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Autore Discussione: IGOR MAN  (Letto 48553 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Ottobre 16, 2009, 12:29:33 pm »

16/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Il gusto iraniano della crudeltà
   
IGOR MAN


Altre tre condanne a morte, a Teheran. Vanno sulla forca tre «nemici del popolo» accusati di connivenza «col nemico». Come spesso succede laggiù, la «Cupola» è spaccata fra chi vuole la rottura con gli Usa («costi quel che costi») e chi lavora per un compromesso. Maestri dell’arte del «ni» (la taqqia) i gerarchi iraniani han proposto agli americani di riaprire i giuochi: un Paese terzo fornirebbe ai persiani l’uranio arricchito ma soltanto per uso civile - insomma, gli iraniani avrebbero le centrali, non la «bomba». Due anni fa il compromesso venne inopinatamente bocciato dalla Guida Suprema, il Grand’Ayatollah Khamenei. Fragile fisicamente, candidamente barbuto, colmo d’odio per gli infedeli, la Guida è un capo di Stato atipico. Non si è mai recato all’estero, non legge i giornali stranieri poiché non conosce altra lingua se non il persiano, non guarda la tv. Ma è furbissimo e serenamente crudele. Come, del resto, lo era il suo maestro, l’imam Khomeini. L’imam, però, era aggiornatissimo. Entrambi odiavano gli americani giudicati «piagnoni». Dopo la presa degli ostaggi, Khamenei suggeriva di ucciderli «uno alla volta», Khomeini tentò invano di farne merce di scambio. Il presidente Carter ci rimise la Casa Bianca.

Il Vecchio Cronista ha viaggiato un po’ tutto l’Iran: al tempo dello Scià, durante la rivoluzione a mani nude, e dopo. L’Iran è un Paese bellissimo ma intimamente triste; amante dei piaceri mondani, intelligente ma catafratto in un amaro cupio dissolvi. E questo spiegherebbe tante cose, anche il gusto della crudeltà. Vediamo. Lo studente Omar Sharib è arrestato dopo aver ricevuto una lettera da un amico francese. Il procuratore, Mohammed Guilami, gli contesta d’essersi occidentalizzato, di aver studiato «troppo a lungo in Europa», di fumare sigarette americane. E lo manda sul patibolo. All’indignazione dell’opinione pubblica occidentale, ad Amnesty International Khomeini replica secco: «L’Iran islamico non ha ucciso un solo uomo; ha soltanto purificato, imprigionato o eliminato bestie feroci che l’avevano aggredito».

In piena crisi degli ostaggi cinque giornalisti stranieri vennero ammessi nell’umile casa di Khomeini. Ottanta metri quadrati, due stanze, un solo cesso alla turca. Un pagliericcio per terra. Due bottiglie d’acqua di rose. Il Grande Vecchio disse: «Non vi chiediamo di essere dalla nostra parte, vi chiediamo soltanto di comprenderci». Obiettai che anche l’Iran avrebbe dovuto cercare di capire il nostro sdegno di fronte alla cattura degli ostaggi in contrasto col culto dell’ospitalità dell’islam. Sollevando le palpebre corrucciate, Khomeini sillabò perentorio: «Gli ostaggi... non dico sia giusto, ma così è». Il cinismo? Un vezzo intellettuale.

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« Risposta #76 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:42:09 pm »

19/10/2009


L'eterno duello con l'America
   
IGOR MAN

L’attentato contro i Guardiani della Rivoluzione nella capitale del Beluchistan ha fatto quarantanove morti. I pasdaran, una sorta di duplicato dell’esercito regolare, perdono uomini d’alto rango militare, perdono la presunzione dell’incolumità ritualmente esaltata dalla stampa di regime.

I pasdaran (trecentomila uomini, unità antisommossa, navi ed aerei) furono legalizzati da Khomeini. Negli anni sono diventati i moschettieri, prima di Khomeini e dopo dell’ayatollah Khamenei, il successore dell’imam.

Torna qui facile rifarsi all’Italia di Mussolini che, per mettere la mordacchia ai dissidenti, creò la Milizia volontaria della sicurezza nazionale: il 25 di luglio si dissolse spontaneamente. Va detto che la notizia dell’attentato ha turbato la gente, da qui le dichiarazioni bombastiche dei gerarchi col turbante: Ali Larijani, presidente del Parlamento, ha accusato gli Stati Uniti, immediatamente: «Gli ultimi attentati vengono da Washington. Il presidente Barack Obama aveva detto di tendere la mano all’Iran, ma con questa strage la sua mano l’ha bruciata».

