LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Aprile 10, 2009, 09:20:24 am



Titolo: Ferruccio DE BORTOLI
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 09:20:24 am
UN PAESE E IL RUOLO DI UN GIORNALE

Quell’Italia che ce la fa


di Ferruccio de Bortoli


Nei momenti di dolore colletti­vo si scoprono immagini inde­lebili di solidarietà, effi­cienza e unità d’intenti del nostro Paese. Due su tutte: la dignità e la com­postezza di chi ha perdu­to sotto le macerie un fa­miliare, la generosità di tanti volontari anonimi. In realtà, non dovremmo assolutamente sorpren­derci, come facciamo in questi giorni. Il Paese non si trasforma, non si scopre diverso. Mostra so­lo alcune delle sue tante qualità. Lo spirito italia­no, quello vero, è ben de­scritto dagli inviati del Corriere. E ci si accorge che l’informazione è uti­le, necessaria. Non do­vremmo stupircene. Insie­me alle notizie circolano i sentimenti, le emozioni. Ci si sente tutti parte di una comunità. Ma i me­dia non svolgerebbero fi­no in fondo il proprio compito se non denun­ciassero le tante incurie, le leggi inapplicate, le co­struzioni colpevolmente fuori norma. E se non continuassero, anche quando l’emergenza sarà finita, a diffondere quella cultura della prevenzione e della manutenzione che misura il nostro livello di civiltà.

Basta l’esempio di que­sti giorni drammatici per descrivere la funzione pubblica di un buon gior­nale. Su carta e online. Onesto, serio e costrutti­vo. Com’è il Corriere della Sera, un’autentica istitu­zione di garanzia del Pae­se, che da oggi sarà firma­to da chi scrive. L’impe­gno con i lettori, in estre­ma sintesi, è proprio que­sto. Il nostro è un giorna­le aperto. Nel quale le idee si confrontano e si ri­spettano. Ma noi siamo dei moderati, sottolineo moderati, orgogliosi del­la nostra tradizione. E del­la nostra indipendenza. Un giornale aperto è il luogo dell’incontro profi­cuo tra laici e cattolici. Il luogo della tolleranza e della ragione. Dove si ten­ta di costruire, piuttosto che distruggere. Che sta dalla parte del Paese. Non contro. E ambisce a rap­presentare quell’Italia che ce la fa, come quella di questi giorni di passio­ne in Abruzzo. Consape­vole dei suoi mezzi. Che produce, investe, studia; si rimbocca le maniche ed è orgogliosa di quello che crea. E va non solo in­formata correttamente ma anche rappresentata. Difesa. Un giornale mo­derno è anche uno spec­chio dell’identità di chi lo legge.

Il Corriere giudica sui fatti (e qualche volta può sbagliarsi), ma non sta pregiudizialmente con nessuno. Se fosse stato sempre al servizio di qual­cuno (anche dei suoi azio­nisti) non avrebbe mai po­tuto svolgere il ruolo sto­rico che gli è proprio. Non avrebbe mai potuto anticipare gran parte del­le scelte di civiltà e pro­gresso del Paese, le aper­ture all’Europa, al libero mercato. Paolo Mieli, a cui succedo per la secon­da volta, questi valori li ha conservati in una fase difficile nel rapporto fra informazione e potere. Gli va reso merito. Mieli continuerà a scrivere sul suo giornale.

Qui mi fermo. E cam­bio registro. Vorrei tratta­re in breve due temi. Pri­mo: perché un’informa­zione libera, indipenden­te e responsabile fa bene alla democrazia? Non è una domanda retorica.

Senza un'opinione pubblica consapevole e avvertita un Paese non è soltanto meno libero, ma è più ingiusto e cresce di meno. Il cittadino ha pochi strumenti affidabili per decidere, non solo per chi votare, ma anche nella vita di tutti i giorni. La sua classe dirigente fatica a individuare le priorità, lo stesso governo (come avviene nelle aziende in cui tutti dicono di sì al capo) seleziona più difficilmente le buone misure distinguendole da quelle che non lo sono. Il consumatore è meno protetto, il risparmiatore più insidiato. Lo spazio pubblico è dominato dall'inutile e dall'effimero.

Si discute molto, e a ragione, sugli eccessi dell'informazione. Che ci sono, e gravi. Di cui anche noi portiamo le nostre colpe. Si discute poco sui costi della non informazione. Dove c'è opacità il merito non è riconosciuto; quando c'è poca trasparenza le aziende e i professionisti migliori sono penalizzati, i lavoratori onesti posti ai margini, i talenti esclusi. I diritti calpestati. La qualità della cittadinanza modesta.

Colpisce che spesso la classe dirigente italiana, non solo quella politica, consideri l'informazione un male necessario. E sottostimi il ruolo di una stampa autorevole e indipendente.
Tutti l'apprezzano e la invocano quando i giornalisti si occupano degli altri, degli avversari e dei concorrenti. Altrimenti la detestano e la sospettano.

Molti confondono l'informazione con la comunicazione di parte o la considerano la prosecuzione della pubblicità con altri mezzi. Una classe dirigente che non riconosce il ruolo di garanzia dell'informazione dimostra una scarsa maturità e una discreta miopia. La leadership nei processi globali, in particolare in questi momenti di profonda inquietudine e disorientamento, è fatta di informazioni corrette, tempestive e credibili. Il dibattito vero fa emergere le politiche migliori, quello falso o reticente solo quelle che appaiono in superficie le più percorribili e all'apparenza le meno costose. Insomma, con i cantori a pagamento e gli spin doctors improvvisati non si va da nessuna parte.

Il secondo tema che vorrei trattare riguarda l'utilità dei giornali. Vivono una crisi profonda, questo è vero. Ma non sono mai stati così letti. Sulla carta e online. Ci sarà una ragione se un navigatore che vuole un'informazione credibile accede più facilmente al sito di una testata storica. La Rete è una grande piazza democratica ma il confine fra vero e falso, effimero e sostanziale, lecito e illecito è assai sottile. E poi c'è un'altra ragione. Guardatevi intorno: quali sono i simboli che vi ricordano tradizione, appartenenza, storia della vostra comunità? Sono pochi, pochissimi.

Un'alluvione di marchi e format globali. In strada, in tv e nella Rete. Persino la vostra squadra del cuore parla una lingua diversa. A volte capita che solo in edicola e in libreria si abbia la certezza di trovarsi nel proprio Paese. Con il suo giornale un lettore si sente sempre a casa. A suo agio. Con uno strumento (anche di lavoro) affidabile per interpretare realtà complesse.

Sentirsi parte attiva di una comunità ed essere contemporaneamente cittadino del mondo. Ecco perché un buon giornale cambierà, si trasformerà, si integrerà di più con Internet, ma resterà sempre un pezzo insostituibile della nostra identità nazionale, l'anima e la ragione per la quale stiamo insieme. Il Corriere racconta e dà voce all'Italia che ce la fa. L'Italia migliore, quella che abbiamo visto all'opera in questi giorni di lutto e solidarietà nazionale. E se le nascondesse difetti e limiti finirebbe per amarla di meno. Il che non è nemmeno pensabile.


10 aprile 2009
(testo come da corriere.it)



Titolo: Ferruccio DE BORTOLI
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2009, 10:31:07 am
Questa stagione di fango e veleni

I nostri figli ci guardano


Quando Tobagi fu ucciso, Benedetta aveva 3 anni. Non l’ha conosciuto. Ma lo ha incontrato scri­vendone la storia

In tempi di passioni tristi e valori deboli, forse è opportuno staccarsi un attimo dalle cronache e chieder­ci come verrà giudicato, fra qualche anno, questo particolare momento del­la nostra vita, pubblica e privata. Non dagli storici, che speriamo abbiano di meglio di cui occuparsi. Ma dai nostri figli. Davve­ro il Paese è quello de­scritto dal profluvio di volgarità che ci inonda ogni giorno? E da una classe politica che appa­re, nel suo complesso, più attenta a rovistare nel letto dell’avversario, piut­tosto che confrontarsi su idee e programmi? Che chiude la Camera per una settimana, perché non ha nulla da fare, ma insegue senza sosta gossip di ogni natura? Oppure dà un’informazione che si di­sputa brandelli delle vite private dei rivali politici e non?

Lo abbiamo già scrit­to: il Paese, per fortuna, è diverso. Molto diverso. Migliore. E non merita af­fatto l’immagine di cui soffre, perché lavora di più e meglio di coloro che, all’estero, ci critica­no con il sopracciglio al­zato. In queste settimane ci siamo occupati, pur­troppo, più di escort e trans, che di imprese e la­voro. Più di cocaina che di riforma universitaria. Le inchieste della magi­stratura vanno seguite con attenzione ed equili­brio, non c’è dubbio. E la stampa deve darne il giu­sto conto (il «Corriere» le ha quasi tutte anticipate). Ma non vanno confuse con il rincorrersi incon­trollato di voci, le più di­sparate, su questo o su quello. Il privato di chi esercita una funzione pubblica, a qualsiasi livel­lo, è necessariamente più limitato di quello di un cittadino qualsiasi. Ma il suo totale annullamento, all’insegna di un’idea gia­cobina della trasparenza, non significa maggiore democrazia, ma babele di sospetti. L’importante è che le scelte private, an­che sessuali, non condi­zionino la libertà di eser­cizio delle funzioni pub­bliche con l’accettazione di compromessi o ricatti. Forse dovremmo tutti fermarci un po’ a riflette­re su come questa stagio­ne del fango, dei dossier e dei veleni, nella quale prosperano voraci pesci di profondità e pericolosi animali del sottobosco, verrà ricordata fra qual­che anno. E domandarci se ci stiamo occupando, con la dovuta determina­zione, dei problemi reali del Paese, della difesa del­le sue istituzioni e dei suoi valori, dell’etica pub­blica e del senso di legali­tà. Oppure se abbiamo perso un po’ tutti la lucidi­tà necessaria per non vive­re inconsapevoli in una società dominata dall’ille­galità diffusa, dal trionfo della volgarità e dallo scarso rispetto del prossi­mo. Chi ci governa ha le sue responsabilità, anche serie, ma pensare che le abbia tutte è superficiale e ingiusto. L’occasione per farlo è la pubblicazione di un li­bro che, a mio parere, an­drebbe letto anche nelle scuole. Lo ha scritto Bene­detta Tobagi, figlia di Wal­ter, giornalista del «Cor­riere della Sera», ucciso dai terroristi rossi quasi trent’anni fa.

S’intitola: «Come mi batte for­te il tuo cuore» (Mondadori). Lo anticipiamo oggi su queste co­lonne. Quando Tobagi fu ucciso, per il coraggio dei suoi scritti a difesa della legalità e dei valori per i quali viviamo, Benedetta aveva appena tre anni. Non l’ha di fatto conosciuto, il padre. Ma lo ha incontrato di nuovo scri­vendone la storia. Ha scoperto tutta la sua profondità umana e professionale, la forza del suo pensiero libero, il significato del­l’esempio, l’attaccamento alla fa­miglia, l’etica personale che do­vrebbe guidare ogni nostro ge­sto quotidiano. Se ognuno di noi svolgesse fino in fondo, co­me hanno fatto Walter e tanti al­tri come lui, il proprio dovere, questa società sarebbe più giu­sta, meno egoista, avrebbe più ri­spetto di sé e dei propri figli. Be­nedetta nel suo libro, ne cita un altro, appena uscito: «Qualun­que cosa succeda» (Sironi edito­re), di Umberto Ambrosoli, fi­glio di Giorgio, il liquidatore del­la Banca Privata Italiana, caduto sotto i colpi di un sicario manda­to da Michele Sindona, trent’an­ni fa. Umberto, quando morì il padre, aveva otto anni. Anche lui, e non solo lui (Mario Calabre­si, per esempio, figlio del com­missario Luigi, ucciso nel ’72) lo ha conosciuto nuovamente rico­struendone la vita professionale. «Papà è stato una persona come tante che ha saputo vivere e di­fendere i valori per lui prioritari. Può non essere un obiettivo faci­le, ma tutti noi possiamo darce­lo, vivendo con responsabilità nei confronti di noi stessi e della società». Umberto Ambrosoli ha scritto anche ieri, su queste colonne di quanto i piccoli esempi quotidiani di legalità siano importanti nella costruzione di un’etica pubblica condivisa. Grazie Umberto, grazie Benedetta. Noi ci auguriamo, leggendo queste pagine così belle e no­bili, di non dover più rivivere gli anni di piombo, anche se ne ve­diamo ripetersi alcuni dei sinto­mi. E immersi nel liquido, a vol­te maleodorante, della nostra contemporaneità, ci domandia­mo, con un senso di angoscia, come ci ricorderanno i nostri fi­gli. E se stiamo facendo di tutto per consegnare loro una società migliore.

Ferruccio de Bortoli

02 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Le buone ragioni degli indipendenti
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2009, 10:48:23 pm
PICCOLE IMPRESE E PROFESSIONISTI

Le buone ragioni degli indipendenti


C’è una genera­zione di pro­duttori che me­rita di essere ascoltata con attenzione. Sono le piccole imprese e i professionisti di questo Pa­ese. L’architrave di passio­ni e competenze che regge alla base il sistema econo­mico; la miriade di cellule sociali che innerva la comu­nità civile. Autonomi, indi­pendenti. Ma anche invisi­bili. E spesso trattati male, come documentano le in­chieste di Dario Di Vico. Se la ripresa è imminente, li vedrà in prima fila. Il ri­schio, però, è che molti, pur scorgendo nella loro at­tività segni di fiducia, alla fine del tunnel non ci arrivi­no nemmeno. Un milione di piccole imprese, dell’in­dustria, del commercio e dell’artigianato e 300 mila professionisti sono in peri­colo. È urgente un segnale. Concreto. Bisogna cogliere gli umori di questa vitale generazione pro-pro ( pro­duttori e professionisti); ri­conoscerne la dignità, la funzione sociale, l’insosti­tuibile ruolo civico.

Le idee ci sono. L’occa­sione immediata anche: la discussione sulla Finanzia­ria. L’economia italiana non è fatta solo di grandi imprese e superbanche. Il piccolo non è un’anomalia ma una risorsa. Purtroppo limitata. E fragile. Non go­de, salvo rari casi, di incen­tivi. In banca è un cliente guardato più con sospetto che con riguardo. La mora­toria sui debiti, buona co­sa, l’ha solo sfiorato. Non ha l’accesso al credito della grande industria, la quale, quando è fornitore, gli ri­tarda, al pari dello Stato, i pagamenti. Se chiudono cento piccole imprese, ne­gozi o studi, il danno socia­le è persino superiore a quello della crisi di una fab­brica importante. Ma nes­suno se ne accorge. Gli am­mortizzatori? Ampliati ma insufficienti o inesistenti (per i professionisti).

Dunque, che fare? Ap­provare, per esempio, la proposta di uno statuto del­le imprese avanzata da Raf­faello Vignali, vicepresiden­te della Commissione Atti­vità Produttive della Came­ra, che ha già 120 firme bi­partisan e si aggiunge al pacchetto delle semplifica­zioni collegato alla Finan­ziaria. Basta con la giungla di autorizzazioni e permes­si. E ancora: perché non pensare a un’unica comuni­cazione (telematica) sull’av­vio delle attività, fatta solo alle Camere di Commercio, e all’autocertificazione pri­vata sostitutiva? No a tanti controlli fatti da troppi en­ti. Una sola verifica può ba­stare. La burocrazia pesa sulle aziende per l’uno per cento del Pil: 15 miliardi.

Sul piano fiscale, la ridu­zione dell’Irap dovrebbe partire da una franchigia che favorisca i piccoli o dal­la maggiore deducibilità degli interessi passivi. È da rafforzare la struttura dei Confidi, migliorando le ga­ranzie delle imprese mino­ri, ma soprattutto va elimi­nato il sovrapprezzo fiscale dell’indebitamento. La Tre­monti ter (detassazione de­gli acquisti di macchinari) dovrebbe comprendere an­che gli investimenti in tec­nologia, altri beni strumen­tali, formazione, migliorie dei pubblici esercizi ed es­sere estesa agli studi pro­fessionali. In tema di giusti­zia, se solo si allargasse ul­teriormente la mediazione obbligatoria, già in parte lanciata dal governo, coin­volgendo le varie categorie professionali, si abbattereb­be una quantità di cause ci­vili inutili. Sono solo alcu­ne delle misure che potreb­bero trovare un appoggio trasversale. Molte non han­no nemmeno un costo. Non farle, o ritardarle anco­ra, darebbe la sensazione a chi ogni giorno s’inventa il proprio futuro che il Paese premia di più i furbi, i pro­tetti e gli arroganti.

Ferruccio De Bortoli

10 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Il candidato italiano
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2010, 03:35:50 pm
Il candidato italiano

C'è una carica alla quale il Paese può legittimamente aspirare. È quella di presidente della Banca centrale europea. Il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, presidente del Financial stability board, è tra i candidati. Il mandato dell’attuale numero uno della Bce, il francese Trichet, scade l’anno prossimo. Ma i giochi si fanno ora. Molto dipenderà dalla scelta di chi dovrà prendere il posto del vice presidente, il greco Papademos, che si congeda a maggio. I candidati sono due: il lussemburghese Mersch e il portoghese Constancio. Se dovesse prevalere quest’ultimo, apparirebbe difficile portare alla presidenza nel 2011 un altro rappresentante latino. Chissà perché persiste questo pregiudizio, che non riguarda però i francesi. Il caso greco non aiuta.

Favorito è il governatore della Bundesbank, Axel Weber. La cancelliera Merkel lo appoggia, anche perché preoccupata dallo stato precario degli istituti di credito tedeschi. I nostri, al confronto, stanno decisamente meglio. Questa considerazione potrebbe incoraggiare la scelta di Draghi. La Germania nel ’97 si oppose, finché fu possibile, all’ingresso della lira nell’Unione monetaria, affermando che il neonato euro sarebbe stato sfiancato dall’alto indebitamento italiano. Il nostro debito rimane elevato, purtroppo vista anche la bassa crescita, ma quello tedesco non scherza e in valore assoluto lo ha quasi raggiunto. L’avessero saputo all’epoca i Kohl e i Waigel, sarebbero arrossiti dalla vergogna. Altri tempi. Dunque, il debito italiano non è più una buona scusa per dire di no a Draghi. Che non è nemmeno una colomba, come dicono i tedeschi per indebolirne la candidatura. Le votazioni a Francoforte sono segrete, ma i suoi colleghi governatori lo sanno. Certo, aver lavorato per la banca d’affari americana Goldman Sachs può apparire oggi discutibile.

Il sostegno a Draghi è l’occasione, specialmente dopo il fallimento delle candidature di Mauro al vertice del parlamento di Strasburgo e di D’Alema al «ministero degli Esteri» europeo, per dimostrare agli altri e a noi stessi che l’Italia, Paese fondatore dell’Unione, non è né distratto né assente. E soprattutto non esprime nei contatti internazionali una sconveniente doppiezza. I rappresentanti di altri Paesi, quando si tratta di promuovere per una carica internazionale persone che hanno il loro stesso passaporto, dimenticano rivalità e differenze. Noi no, noi spesso godiamo, a destra come a sinistra, della bocciatura europea del nostro acerrimo avversario.

Tempo fa, Giulio Tremonti, che va giustamente fiero del relativo buono stato di salute delle banche italiane rispetto a quelle di altri Paesi, promosse, come presidente dell’Aspen Institute, una lunga riflessione sulla mancanza di spirito e di interesse nazionale. E fece bene. La storia è piena di stranieri chiamati in Italia per battere il vicino. E casi recenti, non più militari per fortuna, sono significativi. Si scelsero i francesi, per esempio, per dirimere le dispute in Mediobanca, o gli spagnoli per risolvere (?) l’infinita partita di Telecom. E s’invocò l’interesse nazionale per non dare l’Alitalia ad Air France (che l’avrà soltanto fra un po’). Riusciremo a ritrovare orgoglio e spirito nel sostenere la candidatura di Draghi? Si può anche perdere, anzi è probabile che ciò accada. Ma perdendo uniti si ha il rispetto degli altri e si accumulano crediti per il futuro; perdendo divisi si suscita solo compassione e si scivola nell’irrilevanza.

Ferruccio De Bortoli

24 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Atti pubblici e vizi privati
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2010, 10:25:42 pm
Atti pubblici e vizi privati


L’interrogativo è uno solo: esiste una nuova questione morale? Analizziamo gli avvenimenti. Sulla vicenda che ha coinvolto la Protezione civile si sono già espressi su queste colonne Sergio Romano e Fiorenza Sarzanini. L’emergenza ha bisogno di procedure snelle e decisioni rapide. Ma non giustifica il moltiplicarsi di filiere autoreferenziali, sottratte a qualsiasi controllo, nelle quali fatalmente chi ha solo il senso degli affari finisce per prevalere e mortificare i tanti volontari animati unicamente da spirito di servizio. Troppi strumenti straordinari danno un senso d’inutilità alle gestioni ordinarie. Per queste ragioni, il disegno di legge sulla creazione della Protezione civile spa va ritirato o rivisto. Un terremoto (e all’Aquila sono stati fatti miracoli) si affronta in deroga a procedure autorizzative e discipline degli appalti; eventi programmati, come un mondiale di nuoto o l’Expo, no. In ogni caso, il rendiconto ex post non è solo un fastidio burocratico ma un atto di responsabilità che dà persino maggiore nobiltà formale a opere e gesti solidali. La trasparenza richiama e incoraggia la generosità. Se so come sono spesi i miei soldi, a favore di chi ne ha bisogno, la prossima volta ne darò di più. Su Bertolaso ho un’opinione personale. Positiva. L’ho visto all’opera tante volte. Non credo se ne sia approfittato. Ma non sfugge a un grande servitore dello Stato come lui che in ogni struttura, anche nell’emergenza (assimilabile di per sé all’attività militare), esistono principi di etica e responsabilità oggettiva senza i quali i corpi istituzionali e societari non funzionano.

Altri episodi sono di apparente minore rilevanza, ma non meno significativi e utili per rispondere alla domanda iniziale. In questi mesi abbiamo assistito al moltiplicarsi di esempi di corruzione della vita amministrativa, persino squallidi nelle modalità, come la mazzetta intascata per strada da un consigliere comunale milanese. Dalla Puglia all’Emilia, al Piemonte alla Lombardia, è stato un emergere sconfortante di infedeli e concussi, amministratori disinvolti e imprenditori senza scrupoli. Un fenomeno trasversale agli schieramenti politici, segnato più dall’avidità e dall’edonismo individuali o di gruppo che dalle ragioni di appartenenza a un partito o a una corrente come avveniva con Mani pulite. I comitati d’affari grandi e piccoli prosperano. Alcuni non si vergognano nemmeno, ne menano addirittura vanto. La realtà, amara, è che dovremmo domandarci tutti (stampa compresa) se il livello degli anticorpi della nostra società non sia sceso sotto il limite di guardia. Alla corruzione diffusa, così come allo scarso senso della legalità, ci si arrende facilmente. Come ci si rassegna a vivere in una città sporca o in un ambiente degradato. Ma l’esempio per le nuove generazioni è diseducativo e devastante.

Un’ultima considerazione. La riforma del titolo V della Costituzione ha abolito un sistema arcaico di controlli di legittimità sugli atti delle regioni e degli enti locali. Spesso la burocrazia centrale uccideva, con ritardi e abusi, la corretta volontà amministrativa.
In diversi casi, però, l’accresciuta autonomia locale non si è accompagnata a maggior rigore e senso di responsabilità. Ma piuttosto all’idea perversa che l’eletto sia legittimato a tutto e le regole un intralcio residuale del passato. Il federalismo fiscale dovrà tenerne conto se non vorrà trasformarsi in una babele costosa di egoismi locali.

Ferruccio de Bortoli

14 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI L’eredità di Tobagi un valore da custodire
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2010, 09:31:18 am
30 anni dopo

L’eredità di Tobagi un valore da custodire

Walter Tobagi assassinato.

La lezione del cronista che capì i nuovi barbari



Quel 28 maggio di trent’anni fa, era un mercoledì, pioveva e faceva ancora freddo. La primavera a Milano era stata inclemente e l’emergenza del terrorismo, che vivevamo con angoscia quotidiana, sembrava essersi trasformata persino in un cupo fenomeno atmosferico.

Il cielo color piombo, come i troppi anni di soffocante assedio della violenza e del terrore. La mattina, nello stanzone a pian terreno della cronaca di Milano, scorreva regolare nei suoi riti: il caffè, la riunione, le chiacchiere sciolte. Eravamo in due o tre, non di più. Allora i giornali si facevano soprattutto di sera e di notte, le redazioni si animavano verso le cinque del pomeriggio, il ticchettio assordante delle macchine per scrivere (oggi non lo sopporteremmo) si scatenava verso le sette, le otto. Non passava giorno, in quegli anni, che non venisse ucciso o gambizzato (brutto neologismo dell’epoca) qualcuno. E anche noi giornalisti avevamo la netta sensazione di poter essere, come lo eravamo già stati, nel mirino dei terroristi. C’era chi, esagerando come spesso ci accade, si era comprato un’arma, così per sentirsi più sicuro; chi uscendo di casa cambiava ogni giorno percorso; chi confessava di continuare a guardarsi le spalle. Fabio Mantica, vice capocronista, un maestro della cronaca, alzò il pesante telefono di bachelite nera. Il suo viso si fece all’improvviso scuro e una smorfia gli disegnò il volto già scavato dagli anni. Era un uomo di poche parole, Mantica, ma di rara umanità. Scattò verso l’uscio e salì di corsa in direzione al primo piano. Walter Tobagi era già stato ucciso, ma noi non lo sapevamo ancora. Non c’erano telefonini, siti online, non c’era twitter, solo quei pesanti telefoni fissi, insopportabili in duplex, che restarono ammutoliti per interminabili secondi, durante i quali i nostri sguardi di cronisti si incrociarono nel tentare di capire che cosa fosse accaduto. Poi cominciarono a squillare tutti insieme. Un inferno. Mantica scese in lacrime quando noi avevamo già capito e ci sentivamo sperduti e paralizzati dal dolore. Si appoggiò allo stipite della porta principale dello stanzone, quasi lasciandosi andare. «Ma forse non è morto », disse un collega. «No, nulla da fare, Walter è morto».

Uscimmo tutti di corsa, saltammo in fretta sulle macchine posteggiate più vicino e ci precipitammo sul luogo dell’agguato. Lungo il tragitto, lo ricordo perfettamente, eravamo in tre, nessuno di noi parlò. Appena arrivati, vedemmo una scena alla quale eravamo largamente abituati e che ormai non ci faceva più il minimo effetto: le pantere della polizia e le gazzelle dei carabinieri, come si diceva allora, le ambulanze, la concitazione, le urla, il disordine assoluto. La gente era assiepata, tenuta a bada con fatica e come prigioniera di un senso generale d’impotenza e di sconforto. Le parole spezzate, gli sguardi fissi. Ma c’era chi girava il capo e proseguiva allungando il passo, cercando di dimenticare tutto in fretta. Come se la battaglia contro il terrorismo fosse stata ormai persa, definitivamente, e si dovesse per forza convivere con il terrorismo omicida. Levando lo sguardo: una sorta di omertà. In altre occasioni un pensiero del genere non mi era venuto in mente, non ci avevo fatto caso. Quella volta sì perché sotto il lenzuolo sporco di sangue e intriso di pioggia c’era uno di noi, un collega, un amico. Il velo di cinismo che accompagna il lavoro del cronista, e ne fa un testimone utile proprio perché non sopraffatto dall’emotività, aveva lasciato il posto al dolore e alla rabbia, a un senso opprimente di ingiustizia.

Mi vergognavo di non averlo provato altre volte, quel sentimento. Ho riletto l’articolo di Fabio Felicetti, pubblicato il giorno dopo
l’agguato in prima pagina sul «Corriere». Un pezzo di rara tenerezza espressiva e nello stesso tempo asciutto e privo di retorica, quasi distaccato: descriveva quel corpo sbattuto sull’asfalto davanti al ristorante «Dai gemelli», come se lo dovesse toccare, sorreggere, quasi rianimare: la penna schizzata via dal taschino, l’ombrello caduto, la mano che sembrava ancora muoversi. Non dimenticherò di quelle ore convulse il pianto del direttore, Franco Di Bella, il dolore composto del suo vice Gaspare Barbiellini Amidei, il questore Sciaraffia che tentava di consolarli entrambi, la faccia impietrita di Angelo Rizzoli. Ma soprattutto gli sguardi smarriti dei tanti colleghi che erano accorsi lì, in via Salaino, una via sconosciuta, laterale, che poi per molti anni nessuno di noi avrebbe avuto più il coraggio di percorrere. Il direttore Di Bella era uomo duro, schietto, ma di straordinaria carica umana: sembrava aver perduto ogni forza. E ogni speranza. Come noi. Al funerale di Walter gridò la sua rabbia contro uno Stato che non sapeva difendere un suo cittadino. Ancora una volta, come tante volte. Eppure, non lo sapevamo e nessuno di noi lo immaginava, la lotta contro il terrorismo stava per essere vinta grazie ai tanti semi gettati con coraggio in una società provata e disillusa. Molti di quei semi erano nelle parole e negli articoli di Walter, come nei gesti e nell’opera silenziosa di tanti servitori dello Stato.

