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Autore Discussione: Ferruccio DE BORTOLI  (Letto 26963 volte)
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« inserito:: Aprile 10, 2009, 09:20:24 am »

UN PAESE E IL RUOLO DI UN GIORNALE

Quell’Italia che ce la fa


di Ferruccio de Bortoli


Nei momenti di dolore colletti­vo si scoprono immagini inde­lebili di solidarietà, effi­cienza e unità d’intenti del nostro Paese. Due su tutte: la dignità e la com­postezza di chi ha perdu­to sotto le macerie un fa­miliare, la generosità di tanti volontari anonimi. In realtà, non dovremmo assolutamente sorpren­derci, come facciamo in questi giorni. Il Paese non si trasforma, non si scopre diverso. Mostra so­lo alcune delle sue tante qualità. Lo spirito italia­no, quello vero, è ben de­scritto dagli inviati del Corriere. E ci si accorge che l’informazione è uti­le, necessaria. Non do­vremmo stupircene. Insie­me alle notizie circolano i sentimenti, le emozioni. Ci si sente tutti parte di una comunità. Ma i me­dia non svolgerebbero fi­no in fondo il proprio compito se non denun­ciassero le tante incurie, le leggi inapplicate, le co­struzioni colpevolmente fuori norma. E se non continuassero, anche quando l’emergenza sarà finita, a diffondere quella cultura della prevenzione e della manutenzione che misura il nostro livello di civiltà.

Basta l’esempio di que­sti giorni drammatici per descrivere la funzione pubblica di un buon gior­nale. Su carta e online. Onesto, serio e costrutti­vo. Com’è il Corriere della Sera, un’autentica istitu­zione di garanzia del Pae­se, che da oggi sarà firma­to da chi scrive. L’impe­gno con i lettori, in estre­ma sintesi, è proprio que­sto. Il nostro è un giorna­le aperto. Nel quale le idee si confrontano e si ri­spettano. Ma noi siamo dei moderati, sottolineo moderati, orgogliosi del­la nostra tradizione. E del­la nostra indipendenza. Un giornale aperto è il luogo dell’incontro profi­cuo tra laici e cattolici. Il luogo della tolleranza e della ragione. Dove si ten­ta di costruire, piuttosto che distruggere. Che sta dalla parte del Paese. Non contro. E ambisce a rap­presentare quell’Italia che ce la fa, come quella di questi giorni di passio­ne in Abruzzo. Consape­vole dei suoi mezzi. Che produce, investe, studia; si rimbocca le maniche ed è orgogliosa di quello che crea. E va non solo in­formata correttamente ma anche rappresentata. Difesa. Un giornale mo­derno è anche uno spec­chio dell’identità di chi lo legge.

Il Corriere giudica sui fatti (e qualche volta può sbagliarsi), ma non sta pregiudizialmente con nessuno. Se fosse stato sempre al servizio di qual­cuno (anche dei suoi azio­nisti) non avrebbe mai po­tuto svolgere il ruolo sto­rico che gli è proprio. Non avrebbe mai potuto anticipare gran parte del­le scelte di civiltà e pro­gresso del Paese, le aper­ture all’Europa, al libero mercato. Paolo Mieli, a cui succedo per la secon­da volta, questi valori li ha conservati in una fase difficile nel rapporto fra informazione e potere. Gli va reso merito. Mieli continuerà a scrivere sul suo giornale.

Qui mi fermo. E cam­bio registro. Vorrei tratta­re in breve due temi. Pri­mo: perché un’informa­zione libera, indipenden­te e responsabile fa bene alla democrazia? Non è una domanda retorica.

Senza un'opinione pubblica consapevole e avvertita un Paese non è soltanto meno libero, ma è più ingiusto e cresce di meno. Il cittadino ha pochi strumenti affidabili per decidere, non solo per chi votare, ma anche nella vita di tutti i giorni. La sua classe dirigente fatica a individuare le priorità, lo stesso governo (come avviene nelle aziende in cui tutti dicono di sì al capo) seleziona più difficilmente le buone misure distinguendole da quelle che non lo sono. Il consumatore è meno protetto, il risparmiatore più insidiato. Lo spazio pubblico è dominato dall'inutile e dall'effimero.

Si discute molto, e a ragione, sugli eccessi dell'informazione. Che ci sono, e gravi. Di cui anche noi portiamo le nostre colpe. Si discute poco sui costi della non informazione. Dove c'è opacità il merito non è riconosciuto; quando c'è poca trasparenza le aziende e i professionisti migliori sono penalizzati, i lavoratori onesti posti ai margini, i talenti esclusi. I diritti calpestati. La qualità della cittadinanza modesta.

Colpisce che spesso la classe dirigente italiana, non solo quella politica, consideri l'informazione un male necessario. E sottostimi il ruolo di una stampa autorevole e indipendente.
Tutti l'apprezzano e la invocano quando i giornalisti si occupano degli altri, degli avversari e dei concorrenti. Altrimenti la detestano e la sospettano.

Molti confondono l'informazione con la comunicazione di parte o la considerano la prosecuzione della pubblicità con altri mezzi. Una classe dirigente che non riconosce il ruolo di garanzia dell'informazione dimostra una scarsa maturità e una discreta miopia. La leadership nei processi globali, in particolare in questi momenti di profonda inquietudine e disorientamento, è fatta di informazioni corrette, tempestive e credibili. Il dibattito vero fa emergere le politiche migliori, quello falso o reticente solo quelle che appaiono in superficie le più percorribili e all'apparenza le meno costose. Insomma, con i cantori a pagamento e gli spin doctors improvvisati non si va da nessuna parte.

Il secondo tema che vorrei trattare riguarda l'utilità dei giornali. Vivono una crisi profonda, questo è vero. Ma non sono mai stati così letti. Sulla carta e online. Ci sarà una ragione se un navigatore che vuole un'informazione credibile accede più facilmente al sito di una testata storica. La Rete è una grande piazza democratica ma il confine fra vero e falso, effimero e sostanziale, lecito e illecito è assai sottile. E poi c'è un'altra ragione. Guardatevi intorno: quali sono i simboli che vi ricordano tradizione, appartenenza, storia della vostra comunità? Sono pochi, pochissimi.

Un'alluvione di marchi e format globali. In strada, in tv e nella Rete. Persino la vostra squadra del cuore parla una lingua diversa. A volte capita che solo in edicola e in libreria si abbia la certezza di trovarsi nel proprio Paese. Con il suo giornale un lettore si sente sempre a casa. A suo agio. Con uno strumento (anche di lavoro) affidabile per interpretare realtà complesse.

Sentirsi parte attiva di una comunità ed essere contemporaneamente cittadino del mondo. Ecco perché un buon giornale cambierà, si trasformerà, si integrerà di più con Internet, ma resterà sempre un pezzo insostituibile della nostra identità nazionale, l'anima e la ragione per la quale stiamo insieme. Il Corriere racconta e dà voce all'Italia che ce la fa. L'Italia migliore, quella che abbiamo visto all'opera in questi giorni di lutto e solidarietà nazionale. E se le nascondesse difetti e limiti finirebbe per amarla di meno. Il che non è nemmeno pensabile.


10 aprile 2009
(testo come da corriere.it)

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« Risposta #1 inserito:: Novembre 02, 2009, 10:31:07 am »

Questa stagione di fango e veleni

I nostri figli ci guardano


Quando Tobagi fu ucciso, Benedetta aveva 3 anni. Non l’ha conosciuto. Ma lo ha incontrato scri­vendone la storia

In tempi di passioni tristi e valori deboli, forse è opportuno staccarsi un attimo dalle cronache e chieder­ci come verrà giudicato, fra qualche anno, questo particolare momento del­la nostra vita, pubblica e privata. Non dagli storici, che speriamo abbiano di meglio di cui occuparsi. Ma dai nostri figli. Davve­ro il Paese è quello de­scritto dal profluvio di volgarità che ci inonda ogni giorno? E da una classe politica che appa­re, nel suo complesso, più attenta a rovistare nel letto dell’avversario, piut­tosto che confrontarsi su idee e programmi? Che chiude la Camera per una settimana, perché non ha nulla da fare, ma insegue senza sosta gossip di ogni natura? Oppure dà un’informazione che si di­sputa brandelli delle vite private dei rivali politici e non?