E ancora: «L’arroganza globale ha sollecitato i mercenari che hanno compiuto l’attacco», dice una successiva «nota». Nel linguaggio cifrato dei gerarchi iraniani «arroganza globale» indica gli Stati Uniti e in genere le potenze occidentali. Esperti del complicatissimo Iran sottolineano un intrigante accadimento: oggi a Vienna si incontrano (tranne disdetta dell’ultima ora) delegati occidentali e iraniani per affrontare il dossier atomica. Questo per dare un segnale di buona volontà nell’imminenza di un inverno precoce che, si teme, possa essere la prova generale di una dura lezione di Israele a «obiettivi militari» dell’Iran.

Dopo le accuse con relative smentite, e cioè che dietro il disastroso attentato nel Beluchistan ci siano Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e il confinante Pakistan, crescono le scommesse, a Vienna, dove oggi si incontrano al «5+1» Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia più la Germania. Assai diffuso è il timore che «si tagli acqua», che tutto finisca nel paniere della formalità, nel torrente della rissa diplomatica. Non per esser sospettosi, ma intriga la coincidenza attentato-conferenza. (Incrociamo le dita).

Lascia perplessi quello che chiameremo il «caso Khamenei». E’ sparito da oltre una settimana, le sue foto sembrano truccate. Teheran gronda sospetto e formula minacce: «vendetta», dice il premier alla tv dove ricorda le «asperità colonialiste» che il «generoso popolo» ha affrontato e superato nel corso della sua Storia.

Una Storia invero granguignolesca, zuppa di speranze e di sangue, ma anche zuccherata dai settimanali in rotocalco.

Chi scrive ricorda l’avventurosa vicenda di Reza Khan che volle farsi chiamare Imperatore e dopo la guerra barattò il suo petrolio con il riconoscimento nel Gotha dei «Paesi ricchi», a dispetto d’un lumpenproletariat che muore di fame. Letteralmente. Opportunista nel senso totale della parola, il rozzo ma dinamico Reza padre finita la Grande Guerra manda a casa inglesi e americani: «Noi siamo una libera nazione, non un palliativo», mandò a dire ai suoi «alleati-amici-dispotici». Ma la sua pietra del destino è il Nazionalismo, cioè il petrolio. Le grandi holding lo costringono a infuocare la partita, ma invano. E’ costretto all’esilio - e non è da credere che non ci scappasse periodicamente il morto, guarda caso un personaggio del suo regno. Lo segue il figlio.

Ha perso la partita ma con l’interessato aiuto degli Stati Uniti riesce (un capolavoro diplomatico) a riavere il trono, quel Trono del Pavone ch’era un mix di regalità da filodrammatici e di grasso business.

«Lo ha perduto il successo», mi disse la sua malinconica ex moglie, l’amatissima Soraya, incontrata a Roma, nella casa sul Gianicolo di Antonella di Bugnano. Certamente lo Scià si illuse di guadagnarsi il consenso dei giovani che preferirono la fame agli stipendi d’oro che l’Imperatore gli offriva «per fare dell’Iran un pilastro di benessere». Ma i giovani iraniani erano già ammaliati dai «video» che il vecchio Khomeini con velocità invero giovanile diffondeva dall’esilio in Iraq e poi dalla «fatale Parigi» da dove spiccò il volo della vittoria per sbarcare a Teheran come un santone. Ma colui che doveva diventare la Guida d’un Paese bello e potenzialmente straricco, da santone divenne spietato regista d’una saga senza misericordia. Fu crudele, specie con coloro che lo servirono gratis et amore dei. Fucilò innocenti giusto «per dare l’esempio»; se potesse, camminerebbe su chilometri di scheletri che furono uomini, sovente a lui devoti.

Il ferreo imam tuttavia conobbe l’amarezza della sconfitta. Se la (vergognosa) presa degli ostaggi americani scalfì il suo essere personaggio-sapiente, la Guida giustappunto, la pretesa di fare di cinquanta milioni di brava gente intelligente e dedicata al lavoro un esercito felice e docile, fu il cappio ideologico che strangolò il religioso e l’ignorante, un po’ tutti i persiani.

Un giorno i morti verranno finalmente contati e una volta ancora scopriremo che la violenza è come l’acido muriatico: brucia ma non uccide, sfigura.

Arrogante e pio. Testardo e vendicativo. Sanguinario. Profeta di sciagura. Privo di humour. Spietato. Ascetico. Affamato di potere. Un po’ rozzo, un po’ genio. L’uomo che ha cambiato la Storia. Ecco qualcuna delle definizioni dedicate a Khomeini. Lo hanno anche definito un fanatico, ma mi sembra più propria la definizione di Popper: «Khomeini fu un essenzialista», un uomo cioè convinto di essere sempre nel giusto.

da lastampa.it
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« Risposta #77 inserito:: Ottobre 23, 2009, 09:50:08 am »

23/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

La feroce estate dei colonnelli
   
IGOR MAN

Abbasso i colonnelli, ha gridato un giovine deputato durante un acceso dibattito in televisione. Siamo abituati alla canizza che fantasiosi ospiti scatenano alla tv con evidente divertimento personale ma quel richiamo ai «colonnelli» ci ha velocemente portati (con l’ascensore della memoria) alla rovente estate del 1965 allorché tre colonnelli, giustappunto, con un golpe da manuale presero il potere (col tacito consenso di Costantino, re di Grecia) instaurando una volgare dittatura sui generis: un mix di destra militarfascista grottesca eppur feroce, unmoralismo accattone con seriose campagne contro i capelloni e la minigonna. Il lutto sottobraccio con le grandi democrazie occidentali. Oggi è facile ricordare quel colpo di stato nel Paese culla della democrazia, ma allora fu una tragedia.