Il tempo, quel mercoledì, si era fermato all’improvviso. L’arrivo del padre di Walter, il suo urlo («Figlio mio») e il suo amorevole tentativo di nascondere alla nuora Stella la vista del corpo di Walter, ancora schiacciato contro il marciapiede: scene rimaste scolpite per sempre nella mia mente. La rappresentazione del dolore più profondo. Il calvario senza resurrezione. Ma l’immagine che mi è sembrata rappresentare di più la tragedia è quella di Walter ancora vivo, un po’ stanco, ma come sempre arguto e intelligente, la sera prima, al Circolo della Stampa di Milano a un dibattito sull’informazione e sul terrorismo. «È vero, c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti, ma sappiamo come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti... dobbiamo impedire che si propaghi». Walter parlava, citando Mario Borsa, direttore del «Corriere» nell’immediato dopoguerra, della libertà di stampa e della necessità che il pluralismo fosse garantito dalla corretta e aperta concorrenza fra gruppi editoriali. E aggiungeva: «Non è assolutamente sano in un Paese democratico che la politica si faccia nei palazzi di giustizia». Sono passati trent’anni, tutto è cambiato, ma le parole di Walter conservano una straordinaria attualità. La sua eredità morale e culturale rimane integra e viva. Intatta la testimonianza professionale di un cronista libero; fecondo il lascito di un pensatore riformista; profonda la scia di un cattolico impegnato nella società, desideroso di comprenderne le trasformazioni e di segnalarne con onestà e precisione le anomalie, i germi della violenza e del terrorismo.

Quella mattina, prima di sapere che era stato ucciso, una voce parlava di un portavalori ammazzato. Dopotutto, l’informazione non era errata, Walter è stato ed è il nostro portavalori. E che valori! A noi il compito arduo di custodirli senza retorica e amnesie.

di Ferruccio De Bortoli

25 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cultura/10_maggio_25/eredita_tobagi_5815c38c-67bd-11df-b83f-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Shoah, la memoria è giustizia
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2011, 10:12:46 pm
LE VIRTU' DEL RICORDO

Shoah, la memoria è giustizia


Viviamo schiacciati in un disperato presente e a volte ci assale un senso di vuoto che mette in forse anche la nostra incerta identità italiana. Se è consentito per un attimo evadere dalla stretta e pruriginosa attualità, senza che questo appaia una forma di disimpegno morale, vorremmo cogliere l'occasione della prossima giornata della memoria, 27 gennaio, il ricordo dell'immane tragedia della Shoah, per parlare un po' di noi stessi e discutere di quello che stiamo diventando: un Paese smarrito che fatica a ritrovare radici comuni e si appresta a celebrare distrattamente i 150 anni di un'Unità che molti mostrano di disprezzare.

Noto una certa stanchezza, nell'approssimarsi di una ricorrenza (il 27 gennaio del '45 venne liberato il campo di Auschwitz), peraltro istituita con una legge dello Stato soltanto undici anni fa. Avverto un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi. Anna Foa, sul Sole 24 Ore di ieri, giustamente ci metteva in guardia dall'ipertrofia della memoria, che rischia di far perdere l'indispensabile nesso fra funzione conoscitiva (sapere perché non accada più) e funzione etica (cittadini consapevoli dei valori universali e, dunque, migliori). Non mancano, e sono numerose, le eccezioni positive, soprattutto nel mondo della scuola, ma ciò non è sufficiente a dissipare la sensazione di un progressivo distacco dagli avvenimenti, la cui comprensione profonda è indispensabile alla nostra formazione culturale e civile. Avvenimenti che tendono ad allontanarsi, e non solo per effetto del tempo che passa, dal nostro orizzonte identitario, come accade per il Risorgimento o per la Resistenza, di cui la nostra Costituzione è figlia. I negazionisti o i mistificatori abbondano in Rete. Ma dobbiamo temere anche gli indifferenti, e non sono pochi, davanti ai quali le testimonianze dell'esistenza di un male assoluto scorrono come le immagini di una qualsiasi fiction: sembrano non penetrare le coscienze e non muovere alcuna forma di commozione. Svaniscono un attimo dopo essere state viste, nel trionfo di una memoria digitale tanto abbondante quanto fredda.

Un bel libro di Frediano Sessi, intervistato sabato da Giovanni Tesio sulla Stampa, e di Carlo Saletti (Visitare Auschwitz, Marsilio) ci insegna a capire come l'universo concentrazionario e di morte fosse il risultato di una mente umana del tutto normale, purtroppo, e non folle o eccezionalmente malata. E che il valore della memoria si affievolisce presto nella banalità e nell'irrilevanza se non c'è insegnamento e riflessione sul presente. «Un'oretta e mezzo di genocidi, guerra, scheletri, morti ammazzati, follia omicida e se non c'è traffico alle undici saremo a Firenze», scriveva provocatoriamente Andrea Bajani, a proposito di un certo frettoloso turismo della memoria.

Probabilmente abbiamo commesso molti errori di comunicazione, non lo escludo. Vi è forse una certa sovrabbondanza di materiali, non didatticamente ordinati (l'ipertrofia di cui parla la Foa), ma sarebbe assai grave se la società italiana perdesse progressivamente la consapevolezza della propria storia e il ricordo di tanti sacrifici, di tante ingiustizie, del disegno lucido, concepito nella patria della filosofia, del diritto moderno e della musica, di cancellazione di un intero popolo dalla terra. Questo è il senso dell'unicità della Shoah.

Nell'indifferenza etica crescono i pregiudizi, nell'ignoranza si cementano gli odi e i sospetti; nella perdita dei valori della cittadinanza, scritti mirabilmente nella nostra Costituzione, fermentano i germi di nuove violenze; le comunità regrediscono a forme tribali. Segni di questa involuzione li troviamo in molti Paesi europei, anzi a dire la verità il nostro appare meno toccato da forme di estremismo quando non di razzismo. Nell'Est liberato dall'oppressione sovietica e accolto, fin troppo generosamente, dall'Unione europea, emergono fenomeni assai più preoccupanti. Ma sbaglieremmo se ci considerassimo totalmente immuni, se coltivassimo, come è scritto nella bella prefazione di Michele Sarfatti al libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia, Einaudi) l'idea, sbagliata, che tutto sommato l'Italia, dopo le leggi razziali del 1938, abbia recitato un ruolo parziale, secondario o addirittura controvoglia, nella grande tragedia della Shoah. «La verità - si legge - è che l'Italia e gli italiani intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei e la portarono avanti con sistematicità, determinazione ed efficacia. E se il tributo di vite umane tra la fine del '43 e la primavera del '45 fa parte della storia più generale della Shoah, la persecuzione subita dagli ebrei tra il '38 e il '43... resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere». Ma ugualmente ancora poco conosciuto è il grande e generoso contributo di solidarietà agli ebrei che venne da tanti semplici cittadini i quali rischiarono la loro vita per dare assistenza e rifugio ai perseguitati. Uno straordinario capitolo di storia italiana. «Abbiamo sempre avuto dove dormire la notte e la fame brutta non abbiamo mai sofferta», si legge in una lettera scritta da Cesare Zarfati poco prima di essere deportato. Migliaia di ebrei salvati, da famiglie umili, cittadini anche poveri e poco istruiti, ma consapevoli dei valori universali, che oggi stentiamo a difendere, e per nulla intimoriti da fascisti e nazisti. Quanti oggi avrebbero quel coraggio? Una resistenza civile diffusa, cui diede un contributo prezioso la Chiesa, di cui essere fieri. La memoria è giustizia ed esercizio di etica civile. Quotidiano.

Ferruccio de Bortoli

24 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_24/la-memoria-giustizia-editoriale-ferruccio-de-bortoli_b4a8c9cc-2780-11e0-a862-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI IL CONFLITTO TRA LE ISTITUZIONI
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2011, 11:21:07 am

IL CONFLITTO TRA LE ISTITUZIONI

La necessità di una tregua

Nell'infinita notte della nostra Repubblica, cresce l'inquietudine di chi vorrebbe vivere in un Paese normale, di chi avverte l'urgenza di occuparsi di problemi veri: la famiglia, il lavoro, l'impresa. E soffre il degrado della vita pubblica, la grave perdita d'immagine internazionale. Vogliamo essere orgogliosi del nostro Paese e non avere motivi di imbarazzo se non di vergogna. Un'inchiesta della procura milanese a carico del premier scuote le coscienze. Diffidiamo dei tanti che pensano di avere la verità (e la sentenza) in tasca. Siamo garantisti, ma riteniamo che il premier debba andare dai magistrati competenti e chiarire. Ha tutto il diritto di difendersi, anche se sarebbe preferibile che non lo facesse attaccando ogni giorno la magistratura. Fondato e importante il tema delle libertà individuali, ma chi governa deve dare un buon esempio.

In questi giorni si sta consumando un altro dramma: il crescere della conflittualità fra le istituzioni. Forse ci stiamo abituando a tutto, ma non possiamo assistere in silenzio a una catena di strappi senza precedenti. Capisco l'insofferenza per le forme, che è figlia di questo tempo, ma c'è un limite. Jean Monnet, uno dei padri dell'Europa, diceva che «niente è possibile senza gli uomini, ma nulla è durevole senza le istituzioni». Nella salute delle nostre istituzioni c'è la qualità democratica di cui godranno le future generazioni. Le irritualità sono state numerose. Il premier chiede le dimissioni del presidente della Camera, suo ex alleato, e questi, super partes a Montecitorio, da poco capo di un nuovo partito, rivolge al presidente del Consiglio analoga intimazione. Il ministro degli Esteri, rispondendo a un'interrogazione ammessa, fra le contestazioni, dal presidente del Senato, presenta un dossier con lo scopo di provocare le dimissioni del presidente della Camera su una questione, la nota vicenda della casa di Montecarlo, che continua a incombere su Fini. Insomma, l'appartenenza politica e le convenienze personali degli uomini che rivestono le principali cariche dello Stato sembrano prevalere sul ruolo istituzionale che ricoprono. In un Paese nel quale vi sono forze politiche che vorrebbero ridurre al silenzio la magistratura, limitandone l'autonomia e l'indipendenza, e magistrati che pensano di potersi sostituire alla volontà popolare nel decidere a chi spetti governare.

Nell'anomalia italiana, gli ingredienti più rari sono il buon senso e la misura, propri dell'etica pubblica. Una tregua fra le istituzioni e una prova di dialogo fra maggioranza e opposizione sono necessari. Un'indagine non può paralizzare la vita del governo, che deve proseguire la propria attività, peraltro caratterizzata da diversi aspetti positivi, nel rispetto dell'azione della magistratura. Un allargamento della maggioranza è sempre possibile (i ribaltoni, per favore no), ma non a costo di avvilenti mercanteggiamenti di deputati e senatori. La precaria congiuntura internazionale suggerisce stabilità e polso fermo, specialmente in economia. Ma se l'incertezza di un quadro contrassegnato da scandali, liti e reciproche delegittimazioni fra poteri dello Stato dovesse proseguire, è preferibile restituire la parola agli italiani. Ancora due anni così non ce li possiamo permettere. Senza una vera tregua, meglio allora votare subito, anche con una legge elettorale sbagliata. Non è la scelta migliore ma potrebbe diventare il minore dei mali.

Ferruccio de Bortoli

30 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_30/debortoli_c44a48e4-2c47-11e0-b8e2-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI LA TEMPESTA FINANZIARIA SULL'ITALIA
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2011, 04:39:17 pm
LA TEMPESTA FINANZIARIA SULL'ITALIA

Ora Più Coraggio


La manovra economica non c'è ancora, ma parte rilevante dei suoi ipotetici benefici è già stata bruciata. In un giorno. È questa l'amara sintesi di quello che è accaduto ieri sui mercati. La differenza, lo spread , fra il rendimento dei nostri Btp e i Bund è al record storico. I primi, sulla scadenza decennale, rendono il 5,7 per cento contro il 2,65 degli analoghi titoli tedeschi. Che cosa significa? Semplice: dobbiamo promettere di più, concedendo un premio maggiore al rischio, a chi ci presta i soldi. Il nostro debito, il 119 per cento del Pil, cioè superiore a quanto produciamo in beni e servizi ogni anno, va continuamente rifinanziato. La media mensile delle emissioni lorde di titoli sfiora i 40 miliardi. Nel 2010 gli interessi pagati sul debito sono stati pari al 4,5 per cento del Pil, ovvero 70 miliardi, e oggi sono intorno al 5. Lo spread con i Bund era di 245 punti base venerdì, ieri ha toccato i 305. Tanto per dare un'idea: cento punti significano 3,2 miliardi di maggiori interessi per l'anno in corso e 6,4 per il prossimo.

Quello che è accaduto rende ridicola e preoccupante la litania dei distinguo e delle promessedi togliere questo o quell'aspetto della manovra per compiacere fette di elettorato o clientele. E ancora più incomprensibili la decisione di rinviare alla prossima legislatura il taglio dei costi della politica e l'anacronistica difesa delle Province. La crisi dei mercati espone nella sua drammaticità tutta la perdita di immagine di un esecutivo diviso da teatrali rivalità interne e indebolito dalle inchieste della magistratura. Della manovra, e soprattutto dei suoi saldi, abbiamo capito poco in Italia, figuriamoci che cosa possono aver pensato gli osservatori internazionali, spesso preda di pregiudizi. Il pareggio di bilancio al 2014 è obiettivo importante, ma se il percorso per raggiungerlo appare incerto e contraddittorio è come dire ai mercati: noi ci crediamo poco, però voi per favore credeteci. Per esempio, non si può pensare che la spesa pubblica (al 48 per cento del Pil nel 2001 è arrivata al 51 per cento lo scorso anno) non sia più seriamente riducibile, come farebbe qualsiasi avveduta famiglia.
Si può fare molto di più. I mercati hanno bisogno di segnali chiari. Prendersela con la speculazione internazionale non serve a nulla. Consolarsi con la spiegazione, corretta, che è tutta l'area dell'euro sotto attacco, sarebbe fuorviante. Si approvi velocemente la manovra con una discussione aperta e concreta. Maggioranza e opposizione si ritrovino, una volta tanto, sulla linea della responsabilità tracciata da Napolitano che ha sollecitato Pd, Udc e Idv a concordare e limitare gli emendamenti: una svolta positiva. Si pensi al Paese, non ai voti.

Il governo valuti anche la possibilità di anticipare il pareggio di bilancio, come hanno proposto sul Sole 24 Ore Roberto Perotti e Luigi Zingales, e dia un segnale più forte sulla crescita. Come? Le idee sono molte. Alcuni esempi: raggruppare tutti gli incentivi alle aziende in un fondo dedicato al finanziamento delle nuove imprese, soprattutto giovanili; abbattere con più coraggio la burocrazia; semplificare di colpo le procedure amministrative; costringere le società concessionarie (autostrade e aeroporti) a sbloccare investimenti già decisi; utilizzare meglio i fondi europei. Altre proposte sono contenute nell'articolo di Maurizio Ferrera. Se siamo seri non dobbiamo temere nulla, ha detto nei giorni scorsi Napolitano rivolgendosi ai palazzi della politica. Purtroppo finora non lo siamo stati. E i mercati ce la fanno pagare. Cara.

Ferruccio de Bortoli

12 luglio 2011 07:50© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_12/debortoli-coraggio_2f210414-ac45-11e0-96a7-7cc3952b9d04.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Primo: domare subito l'incendio
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2011, 10:57:20 am
ECONOMIA, SERVONO RISPOSTE IMMEDIATE

Primo: domare subito l'incendio

La prima cosa da dire è che non ci meritiamo la sfiducia dei mercati. Non se la meritano le famiglie, che lavorano e risparmiano più della media europea. Non se la meritano le imprese, il cui export cresce allo stesso ritmo di quelle tedesche. Se la meriterebbe la politica che inganna i cittadini facendo finta di tagliare le proprie spese per poi andare in ferie, scandalosamente, fino al 12 settembre. Ma non è tempo di polemiche.

Non c'è tempo nemmeno per vagheggiare governi tecnici e nuove maggioranze. Almeno per ora. La casa brucia ed è necessario prima di tutto spegnere l'incendio. L'amara realtà è che per rifinanziare il nostro debito pubblico dobbiamo garantire a chi ci presta i soldi quasi quattro punti percentuali in più dei tedeschi. Come la Grecia 16 mesi fa.

Berlusconi parlerà oggi alle Camere, chiamato a un difficile compito e forse all'ultima drammatica prova da statista che la storia gli assegna: convincere i mercati della serietà della nostra correzione dei conti e della nostra volontà di crescere.
Finora il governo non c'è riuscito. La manovra da 80 miliardi (compresa la delega fiscale) è apparsa poco credibile perché, nell'arco di prevedibile durata di questo esecutivo, vale appena 15 miliardi (il 19%). Le uniche misure immediate, i ticket, sono state applicate solo da alcune Regioni e apertamente contestate dalla Lega. Come possono i mercati fare affidamento su provvedimenti subito smentiti da una parte della maggioranza che li ha votati? E perché mai devono aver fiducia in un esecutivo che concentra la propria azione sul processo lungo o sul trasloco di tre stanze ministeriali a Monza? Una maggioranza che non governa è un unicum costituzionale, ma oltre a fare male al Paese scava la fossa a se stessa.

Il minimo che ci si possa attendere oggi è l'indicazione di un percorso concreto. L'ascolto delle richieste delle parti sociali. L'assunzione di alcuni impegni precisi che non si potranno disattendere. E se ciò accadesse ancora, allora sarebbe opportuno che il premier ne traesse le doverose conclusioni dimettendosi.

La misura più urgente, come più volte sottolineato su queste colonne, è l'anticipo del pareggio di bilancio. La promessa di farlo nel 2014, quando ci sarà un altro governo, ha la portata vacua di una boutade estiva. Come arrivarci? Operando soprattutto sui tagli di spesa, apparsi nella manovra, appena approvata con un lodevole sforzo bipartisan, niente più che un'operazione cosmetica.

Coraggio, le idee non mancano. I consigli e l'appoggio della Banca d'Italia sono indispensabili. Privatizzare e liberalizzare con decisione, ridurre drasticamente il costo della burocrazia e della politica. L'adozione di misure eccezionali, anche se dovesse comportare sacrifici per imprese e famiglie, sarebbe accettata a fronte di una ripresa degli investimenti e di prospettive meno incerte sul versante della crescita. Interventi più incisivi sul mercato del lavoro e sul sistema previdenziale potrebbero avere come contropartita maggiori opportunità di occupazione per i giovani, sostegni agli investimenti, certezze per le imprese. Una volta tanto si chiede al premier di pensare solo al Paese. E di cercare un dialogo con un'opposizione che non può essere tentata di scommettere sul disastro del Paese per liberarsi del suo odiato avversario. Un confronto responsabile e serio. E si ascoltino le parole del presidente Napolitano, unica fiaccola nel buio estivo della nostra politica.

fdebortoli@rcs.it
twitter @deBortoliF

Ferruccio de Bortoli

03 agosto 2011 08:16© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_03/debortoli-domare-incendio_2f64e9b6-bd90-11e0-99fd-c37f66002d24.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Una emergenza, tre condizioni
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2011, 05:31:42 pm
RIGORE, CRESCITA ED EQUITA'

Una emergenza, tre condizioni


Il miglior commento al discorso di Tremonti è stato quello di Bossi. Se lo statista di Gemonio è scontento dell'intervento del ministro dell'Economia vuol dire, paradossalmente, che qualche passo avanti nella comprensione della gravità della situazione è stato fatto.

Il Consiglio dei ministri, in programma forse oggi, è chiamato a prendere decisioni dolorose che ci auguriamo vadano nella direzione del rigore, della crescita e dell'equità. Le prime due condizioni sono necessarie per recuperare la fiducia dei mercati e abbassare l'onere del rifinanziamento del debito pubblico. La terza, l'equità, è indispensabile per convincere famiglie e imprese dell'utilità dei sacrifici. Siamo in emergenza, bisogna fare in fretta e tentare di spegnere l'incendio che minaccia un intero Paese, gran parte del quale, per lavoro e intelligenza, la tripla A, il massimo di giudizio dei mercati, la merita da sempre.

Cominciamo dal rigore. Gli interventi prospettati dal titolare dell'Economia (ma lo è ancora di fatto?) appaiono inevitabili, sia sul lato delle pensioni d'anzianità sia su quello della tassazione delle rendite finanziarie, ma vanno accompagnati, meglio preceduti, da un drastico taglio del personale e dei costi della politica. Io, piccolo lavoratore, imprenditore, risparmiatore, posso rimboccarmi le maniche (e rinunciare a qualche festività) se serve al mio Paese, ma pretendo che burocrati, parassiti della politica, ed evasori siano seriamente contrastati e non premiati, come a volte questo governo ha fatto.

Promuovere la crescita è questione di vitale importanza, tanto quanto l'anticipo, come chiede la Bce, del pareggio di bilancio al 2013. Bene la privatizzazione dei servizi locali (chi lo dice alla Lega che l'ha sempre avversata?), così come il risveglio di una a lungo sopita volontà liberalizzatrice.

L'equità è la terza condizione ma non l'ultima. Se sarà necessario un contributo straordinario oltre una certa soglia di reddito (la patrimoniale appare esclusa e non è la migliore delle soluzioni) sarebbe auspicabile che avesse un vincolo di destinazione del gettito, per esempio a favore del lavoro dei giovani. Misure una tantum , però, non avendo effetti strutturali, rischiano di essere alla fine inutili. La necessaria riforma del mercato del lavoro è importante che rispetti la libera determinazione delle parti sociali, dando maggior peso alla contrattazione aziendale. Provvedimenti che contrastino quello che Tremonti ha definito «l'abuso dei contratti a tempo determinato» sono auspicabili.

Rigore, crescita, equità. Manca un quarto elemento: uno spirito nazionale che consenta un dialogo costruttivo fra governo, opposizione e sindacati. Non possiamo permetterci scioperi e distinguo di comodo. Non c'è tempo per governi tecnici e altre maggioranze. Occorre dare un segnale forte, il più possibile condiviso. Con un supplemento di responsabilità nazionale. A cominciare dal governo che per troppo tempo, anche nelle analisi millenariste del suo immaginifico ministro dell'Economia o nella pervicace e colpevole sottovalutazione dei problemi da parte del premier, ha dato prova di averne assai poca. Il mondo non è cambiato cinque giorni fa, come ha detto ieri Tremonti. È cambiato molto prima. Avessero ascoltato di più le voci critiche e fossero stati meno intolleranti...

Ferruccio De Bortoli

12 agosto 2011 12:34© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_12/una-emergenza-tre-condizioni-ferruccio-de-bortoli_b0d28e36-c4a7-11e0-a78d-d70af0455edb.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI UN AGGUATO, I TIMORI, LE SPERANZE
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2011, 11:31:41 am
UN AGGUATO, I TIMORI, LE SPERANZE

Guardateli negli occhi

Scriviamo queste poche note con l'animo schiacciato dall'ansia, ma con la speranza che tutto si concluda, nel migliore dei modi, nelle prossime ore, forse già nella notte. Quattro giornalisti italiani, Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera , Domenico Quirico della Stampa e Claudio Monici di Avvenire sono stati sequestrati da una banda che poi li ha consegnati a miliziani lealisti di Gheddafi. L'autista che guidava la vettura sulla quale tentavano di raggiungere Tripoli è stato barbaramente ucciso. I giornalisti sono stati malmenati e derubati. Temiamo per la loro vita, anche se le prime valutazioni delle autorità che seguono il caso ci inducono a un moderato ottimismo. Non riusciamo però a trattenere il pensiero che va ai tanti episodi del passato in cui gli operatori dell'informazione, anche del Corriere , hanno pagato un alto prezzo al loro senso del dovere. Come altri, militari e volontari. Troppi.

Le notizie sono scarne e contraddittorie. Il ministero degli Esteri, la cui unità di crisi si è prontamente attivata, ritiene che il sequestro si possa risolvere in breve, come quello dei colleghi stranieri tenuti in ostaggio per cinque giorni all'hotel Rixos di Tripoli e rilasciati nel momento in cui le sorti della guerra civile libica sono apparse irrimediabilmente segnate. Ma l'esperienza insegna, in Afghanistan come in Iraq, che questi sono i momenti peggiori di una guerra. Gli schieramenti si sfaldano in rivoli in cui la paura alimenta una violenza cieca; si aggregano bande a caccia di ostaggi ridotti alla stregua di salvacondotti o merce di scambio; la vendetta e lo sciacallaggio sono le sole regole rimaste intatte fra corpi abbandonati e macerie.

In questo scenario inquietante, i giornalisti sono al tempo stesso i bersagli più facili da colpire e gli ostaggi più utili da esibire. Ma i nostri colleghi sono armati solo degli strumenti della loro professione. E soprattutto sono mossi dalla passione di scoprire e raccontare la realtà dei fatti. Forse questo, più del loro passaporto occidentale, li espone a ogni sorta di pericolo. Non vestono alcuna divisa. Sono testimoni preziosi, non combattenti. Ascoltano le voci degli altri. Tutte. Anche dei nemici del loro Paese, sul quale non esitano a scrivere verità scomode. L'informazione è l'architrave di ogni democrazia. Schiacciando la libertà di stampa non si costruisce nulla. Se non regimi, come quello di Gheddafi, destinati a implodere per averla troppo a lungo negata. E la primavera araba ne ha un bisogno vitale. I giornalisti sono stati e sono soprattutto messaggeri di pace. Perché senza di loro, il dialogo fra le parti, fra etnie e religioni diverse, sarebbe semplicemente impossibile. Assicurano in condizioni estreme un servizio civile tra i più alti.

La speranza in ore di grande apprensione è che i sequestratori possano leggere ciò che scriviamo sui giornali, guardare le immagini trasmesse in queste ore, scorrere le notizie sul web. E interrogare le loro coscienze, ritrovare quel senso di umanità che fa parte della storia delle loro genti. Siamo sicuri che guarderebbero con occhi diversi Elisabetta, Giuseppe, Domenico e Claudio che di ostile non hanno nulla e di amichevole tutto. Forse l'hanno già fatto, noi lo speriamo con tutto il cuore.

Ferruccio de Bortoli

25 agosto 2011 07:20© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_25/de-bortoli-editoriale_af100006-ced9-11e0-9639-95c553466c70.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI SOSTEGNO DELLA BCE E DIGNITÀ NAZIONALE
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 10:51:19 am
SOSTEGNO DELLA BCE E DIGNITÀ NAZIONALE

Ce la facciamo (anche da soli)


Dieci anni fa scrivemmo su questo giornale «Siamo tutti americani», oggi ci piacerebbe scrivere «Siamo tutti italiani». Ma abbiamo qualche dubbio. Le dimissioni di un membro tedesco della Banca centrale europea, contrario all'acquisto di titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, tra cui i nostri, ha fatto precipitare i mercati nel caos. Aspettiamo tutti con ansia la riapertura delle contrattazioni domani, nella speranza che il famoso, o famigerato spread fra Btp e Bund possa ridursi o non ampliarsi troppo.

Jürgen Stark è un tedesco che disprezza il nostro Paese, ma non ha torto quando definisce un bazar il mercato secondario dei titoli del debito. Noi in quel bazar facciamo una pessima figura. Compatiti e irrisi. Un po' da tutti. Anche da chi non ne ha ragione. Dagli spagnoli - che hanno reagito assai bene e con misure bipartisan alla crisi - e dai portoghesi preoccupati della concorrenza che possiamo far loro nel mercato finanziario dei poveri d'Europa. Mancano solo i greci, per ora. La nostra immagine all'estero sarà anche deteriorata dal fatto che, schiacciati dal debito, invecchiamo senza crescere. Le vicende politiche e giudiziarie del premier, fin troppo note, non ci hanno fatto bene. Ma c'è un pregiudizio nei confronti del nostro Paese che ha cause più complesse.

