Massimo Fini per l’Unità
Gentile direttore,
ho conosciuto Gaetano Pecorella quando aveva all'incirca trent'anni.
Era, insieme ad Ennio Amodio, che diventerà anch'egli un avvocato di Berlusconi, assistente di Gian Domenico Pisapia, il «grande vecchio» della Procedura penale italiana, il futuro padre del nuovo Codice, con cui mi stavo allora laureando.
Preparatissimo, serio, studioso era un enfant prodige, una speranza della giurisprudenza penale.
Bel ragazzo, interessante, era timido e introverso e soffriva precocemente di fegato cosa che gli dava un colorito olivastro.
Alla sera, dopo le estenuanti sedute in Istituto, ci fermavamo spesso a parlare davanti alla Statale di Milano, quasi sempre di cose di studio, ma alle volte, vincendo una naturale ritrosia, faceva trapelare qualche scheggia della sua vita privata che non era felice.
Di politica pareva completamente digiuno. Con Amodio, freddo, sfuggente, untuoso, una specie di Bruno Vespa «ante litteram», i rapporti erano invece puramente formali.
Gaetano Pecorella fu travolto, come tanti, dal Sessantotto.
Scoprì la politica e si mise a fare l'avvocato degli extraparlamentari.
Dio mio, com 'era di sinistra, allora, Pecorella, era «di sinistra che più a sinistra non si può», non c'era quasi nessuno più a sinistra di lui e quando lo trovava lo scavalcava.
Poi, lasciatasi alle spalle l'antica timidezza, si inebriava a parlare nelle assemblee degli studenti.
Passarono così parecchi anni.
Pecorella era gratificato dalla facile notorietà e dal fatto che il suo nome comparisse spesso sui giornali, insieme a quello di Giuliano Spazzali, di Francesco Piscopo e degli altri avvocati di estrema sinistra, ma negli ambienti dello «jure» era parecchio screditato.
Verso la fine degli anni Settanta, reincontrai Pisapia, il suo e mio maestro;
mi disse sconsolato:
«Ma Pecorella! Che brutta storia, si è perso per strada.
È intelligente, è preparato, ma gli manca il carattere».
Verso i suoi quarant'anni anche Pecorella si rese conto che mentre agitava nelle piazze e nelle assemblee, gli altri, fra cui l'odiato Amodio, meno preparati e brillanti, erano andati avanti in silenzio mentre lui era rimasto al palo.
Fu a freddo e di colpo che decise che era tempo di abbandonare gli idealismo giovanili e le difese, più o meno gratuite, degli stracciaculi della sinistra extraparlamentare e di dedicarsi a clienti più facoltosi.
Fra questi c'era Bruno Tassan Din, l'amministratore delegato del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera che, dopo aver subordinato e plagiato il giovane Angelo, si era impadronito dell'azienda, allora in piena bufera P2.
Pecorella, con cui avevo mantenuto buoni rapporti, voleva convincermi - e soprattutto convincere se stesso perché a quei tempi qualche scrupolo, o perlomeno qualche problema d'immagine, ce l'aveva ancora - della bontà etica della sua difesa sostenendo che Tassan Din era un baluardo contro la presa di potere dei partiti nel sistema dei media.
Cosa difficile da credere, soprattutto per chi come me, nel Gruppo Rizzoli-Corriere, ci lavorava e sapevo benissimo come stavano le cose e che Tassan Din pur di rimanere a galla, aveva appaltato i giornali rizzoliani ai vari partiti, l'Europeo ai socialisti di Claudio Martelli, il Corriere della Sera al Pci, il Piccolo ai democristiani e così via.
In quei giorni, essendomi recato nello studio di Pecorella perché mi aiutasse en amitiè nelle pratiche di divorzio da mia moglie, trovai, imprudentemente abbandonato sul suo tavolo, in un momento in cui lui si era assentato, un documento molto interessante:
il patto con cui Angelo Rizzoli per dieci milioni di dollari cedeva all'«Istituzione», cioè alla P2 nelle persone di Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din il controllo attraverso la «Fincoriz di Bruno Tassan Din & C.» (i C. erano, appunto, Gelli, Ortolani e Calvi) del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera.
Era la prova provata che tutti, magistratura compresa, andavano allora cercando, che il «Gruppo» era in mano alla P2.
Pubblicai il tutto su Il Giorno e su Pagina.