Lo abbiamo già scrit­to: il Paese, per fortuna, è diverso. Molto diverso. Migliore. E non merita af­fatto l’immagine di cui soffre, perché lavora di più e meglio di coloro che, all’estero, ci critica­no con il sopracciglio al­zato. In queste settimane ci siamo occupati, pur­troppo, più di escort e trans, che di imprese e la­voro. Più di cocaina che di riforma universitaria. Le inchieste della magi­stratura vanno seguite con attenzione ed equili­brio, non c’è dubbio. E la stampa deve darne il giu­sto conto (il «Corriere» le ha quasi tutte anticipate). Ma non vanno confuse con il rincorrersi incon­trollato di voci, le più di­sparate, su questo o su quello. Il privato di chi esercita una funzione pubblica, a qualsiasi livel­lo, è necessariamente più limitato di quello di un cittadino qualsiasi. Ma il suo totale annullamento, all’insegna di un’idea gia­cobina della trasparenza, non significa maggiore democrazia, ma babele di sospetti. L’importante è che le scelte private, an­che sessuali, non condi­zionino la libertà di eser­cizio delle funzioni pub­bliche con l’accettazione di compromessi o ricatti. Forse dovremmo tutti fermarci un po’ a riflette­re su come questa stagio­ne del fango, dei dossier e dei veleni, nella quale prosperano voraci pesci di profondità e pericolosi animali del sottobosco, verrà ricordata fra qual­che anno. E domandarci se ci stiamo occupando, con la dovuta determina­zione, dei problemi reali del Paese, della difesa del­le sue istituzioni e dei suoi valori, dell’etica pub­blica e del senso di legali­tà. Oppure se abbiamo perso un po’ tutti la lucidi­tà necessaria per non vive­re inconsapevoli in una società dominata dall’ille­galità diffusa, dal trionfo della volgarità e dallo scarso rispetto del prossi­mo. Chi ci governa ha le sue responsabilità, anche serie, ma pensare che le abbia tutte è superficiale e ingiusto. L’occasione per farlo è la pubblicazione di un li­bro che, a mio parere, an­drebbe letto anche nelle scuole. Lo ha scritto Bene­detta Tobagi, figlia di Wal­ter, giornalista del «Cor­riere della Sera», ucciso dai terroristi rossi quasi trent’anni fa.

S’intitola: «Come mi batte for­te il tuo cuore» (Mondadori). Lo anticipiamo oggi su queste co­lonne. Quando Tobagi fu ucciso, per il coraggio dei suoi scritti a difesa della legalità e dei valori per i quali viviamo, Benedetta aveva appena tre anni. Non l’ha di fatto conosciuto, il padre. Ma lo ha incontrato di nuovo scri­vendone la storia. Ha scoperto tutta la sua profondità umana e professionale, la forza del suo pensiero libero, il significato del­l’esempio, l’attaccamento alla fa­miglia, l’etica personale che do­vrebbe guidare ogni nostro ge­sto quotidiano. Se ognuno di noi svolgesse fino in fondo, co­me hanno fatto Walter e tanti al­tri come lui, il proprio dovere, questa società sarebbe più giu­sta, meno egoista, avrebbe più ri­spetto di sé e dei propri figli. Be­nedetta nel suo libro, ne cita un altro, appena uscito: «Qualun­que cosa succeda» (Sironi edito­re), di Umberto Ambrosoli, fi­glio di Giorgio, il liquidatore del­la Banca Privata Italiana, caduto sotto i colpi di un sicario manda­to da Michele Sindona, trent’an­ni fa. Umberto, quando morì il padre, aveva otto anni. Anche lui, e non solo lui (Mario Calabre­si, per esempio, figlio del com­missario Luigi, ucciso nel ’72) lo ha conosciuto nuovamente rico­struendone la vita professionale. «Papà è stato una persona come tante che ha saputo vivere e di­fendere i valori per lui prioritari. Può non essere un obiettivo faci­le, ma tutti noi possiamo darce­lo, vivendo con responsabilità nei confronti di noi stessi e della società». Umberto Ambrosoli ha scritto anche ieri, su queste colonne di quanto i piccoli esempi quotidiani di legalità siano importanti nella costruzione di un’etica pubblica condivisa. Grazie Umberto, grazie Benedetta. Noi ci auguriamo, leggendo queste pagine così belle e no­bili, di non dover più rivivere gli anni di piombo, anche se ne ve­diamo ripetersi alcuni dei sinto­mi. E immersi nel liquido, a vol­te maleodorante, della nostra contemporaneità, ci domandia­mo, con un senso di angoscia, come ci ricorderanno i nostri fi­gli. E se stiamo facendo di tutto per consegnare loro una società migliore.

Ferruccio de Bortoli

02 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Ultima modifica: Novembre 10, 2009, 10:47:22 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 10, 2009, 10:48:23 pm »

PICCOLE IMPRESE E PROFESSIONISTI

Le buone ragioni degli indipendenti


C’è una genera­zione di pro­duttori che me­rita di essere ascoltata con attenzione. Sono le piccole imprese e i professionisti di questo Pa­ese. L’architrave di passio­ni e competenze che regge alla base il sistema econo­mico; la miriade di cellule sociali che innerva la comu­nità civile. Autonomi, indi­pendenti. Ma anche invisi­bili. E spesso trattati male, come documentano le in­chieste di Dario Di Vico. Se la ripresa è imminente, li vedrà in prima fila. Il ri­schio, però, è che molti, pur scorgendo nella loro at­tività segni di fiducia, alla fine del tunnel non ci arrivi­no nemmeno. Un milione di piccole imprese, dell’in­dustria, del commercio e dell’artigianato e 300 mila professionisti sono in peri­colo. È urgente un segnale. Concreto. Bisogna cogliere gli umori di questa vitale generazione pro-pro ( pro­duttori e professionisti); ri­conoscerne la dignità, la funzione sociale, l’insosti­tuibile ruolo civico.

Le idee ci sono. L’occa­sione immediata anche: la discussione sulla Finanzia­ria. L’economia italiana non è fatta solo di grandi imprese e superbanche. Il piccolo non è un’anomalia ma una risorsa. Purtroppo limitata. E fragile. Non go­de, salvo rari casi, di incen­tivi. In banca è un cliente guardato più con sospetto che con riguardo. La mora­toria sui debiti, buona co­sa, l’ha solo sfiorato. Non ha l’accesso al credito della grande industria, la quale, quando è fornitore, gli ri­tarda, al pari dello Stato, i pagamenti. Se chiudono cento piccole imprese, ne­gozi o studi, il danno socia­le è persino superiore a quello della crisi di una fab­brica importante. Ma nes­suno se ne accorge. Gli am­mortizzatori? Ampliati ma insufficienti o inesistenti (per i professionisti).

Dunque, che fare? Ap­provare, per esempio, la proposta di uno statuto del­le imprese avanzata da Raf­faello Vignali, vicepresiden­te della Commissione Atti­vità Produttive della Came­ra, che ha già 120 firme bi­partisan e si aggiunge al pacchetto delle semplifica­zioni collegato alla Finan­ziaria. Basta con la giungla di autorizzazioni e permes­si. E ancora: perché non pensare a un’unica comuni­cazione (telematica) sull’av­vio delle attività, fatta solo alle Camere di Commercio, e all’autocertificazione pri­vata sostitutiva? No a tanti controlli fatti da troppi en­ti. Una sola verifica può ba­stare. La burocrazia pesa sulle aziende per l’uno per cento del Pil: 15 miliardi.

Sul piano fiscale, la ridu­zione dell’Irap dovrebbe partire da una franchigia che favorisca i piccoli o dal­la maggiore deducibilità degli interessi passivi. È da rafforzare la struttura dei Confidi, migliorando le ga­ranzie delle imprese mino­ri, ma soprattutto va elimi­nato il sovrapprezzo fiscale dell’indebitamento. La Tre­monti ter (detassazione de­gli acquisti di macchinari) dovrebbe comprendere an­che gli investimenti in tec­nologia, altri beni strumen­tali, formazione, migliorie dei pubblici esercizi ed es­sere estesa agli studi pro­fessionali. In tema di giusti­zia, se solo si allargasse ul­teriormente la mediazione obbligatoria, già in parte lanciata dal governo, coin­volgendo le varie categorie professionali, si abbattereb­be una quantità di cause ci­vili inutili. Sono solo alcu­ne delle misure che potreb­bero trovare un appoggio trasversale. Molte non han­no nemmeno un costo. Non farle, o ritardarle anco­ra, darebbe la sensazione a chi ogni giorno s’inventa il proprio futuro che il Paese premia di più i furbi, i pro­tetti e gli arroganti.

Ferruccio De Bortoli

10 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:35:50 pm »

Il candidato italiano

C'è una carica alla quale il Paese può legittimamente aspirare. È quella di presidente della Banca centrale europea. Il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, presidente del Financial stability board, è tra i candidati. Il mandato dell’attuale numero uno della Bce, il francese Trichet, scade l’anno prossimo. Ma i giochi si fanno ora. Molto dipenderà dalla scelta di chi dovrà prendere il posto del vice presidente, il greco Papademos, che si congeda a maggio. I candidati sono due: il lussemburghese Mersch e il portoghese Constancio. Se dovesse prevalere quest’ultimo, apparirebbe difficile portare alla presidenza nel 2011 un altro rappresentante latino. Chissà perché persiste questo pregiudizio, che non riguarda però i francesi. Il caso greco non aiuta.