Noi speriamo che la manovra sia sufficiente a dimostrare la volontà italiana di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Ha molti difetti, non ci piace, ma è significativo che il Senato l'abbia approvata in fretta e la Camera si appresti a farlo. La settima potenza economica mondiale, la seconda industria manifatturiera d'Europa non può ridursi però a chiedere l'elemosina alla Banca centrale. Non può mostrare una dipendenza patologica da quella che, su queste colonne, Francesco Giavazzi ha definito la morfina della Bce. Gli acquisti da parte della Bce dei nostri titoli sono importanti, ma davvero appaiono indispensabili a un Paese che conserva in molti settori grandezza e prestigio? Certo, abbiamo 1.800 miliardi di debito pubblico, che dobbiamo rinnovare in una percentuale intorno ai 15 punti l'anno. Una spesa pubblica di circa 800 miliardi che è un delitto non ridurre drasticamente. Ma anche, sull'altro piatto della bilancia, più di mille miliardi di patrimonio pubblico, largamente infruttifero; 8 mila e 600 di ricchezza netta delle famiglie e delle imprese, assai meno indebitate di quelle di Paesi che non vorrebbero più, con il sopracciglio alzato, farci credito. Senza ricorrere a patrimoniali e altre tasse (sono già troppe!), siamo sicuri che non possiamo farcela da soli? Tiriamo su la testa. Un po' d'orgoglio.

Se vivessimo in un Paese normale, il governo (con un maggior senso di responsabilità da parte dell'opposizione) domani direbbe alla Bce: grazie per tutto quello che avete fatto per noi, ma da oggi, costi quel che costi, facciamo da soli. Una scelta non solo coraggiosa, ma opportuna: tanto fra qualche giorno la Bce smetterà comunque di comprare i nostri titoli. E da novembre, con Mario Draghi al vertice, non ci farà nessuno sconto. Cerchiamo di dimostrare agli investitori, stimolando la crescita (un punto di Pil equivale a 16-17 miliardi) con riforme vere e riduzioni reali delle spese, che investire sui nostri titoli di Stato, al di là di buoni rendimenti, è un affare. Un sussulto di dignità nazionale, via. Qualche volta abbiamo la sensazione che non esista più un governo, ma solo la sua maschera di cera. Se esiste, questo coraggio dovrebbe averlo. Oppure, meglio che la maggioranza ne prenda atto. E presto.

Ferruccio de Bortoli

11 settembre 2011 17:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_11/de-bortoli_ce-la-facciamo-anche-da-soli_d10afbfe-dc47-11e0-a4d3-b67952ef5c68.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Il sipario strappato
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 05:26:08 pm
CONSEGUENZE DI UNA CONDANNA

Il sipario strappato


Le agenzie di rating valutano l'affidabilità di un debitore. Formano un oligopolio a volte collusivo. E sono tra le maggiori responsabili della crisi finanziaria. Diedero, tanto per fare un esempio, la tripla A, il massimo dei voti, a Lehman Brothers poco prima del suo fallimento. Ma, piaccia o no, chi investe non può non tenere conto del loro giudizio. Specie se rischia i soldi di altri. Dunque, inutile polemizzare, inventarsi complotti, dare la colpa ai media, se anche Moody's, dopo Standard and Poor's, ha declassato il nostro debito. La bocciatura era prevista. Arriva solo con un mese di ritardo. Non era però immaginabile l'ampiezza della retrocessione.

Tre gradini bruciano. Ci avvicinano pericolosamente alla Grecia.

Il Paese che lavora, risparmia, produce non merita questo trattamento. Gli hedge fund , i fondi speculativi, non hanno cuore. Sono spietati con chi si mostra debole. Ma noi non lo siamo, potremmo obiettare, abbiamo dopotutto la seconda industria manifatturiera d'Europa. Sì, il debito sfiora i 2.000 miliardi, più o meno il valore del patrimonio pubblico, ma la ricchezza netta privata è quattro volte tanto. Perché i mercati se la prendono con noi e non più, per esempio, con la Spagna, che ha uno spread - la differenza fra rendimenti dei propri titoli di Stato e quelli tedeschi - inferiore al nostro? Eppure la nostra ricchezza pro capite è quasi il triplo di quella iberica. Il debito è il doppio, ma il deficit circa la metà. Perché? La risposta è lapidaria. Non siamo né credibili, né seri. Nessuno più investe in Italia e chi ci presta soldi vuole tassi usurari. La nostra immagine è a pezzi. Chi lavora con l'estero prova una profonda umiliazione, cui si accompagna un sempre crescente moto d'ingiustizia, per come viene trattato il nostro Paese.

Noi ci sforziamo di pensare che un sussulto di dignità, uno scatto d'orgoglio siano ancora possibili. Anche dall'attuale maggioranza. La manovra annunciata e smentita più volte in agosto è stata varata, alla fine, e vale 58 miliardi. Ma è insufficiente. La lettera della Bce al governo italiano, pubblicata dal Corriere , è rimasta in gran parte inascoltata, al punto che nei giorni scorsi, a Francoforte, si è persino pensato di mandarne un'altra. Ha diviso in profondità anche l'opposizione. E i mercati guardano avanti, perplessi. Riforme vere, privatizzazioni e liberalizzazioni, rimangono sulla carta. Siamo stati capaci di aumentare le tasse, ma la spesa pubblica (800 miliardi) prosegue la sua corsa. Abbiamo annunciato che avremmo abolito le Province: non era vero. Tagliato i costi della politica: una presa in giro. La nomina più delicata, quella del governatore della Banca d'Italia, è finita mestamente nel tritacarne delle liti di maggioranza. Il premier mostra di occuparsi solo delle sue questioni personali. E, infatti, oggi di che cosa discute la Camera dopo aver votato in diretta televisiva (ci vedono anche all'estero) sulle inchieste Papa, Milanese e Romano? Delle questioni contenute nella lettera della Bce? No, delle intercettazioni. Bossi non appare, anche agli stranieri, nel pieno delle sue facoltà. Non c'è membro del governo o della maggioranza che non affermi in privato che Berlusconi debba lasciare. Su questo giornale abbiamo suggerito al premier di fare come è accaduto in Spagna: annunciare che non si ricandiderà, chiedere le elezioni e non trascinare con sé l'intero centrodestra. Nessuna risposta.

Ferruccio de Bortoli

05 ottobre 2011 07:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_05/il-sipario-strappato-ferruccio-de-bortoli_f5fd53c2-ef10-11e0-a7cb-38398ded3a54.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI La missione dei cattolici
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 05:09:22 pm
IDEE PER UNA NUOVA STAGIONE

La missione dei cattolici

Il Paese ha bisogno dei cattolici. La ricostruzione civile e morale non sarà possibile senza un loro diverso e rinnovato impegno politico. E senza un dialogo più stretto, fuori dagli schemi storici, con gli eredi delle tradizioni liberale e riformista. Se n'è discusso molto in questi giorni e il Corriere ha ospitato opinioni di orientamento differente stimolate da un articolo di Ernesto Galli della Loggia. Non si tratta di ricostituire il partito dei cattolici, né di far rivivere, sotto altre forme, la Democrazia cristiana, o il Partito popolare, al di là dell'attualità del pensiero di don Sturzo. L'idea del partito unico è stata seppellita con la Prima Repubblica. E non se ne sente la necessità, nonostante qualche fondata nostalgia per la difesa dello Stato laico e delle sue istituzioni che appariva più convinta ed efficace quando vi era un forte partito di diretta ispirazione cristiana. La cosiddetta Seconda Repubblica è apparsa fin da subito affollata di atei devoti e politici senza scrupoli, ai quali le gerarchie ecclesiastiche hanno talvolta frettolosamente concesso ampie aperture di credito.

Nel nostro sofferto bipolarismo, al contrario, testimonianze cattoliche più autentiche sono state ridotte alla pura sussistenza o, come ha scritto Dario Antiseri, alla scomoda condizione di ascari. La diaspora ha trasmesso ai cattolici la falsa sensazione di contare di più. Come oggetti, però. Promesse generose (si pensi solo alla tutela economica della famiglia) mai mantenute. Impegni solenni, e discutibili, sulla bioetica, subito derubricati nell'agenda politica, e dunque ritenuti solo a parole irrinunciabili. Nella triste époque , come la chiama Andrea Riccardi, il ruolo dei cattolici in politica è finito per essere quello degli ostaggi corteggiati a destra e degli invisibili tollerati a sinistra. Condizione che ha impoverito la politica e immiserito una società scivolata nell'egoismo e nella perdita di un comune sentimento civile.

Nell'immaginario collettivo del pur variegato mondo cattolico si è poi creata una frattura tra chi poteva trattare con lo Stato la difesa dei valori e dei principi, e chi ha cercato di ritrovare i segni dell'essere cristiani nella pratica di tutti i giorni. I primi hanno chiuso troppi occhi su modelli di vita e di società non proprio evangelici e mostrato una tendenza al compromesso eccessivamente secolarizzata. Gli altri, i cittadini e i fedeli, si sono sentiti non di rado smarriti. Non hanno perso la speranza solo grazie a uno straordinario tessuto di parrocchie, comunità, reti di volontariato, cui tutti noi italiani, credenti o no, dobbiamo un sentito grazie.

Angelo Bagnasco, il presidente della Conferenza episcopale, ha parlato della necessità di creare un «nuovo soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni». L'incontro di oggi a Todi, al quale partecipa lo stesso Bagnasco, forse ne svelerà la forma. Non sarà un partito, dunque, e non è nemmeno necessario che il forum delle associazioni cattoliche del lavoro si ponga il problema di quale veste assumere. Sono stati troppi in questi anni i contenitori senza contenuti.

Che cosa potrebbero fare allora questo forum e altre aggregazioni già in movimento dell'universo cattolico? Sarebbe sufficiente che si ponessero obiettivi assai semplici seppur ambiziosi: ravvivare lo spirito comunitario, la voglia di partecipazione e gettare un seme di impegno per gli altri. «Né indignati, né rassegnati», ha detto Bagnasco: è uno slogan efficace. Nel saggio Geografia dell'Italia cattolica , Roberto Cartocci scrive che «la tradizione cattolica appare come il collante più antico, il tratto più solido di continuità fra le diverse componenti del Paese». Non solo: è portatrice di una cultura inclusiva, che non divide e frantuma la società. Ha il senso del limite all'azione della politica e della presenza dello Stato nella vita dei privati. Sono qualità importanti. Apprezzate da tutti. Anche da noi laici.

Quel che resta, non poco, di quella tradizione ha il compito storico di promuovere un dialogo più proficuo con le altre componenti laiche, liberali e riformiste della società. L'indispensabile opera di pacificazione del dopo Berlusconi passa necessariamente dalla affermazione della centralità della persona e dalla riscoperta delle virtù civili. I cattolici possono intestarsi una nuova missione, esserne protagonisti. Dire quale idea dell'Italia hanno in mente. Riscoprire un tratto più marcatamente conciliare dopo l'era combattiva e di palazzo di Ruini. Una missione sociale, in questi anni, poco valorizzata, mentre si è insistito tanto sulla difesa dei valori cosiddetti non negoziabili, dal diritto alla vita alle questioni bioetiche, al punto di estendere l'incomunicabilità con le posizioni laiche all'insieme delle questioni civili ed economiche. Un dialogo va ripreso su basi differenti, nel rispetto delle libertà di coscienza.

La collocazione politica dei cattolici costituisce un problema secondario, per certi versi irrilevante. Galli della Loggia ha scritto che il centro non è il luogo del loro destino genetico, e tantomeno la sinistra. De Rita si è chiesto chi potrebbe essere il nuovo federatore di tante anime sparse disordinatamente. La politica verrà. Per ora possiamo dire che sarebbe un imperdonabile errore se lo slancio partecipativo dei cattolici, palpabile nel fermento di molte associazioni e componenti, si esaurisse in una sterile discussione di schieramento. Quello che ci si aspetta da loro è un contributo decisivo nella formazione di una classe dirigente di qualità che persegua l'interesse comune. Un esempio di etica pubblica da trasmettere ai giovani frastornati e delusi da una stagione di scialo economico e morale. La costruzione di un futuro che coniughi solidarietà e competitività. L'idea dell'impegno, del sacrificio e dello studio come assi portanti della società. Un maggior rispetto per le istituzioni, a cominciare naturalmente dalla famiglia, sopraffatte da un individualismo dilagante e cinico. Quel cinismo «che va a nozze con l'opportunismo», come ha scritto bene sull' Avvenire di ieri Francesco D'Agostino. I cattolici promuovano un dialogo senza pregiudizi con gli altri, come è accaduto nei momenti più bui della storia del nostro Paese. Il loro apporto sarà decisivo nella misura in cui saranno se stessi, senza mimetizzarsi e perdersi in altre case apparentemente ospitali. Possono essere maggioranza nel dibattito delle idee, pur restando minoranza nel Paese.

Ferruccio de Bortoli

17 ottobre 2011 09:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_17/de-bortoli_missione-dei-cattolici_536c3954-f87d-11e0-a70e-53be2c0ab142.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Come pasticcio un capolavoro
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2011, 09:31:16 am
LA SCELTA PER VIA NAZIONALE

Come pasticcio un capolavoro

Una vicenda surreale. La nomina del nuovo Governatore della Banca d'Italia non solo non è stata sottratta a un vergognoso gioco di veti incrociati della politica italiana, ma rischia di concludersi con l'indicazione di un candidato agevolata da un ultimatum del presidente francese. Questo senza nulla togliere alle qualità indiscusse di Lorenzo Bini Smaghi, membro della Bce che - secondo gli accordi italo-francesi - avrebbe dovuto dimettersi dall'incarico prima dell'arrivo di Draghi a Francoforte. Ma non lo ha fatto, eccependo fondate ragioni legate alla indipendenza dell'organismo. È lecito chiedersi se, senza il diktat di un irascibile Sarkozy, l'esito sarebbe lo stesso. Certo, l'Eliseo non accetta l'idea di avere dal primo novembre un consiglio con due italiani e nessun francese. Ma qualcuno forse potrebbe far notare a Sarkozy che tra l'uscita di Noyer dalla Bce nel giugno del 2002, destinato alla Banque de France, e l'arrivo di Trichet alla presidenza, trascorse un anno e mezzo. Difficile però tener testa a un leader che nel momento in cui ha appoggiato ufficialmente Draghi, si è rivolto sprezzante, e non contraddetto, a Berlusconi dicendogli: «Spero che questa nomina non dispiaccia troppo al suo ministro dell'Economia». L'avversione di Tremonti per Draghi era già di pubblico dominio e quel dualismo ha indebolito la nostra posizione all'estero al pari dell'irrilevanza dell'esecutivo sulle principali questioni europee, immagine a parte.

Il presidente della Repubblica ha seguito questa procedura di nomina con attenzione e preoccupazione. Nei limiti del suo ruolo. Ne ha parlato per la prima volta con il premier il 22 giugno. Da allora ha sollecitato una decisione autonoma e personale (così prevede la legge del 2005) da presentare al consiglio superiore della Banca, che ha potere consultivo, nel rispetto della continuità e dell'autonomia di un'istituzione di garanzia così importante per il Paese. Ma, soprattutto, ha suggerito una decisione veloce. Se il premier non si fosse baloccato fra spinte diverse - Tremonti che voleva a tutti i costi il suo direttore generale Grilli, le sollecitazioni per una scelta interna, Saccomanni -, non avremmo assistito a una sguaiata lite su un ruolo così delicato, in cui tutti i politici si sono sentiti autorizzati a dire la loro mentre a Bruxelles, dove si decidevano i destini dell'euro, eravamo semplicemente assenti. Bossi è arrivato addirittura a indicare Grilli solo perché milanese.

Fonti del governo sostengono che la scelta cadrebbe su Bini Smaghi anche per l'impossibilità di trovargli una collocazione di pari dignità. Un incarico che possa accettare per dimettersi dalla Bce, senza dare l'impressione di un'ingerenza della politica in un organo la cui indipendenza è garantita da un trattato. Insomma, un enorme groviglio. Una procedura pasticciata. Una plateale dimostrazione di mancanza di leadership e persino di dignità nazionale. Oggi vedremo quale sarà l'esito finale. Un risultato è già acquisito, purtroppo. Chiunque sarà il nuovo Governatore dovrà rimontare uno spiacevole vulnus di immagine derivato della tempestosa e farraginosa procedura di nomina. Il timore è anche quello di una serie di dimissioni (da Saccomanni a Visco) da via Nazionale, gesto estremo, sconsigliabile a funzionari dello Stato, che farebbe precipitare la farsa della nomina del nuovo Governatore della Banca d'Italia in un dramma istituzionale di difficile ricomposizione.

Ferruccio de Bortoli

20 ottobre 2011 08:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_20/come-pasticcio-un-capolavoro_c15fece0-fad9-11e0-b6b2-0c72eeeb0c77.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Mettere il Paese davanti a tutto
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2011, 05:24:57 pm
LA NECESSITÀ DI UNA SVOLTA VERA

Mettere il Paese davanti a tutto

Prima il Paese. L'Italia non è la Grecia. È la settima economia al mondo, la seconda industria manifatturiera d'Europa. Ha più patrimonio che debiti. È ricca il doppio della Spagna. È perfettamente solvibile. Fine. Non merita ironie e sarcasmi. Ma il rispetto deve conquistarselo. E poi pretenderlo. Le misure che l'Europa ci chiede sono sempre state necessarie. Ora lo sono anche per gli altri, per la salvezza dell'euro. Le avessimo adottate per tempo, non correremmo il rischio di confezionarle in fretta e male. Da commissariati. Qualcuno dice: no al diktat di Bruxelles. Bene, ma non scordiamoci che: siamo un Paese fondatore dell'Unione europea; che chiediamo ogni anno 200 miliardi in prestito; che viviamo di export e moriremmo di autarchia (è già accaduto). Il resto sono chiacchiere in libertà e perniciose illusioni.

Sarà anche ingiusto, ma oggi siamo percepiti come il lato debole dell'Europa. Perché non siamo più credibili. Abbiamo annunciato per mesi provvedimenti poi smentiti o non attuati. Varato sì una manovra da 59,8 miliardi, di cui 20 però incerti, ma per la crescita, che rende sostenibile il debito, non è stato fatto finora nulla. Alesina e Giavazzi, sul Corriere , hanno proposto misure concrete. Discutiamone. Non basta una lettera d'intenti (Tremonti l'ha firmata?) per dimostrare agli altri, dopo mesi di ondeggiamenti, che facciamo finalmente sul serio. Berlusconi sembra voler sopravvivere a se stesso. Ma se non è in grado di adottare, per l'opposizione della Lega, provvedimenti seri ed equi, non solo sulle pensioni, ne tragga le conseguenze. E in fretta. Vada da Napolitano e rimetta il mandato. Esiste in Europa, piaccia o no (a noi non piace perché vi vediamo anche un pregiudizio anti-italiano) un problema legato alla persona del premier, più che al governo. E la colpa è solo sua. Il Cavaliere, con il quale la storia sarà meno ingenerosa della cronaca, è anche uomo d'azienda. Sa valutare il momento in cui è necessario mettersi da parte per salvare la sua creatura, il partito e le future sorti del centrodestra italiano. Ma prima ancora viene il Paese. Una volta tanto.

E la soluzione quale potrebbe essere? Non è semplice. Più volte, su queste colonne, si è invitato il premier a fare come Zapatero: chiedere le elezioni anticipate e dire che non si ricandiderà. L'avesse fatto, saremmo fuori dal mirino della speculazione. Come la Spagna. Oggi, davanti alla palese dissoluzione di una maggioranza, che vota la fiducia ma non governa, l'esito non potrebbe essere che quello di elezioni ravvicinate, imposte dagli eventi. Un eventuale governo Letta o Schifani, o tecnico (improbabile) di cui si parla in queste ore, si troverebbe comunque nella scomoda necessità di dare una risposta economica credibile ai mercati. E di fare scelte impopolari e costose in termini di consensi. Una proposta utile potrebbe essere quella di considerare il «pacchetto Europa» di un eventuale nuovo esecutivo come un programma bipartisan, aperto al contributo e al voto di tutti. Un'opposizione responsabile, se si trovasse al governo, non potrebbe fare diversamente su molti temi oggi in discussione. E non avrebbe più l'alibi della presenza ingombrante di Berlusconi. Ma a giudicare dalle dichiarazioni di queste ore, sembrano prevalere populismo e opportunismo. Le malattie italiane sono tante, purtroppo.

Ferruccio de Bortoli

26 ottobre 2011 22:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_26/mettere-il-paese-davanti-a-tutto-ferruccio-de-bortoli_bc8b4710-ff92-11e0-9c44-5417ae399559.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Un Paese alla deriva. Fermare la deriva
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 09:12:28 am
Un Paese alla deriva
 
Fermare la deriva

Un Paese alla deriva È questa l'impressione che diamo all'Europa e ai mercati che continuano, come ieri, a punirci. Ricordiamoci che, con i titoli al 7 per cento, la Grecia e l'Irlanda sono saltate. Ieri a New York e a Londra erano in molti a scommettere su un nostro fallimento. Dobbiamo fare il possibile per evitarlo. Tutti insieme. L'Italia che lavora e fa il proprio dovere non lo merita.

Il governo ha le sue responsabilità. Gravi.
Anche se la crisi è globale. Dal 5 agosto, quando venne inviata la lettera della Bce all'Italia, nulla è stato fatto sul versante della crescita. L'effetto della manovra di 59,6 miliardi è in parte svanito per l'esplosione del costo del debito, in parte è ancora da realizzare. Troppi gli annunci, molte le marce indietro. Numerosi i litigi. Inspiegabili i comportamenti. Il premier straparla sull'euro, poi si corregge. Dare la colpa alla Grecia non basta, anche se Atene sceglie un referendum scellerato. Il ministro dell'Economia, Tremonti, non scrive la lettera d'intenti all'Ue e ostenta un visibile distacco. I suoi colleghi di governo e di maggioranza ne chiedono ogni giorno la testa. E chi la lettera l'ha scritta (Brunetta) si compiace dell'emarginazione del collega-rivale. Bossi blocca ogni riforma della previdenza e si inventa, alla sagra della zucca, le gabbie pensionistiche regionali. I destini personali prevalgono su quelli generali. La paura di perdere voti su quella di perdere il Paese.

L'opposizione, salvo rare eccezioni, è apparsa nei giorni scorsi più preoccupata delle idee di Renzi e della forma bizantina delle primarie che di dimostrare con proposte concrete di avere una cultura di governo europea. Le reazioni, ieri sera, all'appello alla responsabilità nazionale del capo dello Stato, sono apprezzabili. Ma non c'è un elemento della lettera della Bce che trovi totalmente d'accordo la triade di Vasto (Bersani, Di Pietro, Vendola).

Il tempo di Berlusconi è finito.
La resistenza del Cavaliere non ha più senso. Rischia di travolgere il suo partito - che dovrebbe spingerlo a lasciare - e soprattutto il Paese. La crisi è economica, ma anche politica legata alla sua persona. Doveva annunciare prima che non si sarebbe ricandidato e chiedere elezioni anticipate. Come la Spagna. Oggi ha davanti a sé una sola strada. Presentarsi al G20 di Cannes con provvedimenti eccezionali, immediati, ma soprattutto credibili. Con atteggiamenti individuali di governo all'altezza della drammaticità di queste ore. Dimostrare che siamo una nazione capace di onorare i propri impegni, perfettamente solvibile, affidabile. Comportarsi, insomma, da statista. Almeno all'ultimo miglio. Dall'esito, deludente, del vertice di ieri sera non si direbbe. Oppure rendere possibile subito, con un gesto responsabile, un esecutivo di emergenza - anche a guida di un esponente della maggioranza - che concordi con l'opposizione i tempi e i modi per scongiurare il pericolo di un fallimento e l'onta internazionale di vedere il Paese con il cappello in mano.

Ferruccio de Bortoli

02 novembre 2011 16:22© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_02/20111102NAZ01_14_9268bc18-051b-11e1-bcb9-6319b650d0c8.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Possiamo farcela
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2011, 11:33:17 pm
Possiamo farcela

La nomina, a sorpresa, di Mario Monti a senatore a vita prelude alla sua designazione, appena sarà approvata in tutta fretta la legge di stabilità, alla guida di un esecutivo di emergenza nazionale. Una mossa che sottrae il nome dell'economista milanese alla contesa politica e ne sottolinea le qualità super partes . È significativo che la scelta di Napolitano abbia la controfirma, non necessaria, di Berlusconi. Il premier uscente, è bene ricordarlo, ebbe il merito di proporre, nel '94, il presidente della Bocconi come commissario europeo. Il pensiero di Monti è noto ai lettori del Corriere. Il prestigio internazionale è indiscusso. La sua bussola è l'Europa. Non è un freddo tecnocrate, è un italiano appassionato, disposto a svolgere il ruolo di civil servant senza mire personali. È portatore di idee, non di interessi.

Una svolta clamorosa. Indispensabile e indifferibile dopo quello che è accaduto ieri sui mercati: il crollo della Borsa, lo spread fra i nostri Btp e i Bund tedeschi a 553 punti, lo spettro di un default alla greca. La regia del presidente della Repubblica è stata saggia e ferma, agevolata anche dal senso di responsabilità di parte dell'attuale maggioranza. Ma il cammino è terribilmente in salita. Le incognite numerose, a cominciare dalle forze politiche che potranno appoggiare un eventuale esecutivo tecnico.
Il Paese ha vissuto ieri una giornata drammatica. I mercati hanno mostrato di non avere più fiducia in noi. Oltre il 7 per cento nel rendimento dei titoli pubblici, uno Stato entra in una sorta di inferno del debitore. Nessuno o quasi è più disposto a fargli credito. I mercati hanno sempre ragione? No, speculano e si accaniscono sul più debole. Ma ci puniscono perché non siamo credibili e in più ci fanno pagare anche le colpe degli altri. Dobbiamo smetterla di fare il loro gioco. È ora di pensare, veramente, all'Italia. Uno scatto d'orgoglio.

Il segnale dev'essere forte, immediato, comprensibile agli stranieri infastiditi dalle nostre alchimie e dai nostri ritardi. Un esecutivo di emergenza nazionale, con una guida autorevole, può convincere gli investitori esteri che facciamo sul serio. Ridare fiducia a famiglie e imprese. Restaurare l'immagine di un Paese che è solvibile, ricco di primati, valori e talenti. Le forze politiche più consapevoli possono appoggiarlo nel nome dell'interesse comune, disposte a rinunciare al piccolo cabotaggio dei veti incrociati, alla bassa speculazione elettorale. Un tempo sospeso, o una fase di neutralità, consentirebbe ai partiti di riprendere i termini di una normale contesa politica, avviandosi anche alle elezioni, dopo aver messo in sicurezza il Paese. Non si può minimamente pensare di uscire da una crisi di credibilità finanziaria così profonda senza accettare sacrifici, purché questi siano equi e proporzionali, trasparenti e utili per tornare a crescere, creare lavoro e reddito. Ma a una condizione: l'esempio lo deve dare subito la politica, tagliando i suoi costi. E non per finta.

Ferruccio de Bortoli

10 novembre 2011 09:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_10/debortoli_possiamo-farcela_5eb5c08c-0b60-11e1-ae33-489d3db24384.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Anni perduti scelte urgenti
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2012, 06:30:37 pm
LA CORRUZIONE DOPO MANI PULITE

Anni perduti scelte urgenti

Vent’anni dopo, il ricordo di Mani Pulite è un insieme di immagini sbiadite. Colpisce l’ammissione dell’ex giudice Gherardo Colombo sui magri risultati delle inchieste contro la corruzione e il finanziamento illecito dei partiti. I protagonisti di allora sono critici severi dell’eredità civile, e non solo giudiziaria. Gli eccessi e gli errori non furono pochi. Con i partiti fu spazzata via un’intera classe politica. Troppe le sentenze mediatiche; non sempre adeguata la tutela delle garanzie individuali. Eppure quella stagione ebbe il merito di sollevare un velo sull’Italia del malaffare. Più di tremila gli imputati. Ogni dieci di loro, calcola Luigi Ferrarella, quattro i condannati, quattro i prescritti, due gli assolti.

Quel velo, rumorosamente alzato, è tornato a coprire, negli anni successivi, pratiche illecite diffuse in tutta la società. Le denunce sono crollate. Un fatalismo pernicioso è diventato sentimento comune. «Tanto non cambia nulla». «Anzi, oggi è peggio ». La corruzione hamutato pelle ed è penetrata in profondità nella nostra società. Ha un carattere più individuale, trasversale, minuto e non genera — amara considerazione — lo sdegno e l’istinto di ribellione che mossero l’opinione pubblica ai tempi di Mani Pulite. Il costo per l’Erario è stimato dalla Corte dei Conti fra i 50 e 60 miliardi l’anno. L’Italia è al 69˚posto nella classifica Transparency International. La corruzione è una tassa occulta, frena gli investimenti esteri, distorce i mercati, umilia il merito e calpesta la cittadinanza.