(Un piccolo dettaglio: la stampa italiana spedì giovani giornalisti coraggiosi in Atene e quei ragazzi denunciarono la brutalità dei colonnelli, pagando brutto pegno: l’arresto, il sequestro del materiale, l’espulsione. Atene era in lutto stretto,ma quella gente tenne accesa la speranza e l’orgoglio d’un popolo fiero, apparentemente incasinato).

Oggi che un ragionevole governo democratico restituisce ai greci la parola, il vecchio cronista ricorda un momento dell’estate insanguinata dal golpe di Papadopulos & C.; trascrivo dal taccuino: «Oggi ho visto George Papandreu. I colonnelli volevano provare ch’egli è vivo e lo han costretto a ricevere la stampa. Siamo in cinquanta a salire le scale dell’ospedale militare.

È l’ora del pasto, nell’aria galleggia un tanfo di zuppa e acido fenico. (...) Entriamo nella stanza 625, tre alla volta: tre dentro, tre fuori. Ci concedono due domande. George Papandreu è seduto su di una bassa poltrona, la schiena abbandonata all’indietro, ma non appena entriamo erge il busto levando la testa spoglia in un gesto di sfida. Alla sua destra un medico, alla sinistra un ufficiale. Un grande mazzo di rose rosse, un televisore, un transistor. Sul comodino una tazza di caffè consumata a metà. In un angolo una valigia di cuoio, zeppa di etichette. Possiamo rivolgergli due domande. Prima: «Come sta, è ben curato?» - Risposta: «Il trattamento all’ospedale è ottimo». Seconda: «Cosa può dire del trattamento dei soldati? ». «I soldati fanno il loro mestiere», e ha un gesto di fastidio. Chinandosi su di lui: «Good luck mister President» mormora un collega americano. «Buona fortuna, signor Presidente da parte dei lettori della Stampa », gli dico in francese prendendo così in contropiede l’ufficiale-mastino. «Merci mon petit», risponde il grande vecchio, in francese, rapidissimamente, un guizzo divertito sulle labbra affilate. Ratto si impadronisce del microfono del corrispondente della tv dei colonnelli. Scandisce: «W la liberté», e la sua voce, ora, è quella di un patriarca.

Uscendo qualcuno dice: «Quello che abbiamo visto ora è il simbolo della democrazia umiliata». Andiamo via alla spicciolata, mortificati.

Ma sappiamo che la democrazia non muore. Mai.

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« Risposta #78 inserito:: Ottobre 31, 2009, 10:54:31 am »

31/10/2009

Vassalli, il pianto del partigiano
   
IGOR MAN


I necrologi sul Messaggero sono una Spoon River casalinga. Molti li leggono col caffè, sono oggetto di riflessione, vanno scrutati fra le righe siccome radiografie. Questo nella normalità quotidiana: fra dispiacere e sorpresa, poiché la morte arriva quando vuole. Così è stato per chi ha appreso - due giorni dopo - che Giuliano Vassalli aveva staccato un biglietto di sola andata. Aveva 94 anni ma non era un vecchietto «buono pei cimiteri». Lucido sino all’ultimo, se n’è andato con l’understatement del suo aristocratico sorriso. Con lui svanisce una biblioteca copiosa e ordinata - ci conforta una lunga lezione di procedura, di diritto, di generosa, e rigorosa, applicazione della Legge. Nell’estate del 1960 il vecchio cronista (allora giovanissimo) venne ad abitare in via del Conservatorio, a un passo dal Lungotevere dei Vailati, dove Villa Vassalli è tuffata nel glicine. Prima che si allettasse (con sereno distacco, va detto) ebbi modo di fargli leggere una asciutta lettera di Bobbio (ora, chissà, sfioreranno con lieve passo i pascoli del cielo).

I necrologi (invero straripanti e sinceri) esaltano il giurista sapiente; pochi accennano alla sua giovinezza partigiana, quando Roma era sotto il tallone nazista. Alto, elegante, gli occhi chiari, sfidava quotidianamente la sorte, audace pedina d’una scacchiera chiamata Resistenza. La nostra scuola (nei testi d’obbligo) è frettolosa sulla Resistenza. «Non ci sono testi validi», ti dicono e allora ecco il vecchio cronista suggerire subito due libri, due soli: Roma 1943 di Paolo Monelli e Roma clandestina di Fulvia Ripa di Meana. Il primo è, in fatto, un bestseller, il secondo una scheggia di inedita luce nell’oceano della Storia.