Favorito è il governatore della Bundesbank, Axel Weber. La cancelliera Merkel lo appoggia, anche perché preoccupata dallo stato precario degli istituti di credito tedeschi. I nostri, al confronto, stanno decisamente meglio. Questa considerazione potrebbe incoraggiare la scelta di Draghi. La Germania nel ’97 si oppose, finché fu possibile, all’ingresso della lira nell’Unione monetaria, affermando che il neonato euro sarebbe stato sfiancato dall’alto indebitamento italiano. Il nostro debito rimane elevato, purtroppo vista anche la bassa crescita, ma quello tedesco non scherza e in valore assoluto lo ha quasi raggiunto. L’avessero saputo all’epoca i Kohl e i Waigel, sarebbero arrossiti dalla vergogna. Altri tempi. Dunque, il debito italiano non è più una buona scusa per dire di no a Draghi. Che non è nemmeno una colomba, come dicono i tedeschi per indebolirne la candidatura. Le votazioni a Francoforte sono segrete, ma i suoi colleghi governatori lo sanno. Certo, aver lavorato per la banca d’affari americana Goldman Sachs può apparire oggi discutibile.

Il sostegno a Draghi è l’occasione, specialmente dopo il fallimento delle candidature di Mauro al vertice del parlamento di Strasburgo e di D’Alema al «ministero degli Esteri» europeo, per dimostrare agli altri e a noi stessi che l’Italia, Paese fondatore dell’Unione, non è né distratto né assente. E soprattutto non esprime nei contatti internazionali una sconveniente doppiezza. I rappresentanti di altri Paesi, quando si tratta di promuovere per una carica internazionale persone che hanno il loro stesso passaporto, dimenticano rivalità e differenze. Noi no, noi spesso godiamo, a destra come a sinistra, della bocciatura europea del nostro acerrimo avversario.

Tempo fa, Giulio Tremonti, che va giustamente fiero del relativo buono stato di salute delle banche italiane rispetto a quelle di altri Paesi, promosse, come presidente dell’Aspen Institute, una lunga riflessione sulla mancanza di spirito e di interesse nazionale. E fece bene. La storia è piena di stranieri chiamati in Italia per battere il vicino. E casi recenti, non più militari per fortuna, sono significativi. Si scelsero i francesi, per esempio, per dirimere le dispute in Mediobanca, o gli spagnoli per risolvere (?) l’infinita partita di Telecom. E s’invocò l’interesse nazionale per non dare l’Alitalia ad Air France (che l’avrà soltanto fra un po’). Riusciremo a ritrovare orgoglio e spirito nel sostenere la candidatura di Draghi? Si può anche perdere, anzi è probabile che ciò accada. Ma perdendo uniti si ha il rispetto degli altri e si accumulano crediti per il futuro; perdendo divisi si suscita solo compassione e si scivola nell’irrilevanza.

Ferruccio De Bortoli

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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 14, 2010, 10:25:42 pm »

Atti pubblici e vizi privati


L’interrogativo è uno solo: esiste una nuova questione morale? Analizziamo gli avvenimenti. Sulla vicenda che ha coinvolto la Protezione civile si sono già espressi su queste colonne Sergio Romano e Fiorenza Sarzanini. L’emergenza ha bisogno di procedure snelle e decisioni rapide. Ma non giustifica il moltiplicarsi di filiere autoreferenziali, sottratte a qualsiasi controllo, nelle quali fatalmente chi ha solo il senso degli affari finisce per prevalere e mortificare i tanti volontari animati unicamente da spirito di servizio. Troppi strumenti straordinari danno un senso d’inutilità alle gestioni ordinarie. Per queste ragioni, il disegno di legge sulla creazione della Protezione civile spa va ritirato o rivisto. Un terremoto (e all’Aquila sono stati fatti miracoli) si affronta in deroga a procedure autorizzative e discipline degli appalti; eventi programmati, come un mondiale di nuoto o l’Expo, no. In ogni caso, il rendiconto ex post non è solo un fastidio burocratico ma un atto di responsabilità che dà persino maggiore nobiltà formale a opere e gesti solidali. La trasparenza richiama e incoraggia la generosità. Se so come sono spesi i miei soldi, a favore di chi ne ha bisogno, la prossima volta ne darò di più. Su Bertolaso ho un’opinione personale. Positiva. L’ho visto all’opera tante volte. Non credo se ne sia approfittato. Ma non sfugge a un grande servitore dello Stato come lui che in ogni struttura, anche nell’emergenza (assimilabile di per sé all’attività militare), esistono principi di etica e responsabilità oggettiva senza i quali i corpi istituzionali e societari non funzionano.

Altri episodi sono di apparente minore rilevanza, ma non meno significativi e utili per rispondere alla domanda iniziale. In questi mesi abbiamo assistito al moltiplicarsi di esempi di corruzione della vita amministrativa, persino squallidi nelle modalità, come la mazzetta intascata per strada da un consigliere comunale milanese. Dalla Puglia all’Emilia, al Piemonte alla Lombardia, è stato un emergere sconfortante di infedeli e concussi, amministratori disinvolti e imprenditori senza scrupoli. Un fenomeno trasversale agli schieramenti politici, segnato più dall’avidità e dall’edonismo individuali o di gruppo che dalle ragioni di appartenenza a un partito o a una corrente come avveniva con Mani pulite. I comitati d’affari grandi e piccoli prosperano. Alcuni non si vergognano nemmeno, ne menano addirittura vanto. La realtà, amara, è che dovremmo domandarci tutti (stampa compresa) se il livello degli anticorpi della nostra società non sia sceso sotto il limite di guardia. Alla corruzione diffusa, così come allo scarso senso della legalità, ci si arrende facilmente. Come ci si rassegna a vivere in una città sporca o in un ambiente degradato. Ma l’esempio per le nuove generazioni è diseducativo e devastante.

Un’ultima considerazione. La riforma del titolo V della Costituzione ha abolito un sistema arcaico di controlli di legittimità sugli atti delle regioni e degli enti locali. Spesso la burocrazia centrale uccideva, con ritardi e abusi, la corretta volontà amministrativa.
In diversi casi, però, l’accresciuta autonomia locale non si è accompagnata a maggior rigore e senso di responsabilità. Ma piuttosto all’idea perversa che l’eletto sia legittimato a tutto e le regole un intralcio residuale del passato. Il federalismo fiscale dovrà tenerne conto se non vorrà trasformarsi in una babele costosa di egoismi locali.

Ferruccio de Bortoli

14 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 25, 2010, 09:31:18 am »

30 anni dopo

L’eredità di Tobagi un valore da custodire

Walter Tobagi assassinato.

La lezione del cronista che capì i nuovi barbari



Quel 28 maggio di trent’anni fa, era un mercoledì, pioveva e faceva ancora freddo. La primavera a Milano era stata inclemente e l’emergenza del terrorismo, che vivevamo con angoscia quotidiana, sembrava essersi trasformata persino in un cupo fenomeno atmosferico.

Il cielo color piombo, come i troppi anni di soffocante assedio della violenza e del terrore. La mattina, nello stanzone a pian terreno della cronaca di Milano, scorreva regolare nei suoi riti: il caffè, la riunione, le chiacchiere sciolte. Eravamo in due o tre, non di più. Allora i giornali si facevano soprattutto di sera e di notte, le redazioni si animavano verso le cinque del pomeriggio, il ticchettio assordante delle macchine per scrivere (oggi non lo sopporteremmo) si scatenava verso le sette, le otto. Non passava giorno, in quegli anni, che non venisse ucciso o gambizzato (brutto neologismo dell’epoca) qualcuno. E anche noi giornalisti avevamo la netta sensazione di poter essere, come lo eravamo già stati, nel mirino dei terroristi. C’era chi, esagerando come spesso ci accade, si era comprato un’arma, così per sentirsi più sicuro; chi uscendo di casa cambiava ogni giorno percorso; chi confessava di continuare a guardarsi le spalle. Fabio Mantica, vice capocronista, un maestro della cronaca, alzò il pesante telefono di bachelite nera. Il suo viso si fece all’improvviso scuro e una smorfia gli disegnò il volto già scavato dagli anni. Era un uomo di poche parole, Mantica, ma di rara umanità. Scattò verso l’uscio e salì di corsa in direzione al primo piano. Walter Tobagi era già stato ucciso, ma noi non lo sapevamo ancora. Non c’erano telefonini, siti online, non c’era twitter, solo quei pesanti telefoni fissi, insopportabili in duplex, che restarono ammutoliti per interminabili secondi, durante i quali i nostri sguardi di cronisti si incrociarono nel tentare di capire che cosa fosse accaduto. Poi cominciarono a squillare tutti insieme. Un inferno. Mantica scese in lacrime quando noi avevamo già capito e ci sentivamo sperduti e paralizzati dal dolore. Si appoggiò allo stipite della porta principale dello stanzone, quasi lasciandosi andare. «Ma forse non è morto », disse un collega. «No, nulla da fare, Walter è morto».