Rileggere gli avvenimenti del ’92 con spirito critico è necessario e costruttivo. Ma al di là del dibattito storico, sarebbe opportuno rispondere a una domanda. Che cosa è indispensabile fare per combattere efficacemente il fenomeno? Il governo Monti, che non disdegna una certa inclinazione pedagogica, ha davanti a sé una grande occasione. Agire senza indugi contro un morbo che frena la crescita più di tante liberalizzazioni mancate. Una commissione ministeriale ha già formulato delle proposte. Ne aggiungiamo alcune. Il reato di corruzione fra privati in Italia non esiste. Nemmeno quello di autoriciclaggio dei proventi illeciti. Dopo la riforma del 2001, il falso in bilancio non è di fatto più perseguito. Non si capisce perché l’Italia, unico fra i Paesi aderenti, non abbia mai ratificato la convenzione internazionale sulla corruzione del ’99. L’evasione è fenomeno connesso. Ma l’Agenzia delle Entrate trasmette le informazioni alla magistratura dopo cinque anni. E la prescrizione è certa. La Banca d’Italia non comunica alla stessa Agenzia i movimenti anomali dei capitali ma solo alla Guardia di Finanza.

La risposta non può essere esclusivamente di carattere penale o di contrasto all’evasione o premiando (curioso) chi si comporta bene. Se la società non infligge anche un costo di reputazione a chi infrange le sue regole, se trascura istruzione e formazione, se banalizza le virtù civiche ed elegge i furbi simpatici a modelli di vita, non c’è norma che tenga. L’Italia ne ha persino troppe. All’apparenza severe. Ma solo sulla carta. Straccia.

Ferruccio de Bortoli

12 febbraio 2012 | 9:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_12/de-bortoli-anni-perduti-scelte-urgenti_846661ba-5548-11e1-9c86-f77f3fe7445c.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Una trincea ideologica
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:01:43 pm
REALTÀ, PREGIUDIZI E NOSTALGIE

Una trincea ideologica


La riforma del mercato del lavoro è molto più ampia della revisione dell'articolo 18. Estende gli ammortizzatori sociali a categorie che ne sono attualmente escluse, riduce la precarietà. Aspira a stabilizzare e a rendere più facili le assunzioni definitive. È emendabile, ma va nella direzione giusta. Un licenziamento dovuto a ragioni disciplinari, per il quale il giudice può ordinare il reintegro, è aggirabile con una motivazione economica e il solo risarcimento da 15 a 27 mensilità? Certo, lo è. L’abuso va contrastato con norme chiare e rigorose.

Le reazioni sindacali sono tutte comprensibili. Meno i ripensamenti di Bonanni e Centrella che al tavolo con il governo dicono una cosa e poi se la rimangiano, magari dopo aver ascoltato un esponente dell’episcopato. Il travaglio interno del Pd è da rispettare. La dialettica fra laburisti e liberali vivace e salutare. Colpiscono, però, sia la durezza di D’Alema, che parla del governo come un «vigilante di norme confuse», sia di Bersani che teme l’esautorazione delle Camere. Il Parlamento, ai tempi della concertazione, ratificava soltanto gli accordi tra le parti sociali. Il segretario del Pd se ne è uscito anche con la seguente frase: «Non morirò monetizzando il lavoro». Nobile e curioso. Solo l’1 per cento delle pratiche di licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato in riassunzioni o reintegri. E poi: gli accordi sui prepensionamenti e sugli esodi incentivati che cosa sono se non una monetizzazione di posti di lavoro che spariscono?

I toni apocalittici di molti commenti sono poi inquietanti. Descrivono un Paese irreale. Tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti. Come se adesso le aziende in crisi, e non sono poche purtroppo, non riducessero l’occupazione e non vi fosse il dramma di tanti lavoratori abbandonati in cassa integrazione o senza sussidi e possibilità di un reimpiego. E come se l’Italia non fosse ricca di tantissime realtà, grandi e piccole, in cui il lavoro è difeso e rispettato. E, ancora, tanti imprenditori e dipendenti non condividessero le stesse ansie e lo stesso amore per ciò che producono e per i valori comuni di cui sono portatori. Sono commenti che paventano il sibilo di una tagliola che cadrebbe, in un sol colpo, su decenni di conquiste dei lavoratori.

Scrive Guido Viale su il manifesto: «I capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all’intensificazione del lavoro annunciando: appena passa l’abolizione dell’articolo 18 siete fuori!». Davvero è questo il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio? O è una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico, una trincea fra capitale e lavoro, la costruzione artificiosa di un nemico di classe?

Lo Statuto dei lavoratori fu, nel 1970, un’importante conquista sociale. Sono passati 42 anni, la società è cresciuta, i diritti sono meglio protetti. Ma in parti del sindacato e della sinistra la nostalgia per quegli anni di lotte operaie e studentesche è forte. La storia andrebbe riletta, anche per risparmiarci le code spiacevoli e le derive violente di cui dovremmo coltivare la memoria.

Ferruccio de Bortoli

24 marzo 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Guardandosi allo specchio
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2012, 10:27:32 am
I PARTITI E IL FINANZIAMENTO PUBBLICO

Guardandosi allo specchio


L'antipolitica è una pratica deteriore che mina le fondamenta delle istituzioni. L'idea che una democrazia possa fare a meno dei partiti è terreno fertile per svolte autoritarie. Le inchieste di Rizzo e Stella, pubblicate dal Corriere , sui costi (scandalosi) della politica sono state lette da più parti con fastidio e disprezzo. Eppure non erano e non sono animate da un pernicioso qualunquismo, ma da una seria preoccupazione per l'immagine pubblica degli organi dello Stato e per la dignità dei rappresentanti della volontà popolare.

Il bene costituzionale della cittadinanza si riflette nell'orgoglio per i simboli repubblicani, nella rispettabilità degli organi elettivi, nel prestigio delle istituzioni e nella serietà e dirittura personale di coloro che temporaneamente ne reggono le sorti. Una buona legge sui partiti avrebbe fatto scoprire prima, o addirittura evitato, sia il caso Belsito, ex sottosegretario leghista alla Semplificazione ( sic ), sia l' affaire del senatore Lusi, ex della Margherita, che dimostra come i partiti, a differenza dei cittadini, incassino anche da morti. Se i parlamentari avessero affrontato con maggiore serietà, e non con sacrifici episodici, il tema dei loro emolumenti e del costo complessivo di funzionamento delle istituzioni, la loro popolarità non avrebbe raggiunto livelli così bassi. Se il referendum del 1993, che vietava il finanziamento dei partiti, non fosse stato aggirato con una legge truffa sui rimborsi elettorali, il discredito non sarebbe stato così devastante.

Difficile dimostrare a famiglie alle prese con tasse crescenti e salari magri che sia vitale per la democrazia una leggina del 2006 che, oltre a consentire l'anonimato dei contributi ai partiti sotto i 50 mila euro, non ha risolto il problema dei controlli sui rendiconti delle spese. I cittadini tirano la cinghia, soffrono, ma il finanziamento pubblico ai partiti in dieci anni è lievitato del 1.110 per cento. Se tutte le voci di spesa pubblica avessero seguito la stessa dinamica saremmo già in bancarotta. I rimborsi sono dieci volte più alti delle spese, ma nessuno si è mai sentito in dovere di restituire ai cittadini quanto incassato in più grazie a una legge troppo generosa. Sarebbe stata una forma di immediato rispetto per i molti che vengono pagati in ritardo, o non pagati affatto, per i tanti che si vedono ritirare i fidi dalle banche e non hanno la fortuna di ottenere rimborsi superiori alle loro spese. Nella vita reale, fuori dal Palazzo, se qualcuno incassa di più di quanto gli spetta, generalmente restituisce. Ha promesso di farlo Rutelli, ma solo dopo l'esplosione del caso Lusi. Non prima.

A parole tutti vogliono cambiare la legge sui rimborsi elettorali. Sono una quarantina le proposte di riforma. Nessuna delle quali è all'ordine del giorno dei due rami del Parlamento. Non è un caso che ieri Enrico Giovannini, capo dell'Istat, si sia dimesso dall'incarico di presidente della commissione incaricata di studiare come ridurre i costi della politica e allinearli alla media europea. Regole scritte male, missione impossibile. Il capo dello Stato è intervenuto, ancora una volta e autorevolmente, per sollecitare decisioni immediate. Forse sarebbe opportuno che i presidenti del Senato e della Camera chiedessero al governo di concordare un decreto legge da approvare in fretta. Per dimostrare che i partiti sanno guardarsi allo specchio. Conservano il senso della responsabilità nazionale e sapranno contrastare al meglio la deriva dell'antipolitica che si nutre di scandali e di microinteressi. E che conosce un solo antidoto: il buon esempio.

Ferruccio De Bortoli

5 aprile 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Ferruccio DE BORTOLI I contribuenti da rispettare
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2012, 03:23:24 pm
SPESA PUBBLICA, SPRECHI E IPOCRISIE

I contribuenti da rispettare

Maggio sarà un mese decisivo per il governo. L'esecutivo Monti ha fatto in gran parte bene, ma si è indebolito: ha bisogno di nuovo slancio.
Se la crescita è l'obiettivo primario, è necessario che già dalla prossima settimana il governo dia segnali concreti. Non generici impegni a ridurre la spesa o discorsi cattedratici sulle virtù della spending review , che tradotto vuol dire: cerchiamo di capire almeno dove finiscono i soldi pubblici.

Come prima cosa, andrebbe detto che la pressione fiscale, oggi vicina al 45 per cento, non aumenterà più. Anzi, diminuirà appena possibile, specie sul lavoro, scrivendolo a chiare lettere nel prossimo disegno di legge delega sulla riforma fiscale. Poi: che la clausola di salvaguardia, introdotta già dal precedente governo (si alza l'Iva a ottobre se la spesa non si è ridotta), sarà semplicemente rovesciata.
Il pareggio di bilancio d'ora in poi si raggiungerà solo con la compressione delle uscite. Impossibile? No. La spesa pubblica è stata pari nel 2011 a quasi 800 miliardi (50,5 per cento del Pil). Tolti stipendi, pensioni e interessi passivi, restano circa 200 miliardi in acquisti di beni e servizi e varie.

Ognuno applichi la propria percentuale di risparmio pensando a una famiglia o a un'impresa. Il gettito atteso dal prossimo ritocco dell'Iva per il 2012 è di 4 miliardi, l'intera Imu ne vale 21. Come hanno spiegato su queste colonne Alesina e Giavazzi, le tasse hanno un effetto recessivo, i tagli mirati alla spesa pubblica no. Certo, hanno costi politici e personali più elevati. I destinatari dei tagli hanno nomi, facce e corporazioni. I contribuenti sono tanti e senza volto. Gli italiani sopportano sacrifici rilevanti e non capiscono perché l'azienda Stato, che spesso non paga gli arretrati, non riesca a risparmiare come l'impresa nella quale lavorano, avvertendone peraltro tutti i dolorosi segni, o come il loro stesso nucleo familiare.

Il ministro Giarda si sta dando da fare, ma siamo sicuri che tutti nel governo e nell'alta dirigenza si comportino allo stesso modo?
La Ragioneria, che forse detiene i libri e conosce i conti, è convinta e coinvolta? E negli enti locali, responsabili di metà della spesa, vi è un uguale senso dell'urgenza o molti si difendono guardando in casa dell'altro e intanto adeguano le addizionali?

A volte si ha la sensazione che la spesa pubblica sia un immenso fiume carsico del quale si intuisce a malapena la portata, ma, peggio, che sia considerata una sorta di res nullius , della quale disporre a piacimento. Qualcosa di cui alla fine non si deve rendere conto a nessuno.
Tanto è sempre andata così, ci si poteva indebitare e scaricare l'onere dell'inefficienza, attraverso le tasse, sulle famiglie e le imprese.
Metà delle pratiche pubbliche sono inutili se non dannose. Con quelle non si fa crescita. Intere regioni, come hanno dimostrato le inchieste del Corriere , non sanno nemmeno quanto spendono per la sanità. Lo scandalo è tutto drammaticamente qui: nell'incapacità ipocrita e nella volontà apparente con cui ci si misura con quell'immensa discarica abusiva dei nostri difetti nazionali che è la spesa pubblica.

Ferruccio de Bortoli

29 aprile 2012 | 11:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Ferruccio DE BORTOLI L'attentato di Brindisi, la morte di Melissa
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 10:38:35 am


Il dolore e l'impegno

Mai avremmo pensato che la ferocia della criminalità si spingesse a tanto. Credevamo di aver visto tutto. Ci eravamo persino illusi che nelle società del crimine, di cui questo Paese è sciaguratamente ricco, esistesse almeno uno straccio di codice, un brandello di regole, scritte magari su un pizzino o tatuate su un braccio. Le scuole no, i ragazzi no. Invece sì. Si può concepire di mettere un ordigno, davanti a una scuola, probabilmente frequentata dagli amici dei propri figli, e decidere di farlo esplodere a distanza in modo da causare morte sicura. Usando forse un telecomando, come accadde nella strage di Capaci, giusto vent'anni fa, quando morì accanto al marito Giovanni Falcone anche Francesca Morvillo, alla quale è intitolato l'istituto di Brindisi, segnalatosi per una coraggiosa battaglia in nome della legalità e contro le mafie. Un gesto di barbarie inaudito. La minaccia di una criminalità, che pur essendo stata in questi anni combattuta anche con successo, esprime una baldanza violenta, una furia inarrestabile e, nello spargere sangue, sembra tracciare il segno della propria invincibilità.

Le indagini ci diranno, speriamo presto, qual è l'origine e chi sono i responsabili. Scioglieranno l'interrogativo che avanza, a caldo, un grande esperto come Nicola Gratteri: perché un atto, con modalità tipiche del terrorismo, contro una scuola? Le mafie organizzate, nell'analisi di uno dei magistrati più esposti nella lotta al crimine, non rischiano, colpendo alla cieca, di perdere il consenso popolare che pensano di avere. Una criminalità deviata, dunque? Una scheggia, ancora più spietata, della Sacra Corona Unita? O qualcosa di peggio: un'azione destabilizzante, di altra matrice?

Nel piangere Melissa e nel guardare negli occhi, atterriti, i suoi compagni e, idealmente, tutti i ragazzi d'Italia, oggi abbiamo un compito in più. Investigatori e magistrati sono chiamati a moltiplicare gli sforzi contro ogni tipo di criminalità e illegalità. Ne fanno già tanti, non bastano. E non vanno lasciati soli, come Falcone e Borsellino. Ma gli strumenti efficaci nel contrasto dei fenomeni mafiosi, e non soltanto, sono molti altri: una coscienza civile vera e diffusa, una maggiore coesione sociale, un più vivo spirito di legalità, un forte senso dello Stato. Governo e partiti devono constatare, ancora una volta, come sia inderogabile dare risposte immediate sul versante della lotta alla criminalità, alla corruzione e al malaffare e sul piano dell'etica pubblica e della certezza del diritto. Prove di responsabilità e unità nazionale indispensabili per riscattare l'immagine di un Paese ad alto tasso criminale. E necessarie come esempio per le prossime generazioni. Altrimenti non ha alcun senso dare un premio alla legalità, come quello che ottenne la scuola Morvillo Falcone di Brindisi. Un riconoscimento motivo di orgoglio per Melissa, Veronica e le loro compagne. Oggi sono tutte figlie nostre. Abbracciamo commossi le loro famiglie. Ma senza risposte concrete, anche i migliori sentimenti, di cui questo Paese è generoso, appaiono vuoti ed effimeri.

Ferruccio de Bortoli

20 maggio 2012 (modifica il 22 maggio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Ferruccio DE BORTOLI I leggendari poteri forti
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2012, 11:23:52 pm
CLASSE DIRIGENTE E FUTURO DEL PAESE

I leggendari poteri forti

Non vi sono vere élite o egemonie di qualità, ma solo una congerie disordinata e caotica di ingessature corporative

La settimana più difficile del governo si chiude con la scelta, coraggiosa, dei nuovi vertici Rai. Ora speriamo che un analogo colpo d'acceleratore sia impresso alle misure, assai tormentate, del pacchetto sviluppo. Monti fa bene ad andare avanti senza guardare in faccia nessuno e a cogliere le critiche (anche di questo giornale) con spirito costruttivo. La parte responsabile del Paese, che crediamo maggioritaria, sa che non vi sono alternative a questo governo, al di fuori del caos greco. Elezioni anticipate sarebbero semplicemente una sciagura nazionale e tutti dobbiamo guardare, con ragionevole fiducia, all'appuntamento europeo di fine mese. Se l'Europa si sveglierà dal proprio torpore autodistruttivo, salvando l'euro e se stessa, dovrà ringraziare anche il nostro premier.

La polemica domestica, sull'influsso che i poteri forti avrebbero sulla vita nazionale, ci offre l'occasione per parlare della classe dirigente, soprattutto privata, di questo Paese. Alla politica non diamo tregua, è vero. Ha ragione D'Alema, che non cede alla tentazione nazionale di vedere complotti ovunque, a lamentarsene. Ma perché la vorremmo migliore. I partiti sono indispensabili alla vita democratica, per questo li sferziamo quotidianamente. Del cosiddetto establishment , il mondo dell'industria, della finanza, della classe dirigente privata, ci occupiamo poco. Una lacuna. Da colmare. Ma la realtà, amara, è ben diversa dalla mistica della tecnostruttura esclusiva, un po' opaca, più incline a rinchiudersi in alberghi di lusso che ad accettare la sovranità popolare. È grave invece che nel nostro Paese abbia perso di significato - non del tutto per fortuna - il concetto di una classe dirigente responsabile, preoccupata anche dell'interesse generale, in grado di esprimere un indirizzo, un'idea di società, come quella che nel Dopoguerra rese possibile il miracolo economico. Insomma fiera di dirigere, non sfacciata nell'esigere. Dedita per prima a dare il buon esempio.

Esistono élite di grande livello cui il governo ha fatto abbondante ricorso anche in questi giorni: le migliori università, la Banca d'Italia e non solo. Un tempo ve n'erano di più: raffinate culture d'impresa di grandi gruppi, anche bancari, privati e pubblici. È rimasto ben poco. Pallide eredità, epigoni incapaci di assicurare stabili governance alle loro società, figuriamoci se in grado di suggerire metodi di governo generale. Gli esempi sono pessimi. La stessa Confindustria appare appesantita dalle proprie contraddizioni. Chiede di tagliare la spesa pubblica e di eliminare le Province e non riesce nemmeno a ridurre i propri costi di struttura. Comunque, stiamo parlando di realtà positive, di qualità. Microcosmi, però, che non hanno attecchito nella cultura generale. Qualche volta anche per colpa loro, per via di una certa arroganza intellettuale e di un senso di estraneità alle sorti del Paese.

La nostra storia è ricca di anti-italiani o italiani per caso. Un vezzo culturale sintomo di un'appartenenza debole. Poi ci sono altre élite , se possiamo chiamarle così, non certo nell'accezione che Wright Mills usò per quelle americane. Le più diffuse sono sprovviste di regole e valori. Circoli di potere, cordate, alleanze trasversali, blocchi corporativi, alti burocrati, persino magistrati, cerchi magici di varia natura, spesso casereccia. Tutto meno che nuclei di una moderna classe dirigente.

I più recenti studi sulla composizione delle élite italiane ci dicono che la struttura è ancora quasi essenzialmente maschile. Nove su dieci sono uomini. Sette su dieci in Francia, sei nel Regno Unito. L'età media delle persone di potere cresce e ormai ha superato i 60 anni; le élite italiane sono forti nel consenso e deboli in competenze; viaggiano meno e sono più provinciali di quelle estere; conoscono poco le lingue; sono centro-nordiste e metropolitane, pressoché assenti al Sud, il ricambio avviene ancora troppo per cooptazione. Insomma, una classe dirigente a sesso unico, provinciale e autoreferenziale. Riluttante nell'immagine impiegata da Carlo Galli. Interprete del fenomeno sociale descritto nei suoi libri da Carlo Carboni: il passaggio dal familismo amorale all'individualismo amorale.

Un'altra scomoda verità: ci eravamo illusi che il privato con le sue virtù cambiasse il pubblico. Dobbiamo constatare che molto più frequentemente i difetti del pubblico hanno contagiato il privato. Eravamo convinti che le privatizzazioni in Italia avrebbero esaltato i comportamenti virtuosi e isolato le pratiche peggiori. Hanno premiato, salvo pochi casi, le consorterie opache e diffuso la convinzione perniciosa che una relazione conti più di un risultato, che l'amicizia prevalga sul merito. Il mercato per troppi è ancora un luogo dello spirito, una selva oscura dalla quale difendersi. Con ogni mezzo.

Le privatizzazioni italiane non sono state decise nel giugno di vent'anni fa, a bordo del panfilo Britannia, sul quale la finanza anglosassone avrebbe irretito la nostra, come insiste un'altra vulgata sui poteri forti. Ma hanno visto la tendenza sistematica del grande capitalismo privato italiano a trovare rifugio negli ex monopoli pubblici o nel sistema delle concessioni statali quando non a realizzare solo un maledetto e immediato guadagno. La vendita o la svendita del patrimonio pubblico non è stata accompagnata da una decisa apertura alla concorrenza e raramente ha coinciso con un reale processo di internazionalizzazione degli acquirenti. La borghesia produttiva, che tanti meriti ha avuto in questo Paese, ha mostrato segni di stanchezza, difendendosi dalla globalizzazione anziché aggredirla. A dispetto di un passato glorioso e in contrasto con un tessuto di piccole e medie imprese che si batte ogni giorno per la sopravvivenza. Certo, esistono casi di straordinario valore, marchi di risonanza mondiale, storie personali di eccezionale successo. E meno male. Ma colpisce che spesso si dica che sono emerse nonostante, non grazie al nostro Paese. E che i loro artefici si sentano sempre meno italiani.

L'ultima amara realtà è che non vi sono vere élite o egemonie di qualità, ma solo una congerie disordinata e caotica di ingessature corporative, una miriade di casellanti muniti di veto. Chi teme i poteri forti può stare tranquillo. Chi ha a cuore il futuro del Paese, la formazione di una classe dirigente di qualità, le riforme e il ritorno alla crescita, ha molto di che preoccuparsi.

Ferruccio De Bortoli

@DeBortoliF
10 giugno 2012 | 10:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_10/de-bortoli-poteri-forti-classe-dirigente_8b7c6c56-b2c2-11e1-8b75-00f6d7ee22cc.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Il dividendo del professore
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2012, 12:00:23 pm
NOVITÀ EUROPEE, SCELTE ITALIANE

Il dividendo del professore

L'Italia non è solo una grande squadra. È un grande Paese. E forse sarebbe sufficiente, tanto per non avvelenarci la vita, che tutti ne fossero più consapevoli e orgogliosi. Nella notte in cui gli occhi erano puntati su Varsavia, a Bruxelles abbiamo ritrovato quel ruolo da protagonisti nell'Unione Europea che si era perso in tanti anni di pallide apparizioni. Il merito è di Mario Monti. E forse coloro che hanno pensato in questi giorni di togliergli la fiducia, dovrebbero riconoscere che chiunque al suo posto non avrebbe ottenuto nulla di più della personale cortesia dei partner. Un'Europa con un'Italia più ascoltata, anche se non ancora più forte, può affrontare meglio la crisi dell'euro. Non l'ha ancora risolta, ma per la prima volta ha mostrato ai mercati, sorprendendoli, una determinazione che tanti summit falliti rendevano quasi inimmaginabile. La reazione positiva delle Borse lo testimonia, anche se è prematuro illudersi. Un inedito asse mediterraneo tra Francia, Italia e Spagna ha costretto la Germania a guardare la cartina geografica e le statistiche economiche da una prospettiva diversa. Non è poco. Il volto scuro della signora Merkel non era solo quello di una tifosa delusa.

Il patto per la crescita impegna 120 miliardi: l'effetto moltiplicatore dell'occupazione e del reddito non sarà decisivo ma nemmeno trascurabile. Con l'incognita di quanti siano veramente i capitali freschi a disposizione. La vigilanza unica bancaria, con il coinvolgimento della Bce, la banca centrale europea, e il finanziamento diretto degli istituti spagnoli in difficoltà da parte del fondo Esm ( European Stability Mechanism ) possono interrompere, o quantomeno allentare, il circolo vizioso tra debiti sovrani e debiti privati che è alla base della patologia della moneta unica. A Deauville, nell'ottobre del 2010, Merkel e Sarkozy fecero l'errore di coinvolgere i privati nella crisi greca e da lì il contagio sui mercati fu inarrestabile.

Lo scudo anti-spread è la novità più rilevante, ed è mal digerita dai tedeschi, sempre contrari a qualsiasi forma di condivisione del debito altrui, eurobond compresi. Sulla funzionalità di questo meccanismo, che dovrebbe intervenire acquistando titoli pubblici dei Paesi virtuosi per ridurne i rendimenti eccessivi, è opportuno mantenere alcune riserve. In particolare sull'ammontare della dotazione, sulle relative garanzie, sull'interpretazione dei trattati e sulla loro condizionalità. Monti, che lo ha fortemente voluto, assicura che l'Italia non se ne avvarrà, almeno per ora. E spiega che i richiedenti non saranno costretti a cedere sovranità, come avviene per chi si rifugia tra le braccia strette del Fondo monetario, creditore privilegiato che impone un duro programma di risanamento (il consiglio che fu dato caldamente a Berlusconi e a Tremonti al drammatico, per noi, vertice di Cannes dello scorso anno).

Al di là degli aspetti tecnici e dei dubbi della Bce e dello stesso Draghi, il significato politico più importante di questa misura è l'affermazione dell'ineluttabilità della moneta unica che va protetta anche da eccessivi divari nel costo del denaro pagato dagli Stati membri. Un passo avanti sulla strada tracciata dell'unione politica e fiscale. Un dividendo prezioso per l'Italia, che non può essere disperso con il solito atteggiamento accidioso e particolaristico di partiti e corporazioni. Il cammino delle riforme, non solo economiche, è ancora lungo. I compiti non sono finiti, il tempo quasi.

Ferruccio de Bortoli

30 giugno 2012 | 20:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Visco: «Ecco le condizioni per crescere»
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2012, 10:23:54 am
PARLA IL GOVERNATORE DELLA BANCA d'ITALIA

Visco: «Ecco le condizioni per crescere»

Due progetti-Paese. No a terapie choc sul debito

Contro la crisi servono spirito civile e condivisione

di FERRUCCIO DE BORTOLI


Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, 62 anni, coltiva un gramsciano ottimismo della volontà, senza nascondersi difficoltà e ostacoli. Il governo è sulla strada giusta e nell’aggredire i mali dell’economia italiana bisogna avere due eccezionali qualità: uno spietato coraggio e il senso grave delle svolte storiche. Nulla è facile, nulla è impossibile. La nostra conversazione avviene in una sala di palazzo Koch, a Roma, dominata da tre arazzi con le gesta di Alessandro il Grande, che ospita la collezione delle monete preunitarie. In quelle teche vi finirà un giorno l’euro?

Dopo la storica riduzione dei tassi allo 0,75 per cento da parte della Bce sembrerebbe che i mercati abbiano smesso di credere alle banche centrali? «Quelle decise giovedì — risponde Visco — sono misure convenzionali di politica monetaria che tengono conto di una congiuntura internazionale che si sta deteriorando. Non vanno male solo i Paesi del Sud dell’Europa, tra cui noi, rallenta la Germania, la stessa Cina. E gli Stati Uniti hanno di fronte la vera grande incognita dell’economia mondiale, il fiscal cliff». Ovvero il pacchetto di tagli alla spesa e nuove tasse di fine anno. «Vale quattro punti di prodotto lordo, detto brutalmente».