Giuliano Vassalli era della stessa tempra del mitico colonnello Montezemolo: un eroe da romanzo destinato alla Storia. Anch’egli, Vassalli, venne arrestato dalle SS e subito messo sotto tortura a via Tasso. «Per me funzionò la baraka», mi disse una volta amaramente ironico. Per Giuliano Vassalli la vita, la morte coniugandosi nella Resistenza hanno costituito un capitale irripetibile. Pure Vassalli venne orribilmente torturato. Rimase a lungo cieco per via delle percosse (sofisticate) degli sgherri di Kappler.

Montezemolo, Beppo per parenti ed amici, è stato trucidato alle Ardeatine: gridò, da antico soldato, «Viva l’Italia». Vassalli riuscì ad evadere da via Tasso proprio nelle ore (fatali) che videro i crucchi fuggire da Roma.

Radio-carcere aveva dato la notizia dell’avvenuta strage delle Ardeatine, ma sino all’ultimo parenti e amici vollero illudersi. Quando capì e seppe che Beppo l’avevano ammazzato, lui, Giuliano Vassalli, uomo gagliardo e temerario, pianse. «Sa, io li sogno spesso i nostri compagni», mi disse una volta.

La gente ha sete di autenticità. Crede più ai testimoni che ai maestri. E se crede ai maestri è perché sono testimoni.

da lastampa.it
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« Risposta #79 inserito:: Novembre 06, 2009, 09:36:24 am »

6/11/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

I sopravvissuti della Roma da bere
   
IGOR MAN


Una volta la «Roma da bere» da Via Veneto, scavalcando Villa Borghese, arrivava a Piazza del Popolo. Aveva due illustri mescite: Rosati in via Veneto a due passi dalla libreria cara a Cardarelli («vive in un cappotto, a via Veneto: anche d’estate»), Rosati in piazza del Popolo, illustre omonimo di quello di via Veneto. Ai tempi, irripetibili, del Mondo di Pannunzio i Maestri decisero di dedicare due interi giorni (o sere: dalle 21 ai primi lucori del giorno nuovo) all’omonimo di piazza del Popolo e l’onore fu salvo, tanto è vero che, nell’anno di Grazia in cui viviamo, il Rosati di via Veneto confluisce nell’Harry’s Bar mentre al locale di piazza del Popolo approdano gli ultimi epigoni della «Università» di Pannunzio, magnifico (davvero) Rettore, i cui allievi o sono volati via per sempre, cancellati dal calendario che non sgarra, ovvero preferiscono la tv accompagnata dal whisky. A casa. Magari con qualche amico-nostalgico, miracolosamente immune da cirrosi ed altri malanni da bar.

Negli Anni Cinquanta via Veneto era proprio il Deux Magots (o la Brasserie Lipp) del Village. Sere fa, non senza emozione, il Vecchio Cronista ha ascoltato a radio Montecarlo un concerto di rapinosa bellezza celebrato dalla perentoria Juliette Gréco. Allora, nel tempo che fu, via Veneto e il Village erano complementari. Oggi non più. Anche se, lo abbiamo visto in quest’ultima settimana, la Mostra cinematografica di Roma (anzi del sempre giovine Gian Luigi Rondi) abbia chiamato a Roma personaggi come la Kidman e il napoletanissimo De Laurentiis, coraggioso ex machina di film belli. Oggi fra i due poli della bevuta ha trovato spazio una Roma da bere - impiegatizia - popolare. Nulla di male se non fosse che i clienti di oggi fanno arrossire i (pochi) superstiti di via Veneto e questo perché sono cambiati i bevitori che invadono ogni sera, dalle 19 in poi, via Monte della Farina. Va detto subito che son giovani se non giovanissimi e, ahimè, non sanno proprio bere. E dunque si inciuccano straripando col bicchiere in mano nella tortuosa via che l’orgia dell’indomabile traffico-posteggio ha trasformato in osteria postmoderna. I bevitori in via Monte della Farina lo aspettano: il tempo che fu è già oggi.

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« Risposta #80 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:49:51 am »

13/11/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Romero, beato per la libertà
   