Uscimmo tutti di corsa, saltammo in fretta sulle macchine posteggiate più vicino e ci precipitammo sul luogo dell’agguato. Lungo il tragitto, lo ricordo perfettamente, eravamo in tre, nessuno di noi parlò. Appena arrivati, vedemmo una scena alla quale eravamo largamente abituati e che ormai non ci faceva più il minimo effetto: le pantere della polizia e le gazzelle dei carabinieri, come si diceva allora, le ambulanze, la concitazione, le urla, il disordine assoluto. La gente era assiepata, tenuta a bada con fatica e come prigioniera di un senso generale d’impotenza e di sconforto. Le parole spezzate, gli sguardi fissi. Ma c’era chi girava il capo e proseguiva allungando il passo, cercando di dimenticare tutto in fretta. Come se la battaglia contro il terrorismo fosse stata ormai persa, definitivamente, e si dovesse per forza convivere con il terrorismo omicida. Levando lo sguardo: una sorta di omertà. In altre occasioni un pensiero del genere non mi era venuto in mente, non ci avevo fatto caso. Quella volta sì perché sotto il lenzuolo sporco di sangue e intriso di pioggia c’era uno di noi, un collega, un amico. Il velo di cinismo che accompagna il lavoro del cronista, e ne fa un testimone utile proprio perché non sopraffatto dall’emotività, aveva lasciato il posto al dolore e alla rabbia, a un senso opprimente di ingiustizia.

Mi vergognavo di non averlo provato altre volte, quel sentimento. Ho riletto l’articolo di Fabio Felicetti, pubblicato il giorno dopo
l’agguato in prima pagina sul «Corriere». Un pezzo di rara tenerezza espressiva e nello stesso tempo asciutto e privo di retorica, quasi distaccato: descriveva quel corpo sbattuto sull’asfalto davanti al ristorante «Dai gemelli», come se lo dovesse toccare, sorreggere, quasi rianimare: la penna schizzata via dal taschino, l’ombrello caduto, la mano che sembrava ancora muoversi. Non dimenticherò di quelle ore convulse il pianto del direttore, Franco Di Bella, il dolore composto del suo vice Gaspare Barbiellini Amidei, il questore Sciaraffia che tentava di consolarli entrambi, la faccia impietrita di Angelo Rizzoli. Ma soprattutto gli sguardi smarriti dei tanti colleghi che erano accorsi lì, in via Salaino, una via sconosciuta, laterale, che poi per molti anni nessuno di noi avrebbe avuto più il coraggio di percorrere. Il direttore Di Bella era uomo duro, schietto, ma di straordinaria carica umana: sembrava aver perduto ogni forza. E ogni speranza. Come noi. Al funerale di Walter gridò la sua rabbia contro uno Stato che non sapeva difendere un suo cittadino. Ancora una volta, come tante volte. Eppure, non lo sapevamo e nessuno di noi lo immaginava, la lotta contro il terrorismo stava per essere vinta grazie ai tanti semi gettati con coraggio in una società provata e disillusa. Molti di quei semi erano nelle parole e negli articoli di Walter, come nei gesti e nell’opera silenziosa di tanti servitori dello Stato.

Il tempo, quel mercoledì, si era fermato all’improvviso. L’arrivo del padre di Walter, il suo urlo («Figlio mio») e il suo amorevole tentativo di nascondere alla nuora Stella la vista del corpo di Walter, ancora schiacciato contro il marciapiede: scene rimaste scolpite per sempre nella mia mente. La rappresentazione del dolore più profondo. Il calvario senza resurrezione. Ma l’immagine che mi è sembrata rappresentare di più la tragedia è quella di Walter ancora vivo, un po’ stanco, ma come sempre arguto e intelligente, la sera prima, al Circolo della Stampa di Milano a un dibattito sull’informazione e sul terrorismo. «È vero, c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti, ma sappiamo come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti... dobbiamo impedire che si propaghi». Walter parlava, citando Mario Borsa, direttore del «Corriere» nell’immediato dopoguerra, della libertà di stampa e della necessità che il pluralismo fosse garantito dalla corretta e aperta concorrenza fra gruppi editoriali. E aggiungeva: «Non è assolutamente sano in un Paese democratico che la politica si faccia nei palazzi di giustizia». Sono passati trent’anni, tutto è cambiato, ma le parole di Walter conservano una straordinaria attualità. La sua eredità morale e culturale rimane integra e viva. Intatta la testimonianza professionale di un cronista libero; fecondo il lascito di un pensatore riformista; profonda la scia di un cattolico impegnato nella società, desideroso di comprenderne le trasformazioni e di segnalarne con onestà e precisione le anomalie, i germi della violenza e del terrorismo.

Quella mattina, prima di sapere che era stato ucciso, una voce parlava di un portavalori ammazzato. Dopotutto, l’informazione non era errata, Walter è stato ed è il nostro portavalori. E che valori! A noi il compito arduo di custodirli senza retorica e amnesie.

di Ferruccio De Bortoli

25 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cultura/10_maggio_25/eredita_tobagi_5815c38c-67bd-11df-b83f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 29, 2011, 10:12:46 pm »

LE VIRTU' DEL RICORDO

Shoah, la memoria è giustizia


Viviamo schiacciati in un disperato presente e a volte ci assale un senso di vuoto che mette in forse anche la nostra incerta identità italiana. Se è consentito per un attimo evadere dalla stretta e pruriginosa attualità, senza che questo appaia una forma di disimpegno morale, vorremmo cogliere l'occasione della prossima giornata della memoria, 27 gennaio, il ricordo dell'immane tragedia della Shoah, per parlare un po' di noi stessi e discutere di quello che stiamo diventando: un Paese smarrito che fatica a ritrovare radici comuni e si appresta a celebrare distrattamente i 150 anni di un'Unità che molti mostrano di disprezzare.

Noto una certa stanchezza, nell'approssimarsi di una ricorrenza (il 27 gennaio del '45 venne liberato il campo di Auschwitz), peraltro istituita con una legge dello Stato soltanto undici anni fa. Avverto un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi. Anna Foa, sul Sole 24 Ore di ieri, giustamente ci metteva in guardia dall'ipertrofia della memoria, che rischia di far perdere l'indispensabile nesso fra funzione conoscitiva (sapere perché non accada più) e funzione etica (cittadini consapevoli dei valori universali e, dunque, migliori). Non mancano, e sono numerose, le eccezioni positive, soprattutto nel mondo della scuola, ma ciò non è sufficiente a dissipare la sensazione di un progressivo distacco dagli avvenimenti, la cui comprensione profonda è indispensabile alla nostra formazione culturale e civile. Avvenimenti che tendono ad allontanarsi, e non solo per effetto del tempo che passa, dal nostro orizzonte identitario, come accade per il Risorgimento o per la Resistenza, di cui la nostra Costituzione è figlia. I negazionisti o i mistificatori abbondano in Rete. Ma dobbiamo temere anche gli indifferenti, e non sono pochi, davanti ai quali le testimonianze dell'esistenza di un male assoluto scorrono come le immagini di una qualsiasi fiction: sembrano non penetrare le coscienze e non muovere alcuna forma di commozione. Svaniscono un attimo dopo essere state viste, nel trionfo di una memoria digitale tanto abbondante quanto fredda.

Un bel libro di Frediano Sessi, intervistato sabato da Giovanni Tesio sulla Stampa, e di Carlo Saletti (Visitare Auschwitz, Marsilio) ci insegna a capire come l'universo concentrazionario e di morte fosse il risultato di una mente umana del tutto normale, purtroppo, e non folle o eccezionalmente malata. E che il valore della memoria si affievolisce presto nella banalità e nell'irrilevanza se non c'è insegnamento e riflessione sul presente. «Un'oretta e mezzo di genocidi, guerra, scheletri, morti ammazzati, follia omicida e se non c'è traffico alle undici saremo a Firenze», scriveva provocatoriamente Andrea Bajani, a proposito di un certo frettoloso turismo della memoria.

Probabilmente abbiamo commesso molti errori di comunicazione, non lo escludo. Vi è forse una certa sovrabbondanza di materiali, non didatticamente ordinati (l'ipertrofia di cui parla la Foa), ma sarebbe assai grave se la società italiana perdesse progressivamente la consapevolezza della propria storia e il ricordo di tanti sacrifici, di tante ingiustizie, del disegno lucido, concepito nella patria della filosofia, del diritto moderno e della musica, di cancellazione di un intero popolo dalla terra. Questo è il senso dell'unicità della Shoah.