Il quadro è cambiato così rapidamente? «La caduta dei prezzi delle materie prime e il rallentamento dell’export tedesco hanno convinto il Consiglio direttivo della Bce a dare un ulteriore segnale di accomodamento con la riduzione del costo dei finanziamenti che la banca centrale concede alle banche, anche quelli già erogati, al livello più basso dall’istituzione della Bce. L’inflazione nell’eurozona diminuisce rapidamente; scenderà al di sotto del 2 per cento nei prossimi mesi». E per l’Italia che cosa cambia? «Si avrà un impulso positivo, ma non si riduce certo l’esigenza di proseguire nell’opera di risanamento e riforma strutturale». Previsioni? «L’anno scorso pensavamo di crescere nel 2012 all’1 per cento, oggi le previsioni di consenso indicano che il Pil scenderà grosso modo del 2. Allora dobbiamo chiederci il perché di questi tre punti persi. La crisi è stata ed è grave. La restrizione del credito ha pesato per mezzo punto. Gli spread più alti, un altro mezzo punto. Un punto l’effetto restrittivo delle manovre di rientro. E siamo a due. E poi mezzo punto per la congiuntura internazionale e un altro mezzo per la caduta di fiducia di famiglie e imprese». Eccoci a tre punti. Troppi. E quando torneremo a crescere? «Il 2012 sarà negativo, ma penso che se la situazione non peggiora ulteriormente, se il rischio sui tassi si riduce, se la soluzione della crisi è condivisa a livello europeo, alla fine dell’anno potremo rivedere una luce in fondo al tunnel». E rischiamo ancora il commissariamento? «Lo abbiamo rischiato al vertice di Cannes, l’anno scorso. Quando un Paese riceve la solidarietà non la può ottenere senza contropartite. La condizione che possiamo offrire oggi è quella di fare fino in fondo il nostro dovere. Il fiscal compact non è una camicia di forza. È interesse di tutti non lasciare ai nostri figli un debito eccessivo. Non c’è cessione di sovranità. Il pareggio di bilancio non può essere criticato da chi dice che Keynes non l’avrebbe sottoscritto. Keynes era per il pareggio di bilancio depurato dagli effetti del ciclo economico».

John Maynard Keynes negli anni '40John Maynard Keynes negli anni '40
L’euro può resistere a lungo con dinamiche così divergenti fra i Paesi membri? «I tassi d’interesse sui Btp sono quattro volte superiori a quelli tedeschi. Il sistema finanziario dell’area dell’euro è frammentato, e la politica monetaria così non può avere successo. L’attuale spread di 470 punti base tra Btp e Bund per due quinti è "colpa" nostra, del nostro debito pubblico, della nostra scarsa competitività, della bassa crescita potenziale; il resto è un premio al rischio che lo Stato italiano paga per il timore del sottoscrittore dei suoi titoli che a un certo punto la moneta unica non ci sia più. Ed è come se la Germania ricevesse un sussidio dagli investitori internazionali. Con un tasso d’interesse a lungo termine dell’1,5 per cento e una crescita doppia, Berlino ha una condizione esattamente opposta alla nostra. Ciò crea una grave forza centrifuga nell’area dell’euro. All’ultimo summit europeo la valutazione dell’eccessivo livello degli spread è stata pienamente condivisa. Tre, a mio avviso, le ragioni del successo di Bruxelles, purtroppo comunicate male. La prima: una sorveglianza bancaria comune, che non fa scomparire ma si fonda su quelle nazionali. Seconda: l’avvio di una soluzione concreta al problema delle banche spagnole. Un problema che le nostre banche non hanno, sia chiaro. Da noi la bolla immobiliare non c’è stata. Nessuna bulimia di prestiti a fini immobiliari. Il nostro rapporto fra mutui e valore di mercato delle abitazioni è inferiore al 70 per cento. In altri Paesi è vicino, se non superiore, al 100. Terza ragione: la presa di coscienza che le differenze nei tassi d’interesse riflettono un malessere comune di fronte al quale occorre utilizzare tutti gli strumenti esistenti». Utilizzando in maniera appropriata le risorse a disposizione dell’Efsf (European Financial Stability Facility) e dello Esm (European Stability Mechanism), i cosiddetti fondi salva Stati. Le resistenze, non solo tedesche, e gli interrogativi non mancano, però.

«Le incertezze — spiega il Governatore — sono di due tipi: quale capacità operativa, non sappiamo; la dimensione delle risorse, insufficiente». Vi è poi incertezza circa la possibilità che il fondo permanente, l’Esm, che sostituirà l’Efsf, debba avere o no una licenza bancaria, cioè maggiore libertà di finanziarsi a sua volta. Ma le soluzioni possibili non mancano. Certo, se il fondo potesse essere usato come garanzia contro eventuali perdite di operazioni condotte dalla Bce, con l’effetto leva si potrebbero mobilitare anche duemila miliardi. Solo ipotesi, per carità. «Ma vi sono posizioni contrarie, non solo quella di Weidmann, cartesianamente ineccepibile. La Bundesbank condiziona tutto all’unione fiscale e, in una prospettiva ancora più lunga, politica, che fa scomparire le differenze di rischio in un singolo bilancio».

Contestatori contro Bob Diamond, l'ad di Barclays, dopo lo scandalo dei mutui gonfiati (Zumapress)Contestatori contro Bob Diamond, l'ad di Barclays, dopo lo scandalo dei mutui gonfiati (Zumapress)
Lo scudo antispread è indispensabile? «Se le condizioni economiche di fondo dei Paesi sono positive — continua Visco — non serve e fa bene Monti a dire che l’Italia non lo chiederà. Diciamo che se fosse dotato di capacità di intervento adeguata la sua stessa esistenza aiuterebbe a non usarlo. Ma, soprattutto, spezzerebbe le aspettative della speculazione, le scommesse contrarie, taglierebbe le unghie a chi volesse uscire dall’euro guadagnandoci, dato che, anche per lo scudo antispread, non riuscirebbe a trarne profitto. Ma poi c’è un altro luogo comune che va sfatato». Quale, Governatore? «Che sia la Germania a pagare per tutti. Un falso. Il nostro peso nell’area dell’euro è del 18 per cento, quello della Francia del 20, quello tedesco del 27. I salvataggi sono stati di diverse modalità: interventi diretti sul bilancio pubblico (Grecia) o attraverso l’Efsf (Portogallo e Irlanda), o partecipando all'Esm». Totale per noi? «A fine anno saranno stati versati dall’Italia circa 45 miliardi, e non ci si è agitati tanto. La Finlandia, che pesa per meno del 2 per cento, si è fatta sentire di più». Dopo il summit di Bruxelles ha ancora senso il ruolo dell’Eba (European Banking Authority), l’organismo di vigilanza presieduto dall’italiano Enria? «Se si va nella direzione di un controllo comune delle banche nell’area dell’euro andrà rivisto, non c’è dubbio. C’è poi un problema di rapporto fra i 17 Paesi dell’eurozona e i 27 dell’Unione, molto delicato». Perché? «Perché gli istituti di credito che hanno una rilevanza sistemica dovranno essere trattati tutti allo stesso modo. I nostri gruppi, ma anche quelli tedeschi o francesi, sono molto diversi da quelli inglesi. E poi vi è un altro attore di cui non si parla mai, la Commissione europea». Che ha svolto un ruolo nel sistema bancario non all’altezza delle attese? «Il suo ruolo nella definizione di regole comuni è sicuramente importante. Nell’anno passato abbiamo però avuto qualche problema nell’individuazione della giusta sequenza di interventi e si è finiti per iniziare dalla fine, con l’esercizio di ricapitalizzazione delle banche, in un contesto ciclico avverso, deciso dall’Eba». Qual è il pensiero del governatore sul caso Barclays, il colosso inglese accusato di aver manipolato il tasso interbancario (Libor ovvero London Interbank Offered Rate) cui è legato il costo dei mutui? «Il soft touch, la vigilanza leggera adottata in altri Paesi, non funziona: bisogna essere severi. E trasparenti. Spesso noi siamo considerati un po’ troppo invasivi, ma data anche la percezione dello scarso rispetto delle regole nel nostro Paese, meglio così. La Banca d’Italia non è "catturata" dagli intermediari su cui vigila, questo è sicuro. E il mondo anglosassone della finanza non ci venga a insegnare nulla, perché non è il caso».

A cinque anni dallo scandalo dei subprime, i prestiti senza garanzie, la lezione è servita? «Diciamo che c’è stata una reazione, con una regolamentazione da alcuni ritenuta eccessiva, anche se ho dubbi sul reale funzionamento della Dodd-Frank (la legge americana del 2010 sui mercati finanziari, ndr). Accadde così anche dopo il caso Enron (il colosso energetico Usa fallito nel 2001, ndr)». Si è rotto però, o almeno allentato, il rapporto fiduciario fra cittadino e sistema finanziario, fra cliente e banca, a volte salvata con il denaro dei contribuenti. C’è una grande questione di reputazione. Anche in Italia dove non ci sono stati salvataggi bancari con i soldi pubblici. Per esempio, nel risparmio gestito, continuano a essere collocati certificati rischiosi. «Intendiamoci bene — risponde Visco — io ho sempre pensato che il cassiere in banca dovrebbe avere dietro di sé un grande cartello, con scritto che "i", che sta per il tasso d’interesse, deve essere inferiore al quattro o cinque per cento. Se è di più vuol dire che si stanno vendendo prodotti rischiosi e bisogna che chi li acquista ne sia pienamente consapevole».

Quello della banca universale è un modello in crisi, da più parti si invoca un ritorno allo spirito del Glass-Steagall Act, la legge americana del ’33 che separava l’attività bancaria da quella d’investimento? «Se ne parla. In Europa nel fare un’unione bancaria dobbiamo mettere insieme istituti di natura diversa, credo che molto stia nei dettagli. Secondo alcuni aver separato la banca d’investimento dalla banca commerciale, come è accaduto in America, ha creato le condizioni per la nascita di giganti mondiali d’investimento che sono stati all’origine della crisi. Lehman Brothers ottemperava al Glass-Steagall Act, come anche Merrill Lynch, poi finita in Bank of America. Meglio la trasparenza e l’assenza di commistioni fra attività di trading e di prestito». E le paghe dei banchieri, i bonus allegri? «Per un certo periodo si è venduta la favola che una banca potesse avere un return on equity (Roe), un profitto, doppio rispetto a una impresa commerciale, e da lì sono discesi alti stipendi e bonus principeschi. È il caso inglese, la finanza si è sviluppata a danno dell’industria. Insostenibile». Secondo cartello da apporre in banca.

Tommaso Padoa-SchioppaTommaso Padoa-Schioppa
Rischi eccessivi, veduta corta, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa. Ma la veduta corta ce l’hanno anche gli imprenditori? «Sicuramente. Il problema centrale della nostra economia è la bassa crescita della produttività. Nell’Unione monetaria si sopravvive con investimenti e innovazione. Spesso gli imprenditori italiani sono rimasti indietro, hanno mantenuto dimensioni aziendali insufficienti per competere, hanno mostrato talora scarso coraggio. Hanno utilizzato una flessibilità cattiva del mercato del lavoro unicamente per ridurre i costi, continuando a vivere alla giornata». Una delle ragioni che la spingono, Governatore, a dire che la riforma del mercato del lavoro è buona? «Certo, non è il massimo, ma confrontata con la situazione preesistente è un grosso passo avanti. L’attenzione si è concentrata troppo sull’articolo 18. Ritengo che alcune reazioni, di imprese e sindacati, siano state eccessive, contribuendo a non metterne in luce, anche nei confronti dell’estero, gli aspetti più positivi. Credo che sia stato un errore».

La terapia del governo è corretta? I tagli alla spesa giusti? «Il governo si è trovato nella difficile condizione di dover operare dal lato della struttura produttiva in un momento di crisi e allo stesso tempo intervenire con misure di stabilizzazione. Molte tasse, quindi, troppe perché l’economia non ne risenta. Forse non si poteva fare altrimenti e già il precedente governo si era mosso in questa direzione con una delega fiscale che comportava l’aumento dell’Iva, già in parte avvenuto. Ma la lotta all’evasione fiscale è positiva. L’iniezione di concorrenza è apprezzabile, il sostegno all’innovazione delle imprese importante, la riforma del lavoro potrà avere effetti significativi, oltre all’intervento sulle pensioni, necessario. Intenti e misure condivisibili, ma con risorse modeste. Sulla spending review bisogna insistere il più possibile, perché solo così potremo ridurre le tasse, specie sul lavoro, oltre a non alzare l’Iva. Va detta una verità. Il bilancio pubblico è rilevante, ma è nella media europea se si pensa che ogni anno oltre il 5 per cento finisce per pagare gli interessi sul debito. Non pregiudichiamo però il futuro: su scuola, formazione e ricerca bisogna investire di più».

E il pubblico impiego, gli statali? «I risparmi consistenti verranno da una azione capillare, micro, da quello che in inglese si chiama enforcement, ma non bisogna commettere un errore». Quale? «Considerare l’impiego pubblico un peso morto, un’area di negatività. Vanno premiate le pratiche migliori, le tante persone che fanno bene il proprio lavoro, occorre muovere nella direzione di aumentare gli investimenti in questo Paese, rallentati dalla corruzione e dal malaffare». E come si possono rilanciare gli investimenti, non solo esteri, in questo Paese? «Due grandi aree. Un ampio progetto di manutenzione immobiliare dell’Italia, di cura del territorio, una terapia contro il dissesto idrogeologico.
I soldi, mi creda, si trovano. Si diano gli incentivi giusti, soprattutto a chi ha cura della messa in sicurezza dell’ambiente e della sua estetica. I terremoti, purtroppo, insegnano. Si faccia un piano, pubblico e privato, con il concorso dei fondi europei».
E la seconda? «Per attrarre gli investimenti è necessario avere uno sportello unico che aiuti a risolvere problemi di ordine amministrativo, legale, tributario e dia garanzie agli imprenditori singoli, più che alle multinazionali, contro la burocrazia e la corruzione». Una sorta di Mister Italia, un consulente ad hoc? «Esatto, un facilitatore, ma non basta. Per portare avanti questi progetti ci vuole anche qualcosa che non costa nulla, ma nel nostro Paese è assai raro, uno spirito civile, da civil service»

L’investitore estero che sottoscrive i nostri titoli di Stato si pone anche la domanda di chi verrà dopo Monti. «L’interrogativo c’è tutto, io non posso rispondere, ma mi auguro che la classe politica dia prova di consapevolezza e responsabilità, mostri l’ambizione di costruire ideali, di disegnare prospettive di crescita, non solo economica. Un nuovo spirito italiano. Non ci si impegni subito in una lunga ed estenuante campagna elettorale. Vede, io sono membro della Bce e a Francoforte opero per la stabilità dell’eurozona. Ma come Governatore della Banca
d’Italia lavoro in ogni momento per il mio Paese, un Paese che ha un eccesso di debito e una carenza di Stato».

Il debito pubblico sfiora il 123 per cento del Pil, gli interessi ci strangolano. Abbatterlo con un’operazione straordinaria? «Diciamo subito che c’è una parte di debito che non è calcolata: gli arretrati di pagamento della pubblica amministrazione. Saldare questi arretrati vuol dire emettere nuovi titoli. Le terapie anti debito possono essere di due tipi. Il primo: un intervento di privatizzazione di poste patrimoniali, immobili o partecipazioni in imprese. Quello che è possibile, non tanto per la verità. Si potrebbe ad esempio provare a ridurre il debito di un punto percentuale di Pil all’anno. Il secondo: il colpo secco. Sono state avanzate diverse proposte. Anche noi le esaminiamo, ma sembrano molto difficili da attuare. Non si possono approvare progetti validi solo sulla carta. Consideriamo ad esempio un fondo le cui quote siano acquistate dai cittadini mediante conferimento di titoli pubblici. Con un patrimonio costituito da varie attività, specie locali. Ma per identificarle e valorizzarle, individuarne la disponibilità sul piano giuridico amministrativo, ci vuole tempo, molto tempo. Poi se vogliamo usare la ricchezza privata per far fronte ai titoli pubblici, incentivandone la sottoscrizione, bisogna ricordarsi un particolare. Quando noi diciamo agli italiani, comprate più titoli di Stato, implicitamente li sproniamo a dismettere altre attività. L’equilibrio generale non è chiaro.
Dunque, cautela». A meno che non si usi a garanzia l’oro della Banca d’Italia? «Non ne parliamo, se l’oro, le riserve della Banca d’Italia fossero trasferite al settore pubblico sarebbe finanziamento dello Stato, si violerebbero i trattati: esse sono il nostro contributo alla stabilità e all’integrità dell’Unione monetaria, in ultima istanza alla stabilità del nostro stesso sistema».

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7 luglio 2012 (modifica il 8 luglio 2012)


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Il tempo zero della politica
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 02:59:59 pm
L'EMERGENZA CHE RITORNA

Il tempo zero della politica

Alle elezioni (si voterà il 7-8 aprile?) mancano sei mesi abbondanti. Non sappiamo con quale legge voteremo, chi si presenterà, e se la sera degli scrutini conosceremo la coalizione di governo. La metà degli italiani non esprime nei sondaggi alcun orientamento. E non possiamo quindi stupirci se la stragrande maggioranza degli investitori, nell'incertezza assoluta, si astenga dal considerare il Paese un'opportunità.

In undici mesi scarsi, il governo Monti ha fatto molto per rimediare a un'immagine internazionale disastrata. Ma rimane assai arduo dimostrare a un osservatore straniero quale sia il vero volto del Paese: la serietà e l'operosità o lo scialo e la corruzione? Noi siamo convinti che il primo aspetto sia assolutamente prevalente sul secondo, escrescenza di abitudini miserabili, purtroppo trasversali e non solo della politica. E che l'Italia perbene stia pagando un prezzo elevatissimo. Ma il nostro amico straniero non si capacita del perché una legge contro la corruzione tardi ad essere approvata, non si spiega come ci si possa dimettere e firmare delle nomine il giorno dopo, rafforzando il sospetto che passati gli scandali tornino vecchie e inconfessabili abitudini. Sui circuiti internazionali hanno avuto più successo (ahinoi!) le immagini del corpulento Fiorito (che si ricandida) di quelle dello stesso Monti impegnato a spiegare i sacrifici degli italiani. Rischiamo di tenerci una pessima legge elettorale (il cui nome Porcellum ora richiama anche recenti feste pagane). Non abbiamo una normativa moderna per la trasparenza degli affari e Angel Gurria dell'Ocse ci ha cortesemente richiamato, nel suo ottimo italiano, a vergognarci di essere la pecora nera dell'Occidente.

La tela delle riforme (conoscendo moderni Ulisse lasciamo stare Penelope) intessuta con fatica e qualche errore dal governo tecnico, rischia di essere strappata dall'irresistibile demagogia di ogni campagna elettorale. Nel frattempo lo spread torna a salire e la spiegazione che sia tutta colpa della Spagna è pericolosamente consolatoria. Se Madrid dovesse chiedere gli aiuti, l'attenzione dei mercati si riverserebbe su di noi, trovandoci impreparati e distratti.

Il tempo zero della politica è la peggiore risposta che si possa dare ai mercati. Dà l'impressione che l'enorme sforzo di risanamento fin qui compiuto, pagato soprattutto dalle famiglie e dal ceto medio, sia frutto di episodiche virtù. E avvalora la convinzione che dopo l'aprile del 2013 tutto possa tornare come prima. È comprensibile che la politica rivendichi il proprio ruolo, essenziale in una democrazia compiuta, e si ribelli all'ipotesi di commissariamento. Ma nell'ignavia del tempo zero si avvicina il momento in cui il Paese sarà costretto a chiedere l'aiuto europeo o a sottoporsi a un programma del Fondo monetario con una resa poco onorevole. Lo spazio per evitare questo scenario, considerato inevitabile da molti, che svilirebbe il voto e darebbe fiato all'antipolitica e al qualunquismo, è assai limitato. Avrebbe invece un suo particolare significato - specie dopo la disponibilità ad esserci, se necessario, espressa ieri da Monti - una sorta di patto pre-elettorale tra le principali forze politiche (che non significa precostituire alcuna grande coalizione), sulla condivisione delle regole del gioco, a cominciare dalla legge elettorale, la conferma del percorso di risanamento, la moralizzazione della politica e la riduzione dei suoi costi. A condizione che non resti, come altri solenni impegni, desolante lettera morta.

Ferruccio De Bortoli

28 settembre 2012 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_28/tempo-zero-della-politica-debortoli_fb2515ea-0929-11e2-8adc-b60256021bbc.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI La zattera della Medusa
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2012, 04:55:31 pm
L’INCERTO DESTINO DEL CENTRODESTRA

La zattera della Medusa


Il centrodestra assomiglia sempre di più alla zattera della Medusa di Gericault. Alla deriva. I naufraghi s’ammazzano l’un con l’altro. Gli elettori, e sono ancora tanti, guardano sgomenti, e non meritano un tale spettacolo. Alle elezioni mancano al massimo quattro mesi. Berlusconi sembra deciso a sfidare il vincitore delle primarie del Pd. Il Cavaliere fu abilissimo nel ’94 a riempire il vuoto della politica dopo Mani Pulite. Oggi quel vuoto lo crea lui con le sue goffaggini e le sue indecisioni. Fu straordinario nell’usare, e controllare, i mezzi di comunicazione. Oggi ne è vittima, anche di chi lo sostiene. Eccezionale nel trasformare le contese elettorali in plebisciti su se stesso. Oggi il plebiscito lo vedrebbe perdente. E Bersani giustamente gongola all’idea di averlo come avversario. A ciò si aggiunge che quel che resta del Pdl fa di fatto, con i propri litigi, campagna elettorale per gli avversari. Incredibile.

Il destino del centrodestra riguarda tutti. Anche quelli che non lo votano. Una domanda di rappresentanza politica, fino a ieri maggioritaria, rischia di non incontrare alle prossime politiche un’offerta adeguata e sufficiente. Chi ha a cuore la solidità di una democrazia non può essere indifferente di fronte al disagio di una parte di elettorato tentata dall’astensione o dal voto di protesta. Anche a sinistra i più avveduti temono un bipolarismo Bersani- Grillo. I moderati di quello schieramento, cattolici per primi, guardano con preoccupazione allo sfaldamento del polo avversario e al suo arroccamento in difesa di Berlusconi, perché ciò finirebbe per spostare ulteriormente verso Vendola e la Cgil il baricentro di un futuro e assai probabile governo a guida Pd.

Berlusconi sembra deciso a non consentire una riforma della legge elettorale per portare in Parlamento fedelissimi, amazzoni e pretoriani. La saggezza dovrebbe indurlo a fare un passo indietro. A garantire un’evoluzione dell’intero movimento— che a lui si richiama e continuerà a richiamarsi— verso il Partito popolare europeo, lasciando perdere tentazioni lepeniste e antieuropee. Monti in Europa, sarà bene ricordarlo, ci andò grazie a lui. Solo così quella che appare, in base ai sondaggi, la prossima opposizione potrà candidarsi autorevolmente a essere alternativa di governo.

Ma qui si affaccia nel centrodestra il discorso più delicato. Se c’è, come crediamo, un gruppo dirigente liberale e democratico all’altezza del compito, ma soprattutto responsabile, deve avere la forza di separare il proprio destino politico dalla deriva solitaria e resistenziale del proprio capo. Appoggiando subito la riforma della legge elettorale. E mostrando coraggio nel non candidare chi è stato condannato in modo definitivo. Un gesto dettato forse più dalla disperazione che dal coraggio, ma assolutamente necessario e non più rinviabile.

Un taglio netto riapre i giochi nell’arco politico che si oppone a Bersani e ai suoi alleati. Riduce la forza di attrazione che la sinistra esercita nei confronti del centro moderato. Rende possibili future collaborazioni su alcuni aspetti dell’agenda Monti e nell’indicazione di candidati, non solo alla premiership, nuovi e più credibili. L’incerta democrazia italiana dell’alternanza ne avrebbe un sicuro beneficio. Così la zattera della Medusa troverebbe finalmente un approdo. E il ventennio berlusconiano passerebbe al vaglio degli storici. Con un’uscita di scena più dignitosa, il giudizio non potrà che essere più articolato e imparziale.

Ferruccio de Bortoli

6 dicembre 2012 | 14:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_06/debortoli-zattera-medusa_980e814c-3f6d-11e2-823e-1add3ba819e8.shtml?fr=box_primopiano


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Monti: «In politica? Ora sono più libero»
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2012, 09:59:43 pm
Il racconto di una giornata drammatica

Monti: «In politica? Ora sono più libero»

Il Quirinale ora non lo ritiene impossibile.

Le dimissioni: «Ho maturato la convinzione che non si potesse andare avanti»


(FdB) Questa è la cronaca di ore drammatiche nella vita del Paese che mai avremmo voluto scrivere. Un governo muore così. Nella Festa dell’Immacolata, a mercati chiusi, ma a occhi ben aperti di una comunità internazionale che non capisce e da lunedì ci farà pagare un prezzo assai alto. La ridiscesa in campo del Cavaliere aveva già prodotto, dalla convulsa serata di mercoledì, un terremoto inarrestabile, ma sono state le parole di Alfano pronunciate venerdì alla Camera a far cadere le ultime resistenze del Professore. Ricorda un dispiaciuto presidente della Repubblica al termine del lungo colloquio di ieri, nel quale il premier uscente gli ha manifestato, con cortesia e fermezza, la propria volontà di dimettersi, che tutto è cominciato alla fine del Lohengrin alla Scala nella serata di Sant’Ambrogio, dopo quella prima alla quale, forse con anziana preveggenza, aveva deciso di non partecipare.

«Ci siamo sentiti subito dopo », dice Napolitano. Ed era già evidente, seguendo il filo del racconto del presidente, il disagio, il disappunto, non la rabbia perché quella non fa parte del vocabolario di un professore abituato a misurare le parole, a dosare aggettivi e mosse, la sua volontà di porre termine a un anno di governo, che per lui è stato pari a un decennio, di sofferenze, ma anche di soddisfazioni, specie internazionali. Quando Monti parla con Napolitano in una saletta della società del Giardino, antico circolo milanese, sede del ricevimento scaligero, non ha ancora avuto modo di leggere con attenzione le parole pronunciate alla Camera dal segretario Alfano poche ore prima. Conosce i titoli e il senso dell’intervento, ma non lo ha ancora letto né tantomeno soppesato. Le cinque ore trascorse nel Piermarini ad assistere alla rappresentazione wagneriana, la leggenda dell’eroe romantico in una terra percorsa da liti e contrasti, non devono averlo appassionato molto. Parla poco, Monti, rilascia solo una enigmatica dichiarazione sul Re Sole, ovvero Berlusconi, che si è allontanato da lui. Ma forse vede accanto al cigno bianco di Lohengrin anche quello nero del suo governo, recapitato dal duo Berlusconi-Alfano, con una musica certamente più sgradevole.

Il colloquio telefonico di venerdì sera con Napolitano è il prologo di quello ben più drammatico di ieri sera. La moglie Elsa, incontrata in una sala della società del Giardino, appare turbata. «Mario? È su che sta telefonando». Chi la conosce da tanti anni capisce che qualcosa sta succedendo. E veniamo alla giornata di oggi. Monti racconta di essere stato a Cannes. «Non ho risposto per tutta la giornata alle molte domande che mi venivano poste, soprattutto dagli stranieri. Ho colto il loro sbalordimento per la situazione italiana ». Il Professore racconta di essere andato a Cannes dopo aver letto e riletto la dichiarazione di Alfano e di essersi convinto che quella era la vera mozione di sfiducia nei confronti del suo governo. Sprezzante sui risultati ottenuti, violenta nei toni, profondamente ingiusta. E si domanda perché non siano stati più coerenti i rappresentanti del Pdl, partito per lunghi mesi responsabile e disciplinato di quella che un tempo era, per sua definizione, una «stranamaggioranza», a votargli subito la sfiducia. Sarebbe stato preferibile. E non si capacita il Professore che le parole liquidatorie e persino insultanti, le abbia pronunciate un segretario del Pdl «sempre gentile e premuroso» e improvvisamente trasformatosi in un tribuno duro e tagliente. «Ho maturato la convinzione che non si potesse andare avanti così». Ho cercato in questi mesi, confessa un amareggiato ma non piegato premier, di non cedere al mio carattere, di essere meno suscettibile, ebbene avrei preferito che staccassero la spina direttamente, con un voto di sfiducia, non in quel modo. Di ritorno da Cannes, Monti si dirige verso Roma, dove lo attende Napolitano. Ha già deciso di dimettersi, con dignità, quella dignità ferita dalle parole di Alfano e dalle pronunce ripetute a Milanello del Cavaliere, ridisceso in campo con quella baldanza che molti osservatori esteri non si spiegano o, peggio, non tentano nemmeno di spiegarsi. «Ho preferito farlo subito, a mercati chiusi». Sì, presidente, ma lunedì riaprono. «Già».

