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« inserito:: Giugno 12, 2009, 06:50:31 pm » |
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Il commento
La speranza nelle notti di Teheran
Nei quadri astratti di Mir-Hussein Mousavi, candidato riformatore alle elezioni presidenziali, si coglie un intreccio di tradizione e modernità, di retroguardia e innovazione. Gli stessi elementi, forse, che potrebbero contraddistinguere il suo Iran se questo pittore e architetto che aveva abbandonato la politica dopo la morte di Khomeini riuscisse nell’impresa di battere il presidente Mahmoud Ahmadinejad, l’uomo che vuole cancellare Israele dalla carta geografica.
A Mousavi, nonostante il suo discutibile passato, si sono affidati i giovani che hanno dipinto di verde le notti di Teheran. Trasformando in una grande novità politica, di partecipazione e di fantasia, la difficile campagna elettorale in un Paese che se non è una dittatura «non è certamente nemmeno una democrazia», come ammette Fareed Zakaria dopo avere spiegato che «tutto quello che si sa sull’Iran è sbagliato, o è almeno più complicato di quello che si pensa».
La mobilitazione per questo poco carismatico ex primo ministro e per sua moglie — che vuole difendere, accanto al marito, i diritti calpestati delle donne iraniane — non deve essere stata un fenomeno marginale se i Pasdaran hanno sentito il bisogno di annunciare che stroncheranno qualsiasi tentativo di provocare con il voto una «rivoluzione di velluto». «I falchi non andranno tranquillamente all’opposizione se il loro candidato perderà», avverte preoccupato il transfuga Mohsen Sazegara, uno dei fondatori delle Guardie della rivoluzione, fatto arrestare nel 2003 dalla Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei.
L’Iran è complicato, ma proprio per questo va evitata la più pericolosa delle semplificazioni: tutti i candidati sono uguali, non c’è nessuna speranza. Gli scambi di accuse tra Mousavi e Ahmadinejad non sono stati certamente un gioco delle parti. E molte cose, intanto, sono diverse da quei giorni di quattro anni fa in cui il semisconosciuto ex sindaco di Teheran, ultraconservatore religioso, avviava con l’imprevista vittoria nelle presidenziali la sua aggressiva e incendiaria leadership.
Forse non è completamente vero che, come scrive Roger Cohen, «il radicalismo nella Casa Bianca di Bush ha alimentato il radicalismo iraniano». Il radicalismo del presidente Ahmadinejad è sembrato spesso alimentarsi da solo, riuscendo a estendere il proprio raggio d’azione in molti altri luoghi, primi fra tutti Gaza e il Libano. Ma è sicuramente vero che Obama, con le sue aperture, ha messo in difficoltà perfino il coriaceo regime di Teheran. E in questo quadro, i margini per avviare processi di cambiamento sono sicuramente più ampi.
Il compito della diplomazia internazionale è oggi comunque quello di salvare l’Iran, qualunque sia il risultato delle elezioni. Salvare l’Iran vuol dire in primo luogo arrivare ad un accordo serio sul nucleare, tenendo contro che i margini tra la realizzazione di un programma civile, difeso anche da Mousavi, e la capacità di dotarsi di un arma atomica sono molto ravvicinati. Una sconfitta di Ahmadinejad aprirebbe opzioni diverse, nonostante la complessità del sistema di potere della teocrazia iraniana. Il finale è aperto, come in un film di Abbas Kiarostami.
Paolo Lepri 12 giugno 2009
da corriere.it
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