Tassan Din mi querelò e mi chiese 50 miliardi di danni, ma, travolto, non diede poi seguito alla cosa.
Sempre in quei giorni caldissimi l'avvocato Pecorella, in visita al viceprefetto di Milano, si fece scivolare dal paltò una bobina con l' intercettazione di una telefonata di Gelli che, resa pubblica, mise fuori gioco il costruttore Cabassi che era a un passo dall'acquistare il Gruppo Rizzoli-Corriere.
Se Cabassi fosse diventato padrone del "Corriere", Tassan Din ne sarebbe stato definitivamente estromesso.
Sull'episodio l'Ordine degli avvocati di Milano aprì un procedimento disciplinare a carico di Gaetano Pecorella:
il diritto del difensore a tutelare il suo cliente non si estende infatti a quello di eventualmente delinquere con lui.
Finita l'epopea Tassan Din, Pecorella vivacchiò per alcuni anni senza infamia e senza lode.
L'ex speranza della giurisprudenza penale italiana sembrava destinato a chiudere la sua poco brillante carriera nell' anonimato.
Ma passò il treno di Berlusconi e l'ex avvocato della sinistra vi saltò sopra nonostante il Cavaliere rappresentasse in tutto e per tutto l'esatto contrario dei suoi ideali, o piuttosto delle sue smanie giovanili.
A Berlusconi deve i fasti della sua vecchiaia:
l'ha cooptato nel suo sterminato collegio di difesa, dove Pecorella ha finito per far fuori il rivale Amodio che vi si era accasato prima, lo ha portato in Parlamento, gli ha dato la presidenza della commissione Giustizia della Camera.
Da quando si è fatto berlusconiano l'ho incontrato una sola volta, a una trasmissione, mi pare, di "Telelombardia".
Mi venne incontro tendendomi la mano, ma io voltai le spalle rifiutandomi di salutarlo.
Devo dire che mi è difficile prendere sul serio soggetti come Gaetano Pecorella, Tiziana Maiolo, Paolo Liguori, Renzo Foa, Ferdinando Adornato, Paolo Guzzanti (che quando lavoravamo insieme a l'Avanti! era anche lui uno «che più a sinistra non si può») e tutta la foltissima fairy band che è passata dalla sinistra e dall'estrema sinistra al berlusconismo e che nei Settanta mi bollava come «fascista» e adesso mi dà del «comunista».
Perché è vero che cambiare opinione è un diritto di tutti, ma è curioso che la si cambi sempre, e solo, a proprio vantaggio.
Vedo ora che l'Unità si è fatta promotrice di una campagna perché Gaetano Pecorella rinunci - o quantomeno si astenga - alla presidenza della commissione Giustizia della Camera in quanto si trova nella doppia posizione di avvocato di Berlusconi, e di presidente di un organismo che fa a favore di Berlusconi leggi che consentono al Pecorella-difensore di abbattere i dinieghi che gli sono stati opposti dal Tribunale.
Insomma, Pecorella legifera su se stesso oltre che sul suo più importante cliente.
In assenza di una legge ne fate una questione di buongusto e di decenza.
È fiato sprecato.
La sfacciataggine di Pecorella non è gratuita, ma risponde a esigenze vitali del suo «dominus».
La «legge Cirami» equivale infatti alle leggi mussoliniane del 1926 con cui il Fascismo divenne regime.
Come il Fascismo non essendo riuscito a piegare del tutto la Magistratura ordinaria creò i Tribunali speciali, così Berlusconi, non essendo riuscito nello stesso intento, si fa le leggi speciali, ad hoc, per sottrarsi al suo giudice naturale e soprattutto per guadagnar tempo (in attesa di diventare presidente della Repubblica e, senza più nemmeno il fragile filtro del capo dello Stato, di stringere ancor più il cerchio del regime) essendo ben consapevole che in nessun tribunale, fosse anche quello di Canicattì, può scapolarla poiché esiste una documentazione bancaria svizzera (400mila dollari passati nello stesso giorno da un conto estero Fininvest a un conto estero di Cesare Previti a un conto estero dell' allora giudice istruttore Renato Squillante) che lo inchioda al reato di corruzione di magistrati. E quando si arriva a questi punti le questioni di buongusto e di decenza, anche qualora il Dott. Prof. Avv. Gaetano Pecorella ne conservasse una vaga percezione, sono ormai, e da tempo, alle spalle.
Dagospia.com 12 Agosto 2002
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