Quando arriva al Quirinale, nella serata di ieri, il presidente della Repubblica che lo ha fortemente voluto alla guida di un governo tecnico che ha salvato l’Italia dalla bancarotta del novembre scorso, sa che il finale è già scritto. I due hanno caratteri diversi, ma la stima e l’amicizia sono profondi. Il capo dello Stato sa che non può fare più nulla. Discutono a lungo della posizione del Pdl e soprattutto della nota di Alfano. Napolitano condivide lo sdegno per le parole del segretario del Pdl, ingiuste nel bilancio di un anno di lavoro del governo tecnico che pur ha avuto alti e bassi, riforme positive e altre meno, ma che ha ridato immagine e rispettabilità al Paese in giro per il mondo. Capisco e condivido, dice in sintesi Napolitano, il senso di dignità personale e istituzionale che ha mosso il premier ad annunciare le proprie dimissioni. Confessa Napolitano di aver faticato non poco a convincerlo a rimanere per l’approvazione della legge di stabilità, per la legge di variazione di bilancio. Ma entrambi si sono trovati assolutamente d’accordo nell’evitare al Paese l’onta di un avvilente esercizio provvisorio. Napolitano fa ricorso, e si rende conto che il paragone è tutt’altro che esaltante per Monti, al novembre scorso quando convinse Berlusconi a dimettersi e questi lo fece dopo l’approvazione della allora più che incerta e sofferta legge di stabilità. Un paragone che Monti con sense of humor accetta.

La discussione tocca anche la ridiscesa in campo di Berlusconi, che il capo dello Stato giudica, nei toni e negli argomenti, esaltata e pericolosa. Anche per lo stesso Cavaliere. Lo scenario che si apre è, dunque, il seguente. Il giorno dopo l’approvazione della legge di stabilità, e ci vorranno presumibilmente sei o sette giorni, il presidente della Repubblica scioglierà le Camere. È escluso, anche se Napolitano afferma di prendersi una pausa di riflessione sulle modalità, che il governo venga rimandato alle Camere. Il discorso di Alfano è suonato alle orecchie di Monti come una sfiducia conclamata. Dunque, meglio evitare un nuovo e imbarazzante passaggio formale. Ma la questione resta aperta. Si voterà a questo punto a febbraio. Ciò comporterà, probabilmente, anche le dimissioni anticipate di Napolitano che più volte ha ripetuto di non voler essere lui a conferire l’incarico per la formazione del nuovo governo della prossima legislatura. Il finale di questa, morente nel modo peggiore, è stato ben diverso da quello che il Quirinale si aspettava. Anche Napolitano non si persuade di come sia stato possibile un cambiamento così repentino della scena politica. Anche lui, come Monti, aveva incontrato il «gentile e attento» Alfano e non immaginava una svolta oratoria, alla Brunetta, di tale asprezza. Si aspettava che i moderati e i liberali del centrodestra facessero sentire la propria voce e invece, nelle sue parole, appare forte l’apprensione per la svolta, definita a tratti di bestiale egocentrismo, che il Cavaliere ha impresso alla politica italiana.

Lo sguardo è su quello che accadrà lunedì, sui mercati e nelle cancellerie internazionali che torneranno a considerare l’Italia una fonte di contagio, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. Il governo resterà in carica per l’ordinaria amministrazione, ferito a morte, in una campagna elettorale che si annuncia tra le più difficili e tormentate del Dopoguerra. «Doveva avere il coraggio di staccarmi la spina, sapendo che l’avrei potuta staccare anch’io », ripete Monti in tarda serata, con l’aria sollevata e, conoscendolo, con molta amarezza in corpo. E forse anche una sottile emalcelata aria di rivincita. E ora presidente, lei è libero di prendere qualsiasi decisione, anche di candidarsi alle politiche, ormai la necessità di essere super partes è caduta o no? Il silenzio dell’interlocutore è significativo, è chiaro che ora si sente libero di decidere. Ci sta pensando, molti lo spingono a fare un passo. E anche il presidente della Repubblica, crediamo, non lo ritiene più impossibile. In poche ore muore il governo tecnico, il paese corre alle urne, in un confronto così radicale che schiaccia moderati e liberali che guardano a Monti con rinnovata speranza. Forse Alfano non sapeva che con le sue parole ha fatto cadere un esecutivo ma non ha tolto di mezzo un leader. La pressione dei centristi su Monti si intensificherà. E lui non tornerà di certo alla Bocconi. Il Lohengrin della Scala è finito negli applausi. La tragedia italiana continua. Il libretto è tutto da scrivere, la musica pure, la platea assicurata e mondiale, ma purtroppo assai poco disposta nei confronti degli interpreti. Il sipario non scende mai.

Ferruccio de Bortoli

9 dicembre 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_09/de-bortoli-monti-lascia-crisi-aperta_9c66ad96-41cf-11e2-ae8d-6555752db767.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Passera: lista di Monti, occasione persa ...
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2013, 07:08:15 pm
Il personaggio

Passera: lista di Monti, occasione persa Serviva un programma più coraggioso

«Hanno vinto vecchie logiche» Il ministro parteciperà alla campagna elettorale e ha aperto il suo account Twitter


Dopo la riunione di Sion, il convento romano nel quale Monti ha deciso la sua «salita in politica» insieme con Casini e Fini, non aveva detto più nulla. Solo un deluso «non ci sto» in tempo reale durante la riunione. Una rottura dura nei fatti, non nella forma. Oggi Corrado Passera, ministro dello Sviluppo Economico delle Infrastrutture e dei Trasporti, 58 anni appena compiuti, spiega le ragioni della sua scelta. Questa mattina ha aperto (anche lui!) il suo bravo account Twitter e parteciperà al dibattito politico senza candidarsi. Con una sua personale agenda che si discosta non poco da quella Monti. E non è la sola sorpresa di questa conversazione domenicale.

«Si è persa una grande occasione, io credevo al progetto di una lista unica Monti sia alla Camera sia al Senato. C’è un grande mondo che non si riconosce né con la sinistra—soprattutto se condizionata dalle componenti estreme—né con l’antipolitica né con Berlusconi. Avevo dato la mia disponibilità a candidarmi, senza pretese di ruoli presenti o futuri. Fino a poche ore prima di quella riunione del 28 dicembre sembrava tutto fatto. Durante la riunione hanno prevalso le posizioni di Italia Futura, di Montezemolo, di Riccardi, di Casini. Ho preso atto e me ne sono tirato fuori, ma non farò mancare il mio sostegno a Monti». Perché non le piace la soluzione trovata, la politica è fatta, purtroppo, di compromessi, spesso al ribasso? «Non si è creata quella nuova formazione forte e chiara che io auspicavo ma un insieme di liste collegate che certamente faranno un buon lavoro, rimanendo però esposte alle vecchie logiche di corrente». Forse lei si aspettava di avere compiti più importanti, si è sentito un po’ messo in disparte? «Guardi, quella mattina Monti mi aveva chiesto la disponibilità ad assisterlo in un ruolo di coordinamento, ma avevo legato l’accettazione al progetto di lista nuova e unica». E ne ha parlato con Monti dopo la rottura? «Certo, il rapporto personale non è mai venuto meno; mi è stato anche chiesto se volevo entrare in lista, ma ho detto di no». E ha ricevuto offerte anche da altri schieramenti? «Non accetterei mai di candidarmi contro Monti». Tosi e Galan hanno fatto il suo nome come possibile candidato premier della probabile riedizione dell’alleanza fra Pdl e Lega. «Stesso discorso, Berlusconi non lo sento da un pezzo». Siete andati sempre d’accordo lei e il presidente Monti in questi mesi? «Sempre no, ma in una squadra è naturale». E con gli altri ministri? «I rapporti sono stati di leale collaborazione e di grande soddisfazione. Ho avuto problemi solo con la struttura del ministero dell’Economia, mai con Grilli». Diplomatico Passera, troppo diplomatico. Le chiedo una previsione sulle elezioni, come andrà secondo lei? «Sulla base delle proiezioni ad oggi, vincerà bene Bersani, ma servono maggioranze forti per affrontare alla radice i problemi del Paese. Mi auguro una coalizione forte con il raggruppamento di Monti che garantisca la governabilità del Paese almeno in questa fase ancora difficile».

E Monti si è giocato il Quirinale? «Il suo impegno politico è un gesto di coraggioso civismo. Ha fatto ciò che era giusto, non quello che forse era per lui personalmente utile. Monti in questo senso è uomo di passione, non un freddo». Lei ritiene però che la «scelta civica» del presidente del Consiglio non sia una soluzione politica all’altezza di ciò che ha rappresentato il suo esecutivo, è così? «È una buona sintesi. Il nostro governo con la maggioranza che l’ha sostenuto ha salvato il Paese dalla bancarotta, dalla perdita di sovranità, non dimentichiamocelo, anche se oggi qualcuno fa finta di non ricordare la montagna di debito pubblico, 2 mila miliardi di euro, che grava sulle nostre teste e quindi alla necessità di non abbandonare la politica del rigore. Monti ha portato forte innovazione nella politica del Paese sia nel metodo che nello stile e oggi fa le sue proposte ai cittadini elettori: considero immorale definire la sua scelta immorale come ha fatto D’Alema e inaccettabili le accuse della Camusso ». D’accordo, ma lei come se la immaginava questa ipotetica lista unica di una nuova formazione di centro, cattolica, liberale ed europeista? «Doveva innanzi tutto essere una cosa nuova, chiara e non legata a strutture preesistenti, con figure di primo piano sia della società che della politica beninteso, in particolare del mondo dell’impresa, delle professioni, dell’economia sociale con una grande attenzione ai temi della famiglia e della solidarietà, che oggi non sono rappresentati come sarebbe giusto che fosse. Avrei voluto un programma in alcuni punti più coraggioso. Una svolta più radicale».

Nemmeno l’Agenda Monti, dunque, la soddisfa? «Mi è dispiaciuto non rivedere richiamato con più forza, anche nei simboli, il concetto di Agenda per l’Italia, anche se sul tema dei contenuti sicuramente si sarebbe potuto lavorare a una piattaforma più completa. Siamo tutti d’accordo che non serve un Monti bis, ma un percorso di lavoro per i prossimi cinque-dieci anni che costruisca anche un modello di società nel quale i cittadini possano riconoscersi. Una società più dinamica, ma anche più coesa e dove il privato profit, il privato non profit e il pubblico condividano le responsabilità dello sviluppo sostenibile». In quali punti ritoccare e migliorare il programma della Scelta Civica di Monti? «Non si può rispondere con poche righe. Deve essere per esempio chiaro l’impegno a non aumentare le tasse, anzi a ridurle. No, quindi, a una nuova patrimoniale. Alleggerire il carico fiscale per le famiglie con redditi bassi e con figli e per le imprese che investono in innovazione e internazionalizzazione e soprattutto che assumono, attraverso un nuovo contratto di inserimento e reinserimento da mettere a punto. La spesa pubblica va ripensata e tagliata con interventi strutturali profondi. Valorizzato lo sconfinato patrimonio pubblico formato da terreni, immobili, partecipazioni, crediti, al fine di trovare le risorse per lo sviluppo e facilitare la riduzione del debito. Ecco un capitolo sul quale il nostro governo non ha avuto il tempo— e forse la determinazione—per portare risultati soddisfacenti».

E quali altri aspetti dell’attività dell’esecutivo, secondo lei, potevano essere curati meglio? «Non dimentichiamoci mai la situazione di emergenza e di carenza di risorse nella quale ci siamo trovati. Si deve fare sicuramente di più per i beni culturali e ambientali e a favore del terzo settore in tutte le sue forme; c’è un tessuto fitto e prezioso di economia sociale, di sussidiarietà, che forma un capitale sociale italiano ineguagliabile». Passera dice di apprezzare molto, nell’Agenda Monti, il richiamo alla centralità del ruolo femminile ma sostiene che sulla famiglia l’impegno dev’essere più chiaro e circostanziato: «Si continua a sottovalutare l’enorme pressione che si accumula sulle famiglie a basso e medio reddito. Se una donna che vuole lavorare non riesce a trovare un asilo nido per i figli ogni discorso sull’occupazione appare inutile. Se non garantiamo servizi adeguati agli anziani non possiamo dirci un Paese civile. E lo stesso discorso vale per la scuola a tempo pieno, per la sanità di prossimità». Non soddisfa il ministro dello Sviluppo nemmeno la parte dedicata alla riduzione dei costi diretti e indiretti della politica. Troppo timida. Vaga. «Dobbiamo incidere più in profondità sul costo vivo dell’apparato politico e amministrativo pubblico. Un esempio: un solo livello istituzionale e politico fra i Comuni e lo Stato centrale. Ripensamento totale di tutte le strutture intermedie, non solo le Province. Bilanci consolidati, certificati e confrontabili per ogni entità pubblica. Commissariamento, vero non finto, di ogni ente che non rispetta le regole; riduzione drastica di tutte le assemblee elettive locali e centrali. Si può fare molto, molto di più di quanto non si creda per migliorare il nostro federalismo. Le resistenze incontrate anche dal nostro governo sono state formidabili, veti a tutti i livelli, spesso eravamo circondati da sguardi divertiti e poco indulgenti dei dirigenti pubblici, ma quando si riusciva ad ottenere qualche risultato, l’effetto positivo era perfino contagioso. Nella pubblica amministrazione ci sono tanti talenti e persone fiere di servire lo Stato. Dobbiamo dare loro fiducia con il buon esempio. Le Poste per me sono diventate una specie di metafora dell’Italia che in pochi anni può passare dalle ultime posizioni alle prime in Europa».

Dunque, Passera, quale sarà il suo futuro? «Ho ricominciato daccapo tante volte e sono pronto a rifarlo. Voglio continuare a dare un contributo a questo Paese. Come? Si vedrà, tutto è aperto. Per ora ho tante cose da fare come ministro ». Ordinaria amministrazione. «Eh no, tutt’altro, ci sono decreti da convertire, regolamenti da varare, processi da perfezionare. Dalle infrastrutture all’energia, dalle start up agli aeroporti, gli interventi sono stati numerosi e gli effetti si vedranno già nei prossimi mesi». Non mi faccia l’elenco dei provvedimenti, per carità, ce lo risparmi. «Le dico solo che da vent’anni l’Italia non aveva un piano energetico. Il mercato del gas oggi è più concorrenziale e grazie agli interventi che stiamo realizzando il gas costerà meno anche alle famiglie già dai prossimi mesi». Per ora non si vede, purtroppo. «Siamo riusciti a riordinare gli incentivi, esagerati, per le energie rinnovabili. In media due o tre volte quelli di altri Paesi. Una tassa occulta che si pagava sulle bollette elettriche che abbiamo evitato aumentasse ancora, senza per questo rinunciare a tutti gli obbiettivi europei. La distribuzione di quegli incentivi era stata approvata da quasi tutti i partiti e le resistenze sono state forti. Riordinato i processi sull’assegnazione delle frequenze, eliminato il cosiddetto beauty contest che favoriva il gruppo Berlusconi e altri: diciamo che anche qui non mi sono fatto molte simpatie. Affrontato tante crisi aziendali. Le faccio solo l’esempio della Fincantieri. C’era chi voleva venderla addirittura con dote mentre a mio parere si poteva completare risanamento e rilancio. Si è messo a punto un nuovo piano, stretto un accordo con i sindacati e oggi il gruppo è in grado di fare addirittura acquisizioni all’estero». Che cosa si rammarica di non aver potuto fare in quest’anno abbondante di governo? «Due cose, l’authority dei trasporti rimasta sulla carta, troppe e inaccettabili le pressioni, e gli incentivi all’innovazione per i quali non siamo riusciti a trovare le risorse».

Passera, lei è un cattolico, ha partecipato agli incontri di Todi, come giudica il rapporto della Chiesa con la politica? «I cattolici sono un tessuto fondamentale del Paese, ne costituiscono una imprescindibile ossatura identitaria, il loro contributo è sottostimato, ma troppi si sentono talvolta interpreti esclusivi delle gerarchie ecclesiastiche». E se tornasse indietro lo rifarebbe? Accetterebbe di nuovo di lasciare una delle più importanti posizioni del settore privato per un governo tecnico? «Sì lo rifarei, senza alcun dubbio. E ridirei di sì a Monti e a Napolitano anche se non è finita come avrei desiderato». Il suo account Twitter? «@corradopassera, papà di Sofia, Luigi, Luce e Giovanni, marito di Giovanna, amante dell’Italia, ministro della Repubblica». Mi raccomando niente wow o emoticon, però, perché è come andare in bermuda all’inaugurazione di un anno accademico.

f.de.b

7 gennaio 2013 | 10:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_07/passera-occasione-persa_e3c3494a-5892-11e2-b652-002bcc05a702.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Monti: «Togliamo l'Italia agli incapaci»
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2013, 10:38:09 pm
Il premier racconta i retroscena della «salita in politica». «Troppe tribù in questo Paese»

Monti: «Togliamo l'Italia agli incapaci»

Lavoro, possibili cambi alla riforma Fornero

Nella nuova Agenda possibili modifiche alla riforma Fornero


La domanda è una sola. Semplice. Perché ha deciso di «salire in politica»? Quali sono le vere ragioni di una scelta che chi scrive, pur conoscendola da molto tempo, mai avrebbe immaginato? Monti fa un grande sospiro. Siamo nel suo ufficio a Palazzo Chigi, in una piovosa mattinata romana. «Credo di aver fatto una cosa giusta, non quella più utile per me». Il racconto del presidente suddivide il suo periodo di governo in due parti. La prima, la più drammatica, con l'incubo quotidiano di restare senza i soldi per pagare gli stipendi pubblici («Quando incontravo Angela Merkel sapeva esattamente quanti titoli di Stato avevamo bisogno di vendere»). Poi i primi risultati, l'emergenza che si allontana. «Allora, pensavo che, dopo aver contribuito a salvare il Paese, restando al di sopra delle parti avrei svolto tranquillamente le mie funzioni di senatore a vita, in attesa che qualcuno, forse, mi chiamasse».

E invece no. «A un certo punto, con l'avvicinarsi delle elezioni, le riforme incontravano ostacoli crescenti, erano sempre più figlie di nessuno. La strana maggioranza cambiava pelle sotto i miei occhi. Il Pdl ritornava ad accarezzare l'ipotesi di un nuovo patto con la Lega, non con il Centro, ed emergeva un fronte populista e antieuropeo; il Pd alleandosi esclusivamente con Sel riscopriva posizioni radicali e massimaliste in un rapporto più stretto con la sola Cgil». E che altro poteva aspettarsi, professore? Che i partiti si suicidassero tutti sull'altare del rigore? «Ho intravisto due rischi. Uno a breve, che il governo cadesse prima che i partiti si accordassero finalmente su una riforma elettorale; uno più a lungo termine, e assai più grave, ovvero che sei mesi dopo le elezioni si dissipassero tutti i sacrifici che gli italiani avevano fatto, con grande senso di responsabilità, per sottrarre il Paese a un sicuro fallimento. Tutto inutile, pensavo. Sarebbero tornati al governo i vecchi partiti, i vecchi apparati di potere, veri responsabili del declino dell'Italia. In quello stesso periodo si erano poi moltiplicati gli incoraggiamenti di molti leader europei e internazionali, da Barack Obama a François Hollande, che però - chiarisco subito - non sono stati determinanti». Nemmeno l'incoraggiamento del Papa? «Non trasciniamo il Santo Padre nelle nostre vicende così terrene...». L'appoggio della Chiesa? «Gli auspici sono stati autorevoli, ma sono anche venuti da espressioni più semplici, parroci per esempio. Il mondo cattolico è articolato e composito. Va ascoltato e rispettato, non strumentalizzato». Il Partito popolare europeo? «Una scelta di campo significativa, soprattutto se si tiene conto che non appartengo a nessun partito, mentre il Pdl di Berlusconi è uno dei partiti più grandi nel Ppe».

Insomma, alla fine il dado è stato tratto. «È cambiata in me la percezione di che cosa sarebbe stato moralmente più giusto. Un amico milanese, che lei conosce bene, direttore, ma di cui non le dirò il nome, mi disse in un lungo colloquio che con il passare del tempo la bilancia delle valutazioni morali, dentro di me, sarebbe cambiata. Avrebbe pesato meno il piatto di ciò che io ritenevo in linea con il mio stile, di persona al di sopra delle parti; sarebbe invece aumentato il peso del senso del dovere, il dovere di fare in modo che i sacrifici che avevo dovuto chiedere agli italiani per salvare il Paese non venissero dissipati e costituissero invece la base di un'Italia più solida, capace di tornare a crescere, dopo tanti anni». La bilancia si è mossa e lei, professore, ha fatto il gran passo. Una scelta immorale, secondo D'Alema. «Ma sarebbe stato immorale se io avessi pensato a me stesso, non trova? Gratificazioni di prestigio non sarebbero mancate. Così, invece, rischio tutto». Il presidente della Repubblica non ha apprezzato. (Lungo silenzio). «Credo di averlo sorpreso, questo sì, ma penso che oggi abbia compreso le ragioni della mia scelta. Veda, il nostro è un rapporto di reciproca e profonda stima, e di grande riconoscenza da parte mia. Ma anche di pudore sui nostri personali sentimenti. Quando cominciai a dirgli che sentivo qualcosa cambiare in me, non mi sconsigliò, mi diede ascolto...».

La linea di confine fra l'immagine del tecnico super partes e del politico necessariamente «in erba», viene tracciata dalla sua conferenza stampa del 23 dicembre, poi dalla cosiddetta Agenda, con la quale nasce un nuovo soggetto politico, Scelta Civica, una lista che si apre alla società civile per farla finita con la vecchia politica, giusto? «Sì, e sa qual è stata l'altra considerazione di fondo che mi ha spinto a salire in politica?». Quale, presidente? «Anche dopo aver celebrato il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, questo Paese continua ad avere bisogno di essere unificato. Oggi, più di qualche decennio fa, sembriamo a volte non un Paese, con un senso del bene comune, ma quasi un insieme di tribù, di corporazioni, di fortini intenti a difendere interessi di parte, di incrostazioni clientelari. La mia iniziativa politica è stata sollecitata dalla società civile. E alla società civile io mi rivolgo, noi ci rivolgiamo. La risposta si sta rivelando straordinaria». E vi siete alleati con Casini e Fini che nella politica tradizionale hanno sguazzato per anni, mah... «Certo, può apparire una contraddizione, ma entrambi hanno avuto il merito di vedere per tempo quali guasti producesse un bipolarismo incompiuto e conflittuale. E nell'ultimo anno sono stati più disponibili del Pdl e del Pd a sostenere anche i provvedimenti sgraditi agli ambiti sociali a loro vicini. Infine, hanno accettato di sottoporre anche le loro liste ai criteri più esigenti da me richiesti. Quanto alla nostra lista per la Camera, Scelta Civica, faccio notare che è la prima volta che viene proposta agli elettori, su base nazionale, una formazione che non include alcun ex parlamentare, ma solo esponenti di valore del volontariato, del mondo dei lavoratori dipendenti, delle professioni, dell'associazionismo, dell'imprenditoria, della scienza, gente capace, persone che hanno scelto di rischiare, con coraggio e avendo fatto rinunce significative. Quanti colloqui, quante telefonate, quanti dubbi, quante crisi di coscienza. Ma quanta gioia, mi ha dato fare questa esperienza di mobilitazione! Li ringrazio tutti perché dimostrano una cosa importante, vitale». Quale? «Un'altra delle ragioni della scelta che anch'io ho fatto. Un tempo potevamo dire: io aiuto il mio Paese facendo bene e con onestà il mio mestiere, la mia parte. Oggi non basta più. Se non ci impegniamo direttamente, se non sacrifichiamo qualcosa di personale, questo Paese non avrà futuro e su di noi cadrà una colpa grave. Una colpa che non avrà prescrizione».

Presidente, Berlusconi dice che nessuno, dopo Mussolini, ha avuto tanti poteri come lei. «È evidente l'improponibilità storica del paragone. Ogni provvedimento proposto dal mio governo si avviava verso le Camere in perfetta solitudine. Zero deputati, zero senatori (o uno, il sottoscritto). Il mio governo partiva sempre da zero, doveva convincere volta per volta una maggioranza chiamata a decidere spesso qualcosa di contrario alla natura dei partiti che la componevano, ma necessario per salvare l'Italia». E dunque, ha ragione il Cavaliere a invocare riforme straordinarie che attribuiscano all'esecutivo maggiori prerogative? «La nostra è una repubblica parlamentare. Si può snellire la funzionalità del Parlamento, ma è soprattutto la composizione politica del Parlamento che va cambiata, con le elezioni, se vogliamo che vi siedano persone con la cultura del cambiamento e non della conservazione, delle riforme e non delle clientele». Ma non le conveniva, sul piano più squisitamente politico, accettare l'offerta di essere lei il federatore dei moderati, sotto l'egida del Partito popolare europeo? «Io apprezzai molto quell'offerta di Berlusconi. Ma gli dissi subito che, se mai, all'Italia sarebbe occorso un federatore dei riformisti, finora domiciliati in tre poli diversi e perciò incapaci di dare un maggiore impulso alle riforme di cui il Paese, i giovani hanno bisogno. È quello che ora mi propongo di fare». Le sollecitazioni e le offerte di attuali parlamentari sono state numerose? «Sì, sia dal Pdl che dal Pd, molti deputati, senatori e parlamentari europei sono venuti a dirmi: vorrei stare con lei, sono pronto. In alcuni casi non è stato possibile trovare una piena convergenza, in molti altri sì».

La Banca d'Italia, nel suo bollettino, afferma - e certo questo può essere letto anche come una critica autorevole e circostanziata al governo dei tecnici - che gli effetti dell'austerity sul prodotto interno lordo, previsto in calo dell'1 per cento anche quest'anno, sono maggiori del previsto. Il rigore non è una dieta. Per molte imprese, specie quelle piccole, e per tante famiglie, assomiglia a un drammatico digiuno. «Noi stiamo vedendo, al contrario, qualche risultato positivo grazie al sacrificio degli italiani: sui tassi d'interesse, sulle esportazioni, sull'andamento dei titoli pubblici. E dobbiamo sempre chiederci che cosa sarebbe accaduto se quelle decisioni non fossero state prese e se ci fossimo trovati nei panni dei greci. La Banca d'Italia non credo sostenga che bisognasse fare meno risanamento. Ma più riforme strutturali. Ha ragione. È anche per questo che oggi a Bergamo dirò che non possiamo rimettere l'Italia nelle mani degli incapaci, che l'hanno portata al novembre 2011. La vecchia politica non deve tornare. Il governo tecnico non sarebbe stato chiamato se la gestione della cosa pubblica fosse stata nelle mani di politici capaci e credibili». Lei è ormai un ex tecnico, presidente, non lo dimentichi. «D'accordo. Oggi gli italiani hanno di fronte una straordinaria opportunità con una proposta politica seria e del tutto nuova». A voler essere precisi le novità sono diverse, compreso il Movimento 5 Stelle. L'ha mai conosciuto Grillo? «No, ma non avrei difficoltà ad incontrarlo. La sua discesa nei consensi credo abbia a che vedere con la nostra iniziativa. Scelta Civica pesca molto, e bene, fra gli indecisi o fra coloro che pensavano, sbagliando, di astenersi. Noi e Grillo siamo due espressioni differenti dell'insofferenza popolare. Iconografia della rabbia la sua, gestuale, vivace ma temo inconcludente. Seria, composta, con tante persone capaci, e ormai con esperienze di governo, in Italia e in Europa, la nostra».