IGOR MAN


Monsignor Vincenzo Paglia, arcivescovo di Terni, è appena tornato dal Salvador. Laggiù in quel Paese di variopinta bellezza, i salvadoregni scendono oramai in piazza da mesi. Che vogliono? Semplicemente vogliono dare un’accelerata al processo di beatificazione di Monsignor Oscar Arnulfo Romero. E su questo argomento che abbraccia amore e liturgia scendono periodicamente in piazza «per esigere che lo Stato chieda pubblicamente perdono per la morte assassina di Monsignor Romero». Da bravo diplomatico, Monsignor Paglia dice e non dice cercando di rasserenare un po’ tutti. Romero venne nominato Arciprete di San Salvador col placet delle 14 famiglie salvadoregne che lo consideravano un «prete allineato». Ma una lunga ricognizione di fedeli di sua fiducia lo convinse a calarsi nella realtà - vera - e fu così che la sua omelia domenicale assunse il ruolo d’una denuncia, invero cristiana, d’un atto d’accusa dei parafascisti di Arena. In breve: sotto la spinta di una opinione popolare sempre più forte, l’omelia di Monsignor Romero divenne una sorta di appuntamento della speranza, una denuncia coraggiosa degli intrallazzi del potere. Mai s’era vista, in Salvador, la cattedrale strapiena, mai la denuncia dell’officiante fu così partecipata. Il piccolo ufficio di Romero in cattedrale si trasformò in succursale della Posta.

A chi gli raccomandava «prudenza, prudenza», Romero rispondeva sereno: «Ma al massimo potranno farmi fuori. E con questo?». Ubriachi d’odio, i neofascisti di Arena decisero in un convegno mafioso di «spegnere la candela». E la morte di Romero fu segnata. Il 24 di marzo del 1980, il maggiore d’Aubuisson e due sicari irruppero nella cappella d’una clinica privata. Monsignor Romero non batté ciglio e proprio mentre elevava l’ostia della comunione, l’assassino sparò. Un solo colpo, una sola cartuccia a centrare la vena jugulare di Don Romero. Il sacerdote ripiegò su se stesso nel vano tentativo di proteggere l’ostia - e con essa di tra le dita crollò. Il suo sangue contadino macchiò i paramenti.

La morte di Monsignor Romero fu il preludio, il lungo preludio del ritorno. Semplicemente alla libertà. Teoricamente la guerra prolongata è uscita dalla porta di servizio ma non è in fatto finita. E’ un Paese martire il Salvador poiché se è vero che non si combatte più e c’è un Parlamento eccetera, è vero altresì che a comandare son sempre le 14 famiglie, abilissime nel perpetuare una sorta di medio-evo postmoderno dove imperano i signori e i campesinos faticano, faticano sempre, in cambio di scarsa mercede. E lenta, appare la giustizia sociale.

Nella sua ultima omelia in cattedrale, Monsignor Romero così concluse, la voce strozzata dall’emozione: «Gli Stati Uniti mettono le armi. L’Urss mette le armi. Il Salvador mette i morti. In nome di Dio: lasciateci soli». Il giorno dopo, il 24 di marzo del 1980, il maggiore d’Aubuisson lo uccideva, all’Elevazione.

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« Risposta #81 inserito:: Novembre 20, 2009, 11:51:48 am »

20/11/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Il Crocifisso dall'Ucraina
   
IGOR MAN


Arrivò l’estate e mia madre si portò via. Per sempre. Lei aveva lasciato scritto a mio padre di non portarci al cimitero. «Non mi vedrete epperò sarò sempre accanto a voi, in casa, nel Mondo». Da convinta allieva di Tolstoi, mia madre insegnò la scrittura ai contadini di Cibali. Era una menscevica nobile e molto attiva, sicché amici fascisti (si può essere amici e fascisti solo a Catania) consigliarono a mio padre di lasciare l’Isola. Prima di partire ci fu concesso di traslare mia madre nella semplice tomba di marmo creata da Emilio Greco. Dal tumulo emerse persino il triciclo che il piccolo dei fratelli aveva voluto andasse con sua madre, ma non ci fu verso di trovare un crocifisso d’arte povera, ucraino. Prima di lasciare la Sicilia, mio padre promise «adeguate ricompense» a chi avesse mai trovato quel Crocifisso.

Parentesi (il 2 di novembre è festa grande in Sicilia, è la giornata dei Morti: anziché averli per Natale, i giocattoli, i dolcini eccetera i bambini li hanno per i Morti. I bambini hanno lasciato cartoncini allo Zio Tano, a Zia Mariuccia e via così: al posto di Gesù implorano i Morti di «lasciargli» il regalo desiderato. Nelle famiglie più modeste vige una regola invero crudele: i bambini potranno godersi i regali dello Zio Tano eccetera non più di una settimana. Li riavranno l’anno venturo sempreché siano stati bravi. Dalla Liberazione in poi la Festa dei Morti è diventata appannaggio della middle class, e le statistiche municipali ci dicono che perde terreno anche nei quartieri più poveri sotto l’incalzar del consumismo, dei venefici giocattoli made in Formosa. Insomma, è una festa povera quella dei Morti ma niente affatto lugubre. Una maniera gentile di ricordarsi di chi è partito pei pascoli del Cielo. Il regalo emblematico, le Ossa di Morto: biscotti di farina di mandorle dolci, cotti a forma di quelle umane: clavicole, piedi, teschi piccini. Stranamente questi dolci che si presume macabri i bambini del diffuso sottoproletariato li amano. Molto. Sembra che la Festa dei Morti l’abbiano portata in Sicilia i Romani). Parentesi chiusa.