Nell'indifferenza etica crescono i pregiudizi, nell'ignoranza si cementano gli odi e i sospetti; nella perdita dei valori della cittadinanza, scritti mirabilmente nella nostra Costituzione, fermentano i germi di nuove violenze; le comunità regrediscono a forme tribali. Segni di questa involuzione li troviamo in molti Paesi europei, anzi a dire la verità il nostro appare meno toccato da forme di estremismo quando non di razzismo. Nell'Est liberato dall'oppressione sovietica e accolto, fin troppo generosamente, dall'Unione europea, emergono fenomeni assai più preoccupanti. Ma sbaglieremmo se ci considerassimo totalmente immuni, se coltivassimo, come è scritto nella bella prefazione di Michele Sarfatti al libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia, Einaudi) l'idea, sbagliata, che tutto sommato l'Italia, dopo le leggi razziali del 1938, abbia recitato un ruolo parziale, secondario o addirittura controvoglia, nella grande tragedia della Shoah. «La verità - si legge - è che l'Italia e gli italiani intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei e la portarono avanti con sistematicità, determinazione ed efficacia. E se il tributo di vite umane tra la fine del '43 e la primavera del '45 fa parte della storia più generale della Shoah, la persecuzione subita dagli ebrei tra il '38 e il '43... resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere». Ma ugualmente ancora poco conosciuto è il grande e generoso contributo di solidarietà agli ebrei che venne da tanti semplici cittadini i quali rischiarono la loro vita per dare assistenza e rifugio ai perseguitati. Uno straordinario capitolo di storia italiana. «Abbiamo sempre avuto dove dormire la notte e la fame brutta non abbiamo mai sofferta», si legge in una lettera scritta da Cesare Zarfati poco prima di essere deportato. Migliaia di ebrei salvati, da famiglie umili, cittadini anche poveri e poco istruiti, ma consapevoli dei valori universali, che oggi stentiamo a difendere, e per nulla intimoriti da fascisti e nazisti. Quanti oggi avrebbero quel coraggio? Una resistenza civile diffusa, cui diede un contributo prezioso la Chiesa, di cui essere fieri. La memoria è giustizia ed esercizio di etica civile. Quotidiano.

Ferruccio de Bortoli

24 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_24/la-memoria-giustizia-editoriale-ferruccio-de-bortoli_b4a8c9cc-2780-11e0-a862-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 30, 2011, 11:21:07 am »


IL CONFLITTO TRA LE ISTITUZIONI

La necessità di una tregua

Nell'infinita notte della nostra Repubblica, cresce l'inquietudine di chi vorrebbe vivere in un Paese normale, di chi avverte l'urgenza di occuparsi di problemi veri: la famiglia, il lavoro, l'impresa. E soffre il degrado della vita pubblica, la grave perdita d'immagine internazionale. Vogliamo essere orgogliosi del nostro Paese e non avere motivi di imbarazzo se non di vergogna. Un'inchiesta della procura milanese a carico del premier scuote le coscienze. Diffidiamo dei tanti che pensano di avere la verità (e la sentenza) in tasca. Siamo garantisti, ma riteniamo che il premier debba andare dai magistrati competenti e chiarire. Ha tutto il diritto di difendersi, anche se sarebbe preferibile che non lo facesse attaccando ogni giorno la magistratura. Fondato e importante il tema delle libertà individuali, ma chi governa deve dare un buon esempio.

In questi giorni si sta consumando un altro dramma: il crescere della conflittualità fra le istituzioni. Forse ci stiamo abituando a tutto, ma non possiamo assistere in silenzio a una catena di strappi senza precedenti. Capisco l'insofferenza per le forme, che è figlia di questo tempo, ma c'è un limite. Jean Monnet, uno dei padri dell'Europa, diceva che «niente è possibile senza gli uomini, ma nulla è durevole senza le istituzioni». Nella salute delle nostre istituzioni c'è la qualità democratica di cui godranno le future generazioni. Le irritualità sono state numerose. Il premier chiede le dimissioni del presidente della Camera, suo ex alleato, e questi, super partes a Montecitorio, da poco capo di un nuovo partito, rivolge al presidente del Consiglio analoga intimazione. Il ministro degli Esteri, rispondendo a un'interrogazione ammessa, fra le contestazioni, dal presidente del Senato, presenta un dossier con lo scopo di provocare le dimissioni del presidente della Camera su una questione, la nota vicenda della casa di Montecarlo, che continua a incombere su Fini. Insomma, l'appartenenza politica e le convenienze personali degli uomini che rivestono le principali cariche dello Stato sembrano prevalere sul ruolo istituzionale che ricoprono. In un Paese nel quale vi sono forze politiche che vorrebbero ridurre al silenzio la magistratura, limitandone l'autonomia e l'indipendenza, e magistrati che pensano di potersi sostituire alla volontà popolare nel decidere a chi spetti governare.

Nell'anomalia italiana, gli ingredienti più rari sono il buon senso e la misura, propri dell'etica pubblica. Una tregua fra le istituzioni e una prova di dialogo fra maggioranza e opposizione sono necessari. Un'indagine non può paralizzare la vita del governo, che deve proseguire la propria attività, peraltro caratterizzata da diversi aspetti positivi, nel rispetto dell'azione della magistratura. Un allargamento della maggioranza è sempre possibile (i ribaltoni, per favore no), ma non a costo di avvilenti mercanteggiamenti di deputati e senatori. La precaria congiuntura internazionale suggerisce stabilità e polso fermo, specialmente in economia. Ma se l'incertezza di un quadro contrassegnato da scandali, liti e reciproche delegittimazioni fra poteri dello Stato dovesse proseguire, è preferibile restituire la parola agli italiani. Ancora due anni così non ce li possiamo permettere. Senza una vera tregua, meglio allora votare subito, anche con una legge elettorale sbagliata. Non è la scelta migliore ma potrebbe diventare il minore dei mali.

Ferruccio de Bortoli

30 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_30/debortoli_c44a48e4-2c47-11e0-b8e2-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 12, 2011, 04:39:17 pm »

LA TEMPESTA FINANZIARIA SULL'ITALIA

Ora Più Coraggio


La manovra economica non c'è ancora, ma parte rilevante dei suoi ipotetici benefici è già stata bruciata. In un giorno. È questa l'amara sintesi di quello che è accaduto ieri sui mercati. La differenza, lo spread , fra il rendimento dei nostri Btp e i Bund è al record storico. I primi, sulla scadenza decennale, rendono il 5,7 per cento contro il 2,65 degli analoghi titoli tedeschi. Che cosa significa? Semplice: dobbiamo promettere di più, concedendo un premio maggiore al rischio, a chi ci presta i soldi. Il nostro debito, il 119 per cento del Pil, cioè superiore a quanto produciamo in beni e servizi ogni anno, va continuamente rifinanziato. La media mensile delle emissioni lorde di titoli sfiora i 40 miliardi. Nel 2010 gli interessi pagati sul debito sono stati pari al 4,5 per cento del Pil, ovvero 70 miliardi, e oggi sono intorno al 5. Lo spread con i Bund era di 245 punti base venerdì, ieri ha toccato i 305. Tanto per dare un'idea: cento punti significano 3,2 miliardi di maggiori interessi per l'anno in corso e 6,4 per il prossimo.

Quello che è accaduto rende ridicola e preoccupante la litania dei distinguo e delle promessedi togliere questo o quell'aspetto della manovra per compiacere fette di elettorato o clientele. E ancora più incomprensibili la decisione di rinviare alla prossima legislatura il taglio dei costi della politica e l'anacronistica difesa delle Province. La crisi dei mercati espone nella sua drammaticità tutta la perdita di immagine di un esecutivo diviso da teatrali rivalità interne e indebolito dalle inchieste della magistratura. Della manovra, e soprattutto dei suoi saldi, abbiamo capito poco in Italia, figuriamoci che cosa possono aver pensato gli osservatori internazionali, spesso preda di pregiudizi. Il pareggio di bilancio al 2014 è obiettivo importante, ma se il percorso per raggiungerlo appare incerto e contraddittorio è come dire ai mercati: noi ci crediamo poco, però voi per favore credeteci. Per esempio, non si può pensare che la spesa pubblica (al 48 per cento del Pil nel 2001 è arrivata al 51 per cento lo scorso anno) non sia più seriamente riducibile, come farebbe qualsiasi avveduta famiglia.
Si può fare molto di più. I mercati hanno bisogno di segnali chiari. Prendersela con la speculazione internazionale non serve a nulla. Consolarsi con la spiegazione, corretta, che è tutta l'area dell'euro sotto attacco, sarebbe fuorviante. Si approvi velocemente la manovra con una discussione aperta e concreta. Maggioranza e opposizione si ritrovino, una volta tanto, sulla linea della responsabilità tracciata da Napolitano che ha sollecitato Pd, Udc e Idv a concordare e limitare gli emendamenti: una svolta positiva. Si pensi al Paese, non ai voti.