A Bergamo verrà scritta, o meglio aggiornata, anche l'Agenda Monti. Il professore è riservato su questo punto. Ma il piatto forte sarà costituito da una nuova, e dalle indiscrezioni dirompente, proposta sul mercato del lavoro. L'idea di trasformare, all'insegna della flexicurity , ovvero flessibilità più sicurezza, all'inizio in forma sperimentale, i contratti precari in contratti a tempo indeterminato per i quali l'articolo 18, quello famoso sui licenziamenti, verrebbe sospeso almeno nei primi due o tre anni. Una riforma che prevederebbe anche il reddito minimo di cittadinanza. E una sicura collisione con il Pd e con la Cgil. Anche, chiedo al presidente una sconfessione della legge Fornero, o no? «Da lei, direttore, sto apprendendo molte cose. Varie persone stanno lavorando ad affinare l'Agenda. Per ora non c'è, su questa materia specifica, nessun orientamento deciso».
La nuova Agenda conterrà anche alcune proposte in tema di giustizia e una posizione più ferma sulla lotta alla corruzione, segno che la legge approvata si è rivelata del tutto insufficiente. «Una constatazione corretta». E la già annunciata riformulazione dell'Imu con beneficio dei piccoli proprietari.
Sul finire di questa lunga conversazione, chiedo al presidente del Consiglio e al leader di Scelta Civica se su liberalizzazioni, privatizzazioni e terapie antidebito non fosse, anche lì, il caso di fare di più. E la risposta è positiva. «Qualche timidezza da parte nostra, è probabile; e qualche ostacolo imprevisto in quel Parlamento che a dispetto dei voti di fiducia, si è rivelato piuttosto refrattario alle vere riforme». E se non sia il caso di parlare di più alla gente comune, alle famiglie, alle piccole imprese che non tirano la fine del mese e che esprimono una più che giustificata insofferenza. «Un governo che avesse di fronte a sé cinque anni e non l'ultimo anno di una legislatura; un governo che nascesse in una situazione finanziaria tranquilla e non nell'allarme rosso, potrebbe e dovrebbe permettersi una ben maggiore attenzione al sociale. Nel novembre 2011 era diverso. Bisognava mettere gli italiani di fronte a verità colpevolmente negate fino al giorno prima. I finti buoni li avrebbero portati al fondo del precipizio, dal quale ci siamo fortunatamente allontanati. Oggi possiamo guardare alla crescita con maggiore ottimismo ed è possibile parlare, senza alcuna incoerenza, di una graduale riduzione delle tasse. Con senso di responsabilità. Senza esagerare in promesse che non si possono mantenere».

Ferruccio de Bortoli

20 gennaio 2013 | 10:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_20/monti-lavoro-nuova-agenda_dac2c90e-62d0-11e2-b1d5-38c6a83a1ea2.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Una fragile grandezza
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2013, 06:41:03 pm
Una fragile grandezza

Sorprendendo anche i suoi stretti collaboratori, Benedetto XVI ha deciso di lasciare la Cattedra di Pietro. E ha impresso, all'apparenza, una svolta di grande modernità alla Chiesa. L'equivalente di una riforma conciliare. Da credenti vorremmo tanto pensare, nella tristezza dell'occasione, che questa sia l'interpretazione più corretta. Al papato che si concluderà a fine mese la Storia assegnerà un posto di rilievo. Di straordinaria levatura è stato l'insegnamento teologico; di grande autorevolezza la difesa dell'identità cattolica; di infinita profondità culturale e umana la testimonianza pastorale. La Chiesa ha avviato con Benedetto XVI un'essenziale opera di trasparenza e pulizia.
Il coraggio non è mancato, così le amarezze e i tradimenti.

Il gesto del Papa è sintomo di estremo senso di responsabilità, esprime un amore per la dimensione spirituale e autentica della Chiesa che resterà nelle menti e nei cuori. È frutto della consapevolezza che occorra una guida più giovane, non indebolita dall'età, capace di affrontare le sfide di una secolarizzazione dai tratti selvaggi. È la dimostrazione di una forza morale esemplare. Ma anche il segno, purtroppo, della intrinseca ed evidente debolezza politica del successore di Wojtyla.

Le dimissioni sono la conseguenza di un tormento interiore. E il precipitato del carattere. Umile, schivo, più avvezzo a chinarsi sui libri che a discutere degli affari di Stato o delle spinose questioni della cattolicità in trincea. Un combattente dell'anima, una luce che illumina la Parola (solo un grande teologo poteva trovare il coraggio di dimettersi), non un condottiero della fede. Così diverso dal suo predecessore, prorompente anche nella fisicità (ma quando salì al soglio aveva appena 58 anni), che decise di morire sul Calvario della malattia.

Le precarie condizioni di salute sono state una componente decisiva nell'accelerare le dimissioni. Certo. Gli impegni di un Pontefice sono massacranti. E oggi è impensabile un successore di Pietro che appaia in veste solenne solo qualche volta l'anno o mascheri in lontananza le proprie condizioni fisiche. Ma il senso di solitudine deve essere stato devastante. Il Papa si è sentito ed è stato lasciato solo.

Sofferente e piegato dall'età, ha compiuto un atto di perfetta coerenza con il suo pensiero e con le sue attitudini di studioso, un atto forse anticipato da quel pallio lasciato nel 2009 sulla tomba di Celestino V, ma certamente incoraggiato dalla insensibilità di una Curia che anziché confortarlo e sorreggerlo è apparsa, in diversi suoi esponenti, più impegnata in giochi di potere e lotte fratricide.

E Benedetto XVI, azzardiamo una interpretazione, non potendola rinnovare in profondità come avrebbe voluto, ha affidato il compito al proprio successore. La Chiesa popolare, che vive il Vangelo della quotidianità, e l'intera società sperano che la scelta del nuovo vicario di Cristo sia conseguente alla grandezza di un gesto profetico e rivoluzionario.

Ferruccio de Bortoli

12 febbraio 2013 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_12/una-fragile-grandezza-de-bortoli_66b7362a-74dd-11e2-b332-8f62ddea2ca4.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI LA PARALISI E LE POSSIBILI SOLUZIONI
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2013, 05:22:37 pm
LA PARALISI E LE POSSIBILI SOLUZIONI

Una nazione allo specchio

Grande è la confusione sotto il cielo invernale del Paese. E irresistibile la tendenza a trasformare un dramma in farsa. L'ampiezza del fenomeno Grillo non era stata prevista. Anche da noi, ammettiamolo. Ma questo soccorso ai vincitori, che non esclude grandi imprenditori e raffinati intellettuali, e il tentativo disperato del Pd di rivalutarli, all'improvviso, come costole della sinistra, ha qualcosa di patetico, di surreale. Il modello Sicilia ( sic ), che ha associato il Movimento 5 Stelle all'incerta presidenza Crocetta, ha avuto per ora un solo risultato: l'opposizione al radar americano di Niscemi, gettando alle ortiche accordi internazionali. Inutile parlarne.
Nel programma dei cinquestelle vi sono anche alcuni passaggi condivisibili, per carità, ma nel suo insieme, se letto bene, è una straordinaria scorciatoia alla povertà. Alla decrescita infelice. E il consenso delle urne non attenua la pericolosità di alcune proposte, come la settimana lavorativa di 20 ore (chi paga?). Vanno però compresi e non sottovalutati il malessere e il disagio di un voto di massa, effetto della disoccupazione, della precarietà, della caduta dei redditi, dell'aumentata disuguaglianza sociale, della protervia dei partiti che votano sacrifici immediati (le pensioni e le tasse) e ritardano il contenimento dei propri abnormi costi. Ma in un Paese serio non si può restare appesi per settimane dopo il voto alle labbra di un capo politico (non c'è più nulla di comico) che se ne sta a casa sua o ai proclami millenaristi del suo guru, peraltro non votato da nessuno.

Un sistema politico normale, con partiti responsabili e istituzioni forti, ragiona sui fatti e sui numeri, non insegue goffamente i voti perduti, non corteggia l'avversario denigrato fino a poche ore prima. Fa i conti con la realtà. Amara, amarissima. Aggravata da una campagna elettorale scellerata in cui sono stati promessi sgravi fiscali per 160 miliardi, si è detto che lo spread (salito in questi giorni di 100 punti) non conta, si è dipinto un Paese che non c'è, immaginario, schiacciato da un'Europa matrigna, senza dire nulla di concreto su come tagliare le spese e aggredire il debito pubblico. Il sistema politico di una nazione che ha fondato l'Unione Europea, dotata ancora di un minimo di orgoglio - ed è questo il punto vero -, mette gli interessi generali davanti a tutto, prima dei destini personali di un leader, di una segreteria, del futuro di un partito, dell'identità e della purezza di una tradizione politica. Primum vivere .
Giorgio Napolitano ieri ha rivolto un appello al senso di responsabilità delle forze politiche. Necessario. Toccherà ancora una volta a lui dipanare un'incredibile matassa. Farà come sempre la scelta migliore e probabilmente affiderà un incarico esplorativo al leader Pd, il partito che ha ottenuto più voti, ma che non ha la maggioranza. Il tentativo di Bersani, così com'è attualmente descritto, è però destinato al fallimento, anche per le opposizioni interne al suo partito. L'idea di una curiosa alleanza con i cinquestelle, non sembra incontrare il favore del Quirinale.

E allora, che fare? Tornare subito al voto è impossibile, oltre che suicida. Napolitano non può più sciogliere le Camere. Il governissimo (Pd, Pdl e Scelta civica) viene considerato un insulto, anche se combacia con la «strana maggioranza» che ha sostenuto Monti. La fantasia delle formule politiche è illimitata, ma la sostanza, alla fine, non sarà molto dissimile dall'intesa che ha sostenuto l'attuale governo. Anzi, non è escluso che questo esecutivo possa essere chiamato a svolgere un tempo supplementare con programma limitato alla riforma elettorale, riforma che Napolitano aveva chiesto a gran voce prima del voto e che i partiti, nella loro testarda miopia, non hanno voluto fare.
Antonio Polito sul Corriere del primo marzo ha proposto un esecutivo, tecnico o politico, magari guidato da un giovane o da una donna, sostenuto anche indirettamente dalle principali forze politiche. Con un mandato circoscritto ad alcune riforme. Non più rinviabili anche per l'incalzare della sfida politica dei grillini che va raccolta sul piano dei programmi e non sull'asse delle alleanze. Michele Salvati, sul Corriere di ieri, ha sottolineato il fatto che in un quadro politico drammatico si apre comunque un'opportunità positiva, quella di riformare la nostra legge elettorale sul modello francese: uninominale e doppio turno (la proposta del Pd) e il presidenzialismo (voluto dal Pdl). Uno scambio virtuoso. Il Partito socialista francese ha ottenuto alle ultime presidenziali una percentuale pressoché uguale a quella del Pd, ma Hollande governa sicuro per cinque anni. E ancora ieri sul Corriere , Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, paladini della lotta contro gli sprechi e i privilegi della casta, hanno scritto che ormai non vi è più alcuna scusa, che bisogna dare un taglio netto ai costi della politica. Reale e non simbolico. Come si vede, parte del programma di un ipotetico governo, di minoranza, di scopo, del presidente, di responsabilità nazionale, chiamatelo come vi pare, è già scritto nel diario dell'emergenza italiana.

C'è un precedente che Napolitano probabilmente richiamerà nel corso delle sue consultazioni. Dopo le elezioni del giugno del 1976 la Democrazia cristiana prese il 38 per cento dei voti e il Partito comunista fu sconfitto con il 34. Ma Aldo Moro disse che i vincitori erano due. E, in una situazione di difficoltà economica paragonabile a quella attuale, i maggiori partiti si sedettero a un tavolo e trovarono un accordo che peraltro consentì nei due anni successivi un discreto aggiustamento dei nostri conti e l'abbassamento dell'inflazione. Preistoria, dirà qualcuno, e oggi non ci sono vincitori, a parte Grillo. Sì, ma nelle immagini ingiallite di quel compromesso storico, peraltro assai criticato come responsabile del consociativismo, vi era un senso della responsabilità nazionale che oggi, se non perduto, è largamente annacquato. Sia la Dc sia il Pci ne pagarono elettoralmente le conseguenze. Ma il Paese venne prima. Qualcuno poi ricorderà che in quegli anni fummo costretti a chiedere il sostegno del Fondo monetario e forse qualcosa di analogo potrebbe accadere nei prossimi mesi se dovremo firmare un programma di aiuti per abbassare il costo del rifinanziamento del nostro debito. Questa ipotesi è rimasta sotto traccia nel corso della campagna elettorale. Ma riemergerà prepotentemente nelle prossime settimane. Un eventuale esecutivo di qualsiasi natura dovrebbe preoccuparsi di inquadrare scelte economiche urgenti a favore di famiglie e imprese per stimolare i consumi e la crescita in una sorta di protocollo europeo.

L'ultimo paradosso di questa sciagurata congiuntura italiana, incomprensibile agli occhi degli stranieri, è che le tasse, in virtù dei provvedimenti decisi dagli ultimi due governi, continueranno a crescere. In automatico. La pressione fiscale era nel 2012 al 44 per cento. Salirà ancora. Qualcuno, sui mercati, nel perdurante cinismo anti italiano, è convinto che non avere un governo, in un Paese apparentemente ingovernabile, sia la migliore delle ipotesi. L'aggiustamento di bilancio sarebbe assicurato. Morti, feriti, aziende che chiudono, posti che saltano non contano agli occhi di chi guarda soltanto ai tassi d'interesse. Ai nostri ovviamente sì. Un'altra ragione, tra le tante, per avere presto un esecutivo, di qualsiasi genere, con un programma preciso, in un periodo di tregua, che risponda alla legittima domanda del voto con poche riforme, vere e coraggiose.

Ferruccio de Bortoli

3 marzo 2013 | 8:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_03/una-nazione-allo-specchio-ferruccio-de-bortoli_56aaca44-83c4-11e2-9582-bc92fde137a8.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI NAPOLITANO RESTI, ALMENO PER UN PO'
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2013, 11:21:25 am
NAPOLITANO RESTI, ALMENO PER UN PO'

Il futuro presidente

di  FERRUCCIO DE BORTOLI


Nei prossimi giorni assisteremo, con emozione, alla fumata bianca dell'elezione del Papa, ma continueremo a essere tristemente avvolti nelle nuvole nere della politica italiana. Le tenui speranze di una soluzione sono tutte nelle mani del capo dello Stato, i cui poteri però si stanno di fatto lentamente esaurendo. Il 15 aprile la Costituzione prescrive che Camera e Senato si riuniscano in seduta comune, con i delegati regionali, per scegliere il successore di Napolitano il cui mandato scade il 15 maggio.

Il calendario è fitto di decisioni ravvicinate e sovrapposte che riguardano, dal 15 marzo, anche le presidenze di Montecitorio e di Palazzo Madama oltre all'incarico per la formazione del nuovo governo. Avremo nuovi presidenti, certamente autorevoli, ma in un quadro politico così incerto e fragile non è escluso che il loro prestigio e la loro credibilità possano essere messi a dura prova. La presidenza della Repubblica, che rappresenta l'unità nazionale ed è il più alto ruolo di garanzia costituzionale, non può essere esposta a un simile rischio e va sottratta ai prevedibili effetti di un grande gioco d'incastro fra candidature e veti. Il mandato del presidente, non a caso, è di sette anni, durata che i costituenti scelsero per non far coincidere, nel limite del possibile, il rinnovo del Quirinale con quello delle Camere.

L'idea non piace all'interessato, ma la saggezza e il buon senso, merci ormai rarissime, dovrebbero consigliare ai partiti di rieleggere il 15 aprile Giorgio Napolitano. La prassi non va in questa direzione, ma la Costituzione non lo vieta e quando esclude una rielezione lo dice. Di necessità virtù. La precaria, per non dire peggio, situazione del Paese ha maledettamente bisogno di un punto fermo, un riferimento certo, un simbolo della sua unità. Rispettato da tutti. E un voto largamente maggioritario, se non quasi plebiscitario a favore dell'attuale inquilino del Quirinale, avrebbe uno straordinario significato, quasi uno scatto d'orgoglio nazionale, in particolare agli occhi degli osservatori stranieri che descrivono il disfacimento delle nostre istituzioni ed esprimono una inaccettabile sfiducia. Anche gli eletti di Grillo potrebbero valutare con favore un'opportunità del genere, sperimentando che la democrazia è dialogo, confronto e accordo. Dimostreremmo così tutti insieme di vivere sì una complicata ed eccezionale congiuntura politica, come quella di altri Paesi, ma di non avere dubbi sui nostri legami costituzionali e civili, sui valori di fondo della nostra italianità.

Napolitano, il cui prestigio internazionale è elevatissimo, potrebbe così concludere il suo tentativo di dare un governo al Paese, nella pienezza dei poteri, anche di quello di scioglimento delle Camere. Un nuovo capo dello Stato che, appena eletto, mandasse a casa il Parlamento che lo ha votato apparirebbe presto delegittimato, l'uscente no. Certo, l'età di Napolitano è avanzata (87 anni). Un mandato a tempo non è possibile. Sarà il presidente rieletto a decidere, quando verrà il momento, anche dopo pochi mesi, di dimettersi lasciando a parlamentari e delegati l'onere di una scelta autorevole - e più giovane - ma soprattutto non condizionata da altri convulsi passaggi istituzionali.

10 marzo 2013 | 9:31

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_10/futuro-presidente-de-bortoli_7b8ffb7e-8944-11e2-9abc-68ed907a89d3.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Un delicato anniversario
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2013, 10:57:52 am
LA LETTERA DELLA BCE È DEL 5 AGOSTO 2011

Un delicato anniversario

Ferruccio de Bortoli

A quasi cento giorni dal suo insediamento, il governo Letta è tanto fragile quanto necessario. L'assenza di un'alternativa non lo autorizza a coltivare l'arte del rinvio, lo obbliga a un sano pragmatismo. Le necessità di famiglie e imprese, il lavoro dei giovani, i timidi segnali di ripresa da non soffocare dovrebbero essere le sole priorità. La strada imboccata è giusta, ci vorrebbe un po' di coraggio nel tagliare le spese per abbassare le tasse, come hanno scritto sul Corriere Alesina e Giavazzi. Una strategia per ridurre il debito, al record storico del 130%, è urgente. Di cessioni pubbliche non si parla, nemmeno di quell'1% annuale del Pil, come promesso nell'era Monti. A proposito del leader di Scelta civica: le troppe critiche offuscano i non pochi meriti. L'Italia, grazie al suo governo, ha evitato la catastrofe alla fine del 2011. L'episodio è inedito ma, nelle ore più drammatiche di quel tardo autunno, un decreto di chiusura dei mercati finanziari era già stato scritto d'intesa con la Banca d'Italia. Quel decreto rimase in cassaforte - e speriamo che vi resti per sempre -, ma vi fu un momento nel quale temevamo di non poter più collocare sul mercato titoli del debito pubblico.

Nei prossimi giorni si parlerà molto di una sentenza della Cassazione e di un anniversario. Non il 25 luglio del '43 ma, più modestamente, del 5 agosto del 2011, quando il governo Berlusconi ricevette la contestata lettera della Banca centrale europea, allora a guida Trichet, controfirmata da Draghi, ancora Governatore. Il Cavaliere considera quella missiva, che conteneva una serie di impegni immediati, alla stregua di un golpe europeo. In realtà il governo, dopo il vertice di Cannes, nel quale si prese l'impegno del pareggio di bilancio, non stava più in piedi. La lettera della Bce rappresentò un ultimo atto di fiducia, preceduto da acquisti di titoli italiani per 160 miliardi. L'enfasi era sulle riforme per la crescita. Che, a parte le pensioni, sono ancora oggi da fare. La situazione precipitò poi in novembre favorendo il traumatico cambio a Palazzo Chigi.

Oggi, per fortuna, il Paese è uscito da una procedura europea di deficit eccessivo. È tornato tra i membri virtuosi. E lo è molto di più di altri, la Francia per esempio. Ma non può assolutamente rivelarsi, ancora una volta, né instabile né inaffidabile. Deve proseguire lungo il sentiero della crescita e della creazione di lavoro. L'ultimo declassamento di Standard & Poor's è una coda velenosa del caos successivo alle elezioni di febbraio. Quella bocciatura era già stata decisa in primavera e poi rinviata dopo la rielezione di Napolitano.

Ora è giusto criticare le agenzie di rating. Sbagliano, sono preda di pregiudizi. Ma ancora due piccoli gradini in giù nel voto sull'affidabilità del debito e, con la perdita del cosiddetto investment grade , molti investitori internazionali sarebbero costretti, per regole interne, a liberarsi delle attività italiane. E un serio imbarazzo lo avrebbe anche la Bce di Draghi, che non potrebbe più accettare come collaterali titoli italiani nel finanziamento del sistema bancario. Ne farebbero le spese le famiglie e le imprese proprio nel momento in cui qualche segnale di ripresa è visibile. L'anniversario del 5 agosto, che coincide con i cento giorni di Letta, dovrebbe far riflettere governo e forze politiche sull'estrema fragilità di un Paese dalla memoria corta, che mostra ogni giorno al mondo un volto litigioso e inconcludente, così diverso dalla sua pur inquieta laboriosità.

24 luglio 2013 | 7:35
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_24/un-delicato-anniversario-de-bortoli_8ed8ba30-f420-11e2-8a89-08318b7460ce.shtml


Titolo: Ferruccio de Bortoli - IL BARATRO ISTITUZIONALE DA SCONGIURARE
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 08:24:22 am
IL BARATRO ISTITUZIONALE DA SCONGIURARE

Prima di tutto viene il Paese

Confidavamo ieri, commentando la sentenza della Cassazione, che prevalesse il senso di responsabilità. Constatiamo che l'emotività ha preso il sopravvento. Il governo Letta rischia di essere travolto. E il Paese trascinato in un buio baratro istituzionale. Non deve e non può accadere. L'Italia ha un drammatico bisogno di curare i propri mali, di non trasmettere al mondo l'immagine di un veliero alla deriva, ammorbato da una pestilenziale sovrapposizione dei poteri e piegato da una ventennale guerra civile. Proprio nel momento in cui affiorano segnali di ripresa - e famiglie e imprese possono coltivare qualche modesto motivo di fiducia - una crisi avrebbe un costo spropositato e ingiusto.

L'amarezza del Pdl è comprensibile, la polemica anche dura nei confronti della magistratura fa parte della più aspra dialettica politica. Lo stato d'animo di Berlusconi, al quale va riconosciuto di essersi comportato da leale sostenitore delle larghe intese, è umanamente giustificato. Ma le sentenze vanno rispettate. A maggior ragione da parte di un uomo politico di esperienza, con la sua storia, pur contestata, con la sua lunga permanenza al governo. Uno Stato di diritto si regge sulla separazione dei poteri e sul principio costituzionale di uguaglianza, anche e soprattutto di fronte alla legge. La saggezza dovrebbe consigliargli di accettarne le conseguenze, seppur ritenute ingiuste. Di dimettersi da senatore prima della presa d'atto dell'Aula.


Nessuno gli nega la libertà di condurre la propria battaglia politica anche al di fuori del Parlamento e di riproporsi, con la rinascita di Forza Italia, come leader di una coalizione ai suoi elettori, ritrovando il consenso, assai largo, che ha sempre avuto. Subordinare, fin da subito, la tenuta del governo a una riforma della giustizia, indispensabile ma possibile solo lungo il difficile cammino aperto dalle pur fragili larghe intese e dal lavoro già compiuto dai saggi, appare un gesto di stizza politica, una reazione di impulso, più che una mossa meditata e consapevole come ci si aspetterebbe da un ex presidente del Consiglio e da una forza di governo. La pretesa di ottenere una grazia, la cui concessione spetta esclusivamente al capo dello Stato ed è rigidamente regolata per legge, assomiglia a un moto irrituale e scomposto, a una pressione indebita, inutile nella sostanza, pericolosa nella forma, che darebbe al mondo la spiacevole impressione che atti meditati - e per loro natura decisi a mente fredda e lontano dagli eventi (altrimenti suonerebbero come una delegittimazione della magistratura) - siano possibili con uno sfondamento quirinalizio di porte.


Il senso di responsabilità di accettare una sentenza, anche se ritenuta l'epilogo di un accanimento giudiziario, ma ormai definitiva ed esecutiva, senza trascinare nella propria vicenda individuale il governo e il Paese, darebbe a Berlusconi e al centrodestra ancora più argomenti per richiedere consenso e approvazione da parte dei propri elettori. Ma il voto anticipato, come conseguenza di un giudizio personale, farebbe pagare al Paese intero pene accessorie tanto gravi quanto insopportabili e ingiuste. Con questa pessima legge elettorale non risolverebbe nulla. Il vincitore, ammesso che vi sia, nel febbraio scorso non vi è stato, governerebbe tra le macerie e in una emergenza ancora più grave di quella attuale che non consentirebbe alcuna riforma, tantomeno della giustizia.

3 agosto 2013 | 7:16
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Ferruccio de Bortoli

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_03/prima-di-tutto-paese-de-bortoli_8556ccf8-fbfb-11e2-a7f2-259c2a3938e8.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Cingano, il potere forte del mercante e della storia
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2013, 11:48:35 pm
10 anni fa la scomparsa del presidente di Mediobanca Cingano, il potere forte del mercante e della storia

Un’idea di finanza fuori dalla politica e nella società


La professione del banchiere non gode di grande credito popolare. Accadeva così anche negli anni in cui Francesco Cingano, di cui ricorre il decennale della morte a ottant’anni, fu prima alla guida della Banca Commerciale (Comit) e poi alla presidenza di Mediobanca. Però, diciamo subito che per Cingano, come per Raffaele Mattioli, quello del banchiere era soprattutto un mestiere, non una professione. Non disdegnava l’uso del sostantivo mercante nel senso di colui «che vive, prospera e decade nel mercato», ne respira l’aria, conosce chi investe e chi consuma, è parte della società e non la guarda dall’alto con disprezzo verso ciò che è materiale, costa fatica e sudore. «L’attività del banchiere - scriveva nel 1978 - è l’arte del decidere. E per decidere bisogna conoscere, capire, ottenere la fiducia del cliente, dell’imprenditore».

Alla Commerciale, il giovane Cingano era stato assunto nel 1946, ancora prima di laurearsi, in una banca che fondeva la cultura umanistica alle conoscenze tecniche, e aveva ricoperto tutti i gradini della carriera, dall’impiegato allo sportello alla carica di amministratore delegato. Si era presentato alla sede Comit di Padova su suggerimento, non su raccomandazione, di Bruno Visentini. E prima di conoscere Mattioli, le cui qualità di «protettore delle arti» erano note, aveva avuto un capo che non si era perso in una trading room prigioniero di qualche astruso algoritmo, ma scriveva commedie traendo spunto dalla realtà che osservava ogni giorno. Per Mattioli il credito era un «impalpabile manufatto», qualcosa di materiale, che si potesse toccare con mano, fortemente connesso con la realtà, con le aspirazioni e le necessità dei soggetti di un’economia. Non un’entità dispersa nell’etere della finanza, un’espressione matematica nella cui complessità si perdesse la percezione del rischio e della responsabilità.

Una buona cultura umanistica, la padronanza dei processi, un’etica della funzione erano qualità indispensabili per trasformare i capitali in progresso, i numeri in progetti, le risorse in civiltà. Non è un caso che a Cingano piacesse lo scritto giovanile di Einaudi dal titolo appunto Un Principe mercante , nel quale il futuro presidente della Repubblica ed editorialista del Corriere , elogiava la figura e la moralità di un industriale italiano che aveva cercato fortuna in Sud America, sul finire dell’Ottocento, rinunciando alle comodità del possidente lombardo e del tagliacedole in poltrona. Cingano era un laico colto, di nobili principi, di bonaria severità, rappresentante di una borghesia veneta educata allo studio e alla sobrietà. Faceva parte di una classe dirigente non elitaria, con un’idea ancora risorgimentale del Paese, un sacro rispetto delle istituzioni, così faticosamente ricostruite dopo la guerra e la Resistenza, con il culto dell’indipendenza e della separatezza dei ruoli. Una classe dirigente non priva di colpe, non esente da errori e da compromessi, ma che mantenne sempre uno stile e una compostezza nei costumi che oggi sono rari.

Ci sembravano, a noi giovani cronisti dell’economia, grigi e poco coraggiosi, persino insopportabili in quell’ossessione per la riservatezza, in quell’understatement lombardo poco incline al sorriso, di nessuna gestualità, e quindi all’apparenza arido. Ma oggi, forse, li dobbiamo rivalutare alla luce dei troppi errori commessi dalle generazioni successive. Sapevano resistere, per quanto fu possibile, all’invadenza della politica, che pure avevano in casa - la Comit apparteneva all’Iri e Mediobanca era un centauro con l’azionista pubblico - e al germe delle appartenenze occulte. Gli «stranieri» come Gaetano Stammati, chiamiamolo così, furono avvolti con cortesia nella struttura bancaria che mostrava, per l’occasione, una sorprendente capacità di flettersi senza piegarsi, peraltro mostrata negli anni del Fascismo. Non erano settari, non avevano bisogno di cercarsi padrini politici. Erano poteri forti della loro storia e della loro competenza e non dell’arroganza del ruolo. Sostenevano capitalisti senza capitali, e qualche volta senza dignità, ma non anteponevano mai loro stessi alle istituzioni che rappresentavano. La contabilità fra meriti e colpe restava in attivo.

