere anche al di là della volontà dei due interessati».

Ad esempio come? 

«Ad esempio se vanno a sbattere sull’elezione del presidente della Repubblica».

Secondo lei vanno a sbattere o il patto terrà? 

«Mah… Io penso che terrà, e me lo auguro, perché un casino sull’elezione del capo dello Stato sarebbe un male per il Paese. È una partita imprevedibile, ma penso possa esserci qualche nome che metta d’accordo un’area vasta del Pd e Berlusconi».

Chi? 

«Amato. Ma anche Veltroni. Mentre la vedo più difficile per altri nomi, come D’Alema o Prodi».

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/07/italia/politica/cacciari-matteo-pi-debole-un-errore-la-sua-retromarcia-njdJZaLcI7jzVmeN7kiQdK/pagina.html
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« Risposta #89 inserito:: Marzo 23, 2015, 11:19:51 am »

Cacciari e Sofri rivisitano il concetto di "prossimo"

L'idea evangelica alla prova di quanto sta accadendo in Medio Oriente. Il filosofo sostiene il fallimento del multiculturalismo, troppo simile all'indifferenza. Per il suo interlocutore, il fine ultimo dello Stato islamico è "riconquistare le donne"

Dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO
21 marzo 2015

UDINE – La prossimità come valore e come azione. Ha ancora un senso la nozione che ha ispirato anche la parabola evangelica? Soprattutto oggi, nel nuovo secolo, davanti a trasformazioni che stanno sconvolgendo stati, confini, equilibri; che ci allontanano dalla pace e ci spingono sempre più verso una guerra? A Repubblica delle Idee a Udine Massimo Cacciari e Adriano Sofri, sollecitati da Simonetta Fiori, si confrontano su una parola che non ha solo un valore filosofico e culturale ma si proietta e si misura su quanto sta accadendo nel Vicino e Medio Oriente.
 
Sotto l’interrogativo “Abbiamo una grammatica per il tempo nuovo?”, nella chiesa sconsacrata di San Francesco, colma di gente attenta e silenziosa, il professore e filosofo veneziano spiega quanto sia difficile capire se si "è prossimi".  "Il concetto cambia, anche letteralmente, nella parabola. Sono io che mi faccio prossimo. E questa dinamica elimina ogni disposizione spaziale". Applicato alla realtà con cui ci confrontiamo più spesso, se ignoriamo l’altrui identità "non possiamo più essere prossimi".
 
Sofri trasferisce il ragionamento sul terreno. Obietta: "Ci sono tuttavia molti modi di essere prossimi. Il Califfato, per esempio, ha una grande voglia di fare di Obama il suo prossimo. Lo sfida sul terreno. E noi facciamo fatica a ricondurci verso il vero jihad, quello grande, esteriore, di attacco, che consiste nel ripristinare il corpo a corpo". Le guerre, ricorda lo scrittore, "siamo abituati a farle lontani. Con i missili o con i droni, guidati da piloti che sono seduti davanti ad uno schermo, chiusi in una stanza, a migliaia di chilometri di distanza". Il nostro prossimo, secondo Sofri, possono essere le ragazze yazide rapite, stuprate, rese schiave dagli jihadisti. "Ma siamo sempre noi che decidiamo chi sono i nostri prossimi".
 
Cacciari insiste sul multiculturalismo. Valore che considera fallito e che ci allontana quindi dalla prossimità. "Per noi", osserva, "va più o meno bene tutto. Ma all’interno di un sistema, di determinate leggi che una volta fissati ci spingono verso l’altro. In realtà è il sintomo di una debolezza estrema. Tanto è vero che ci stupiamo di alcune conquiste dei fondamentalisti".
 
Sofri suggerisce una tesi che può essere vista come una provocazione ma che nasconde una grande verità. Almeno antropologica e culturale. "Questa schifezza dello Stato islamico", ragiona, “la vedo come una grande avanguardia mondiale per la riconquista delle donne: un obiettivo, se si pensa, enorme. Ma questa è solo la premessa della conquista del mondo intero. Le donne, come sappiamo, mancano in molti territori. I rapimenti compiuti dagli jihadisti sono anche un modo di andarle di nuovo a riprendere. Perché sono scappate: dalle case, dai burqa, da quelle origini materiali e metaforiche dove le abbiamo sempre tenute chiuse. Siamo spaventati dalla libertà di qualunque cosa possa portarle vie. Si profila una guerra mondiale che ha come posta le donne: vuole riprenderle, rimetterle a posto, rinchiuderle dopo che sono fuggite”.
 
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Come reagire ai massacri, alle violenze, alle persecuzioni del prossimo? Lo stesso papa Francesco ha sollecitato un intervento volto a difendere dallo sterminio intere popolazioni di cristiani. Per Cacciari tuttavia "questo non rappresenta una novità". Perché il "concetto di guerra giusta non esiste", commenta. "Da un punto di vista concettuale. Non sta in piedi. I grandi principi che la stabiliscono, come la difesa contro attacchi alle minoranze, hanno fondamento solo sul piano del diritto ma non su quello della giustizia".
 
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Sofri stesso non è così certo che, di fronte ad una guerra che si affaccia prepotente, avremmo la forza di affrontarla. "Non siamo più capaci di combatterla, a differenza dei tanti attentatori suicidi che non vedono l’ora di farsi esplodere". Il prossimo, a parere dello scrittore, ci incalza, ci bracca da vicino. Come misurarci? Di qui la necessità, diventata urgenza, di una polizia internazionale. "Credo che nessuno oggi", osserva Sofri, "sia disposto all’abolizione della polizia. Anche tra i suoi più severi critici, come possono essere gli anarchici". Cacciari lo considera un progetto difficile. "La polizia internazionale non ha senso senza una politica internazionale. Non siamo riusciti, finora, nemmeno a costruire un’Europa politica. La strada da percorrere è ancora lunga".

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/udine2015/2015/03/21/news/sofri_cacciari-110162945/
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