Il governo valuti anche la possibilità di anticipare il pareggio di bilancio, come hanno proposto sul Sole 24 Ore Roberto Perotti e Luigi Zingales, e dia un segnale più forte sulla crescita. Come? Le idee sono molte. Alcuni esempi: raggruppare tutti gli incentivi alle aziende in un fondo dedicato al finanziamento delle nuove imprese, soprattutto giovanili; abbattere con più coraggio la burocrazia; semplificare di colpo le procedure amministrative; costringere le società concessionarie (autostrade e aeroporti) a sbloccare investimenti già decisi; utilizzare meglio i fondi europei. Altre proposte sono contenute nell'articolo di Maurizio Ferrera. Se siamo seri non dobbiamo temere nulla, ha detto nei giorni scorsi Napolitano rivolgendosi ai palazzi della politica. Purtroppo finora non lo siamo stati. E i mercati ce la fanno pagare. Cara.

Ferruccio de Bortoli

12 luglio 2011 07:50© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_12/debortoli-coraggio_2f210414-ac45-11e0-96a7-7cc3952b9d04.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 03, 2011, 10:57:20 am »

ECONOMIA, SERVONO RISPOSTE IMMEDIATE

Primo: domare subito l'incendio

La prima cosa da dire è che non ci meritiamo la sfiducia dei mercati. Non se la meritano le famiglie, che lavorano e risparmiano più della media europea. Non se la meritano le imprese, il cui export cresce allo stesso ritmo di quelle tedesche. Se la meriterebbe la politica che inganna i cittadini facendo finta di tagliare le proprie spese per poi andare in ferie, scandalosamente, fino al 12 settembre. Ma non è tempo di polemiche.

Non c'è tempo nemmeno per vagheggiare governi tecnici e nuove maggioranze. Almeno per ora. La casa brucia ed è necessario prima di tutto spegnere l'incendio. L'amara realtà è che per rifinanziare il nostro debito pubblico dobbiamo garantire a chi ci presta i soldi quasi quattro punti percentuali in più dei tedeschi. Come la Grecia 16 mesi fa.

Berlusconi parlerà oggi alle Camere, chiamato a un difficile compito e forse all'ultima drammatica prova da statista che la storia gli assegna: convincere i mercati della serietà della nostra correzione dei conti e della nostra volontà di crescere.
Finora il governo non c'è riuscito. La manovra da 80 miliardi (compresa la delega fiscale) è apparsa poco credibile perché, nell'arco di prevedibile durata di questo esecutivo, vale appena 15 miliardi (il 19%). Le uniche misure immediate, i ticket, sono state applicate solo da alcune Regioni e apertamente contestate dalla Lega. Come possono i mercati fare affidamento su provvedimenti subito smentiti da una parte della maggioranza che li ha votati? E perché mai devono aver fiducia in un esecutivo che concentra la propria azione sul processo lungo o sul trasloco di tre stanze ministeriali a Monza? Una maggioranza che non governa è un unicum costituzionale, ma oltre a fare male al Paese scava la fossa a se stessa.

Il minimo che ci si possa attendere oggi è l'indicazione di un percorso concreto. L'ascolto delle richieste delle parti sociali. L'assunzione di alcuni impegni precisi che non si potranno disattendere. E se ciò accadesse ancora, allora sarebbe opportuno che il premier ne traesse le doverose conclusioni dimettendosi.

La misura più urgente, come più volte sottolineato su queste colonne, è l'anticipo del pareggio di bilancio. La promessa di farlo nel 2014, quando ci sarà un altro governo, ha la portata vacua di una boutade estiva. Come arrivarci? Operando soprattutto sui tagli di spesa, apparsi nella manovra, appena approvata con un lodevole sforzo bipartisan, niente più che un'operazione cosmetica.

Coraggio, le idee non mancano. I consigli e l'appoggio della Banca d'Italia sono indispensabili. Privatizzare e liberalizzare con decisione, ridurre drasticamente il costo della burocrazia e della politica. L'adozione di misure eccezionali, anche se dovesse comportare sacrifici per imprese e famiglie, sarebbe accettata a fronte di una ripresa degli investimenti e di prospettive meno incerte sul versante della crescita. Interventi più incisivi sul mercato del lavoro e sul sistema previdenziale potrebbero avere come contropartita maggiori opportunità di occupazione per i giovani, sostegni agli investimenti, certezze per le imprese. Una volta tanto si chiede al premier di pensare solo al Paese. E di cercare un dialogo con un'opposizione che non può essere tentata di scommettere sul disastro del Paese per liberarsi del suo odiato avversario. Un confronto responsabile e serio. E si ascoltino le parole del presidente Napolitano, unica fiaccola nel buio estivo della nostra politica.

fdebortoli@rcs.it
twitter @deBortoliF

Ferruccio de Bortoli

03 agosto 2011 08:16© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_03/debortoli-domare-incendio_2f64e9b6-bd90-11e0-99fd-c37f66002d24.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 12, 2011, 05:31:42 pm »

RIGORE, CRESCITA ED EQUITA'

Una emergenza, tre condizioni


Il miglior commento al discorso di Tremonti è stato quello di Bossi. Se lo statista di Gemonio è scontento dell'intervento del ministro dell'Economia vuol dire, paradossalmente, che qualche passo avanti nella comprensione della gravità della situazione è stato fatto.

Il Consiglio dei ministri, in programma forse oggi, è chiamato a prendere decisioni dolorose che ci auguriamo vadano nella direzione del rigore, della crescita e dell'equità. Le prime due condizioni sono necessarie per recuperare la fiducia dei mercati e abbassare l'onere del rifinanziamento del debito pubblico. La terza, l'equità, è indispensabile per convincere famiglie e imprese dell'utilità dei sacrifici. Siamo in emergenza, bisogna fare in fretta e tentare di spegnere l'incendio che minaccia un intero Paese, gran parte del quale, per lavoro e intelligenza, la tripla A, il massimo di giudizio dei mercati, la merita da sempre.

Cominciamo dal rigore. Gli interventi prospettati dal titolare dell'Economia (ma lo è ancora di fatto?) appaiono inevitabili, sia sul lato delle pensioni d'anzianità sia su quello della tassazione delle rendite finanziarie, ma vanno accompagnati, meglio preceduti, da un drastico taglio del personale e dei costi della politica. Io, piccolo lavoratore, imprenditore, risparmiatore, posso rimboccarmi le maniche (e rinunciare a qualche festività) se serve al mio Paese, ma pretendo che burocrati, parassiti della politica, ed evasori siano seriamente contrastati e non premiati, come a volte questo governo ha fatto.

Promuovere la crescita è questione di vitale importanza, tanto quanto l'anticipo, come chiede la Bce, del pareggio di bilancio al 2013. Bene la privatizzazione dei servizi locali (chi lo dice alla Lega che l'ha sempre avversata?), così come il risveglio di una a lungo sopita volontà liberalizzatrice.

L'equità è la terza condizione ma non l'ultima. Se sarà necessario un contributo straordinario oltre una certa soglia di reddito (la patrimoniale appare esclusa e non è la migliore delle soluzioni) sarebbe auspicabile che avesse un vincolo di destinazione del gettito, per esempio a favore del lavoro dei giovani. Misure una tantum , però, non avendo effetti strutturali, rischiano di essere alla fine inutili. La necessaria riforma del mercato del lavoro è importante che rispetti la libera determinazione delle parti sociali, dando maggior peso alla contrattazione aziendale. Provvedimenti che contrastino quello che Tremonti ha definito «l'abuso dei contratti a tempo determinato» sono auspicabili.

Rigore, crescita, equità. Manca un quarto elemento: uno spirito nazionale che consenta un dialogo costruttivo fra governo, opposizione e sindacati. Non possiamo permetterci scioperi e distinguo di comodo. Non c'è tempo per governi tecnici e altre maggioranze. Occorre dare un segnale forte, il più possibile condiviso. Con un supplemento di responsabilità nazionale. A cominciare dal governo che per troppo tempo, anche nelle analisi millenariste del suo immaginifico ministro dell'Economia o nella pervicace e colpevole sottovalutazione dei problemi da parte del premier, ha dato prova di averne assai poca. Il mondo non è cambiato cinque giorni fa, come ha detto ieri Tremonti. È cambiato molto prima. Avessero ascoltato di più le voci critiche e fossero stati meno intolleranti...