Mi è appena arrivata una scatoletta, da Catania. L’apro col cuore in tumulto e (finalmente) vedo «risorgere» il Crocifisso ucraino tanto caro al Vecchio Cronista, ai suoi genitori. Ma affascina e dolcemente turba il fatto che l’indirizzo del mittente della scatoletta del Cristo in Croce «non risulta» alle Poste insomma, è apocrifo. E’ forse un «segnale»? Dice il Vangelo: «...e tutti saremo chiamati».

da lastampa.it
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« Risposta #82 inserito:: Dicembre 18, 2009, 10:03:04 pm »

18/12/2009 (18:44)  - DALL'ARCHIVIO DE LA STAMPA
   
IGOR MAN
Ripubblichiamo l'articolo "Ricordo di un mattino a tu per tu" scritto da Igor Man e pubblicato il 01/04/2005

TORINO
«Meno chitarra, piu' Vangelo»: con queste precise parole Giovanni Paolo II concluse il breve incontro (a tu per tu) col Vecchio Cronista. Breve incontro ma ricco di contenuti, come vedremo. Mi corre l'obbligo di dir subito ai lettori che quella che segue non e' una intervista ufficiale e neppure «rubata». A parte Vittorio Messori che ha scritto addirittura a quattro mani con Karol Wojtyla, l'unico giornalista italiano cui il Santo Padre abbia rilasciato una intervista in buona e dovuta forma e' Jas Gawronski, il 2 novembre 1993. Io ho potuto colloquiare con Giovanni Paolo II a conclusione di una udienza davvero privata del Papa a me e a mia moglie Mariarosa. Avevo cercato l'incontro privato col Santo Padre subito dopo aver vinto il premio Artisan de la Paix, onore che divido con l'Abbe' Pierre. Vanamente. Amici cari (laici) e alti prelati avevano perorato la mia causa, anche con insistenza, senza far centro, tuttavia. Ma una mattina suona il telefono e una voce corposa mi dice che a chiamarmi e' il segretario del Papa, l'arcivescovo don Stanislao Dziwisz, l'infaticabile angiolo custode di Karol Wojtyla. «Se lei tuttora ambisce ad avere udienza privata, anzi privatissima, per lei e sua moglie, le va bene domani mattina alle 7 precise? Se si', le spiego come dovra' fare per venire su da noi».

E' il 9 di dicembre del 2001. Dopo la messa, intensa, celebrata in italiano dal Papa nella piccola cappella diremo personale, scandita da un sommesso leitmotiv bachiano grazie al liuto di una delle sette suorine presenti, il tempo che il Santo Padre si spogli dei paramenti assistito dal giovine don Mierek ed eccoci, mia moglie ed io, inginocchiati davanti a lui, assiso su di una poltrona segnata dai tarli. Sorride fra il benevolo e il curioso mentre ci fa cenno di accomodarci a lui d'accanto bisbigliando qualcosa come «speriamo che reggano 'ste poltrone». Mariarosa gli ha portato la riproduzione in scala ridotta d'un ritratto a china di Padre Pio, custodito in una semplice cornice d'argento - il tutto in un pacchetto «natalizio» da lei confezionato. Il Papa gia' allora era storto, piagato dal cilicio della sofferenza fisica ma era autonomo, vigoroso di voce, sicuro nei gesti. Il tremolio della mano sinistra lo dominava splendidamente, allora. Apre con gesti gentili il pacchetto e quando, tolta la carta velina, si appalesa il profilo grave di Padre Pio: «Oh - sussurra commosso - presto lo faccio Santo» e carezza il ritratto del frate di Pietrelcina. Poi, rivolto a mia moglie: «Grazie del dono cosi' pensato», dice: «Io sono molto devoto a lui». E qui scoppia la mia gaffe: «E' Padre Pio, che ha profetizzato il suo avvento sul trono di San Pietro», dico, ma il Papa, abbuiato: «Oh no, sospira, e' questa una fola. Mai Padre Pio ha toccato questo argomento. E' una fola, si dice cosi'?».

Cerco di rimediare dicendo al Papa che nel lontanissimo febbraio del 1949 in seguito al dipanarsi di circostanze invero straordinarie, io ebbi in sorte di intervistare Padre Pio, nella clausura del suo convento, a San Giovanni Rotondo. E visto che la notizia l'interessa visibilmente, dico al Papa che so benissimo che chiedere una intervista al Sommo Pontefice non sia corretto (mia moglie e' con Padre Stanislao che affabilmente le illustra la cappella, le variopinte vetrate), e dunque me ne asterro', ma forse, azzardo, il Santo Padre vorra' degnarsi di rispondere a una mia sola domanda, cosi' «a futura memoria». Sorridendo ironico tace, poi, spiazzandomi, mi domanda del mio incontro con Padre Pio ed io gli faccio una cronaca dettagliata dell'accadimento che ha profondamente segnato la mia vita: di uomo, di cronista.