Con Cingano, sia alla Comit sia in Mediobanca, le occasioni d’incontro furono numerose e l’arco delle discussioni amplissimo. Vi era innanzitutto una preoccupazione di fondo che emerse, in analisi lucide, prima dell’avvio del Mercato unico europeo. E cioè che il nostro gracile capitalismo non fosse preparato né alla sfida dell’abbattimento delle barriere né a quello della moneta unica. Salvo rare eccezioni. Per ragioni culturali, relative all’antropologia dell’imprenditore italiano, prima ancora che per la sua debolezza patrimoniale. Sul ruolo protettivo di Mediobanca non vi era, da parte di Cingano, nessuna critica diretta - sarebbe apparsa imperdonabile e incomprensibile all’interlocutore -, ma soltanto la previsione non errata che, una volta in mare aperto, quel reticolo familiare e provinciale di intrecci e relazioni sarebbe stato travolto da competitori più grandi e geneticamente più agguerriti. Lo stesso Cingano ricordava, rievocando la figura del Governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, di aver discusso a lungo con Enrico Cuccia dello scarso coraggio degli imprenditori italiani che avrebbero potuto tranquillamente ricomprarsi dall’Iri, negli anni Trenta, quote di aziende industriali a prezzi favorevoli, ma che, invece, non lo fecero.

Si parlò spesse volte dell’ascesa di Berlusconi, che non amava non tanto per le idee quanto per il modo con il quale le perseguiva, rivelatore dei veri obiettivi e dei conflitti d’interesse. Mediobanca può aver avuto molte colpe, ma non quella di aver favorito l’ascesa del Cavaliere. Cingano considerava l’istituto di via Filodrammatici un modello di coerenza nell’esercizio del credito. L’amarezza per quanti, anche tra le persone a lui vicine, avevano ceduto al fascino novista della stagione che si apriva in politica dopo le inchieste di Mani Pulite, era a volte incontenibile. Certo, Cingano era un uomo della Prima Repubblica e faticava a comprendere i fenomeni eruttivi della Seconda, coltivava il sogno dell’incontro fra i diversi riformismi di una società plurale, senza steccati ideologici. Che il suo mondo non aveva. La Resistenza, infatti, li aveva fatti convivere tutti: cattolici, azionisti, socialisti, comunisti. E uno dei suoi storici protagonisti, Leo Valiani - senatore a vita e collaboratore del Corriere - conservò fino alla morte un ufficio alla Comit.

L’amicizia con Valiani fu intensa e vera e cementò in Cingano l’idea di stemperare le ideologie educando alle regole di una società liberale aperta e moderna. Mattioli, si ricorderà, in una celebre lettera del 1947 a Togliatti, sostenne che «la sana finanza» non rispondeva a un interesse reazionario, ma all’interesse nazionale e doveva stare a cuore anche alla classe operaia. Cingano scrisse nel 1984, alla morte di Berlinguer (cugino di Sergio Siglienti, suo successore al vertice della Comit) che lo univa al segretario del Partito comunista, il rifiuto di una società dello spreco «intesa come distruzione di risorse che incide su tanti aspetti della vita italiana, sia nella neghittosa sfera dell’amministrazione pubblica sia in alcune volgarità del privato». In queste frasi è racchiusa gran parte dell’etica pubblica e privata di un grande banchiere, italiano e non di sistema, che non sopportava il declino del senso dello Stato, l’affermazione, gonfia di applausi di circostanza, di individualismi e spinte corporative. Temeva il degrado estetico del suo Paese (fu, lo ricordiamo, tra i fondatori del Fai, il Fondo italiano per l’ambiente). Considerava il sostegno della cultura (per esempio l’impegno nell’Istituto italiano per gli studi storici, voluto da Mattioli e da Benedetto Croce o il proseguimento della collezione di arte contemporanea della Comit), un dovere civico: non un vezzo da ostentare o la dimostrazione di uno status raggiunto. L’impegno per la cultura e l’ambiente era una priorità morale.

Cingano visse l’era delle restrizioni al credito, dai massimali alle riserve obbligatorie, con il malessere di chi era convinto che avrebbero comportato, anche dopo la rimozione dei vincoli, una mutazione antropologica dei soggetti dell’economia. Un appiattimento dei profili professionali negli istituti di credito. Le forti esigenze di finanziamento del debito pubblico distoglievano il risparmio privato dagli impieghi produttivi, contraddicevano l’articolo 81 della Costituzione, ma soprattutto il buon senso. Ed erano una pessima lezione di educazione civica, perché il risparmio degli italiani finanziava i difetti del Paese, non le virtù.

Ho ritrovato, in uno scritto di Fulvio Coltorti, alcune delle osservazioni che Cingano mi fece nel corso dei nostri incontri sul tema assai controverso della banca mista. Che temeva. Era convinto che nel Paese dei conflitti d’interesse, la divisione dei compiti fosse garanzia di rigore e onestà. E non si sbagliava. Guardava con sospetto l’intreccio fra banca e industria nel quale proiettava quella diffidenza culturale sull’imprenditoria italiana attratta più dalle posizioni di rendita che dalle sfide del profitto. Fu un banchiere attento alla redditività. Sosteneva che di troppo patrimonio non era fallita mai una banca. Gli stress test della Banca centrale europea non gli avrebbero fatto paura; lo inquietava, invece, la grande corsa alle dimensioni degli istituti, nella quale intravvedeva invincibili personalismi. Una corsa che gli produsse molte amarezze: il fallimento dei tentativi di Comit di rilevare Cariplo poi finita in Intesa.

E la sparizione della Commerciale, la banca che - secondo lui - non si lascia mai, per nessun motivo. Avrebbe voluto mettere insieme Mediobanca, Comit e Credit, ma restò un progetto sulla carta. Uno dei tanti. Perché le scelte del regolatore, quella Banca d’Italia al cui Governatorato fu anche tra i possibili candidati, avevano preso altri indirizzi. Anche la storia aveva preso nel frattempo altre strade. Ma Cingano non era, per educazione e carattere, il tipo da imboccare sentieri poco conosciuti lungo i quali si sarebbe sentito a disagio.
04 dicembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ferruccio De Bortoli

DA - http://www.corriere.it/economia/13_dicembre_04/cingano-potere-forte-mercante-storia-5f7bc97e-5d13-11e3-a319-5493e7b80f59.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Paladini del riscatto italiano, non siete soli
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2014, 04:18:21 pm
Paladini del riscatto italiano, non siete soli

«Passioni per il 2014», un numero speciale per l’edizione digitale del «Corriere della Sera»

La prima pagina dell’edizione speciale del «Corriere della Sera»La prima pagina dell’edizione speciale del «Corriere della Sera»L’augurio che tutti possiamo fare al nostro Paese e a noi stessi è un anno di serenità costruttiva. Questo numero speciale della digital edition del Corriere della Sera (scaricabile da qui) è dedicato agli italiani che non si arrendono. Producono e innovano con passione. Coltivano la fantasia del bene, sorprendente e contagiosa. Sono i paladini di un riscatto nazionale. E noi crediamo che non siano soli. Sono in tanti a pensarla allo stesso modo, a lavorare e studiare in silenzio con sacrificio e determinazione. Ed è per questa ragione che il capitale sociale del nostro Paese è così elevato, persino invidiato per ricchezza e solidità.

Purtroppo il loro esempio è spesso sovrastato e coperto dai mali storici italiani. Noi speriamo, con questa edizione speciale, che prevede la destinazione di 50 centesimi per ogni download a iniziative solidali, di dare un contributo positivo alla costruzione di un clima sociale di fiducia indispensabile per restituire slancio e fervore a una società smarrita che ha perso la consapevolezza del suo ruolo e dei suoi valori. Ma può ritrovarla. Leggendo queste pagine si può dire. Ci vuole poco, uno scatto d’orgoglio e di reni. Come abbiamo fatto in momenti peggiori della nostra storia, quando non vi era nemmeno la certezza del cibo che avremmo avuto l’indomani.

01 gennaio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ferruccio de Bortoli

Da - http://www.corriere.it/cronache/14_gennaio_01/paladini-riscatto-italiano-non-siete-soli-d82fed98-72b0-11e3-8a07-2fa06409426d.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Crescita fragile, la svolta di Visco Chi non investe e ...
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2014, 10:27:04 pm
Crescita fragile, la svolta di Visco
Chi non investe e chi non sente

Di FERRUCCIO DE BORTOLI

L’economia non è una scienza esatta, forse sarà triste, di certo si nutre di paradossi. Carli e Ciampi mai avrebbero pensato che un giorno un loro successore alla guida della Banca d’Italia avrebbe temuto l’eccessiva discesa dei prezzi e la rivalutazione della moneta. Nel secolo scorso l’incubo quotidiano era l’inflazione che distruggeva risparmi e potere d’acquisto. Oggi il suo opposto, un fenomeno persino peggiore, sintomo di sfiducia. Non si consuma, non si investe. L’occupazione crolla. Dalla febbre all’ipotermia. La lira si deprezzava di continuo, impoverendoci. L’euro è troppo forte e danneggia le esportazioni.

Visco è un Governatore preparato e schivo. Non tende a sovrapporsi ad altri ruoli, non vuole esercitare alcuna supplenza. È conscio del cambiamento avvenuto con il trasferimento di alcuni poteri - fra un po’ anche parte della vigilanza bancaria - a Francoforte, ma rivendica con orgoglio la centralità e il prestigio della propria istituzione. Sbagliato pensare, come si faceva un tempo, che in Via Nazionale risieda un oracolo, dispensatore di moniti e richiami, per alcuni persino infallibile; giusto ritenere che vi sia ancora un centro d’eccellenza, la miglior fucina di una classe dirigente seria e preparata, assai apprezzata all’estero. Un’istituzione di garanzia e di indipendenza. Visco parlava ieri alla solita platea di persone che lo applaudono più per ritualità che per convinzione. Inutile però negare che l’attenzione di tutti sia rivolta alle decisioni che prenderà, fra qualche giorno, a Francoforte, il suo predecessore. Che cosa farà Draghi? Ridurrà ancora i tassi, ormai al lumicino? O varerà anche un programma ambizioso di acquisti di titoli pubblici e privati a sostegno della ripresa che stenta in Europa e ancora di più in Italia?
La relazione di Visco è stata asciutta e onesta, d’impronta sociale, solidaristica, diremmo keynesiana, più attenta al sostegno di redditi, consumi, investimenti e occupazione che al rigore dei conti e al pareggio di bilancio. Come se il Governatore volesse dire a tutti, e in particolare alle classi dirigenti europee, guardiamo più le facce angosciate dei cittadini, non la fredda verità dei numeri. Ascoltiamo le ragioni e valutiamo i sentimenti di famiglie e imprese e stacchiamo gli occhi, almeno per un attimo, dalle logiche aride dei grafici.

Non è una svolta da poco, soprattutto per un banchiere centrale: dovrebbe indurre molti (anche noi per essere sinceri) a riflettere sui troppi conformismi di un’analisi economica e politica che coltiva inossidabili filoni di pensiero salvo poi cambiare bruscamente rotta, incerta tra rigore e crescita, fra mercato e Stato. La ripresa, dopo sette anni di crisi che hanno ridotto di un decimo i redditi delle famiglie e di un quarto l’attività industriale, c’è. Ma è fragilissima. Le esportazioni sono tornate ai livelli del 2007; gli investimenti, tuttavia, sono crollati del 26 per cento e, in rapporto al Pil, sono al livello più basso del dopoguerra. I guadagni di produttività sono essenziali ma serviranno a poco se non si tradurranno in un aumento della domanda e soprattutto in un recupero dell’occupazione. Tra il 2007 e oggi si è perduto un milione di posti di lavoro. La ripresa degli investimenti ha bisogno di un contesto di riforme credibili, non di promesse e annunci, di un generale clima di fiducia, rispetto delle regole e maggiore legalità. «Il credito complessivo all’economia italiana è in calo», ammette Visco, soprattutto per le piccole e medie imprese. Ma non aggiunge il Governatore che ciò non avviene in tutte le altre economie europee. Spagna compresa. Madrid, di fronte al disastro del proprio sistema bancario, chiese l’aiuto europeo e lo ottenne anche grazie ai nostri soldi. Oggi dà forte ossigeno alle proprie imprese, ci ha risorpassato nella riduzione degli spread (166 il nostro e 155 il loro) e la sua economia crescerà, a fine anno, a un ritmo triplo del nostro. Dovevamo fare anche noi la stessa cosa ai tempi del governo Monti? Forse sì. Le banche sono nuovamente strigliate. A ragione. Anche se quelle che non sono state gestite secondo criteri di altra natura (e la vigilanza non le ha fermate per tempo) hanno resistito alla crisi senza pesare sugli aiuti pubblici (nel caso del Monte Paschi lo Stato finirà per guadagnarci pure). Alla fine, però, ci hanno rimesso soprattutto le piccole e medie imprese, l’ossatura portante dell’economia italiana.

Anche gli imprenditori, nell’analisi di Visco, non sono privi di responsabilità. Accanto a tanti esempi positivi, straordinari, è mancato «un profondo rinnovamento del modo di produrre di fronte alla rivoluzione digitale». Molti sono prigionieri di strutture familiari che impediscono la crescita dimensionale. Sono sottocapitalizzati e anche per questa ragione hanno poco credito. La Banca d’Italia calcola che ci vorrebbero 200 miliardi di mezzi propri e una pari riduzione dei debiti per raggiungere condizioni patrimoniali a livello europeo. Una condizione irrinunciabile per la ripresa degli investimenti, soprattutto dall’estero, riguarda la legalità e il rispetto delle regole. La corruzione, come la criminalità e l’evasione fiscale, dice il Governatore, uccide la crescita, mortifica i tanti operatori onesti distorcendo le dinamiche di mercato, indebolisce e rende inefficiente la pubblica amministrazione. Anche per quest’ultima ragione alcune riforme rimangono tristemente lettera morta (metà di quelle varate tra il 2011 e oggi è ancora priva di decreti attuativi). Il deficit di etica pubblica e privata non compare in nessuna statistica ufficiale, purtroppo.

In attesa di conoscere che cosa deciderà la Banca centrale europea, al cui sistema quella italiana partecipa svolgendo compiti assai delicati (l’area unica dei pagamenti Sepa, per esempio, è di competenza di Via Nazionale e della Bundesbank), coltiviamo per un attimo l’illusione che le parole di Visco non cadano come tradizione nel vuoto. E che non scivolino come pulviscolo sulle grisaglie del suo pubblico abituale di plaudenti, molti dei quali fermamente convinti che i destinatari dei suoi messaggi siano solo i vicini di sedia, dei quali peraltro si affrettano a professarsi pubblicamente in rapporti di stretta amicizia. Non si cresce anche per la troppa ipocrisia.

31 maggio 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_31/chi-non-investe-chi-non-sente-83faae74-e886-11e3-8609-4be902cb54ea.shtml


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI Renzi tema soprattutto se stesso Il nemico allo specchio
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2014, 06:35:06 pm
Renzi tema soprattutto se stesso
Il nemico allo specchio

Di FERRUCCIO DE BORTOLI 224

Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante.

Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.

L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere. E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra.

24 settembre 2014 | 07:41
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_24/nemico-specchio-f3e6ce3e-43a8-11e4-bbc2-282fa2f68a02.shtml


Titolo: F. DE BORTOLI Il partito della nazione è il trionfo del trasformismo italiano
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2015, 04:08:25 pm
Ferruccio De Bortoli intervista a il Fatto: "Il partito della nazione è il trionfo del trasformismo italiano"

L'Huffington Post
Pubblicato: 12/05/2015 08:59 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Una lunga intervista da ex direttore. La prima dopo l'editoriale di addio che ancora oggi continua a fare rumore (ricordate il "Renzi maleducato di talento"). È un Ferruccio De Bortoli a tutto campo quello che Silvia Triuzzi intervista per il giornale diretto da Marco Travaglio. Parla di giornalismo, di politica, di etica, di poteri forti, di scelte giuste e scelte sbagliate, di cambio generazionale necessario a tutti i livelli. Di Berlusconi e Renzi, del suo Corsera e del Corsera che sarà. Di futuro e soprattutto di presente, a cominciare dalla politica: temi caldi? L'approvazione della nuova legge elettorale (l’Italicum) e le continue discussioni sul partito della Nazione tanto caro al premier Renzi.

De Bortoli su questo è molto chiaro

    L'effetto collaterale dell'Italicum sarà di aumentare l'astensionismo: se l'offerta politica si riduce a un partito della Nazione, e ad alcuni residuali cespugli, che non hanno la minima attrattività perché sono perdenti nati...È avvenuto un cambio sostanziale nella forma di governo, siamo passati a un premierato forte: un passaggio che si è concretizzato con leggerezza consapevole. L'Italia, democrazia immatura, ama l'uomo forte

Uomo forte che, gioco forza, in questo momento è rappresentato da Matteo Renzi con cui l'ex direttore del Corriere della Sera non ha avuto rapporti idilliaci. Le critiche passate non sono piaciute al premier che, secondo De Bortoli, molto ha cambiato nella sua gestione del potere in questi mesi di premierato

La novità Renzi è stata salutata, anche da me, come una novità positiva: ha portato la sfida della modernità all'interno di un partito ancorato a vecchi schemi ideologici. Dopodiché, a me pare che abbia mutuato dalla controparte molti dei modi con cui gestisce il potere. La sua è una concezione autoritaria di occupazione delle istituzioni

Una lunga intervista, si diceva. Nella quale l'ex direttore si racconta e racconta la sua idea di giornalismo

La malattia senile del giornalismo si manifesta quando accade qualcosa e tu pensi di sapere già come andrà a finire. Invece ti devi stupire, sempre. Quando giudichi dall'alto, con la giacca e la cravatta, come faccio io, sei superficiale, superbo. E alla fine fai male il tuo mestiere

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/05/12/ferruccio-de-bortoli-intervista-il-fatto_n_7262688.html


Titolo: Ferruccio DE BORTOLI La necessaria riforma dei partiti
Inserito da: Arlecchino - Agosto 09, 2016, 06:23:49 pm
La necessaria riforma dei partiti

Di Ferruccio de Bortoli

C’è una riforma che sarebbe opportuno che il Parlamento, dopo le vacanze, approvasse bene e in fretta. Prima del referendum. È quella che riguarda i partiti, la democrazia interna, la trasparenza sui finanziamenti. Curiosamente, ma non troppo, è stata messa un po’ da parte. A molti non piace. La subiscono più che promuoverla. Eppure è quantomai indispensabile. Per diverse ragioni. La prima di coerenza. In novembre saremo chiamati a votare sulla riforma costituzionale. Sono 47 gli articoli in discussione. Ma ce n’è uno che non è stato ancora attuato dal 1948. È l’articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». I partiti che chiedono un voto sulle nuove regole delle istituzioni sarebbero più credibili se mettessero mano, senza indugi o ambiguità, alle proprie norme interne.

La seconda ragione è legata alla legge elettorale. Se l’Italicum verrà rivisto e si ritornerà a un sistema a collegi uninominali, una legge sulla trasparenza delle scelte è ancora più necessaria. Lo sarebbe in ogni caso. Se si vuole tutelare la democrazia rappresentativa, occorre rendere meno oscure e insindacabili le liste dei candidati o dei nominati che i leader dei partiti propongono agli elettori. Come sono selezionati? Per meriti o per fedeltà? Quali competenze hanno? Chi li finanzia?

La terza motivazione è relativa allo stato di salute degli stessi partiti. Norme condivise sugli statuti, sul funzionamento delle primarie, sul tema spinoso delle fondazioni e dei loro sostenitori, avrebbero l’effetto di una cura ricostituente della fiducia popolare. Le regole sono un antidoto alle frantumazioni. Oggi, in mancanza di garanzie statutarie, i dissidenti sono spesso costretti alla scissione. Con una base giuridica più solida, ritrovare le ragioni per stare insieme (vedi Forza Italia) è impresa meno ardua. Le decisioni più delicate, per esempio nella galassia dei Cinquestelle, sfuggirebbero alla sgradevole sensazione di essere prese nello studio di Casaleggio jr che nessuno ha eletto. Pizzarotti, il sindaco di Parma, non verrebbe sospeso con una mail. O altri espulsi con coda giudiziaria. Le diatribe sulla proprietà di un simbolo (dalla Dc a Scelta Civica) avrebbero toni meno rocamboleschi. Per non parlare di chi scappa con la cassa.

Un testo unico, già approvato dalla Camera, relatore Matteo Richetti, e trasmesso al Senato il 10 maggio, è frenato dai dissidi interni al Pd e da altre riserve, nonostante sia una sintesi di 22 proposte diverse. Contiene molti passaggi di buon senso, ma è certamente migliorabile. Crea una normativa quadro entro la quale scrivere gli statuti, il cui obbligo è già previsto dal decreto Letta (149 del 2013) che ha istituito il finanziamento con il 2 per mille. Introduce una dichiarazione di trasparenza per la formazione delle liste, chiarisce i poteri degli organi interni, la legale rappresentanza, dà all’iscritto il diritto di sapere chi sono gli altri aderenti alla sua sezione.
Permette di fare luce su tutti i finanziamenti, al di là dei limiti attuali, specie quelli più coperti (chi mette a disposizione le sedi o fornisce gratuitamente mezzi e pubblicità). Concilia le nuove norme con il diritto di libertà d’associazione e i ragionevoli problemi di privacy.

La piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sulla democrazia interna dei partiti è stata frenata, nel secolo scorso, dalla preoccupazione — non infondata specialmente negli anni più bui della guerra fredda — di un’invadenza dello Stato e dei governi ai danni della libertà politica e del diritto d’opinione. L’opposizione del Partito comunista è bene spiegata nel libro di Lodovico Festa La provvidenza rossa (Sellerio): «Le finalità apparenti di una struttura organizzativa dissimulavano realtà più complesse e, soprattutto, sensibili». Era una «felice o infelice ambiguità» come è stata definita in uno scritto di Giuliano Amato e Francesco Clementi. Ma che ebbe «rilevanti effetti distorsivi nel rapporto fra cittadini e autorità» creando le condizioni di un’occupazione partitocratica delle istituzioni. Una degenerazione alla quale la stessa riforma costituzionale si propone di porre rimedio.

Ecco perché una legge ordinaria sui partiti non è ulteriormente rinviabile. Una sua convinta approvazione sgombrerebbe il campo referendario da molti dubbi e polemiche, facilitando la scelta degli elettori. Conoscere meglio i partiti, il loro finanziamento, le modalità di scelta dei vertici, il ruolo delle fondazioni, contribuisce a sciogliere quella patina di sospetto e pregiudizio, a volte esagerato, che alimenta il populismo e l’astensione e indebolisce nelle fondamenta una democrazia rappresentativa già troppo sfibrata.

7 agosto 2016 (modifica il 7 agosto 2016 | 21:36)
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/16_agosto_08/necessaria-riforma-partiti-ecf53ace-5cd4-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml


Titolo: Ferruccio de BORTOLI. IL PESO DELLE SCELTE Veri e falsi interessi nazionali
Inserito da: Arlecchino - Agosto 03, 2017, 05:17:51 pm
IL PESO DELLE SCELTE
Veri e falsi interessi nazionali

  Di Ferruccio de Bortoli

L’interesse nazionale si difende con la coerenza e il pragmatismo delle scelte. Con il grado di competitività del sistema. Non con proclami tenorili né tantomeno con le ritorsioni. Nel caso Stx-Fincantieri la posizione del governo e dei ministri Padoan e Calenda è doverosa. Il brocardo pacta sunt servanda vale anche per i nostri cugini francesi. E soprattutto per il troppo da noi celebrato Macron che viene meno, pochi mesi dopo, all’impegno di un governo del quale faceva parte. I vantaggi futuri per il Paese non sono però necessariamente tutelati dal passaporto della proprietà. Essere parte di un gruppo internazionale che per dimensioni, livello di investimenti e ricerca è in grado di assicurare occupazione e reddito in Italia è preferibile alla navigazione solitaria, bandiera al vento, di un’impresa che magari sposta all’estero le proprie produzioni e ha poche prospettive di crescita. Non aver venduto l’Alitalia al gruppo guidato da Air France, nel 2008, è costato molto al contribuente e agli improbabili capitani coraggiosi italiani. La crisi si è solo aggravata. L’aver aperto poi, nel trasporto aereo, più di altri Paesi, alla penetrazione dei vettori low cost — anche pagandoli in qualche caso — non ha certamente tutelato l’interesse della compagnia di bandiera. Il gruppo Tim, ovvero il risultato odierno di quella che fu definita «la madre di tutte le privatizzazioni», è oggi, anche ufficialmente nelle mani di un raider bretone.
Un Bolloré italiano in Francia non avrebbe avuto tutta la libertà che il patron di Vivendi ha goduto in Italia (dove è stato peraltro invitato). Sarebbe stato fermato come accadde in altri tempi — diverse regole europee ma stessi poteri in gioco — a Berlusconi, a Gardini e a De Benedetti in Belgio. Nonostante le regole del mercato comune la misura degli interessi non è sempre data dalla convenienza economica. Il senso di appartenenza e la coesione delle classi dirigenti nazionali possono fare la differenza. E prevalere sulla bontà di un singolo affare. Specialmente quando vi sono in gioco — come accade in parte anche per i cantieri di Saint- Nazaire — questioni di carattere strategico o militare. Il consorzio franco-tedesco di Airbus nacque nel 1970, inizialmente anche con gli inglesi. Poteva aderirvi l’industria aeronautica italiana. Restò esclusa. Forse anche per un interesse nazionale americano a non avere ancora un più grande concorrente europeo. E l’Italia fu compensata con un po’ di commesse d’oltreoceano. La Banca Commerciale venne respinta, nel 1988, nel tentativo del tutto amichevole di fondersi con Irving Bank con la scusa che aveva un azionista pubblico, l’Iri. Anche se si muoveva con la massima libertà. Un argomento d’attualità anche nel caso Stx-Fincantieri, visto che quest’ultima è a maggioranza pubblica. Cassa depositi e prestiti, che di fatto la controlla, è nata sull’esempio francese della Caisse des Depôts. La mano dello Stato italiano sull’economia è incerta e variabile. Quella francese, invece è tesa con orgoglio e protervia.
La difesa dell’interesse nazionale in un gruppo di telecomunicazioni strategico, possessore di una rete, di un monopolio naturale, forse poteva non essere lasciata solo alla tardiva valutazione delle regole legate al golden power. Ma se ci siamo perduti quello che un tempo era, con capitale pubblico, uno dei gruppi di telecomunicazioni più forti al mondo, lo dobbiamo soprattutto alla miopia della politica e all’inadeguatezza del capitalismo privato. Gli scalatori italiani caricarono il gruppo di un peso insopportabile di debiti. Molti nostri imprenditori scambiarono le privatizzazioni come un’occasione per rifugiarsi in comodi ex monopoli pubblici. Il fascino della finanza e dei guadagni immediati ebbe, non raramente, il sopravvento sulle ragioni dell’industria di per sé più faticosa ed esposta a cicli più lunghi. Perdemmo così i primati di Montedison nella chimica e nella farmaceutica, dell’Olivetti nell’informatica. Pirelli si scontrò nel 1991 con la durezza dell’interesse nazionale tedesco nel tentativo mancato di acquisire Continental. Un atteggiamento pari a quello manifestato da Angela Merkel contro le mire cinesi nell’high tech, soprattutto nel caso Aixtron. Il voltafaccia di Deutsche Bank all’epoca fu clamoroso. Il governatore della Bundesbank Poehl ammise — è scritto negli appunti dell’allora suo omologo alla Banca d’Italia, Ciampi — tutta la «doppiezza teutonica». Oggi la Pirelli è proprietà cinese. Autostrade e la spagnola Abertis studiarono un’integrazione già nel 2006. L’allora ministro dei Lavori Pubblici Di Pietro si oppose invocando l’interesse nazionale. Oggi, trascorso un decennio, Atlantia ha riaperto il dossier Abertis e ha lanciato un’offerta pubblica d’acquisto. Le ragioni del mercato, la sfida delle dimensioni, hanno avuto la meglio, pur con modalità diverse.
Ci vorrà del tempo, ma una soluzione al caso dei cantieri navali francesi sarà trovata con lo sguardo avanti, senza trascurare l’importanza della possibile creazione di un gruppo più ampio nel settore, con un’attenzione alle commesse pubbliche. La proprietà divisa al 50 per cento sarebbe scelta debole e temporanea. In due alla guida non si va lontano. Pretendere il rispetto delle regole è la strategia migliore. Se poi fossimo più rispettosi anche noi di quelle europee in altri settori e meno isolati politicamente, la strada sarebbe meno impervia. I contratti contano ma a volte finisce per contare di più il peso politico dei contraenti.

2 agosto 2017 (modifica il 2 agosto 2017 | 21:28)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_agosto_03/veri-falsi-interessi-nazionali-8d29112c-77b5-11e7-84f5-f24a994b0580.shtml