Ferruccio De Bortoli

12 agosto 2011 12:34© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_12/una-emergenza-tre-condizioni-ferruccio-de-bortoli_b0d28e36-c4a7-11e0-a78d-d70af0455edb.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 25, 2011, 11:31:41 am »

UN AGGUATO, I TIMORI, LE SPERANZE

Guardateli negli occhi

Scriviamo queste poche note con l'animo schiacciato dall'ansia, ma con la speranza che tutto si concluda, nel migliore dei modi, nelle prossime ore, forse già nella notte. Quattro giornalisti italiani, Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera , Domenico Quirico della Stampa e Claudio Monici di Avvenire sono stati sequestrati da una banda che poi li ha consegnati a miliziani lealisti di Gheddafi. L'autista che guidava la vettura sulla quale tentavano di raggiungere Tripoli è stato barbaramente ucciso. I giornalisti sono stati malmenati e derubati. Temiamo per la loro vita, anche se le prime valutazioni delle autorità che seguono il caso ci inducono a un moderato ottimismo. Non riusciamo però a trattenere il pensiero che va ai tanti episodi del passato in cui gli operatori dell'informazione, anche del Corriere , hanno pagato un alto prezzo al loro senso del dovere. Come altri, militari e volontari. Troppi.

Le notizie sono scarne e contraddittorie. Il ministero degli Esteri, la cui unità di crisi si è prontamente attivata, ritiene che il sequestro si possa risolvere in breve, come quello dei colleghi stranieri tenuti in ostaggio per cinque giorni all'hotel Rixos di Tripoli e rilasciati nel momento in cui le sorti della guerra civile libica sono apparse irrimediabilmente segnate. Ma l'esperienza insegna, in Afghanistan come in Iraq, che questi sono i momenti peggiori di una guerra. Gli schieramenti si sfaldano in rivoli in cui la paura alimenta una violenza cieca; si aggregano bande a caccia di ostaggi ridotti alla stregua di salvacondotti o merce di scambio; la vendetta e lo sciacallaggio sono le sole regole rimaste intatte fra corpi abbandonati e macerie.

In questo scenario inquietante, i giornalisti sono al tempo stesso i bersagli più facili da colpire e gli ostaggi più utili da esibire. Ma i nostri colleghi sono armati solo degli strumenti della loro professione. E soprattutto sono mossi dalla passione di scoprire e raccontare la realtà dei fatti. Forse questo, più del loro passaporto occidentale, li espone a ogni sorta di pericolo. Non vestono alcuna divisa. Sono testimoni preziosi, non combattenti. Ascoltano le voci degli altri. Tutte. Anche dei nemici del loro Paese, sul quale non esitano a scrivere verità scomode. L'informazione è l'architrave di ogni democrazia. Schiacciando la libertà di stampa non si costruisce nulla. Se non regimi, come quello di Gheddafi, destinati a implodere per averla troppo a lungo negata. E la primavera araba ne ha un bisogno vitale. I giornalisti sono stati e sono soprattutto messaggeri di pace. Perché senza di loro, il dialogo fra le parti, fra etnie e religioni diverse, sarebbe semplicemente impossibile. Assicurano in condizioni estreme un servizio civile tra i più alti.

La speranza in ore di grande apprensione è che i sequestratori possano leggere ciò che scriviamo sui giornali, guardare le immagini trasmesse in queste ore, scorrere le notizie sul web. E interrogare le loro coscienze, ritrovare quel senso di umanità che fa parte della storia delle loro genti. Siamo sicuri che guarderebbero con occhi diversi Elisabetta, Giuseppe, Domenico e Claudio che di ostile non hanno nulla e di amichevole tutto. Forse l'hanno già fatto, noi lo speriamo con tutto il cuore.

Ferruccio de Bortoli

25 agosto 2011 07:20© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_25/de-bortoli-editoriale_af100006-ced9-11e0-9639-95c553466c70.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 13, 2011, 10:51:19 am »

SOSTEGNO DELLA BCE E DIGNITÀ NAZIONALE

Ce la facciamo (anche da soli)


Dieci anni fa scrivemmo su questo giornale «Siamo tutti americani», oggi ci piacerebbe scrivere «Siamo tutti italiani». Ma abbiamo qualche dubbio. Le dimissioni di un membro tedesco della Banca centrale europea, contrario all'acquisto di titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, tra cui i nostri, ha fatto precipitare i mercati nel caos. Aspettiamo tutti con ansia la riapertura delle contrattazioni domani, nella speranza che il famoso, o famigerato spread fra Btp e Bund possa ridursi o non ampliarsi troppo.

Jürgen Stark è un tedesco che disprezza il nostro Paese, ma non ha torto quando definisce un bazar il mercato secondario dei titoli del debito. Noi in quel bazar facciamo una pessima figura. Compatiti e irrisi. Un po' da tutti. Anche da chi non ne ha ragione. Dagli spagnoli - che hanno reagito assai bene e con misure bipartisan alla crisi - e dai portoghesi preoccupati della concorrenza che possiamo far loro nel mercato finanziario dei poveri d'Europa. Mancano solo i greci, per ora. La nostra immagine all'estero sarà anche deteriorata dal fatto che, schiacciati dal debito, invecchiamo senza crescere. Le vicende politiche e giudiziarie del premier, fin troppo note, non ci hanno fatto bene. Ma c'è un pregiudizio nei confronti del nostro Paese che ha cause più complesse.

Noi speriamo che la manovra sia sufficiente a dimostrare la volontà italiana di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Ha molti difetti, non ci piace, ma è significativo che il Senato l'abbia approvata in fretta e la Camera si appresti a farlo. La settima potenza economica mondiale, la seconda industria manifatturiera d'Europa non può ridursi però a chiedere l'elemosina alla Banca centrale. Non può mostrare una dipendenza patologica da quella che, su queste colonne, Francesco Giavazzi ha definito la morfina della Bce. Gli acquisti da parte della Bce dei nostri titoli sono importanti, ma davvero appaiono indispensabili a un Paese che conserva in molti settori grandezza e prestigio? Certo, abbiamo 1.800 miliardi di debito pubblico, che dobbiamo rinnovare in una percentuale intorno ai 15 punti l'anno. Una spesa pubblica di circa 800 miliardi che è un delitto non ridurre drasticamente. Ma anche, sull'altro piatto della bilancia, più di mille miliardi di patrimonio pubblico, largamente infruttifero; 8 mila e 600 di ricchezza netta delle famiglie e delle imprese, assai meno indebitate di quelle di Paesi che non vorrebbero più, con il sopracciglio alzato, farci credito. Senza ricorrere a patrimoniali e altre tasse (sono già troppe!), siamo sicuri che non possiamo farcela da soli? Tiriamo su la testa. Un po' d'orgoglio.

Se vivessimo in un Paese normale, il governo (con un maggior senso di responsabilità da parte dell'opposizione) domani direbbe alla Bce: grazie per tutto quello che avete fatto per noi, ma da oggi, costi quel che costi, facciamo da soli. Una scelta non solo coraggiosa, ma opportuna: tanto fra qualche giorno la Bce smetterà comunque di comprare i nostri titoli. E da novembre, con Mario Draghi al vertice, non ci farà nessuno sconto. Cerchiamo di dimostrare agli investitori, stimolando la crescita (un punto di Pil equivale a 16-17 miliardi) con riforme vere e riduzioni reali delle spese, che investire sui nostri titoli di Stato, al di là di buoni rendimenti, è un affare. Un sussulto di dignità nazionale, via. Qualche volta abbiamo la sensazione che non esista più un governo, ma solo la sua maschera di cera. Se esiste, questo coraggio dovrebbe averlo. Oppure, meglio che la maggioranza ne prenda atto. E presto.

Ferruccio de Bortoli

11 settembre 2011 17:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_11/de-bortoli_ce-la-facciamo-anche-da-soli_d10afbfe-dc47-11e0-a4d3-b67952ef5c68.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 06, 2011, 05:26:08 pm »

CONSEGUENZE DI UNA CONDANNA

Il sipario strappato


Le agenzie di rating valutano l'affidabilità di un debitore. Formano un oligopolio a volte collusivo. E sono tra le maggiori responsabili della crisi finanziaria. Diedero, tanto per fare un esempio, la tripla A, il massimo dei voti, a Lehman Brothers poco prima del suo fallimento. Ma, piaccia o no, chi investe non può non tenere conto del loro giudizio. Specie se rischia i soldi di altri. Dunque, inutile polemizzare, inventarsi complotti, dare la colpa ai media, se anche Moody's, dopo Standard and Poor's, ha declassato il nostro debito. La bocciatura era prevista. Arriva solo con un mese di ritardo. Non era però immaginabile l'ampiezza della retrocessione.

Tre gradini bruciano. Ci avvicinano pericolosamente alla Grecia.

Il Paese che lavora, risparmia, produce non merita questo trattamento. Gli hedge fund , i fondi speculativi, non hanno cuore. Sono spietati con chi si mostra debole. Ma noi non lo siamo, potremmo obiettare, abbiamo dopotutto la seconda industria manifatturiera d'Europa. Sì, il debito sfiora i 2.000 miliardi, più o meno il valore del patrimonio pubblico, ma la ricchezza netta privata è quattro volte tanto. Perché i mercati se la prendono con noi e non più, per esempio, con la Spagna, che ha uno spread - la differenza fra rendimenti dei propri titoli di Stato e quelli tedeschi - inferiore al nostro? Eppure la nostra ricchezza pro capite è quasi il triplo di quella iberica. Il debito è il doppio, ma il deficit circa la metà. Perché? La risposta è lapidaria. Non siamo né credibili, né seri. Nessuno più investe in Italia e chi ci presta soldi vuole tassi usurari. La nostra immagine è a pezzi. Chi lavora con l'estero prova una profonda umiliazione, cui si accompagna un sempre crescente moto d'ingiustizia, per come viene trattato il nostro Paese.