Parlo come in trance e lui, il Papa mi incalza con precise domande, ascolta avidamente. Ma quando gli dico che stringendo le mani del frate ho rischiato il deliquio poiche' ho sentito le mie dita affondare nel palmo della mano di Padre Pio, il Papa ha come un trasalimento e leva la destra quasi a benedire qualcosa, qualcuno. Chissa'. S'e' detto e scritto che «fuori» Giovanni Paolo II e' moderno, imprevedibile, up to date, sinanco rivoluzionario, ma dentro e' intransigente, assolutista, conservatore, sicche' il «suo» Dio e' severo, intransigente. E quel «non abbiate paura, aprite le porte a Cristo» altro non vuol significare che l'uomo e' zero e solo la misericordia di Dio potra' «numerarlo» mentre cerchera', com'e' suo dovere, di salire sempre piu' in alto, a guisa di alpinista: con la sola differenza di affidarsi, anziche' alla corda del rocciatore, al Rosario. Santita', gli dissi, non le sembri banale oltreche' impertinente, ma come definisce Dio, lei che ha deciso di arruolarsi sotto la sua bandiera gia' da uomo fatto, segnato da esperienze mondane (la morte delle persone piu' care - il teatro - il lavoro da operaio: uomo fra gli uomini), dalla guerra. Ed ecco la risposta del Papa, segnata da un sorriso generoso: «Dio e' come il sole: riscalda tutti. Anche chi presume di non volerlo conoscere». Ma allora, dico, accorgendomi ahime' tardi, di abusare della pazienza del Papa (ma e' come se parlasse un altro, non il Vecchio Cronista), ma allora come spiega che l'immensa domanda di fede che sale dal basso venga spesso disattesa? Forse perche' la Chiesa s'e' assunta troppe supplenze, nel sociale soprattutto, e il Vangelo per conseguenza finisce col perdere la sua misteriosa sacralita'? Giovanni Paolo II si leva senza sforzo (allora era ancora autonomo, l'ho gia' detto) dalla poltrona tarlata e sorride vedendo svolazzare verso di lui, come un derviscio affettuosamente allegro, Don Stanislao. «Lui Igor, si chiama cosi', Igor, perche' sua madre e' russa. Igor e' slavo, come noi», dice ridendo e il Papa divertito mi rivolge la parola in russo. Ma e' giunto il momento del commiato, il Santo Padre «ricambia» consegnando a Mariarosa una piccola icona che viene dal Monte Tabor. Ci inginocchiamo ed egli, pietoso, ci benedice esortandoci a levarci in piedi.
L'udienza e' finita ma il momento (davvero) magico no. Con mia beata sorpresa, sommessamente:
«Meno chitarra, piu' Vangelo», mi dice il Santo Padre. Forse, chissa', questa e' la risposta. La sua risposta a un peccatore che, ancorche' pressato dal dubbio, cerca la' dove gli hanno detto: dentro di se'. In quella messa del Papa padre Mierek scandi' il Vangelo secondo Matteo: «In quel giorno comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea (...). Io vi battezzo con acqua, ma colui che viene dopo di me e' di me piu' potente (...), egli vi battezzera' in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulira' la sua aja e raccogliera' il suo grano ma brucera' la pula con fuoco inestinguibile». Acqua, fuoco ecco la vita, ecco la pace e la guerra, ecco lo svelamento della nostra precarieta'. Giovanni annuncia il fuoco e la scure (l'albero sterile viene tagliato e gettato nel fuoco); Isaia, il profeta che 700 anni prima di Cristo apri' l'ebraismo all'universalismo, evoca una armonia cosmica di creature tutte riconciliate. Giovanni dice di un mondo da costruire, Isaia di un dono immeritato piu' bello della nostra speranza». Anche noi pensavamo che venisse la pace poiche' il tempo sembro' maturo allorche' Rabin e Arafat si strinsero la mano, decidendo di gettare nelle fiamme l'albero cattivo della guerra. Credemmo a lungo nella pace, chiusa laggiu', nel cuore antico del mondo, in Palestina e invece vedemmo, abbiam visto, vediamo moltiplicarsi belve feroci e serpenti. Eppero' il Papa polacco ci lascio', mediante i testi della sua Messa partecipata al Vecchio Cronista, una rassicurazione preziosa: invece del fuoco verra' Gesu' «come un re mite, commensale di peccatori, agnello esperto di perdono». S'e' detto che Dio semina sogni: Dio ha un sogno che presta agli uomini, la pace. Parola di Wojtyla.