Noi ci sforziamo di pensare che un sussulto di dignità, uno scatto d'orgoglio siano ancora possibili. Anche dall'attuale maggioranza. La manovra annunciata e smentita più volte in agosto è stata varata, alla fine, e vale 58 miliardi. Ma è insufficiente. La lettera della Bce al governo italiano, pubblicata dal Corriere , è rimasta in gran parte inascoltata, al punto che nei giorni scorsi, a Francoforte, si è persino pensato di mandarne un'altra. Ha diviso in profondità anche l'opposizione. E i mercati guardano avanti, perplessi. Riforme vere, privatizzazioni e liberalizzazioni, rimangono sulla carta. Siamo stati capaci di aumentare le tasse, ma la spesa pubblica (800 miliardi) prosegue la sua corsa. Abbiamo annunciato che avremmo abolito le Province: non era vero. Tagliato i costi della politica: una presa in giro. La nomina più delicata, quella del governatore della Banca d'Italia, è finita mestamente nel tritacarne delle liti di maggioranza. Il premier mostra di occuparsi solo delle sue questioni personali. E, infatti, oggi di che cosa discute la Camera dopo aver votato in diretta televisiva (ci vedono anche all'estero) sulle inchieste Papa, Milanese e Romano? Delle questioni contenute nella lettera della Bce? No, delle intercettazioni. Bossi non appare, anche agli stranieri, nel pieno delle sue facoltà. Non c'è membro del governo o della maggioranza che non affermi in privato che Berlusconi debba lasciare. Su questo giornale abbiamo suggerito al premier di fare come è accaduto in Spagna: annunciare che non si ricandiderà, chiedere le elezioni e non trascinare con sé l'intero centrodestra. Nessuna risposta.

Ferruccio de Bortoli

05 ottobre 2011 07:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 17, 2011, 05:09:22 pm »

IDEE PER UNA NUOVA STAGIONE

La missione dei cattolici

Il Paese ha bisogno dei cattolici. La ricostruzione civile e morale non sarà possibile senza un loro diverso e rinnovato impegno politico. E senza un dialogo più stretto, fuori dagli schemi storici, con gli eredi delle tradizioni liberale e riformista. Se n'è discusso molto in questi giorni e il Corriere ha ospitato opinioni di orientamento differente stimolate da un articolo di Ernesto Galli della Loggia. Non si tratta di ricostituire il partito dei cattolici, né di far rivivere, sotto altre forme, la Democrazia cristiana, o il Partito popolare, al di là dell'attualità del pensiero di don Sturzo. L'idea del partito unico è stata seppellita con la Prima Repubblica. E non se ne sente la necessità, nonostante qualche fondata nostalgia per la difesa dello Stato laico e delle sue istituzioni che appariva più convinta ed efficace quando vi era un forte partito di diretta ispirazione cristiana. La cosiddetta Seconda Repubblica è apparsa fin da subito affollata di atei devoti e politici senza scrupoli, ai quali le gerarchie ecclesiastiche hanno talvolta frettolosamente concesso ampie aperture di credito.

Nel nostro sofferto bipolarismo, al contrario, testimonianze cattoliche più autentiche sono state ridotte alla pura sussistenza o, come ha scritto Dario Antiseri, alla scomoda condizione di ascari. La diaspora ha trasmesso ai cattolici la falsa sensazione di contare di più. Come oggetti, però. Promesse generose (si pensi solo alla tutela economica della famiglia) mai mantenute. Impegni solenni, e discutibili, sulla bioetica, subito derubricati nell'agenda politica, e dunque ritenuti solo a parole irrinunciabili. Nella triste époque , come la chiama Andrea Riccardi, il ruolo dei cattolici in politica è finito per essere quello degli ostaggi corteggiati a destra e degli invisibili tollerati a sinistra. Condizione che ha impoverito la politica e immiserito una società scivolata nell'egoismo e nella perdita di un comune sentimento civile.

Nell'immaginario collettivo del pur variegato mondo cattolico si è poi creata una frattura tra chi poteva trattare con lo Stato la difesa dei valori e dei principi, e chi ha cercato di ritrovare i segni dell'essere cristiani nella pratica di tutti i giorni. I primi hanno chiuso troppi occhi su modelli di vita e di società non proprio evangelici e mostrato una tendenza al compromesso eccessivamente secolarizzata. Gli altri, i cittadini e i fedeli, si sono sentiti non di rado smarriti. Non hanno perso la speranza solo grazie a uno straordinario tessuto di parrocchie, comunità, reti di volontariato, cui tutti noi italiani, credenti o no, dobbiamo un sentito grazie.

Angelo Bagnasco, il presidente della Conferenza episcopale, ha parlato della necessità di creare un «nuovo soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni». L'incontro di oggi a Todi, al quale partecipa lo stesso Bagnasco, forse ne svelerà la forma. Non sarà un partito, dunque, e non è nemmeno necessario che il forum delle associazioni cattoliche del lavoro si ponga il problema di quale veste assumere. Sono stati troppi in questi anni i contenitori senza contenuti.

Che cosa potrebbero fare allora questo forum e altre aggregazioni già in movimento dell'universo cattolico? Sarebbe sufficiente che si ponessero obiettivi assai semplici seppur ambiziosi: ravvivare lo spirito comunitario, la voglia di partecipazione e gettare un seme di impegno per gli altri. «Né indignati, né rassegnati», ha detto Bagnasco: è uno slogan efficace. Nel saggio Geografia dell'Italia cattolica , Roberto Cartocci scrive che «la tradizione cattolica appare come il collante più antico, il tratto più solido di continuità fra le diverse componenti del Paese». Non solo: è portatrice di una cultura inclusiva, che non divide e frantuma la società. Ha il senso del limite all'azione della politica e della presenza dello Stato nella vita dei privati. Sono qualità importanti. Apprezzate da tutti. Anche da noi laici.

Quel che resta, non poco, di quella tradizione ha il compito storico di promuovere un dialogo più proficuo con le altre componenti laiche, liberali e riformiste della società. L'indispensabile opera di pacificazione del dopo Berlusconi passa necessariamente dalla affermazione della centralità della persona e dalla riscoperta delle virtù civili. I cattolici possono intestarsi una nuova missione, esserne protagonisti. Dire quale idea dell'Italia hanno in mente. Riscoprire un tratto più marcatamente conciliare dopo l'era combattiva e di palazzo di Ruini. Una missione sociale, in questi anni, poco valorizzata, mentre si è insistito tanto sulla difesa dei valori cosiddetti non negoziabili, dal diritto alla vita alle questioni bioetiche, al punto di estendere l'incomunicabilità con le posizioni laiche all'insieme delle questioni civili ed economiche. Un dialogo va ripreso su basi differenti, nel rispetto delle libertà di coscienza.

La collocazione politica dei cattolici costituisce un problema secondario, per certi versi irrilevante. Galli della Loggia ha scritto che il centro non è il luogo del loro destino genetico, e tantomeno la sinistra. De Rita si è chiesto chi potrebbe essere il nuovo federatore di tante anime sparse disordinatamente. La politica verrà. Per ora possiamo dire che sarebbe un imperdonabile errore se lo slancio partecipativo dei cattolici, palpabile nel fermento di molte associazioni e componenti, si esaurisse in una sterile discussione di schieramento. Quello che ci si aspetta da loro è un contributo decisivo nella formazione di una classe dirigente di qualità che persegua l'interesse comune. Un esempio di etica pubblica da trasmettere ai giovani frastornati e delusi da una stagione di scialo economico e morale. La costruzione di un futuro che coniughi solidarietà e competitività. L'idea dell'impegno, del sacrificio e dello studio come assi portanti della società. Un maggior rispetto per le istituzioni, a cominciare naturalmente dalla famiglia, sopraffatte da un individualismo dilagante e cinico. Quel cinismo «che va a nozze con l'opportunismo», come ha scritto bene sull' Avvenire di ieri Francesco D'Agostino. I cattolici promuovano un dialogo senza pregiudizi con gli altri, come è accaduto nei momenti più bui della storia del nostro Paese. Il loro apporto sarà decisivo nella misura in cui saranno se stessi, senza mimetizzarsi e perdersi in altre case apparentemente ospitali. Possono essere maggioranza nel dibattito delle idee, pur restando minoranza nel Paese.

Ferruccio de Bortoli

17 ottobre 2011 09:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
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