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18/12/2009 (18:22)  - DALL'ARCHIVIO DE LASTAMPA
Igor Man e l'avvocato Agnelli
Il giornalista Igor Man
   
IGOR MAN
Ripubblichiamo l'articolo "Il vecchio cronista racconta trent'anni di frequentazioni con l'Avvocato, la sua famiglia, gli amici" scritto da Igor Man e pubblicato il 25/01/2003

TORINO
E cosi' sia, Giovanni (Gianni) Agnelli, detto l'Avvocato. Sopravvive allo strazio fisico il sorriso antico del vecchio marinaio, la curva amara delle labbra s'e' fatta paziente, distesa. Dio con una mano da', con l'altra leva: e accade che la morte asciughi la sofferenza, prima che possa umiliare troppo l'uomo. Dice il Salmo: «Tenero e pietoso e' il Signore / lento all'ira e grande nella benignita' (...). Come il padre e' tenero coi suoi figli / cosi' il Signore e' tenero verso coloro che credono in Lui». Questo che cito, il Salmo 103-3, era molto caro a Edoardo Agnelli, il figlio-bambino dell'Avvocato e di Donna Marella, la Principessa Caracciolo, moglie infinitamente paziente di Gianni Agnelli, madre dolorosa. A chi scrive riesce difficile, in questo momento, mettere ordine nel tumulto dei sentimenti. Era, fu, un Potente ma non dimentico' mai i doveri del gentiluomo.

Consapevole d'essere uno degli «Imperatori del Mondo Industriale», non trascuro' la lezione di suo Nonno-Fiat: «Gianni, l'educazione e' tutto. Non dimenticare mai le buone maniere». La sua gentilezza era, dunque, una divisa che indossava notte e giorno?, gli chiesi una volta. Rispose che se l'era domandato spesso anche lui concludendo che, buone maniere o no, il segreto stava nel sapersi dominare, nel temperare l'arroganza. «So d'esserlo, arrogante, e me ne dolgo sicche' capita che magari invece d'un cicchetto sembra ch'io elogi chi ha fatto una cappellata. E in questo caso chi e' intelligente capisce e incassa mentre il cretino (l'Avvocato arrotava tremendamente la R quando diceva cre-ti-no) se ne va tutto contento, tranne a realizzare dopo il disastro». Pensa di avere molti nemici?, gli domandai una delle ultime volte che l'ho visto al Lingotto, diciamo prima della Malattia. «Certamente», rispose, subito aggiungendo con un sorriso divertito: «Ma qualche amico ce l'ho e me lo tengo caro». Henry Kissinger e' stato un amico, forse il primo amico dell'Avvocato e certamente lo era quell'ignoto marinaio al centro d'un accadimento che raccontero' perche' da' la misura di chi fosse, e come fosse, il Personaggio. L'Avvocato era un uomo impaziente, facile ad annoiarsi. Aveva un solo aggettivo, lui che parlava veloce e incisivo, elegante. «Divertente». Tutto quello che andava bene: una partita di calcio, un articolo, un libro, un'operazione finanziaria - se meritava, appunto, il suo interessamento, era «divertente». Ma quest'unico aggettivo - «divertente» - non e' che ricorresse sempre nel suo discorso.

Era molto esigente, l'Avvocato e questo si puo' capire, e spesso divertente quando non affascinante (allorche' parlava della sua esperienza di soldato nell'ultima guerra) ma non avrei mai immaginato che potesse risultare «noioso». Sua figlia Margherita, si' la pittrice che riesce a «dipingere in russo» Il Piccolo Principe, mi disse un giorno che «Papa' come genitore e' piuttosto noioso, sicche' quando siamo insieme, a famiglie riunite, cerchiamo di portare il discorso sul giornale, su di lei, sulle sue avventure che tanto interessano papa'». E cosa dice di me? «Divertente», rispose con un sorriso terribilmente simile a quello di suo padre. «Papa' dice che lei e' divertente». Coi figli, dunque, era «noioso». E tuttavia li amava. Oh come li amava: di Margherita ammirava non tanto il «talento d'artista» («dovrebbe solo organizzare meglio il suo lavoro, forse», diceva) quanto il carattere, la fantasia. «E' come una matrioska all'incontrario», mi disse di lei quando fece una mostra - presentata da monsignor Ravasi a Milano. Sarebbe a dire? «Alla fine, leva leva, rimane la bambola piu' grande. Appunto, una matrioska in ordine inverso».

Stimava dunque sua figlia Margherita, l'Avvocato. Ma con Edoardo, con suo figlio Edoardo quali erano, furono, i rapporti? «Nec tecum nec sine te vivere possum»: potrebbe essere questa la risposta giusta a un interrogativo crudele. Li univa, padre e figlio, una affettuosa incompatibilita' di carattere, se cosi' puo' dirsi. L'Avvocato mi chiese un giorno, or e' tant'anni, di ricevere suo figlio: «Ha molti interessi, forse troppo, lo attira l'Oriente in senso lato, quelle religioni ama studiarle ma temo faccia un po' di confusione, le dispiace incontrarlo?». Venne a casa mia, ci vedemmo ancora una volta in via XXIV Maggio, e di nuovo in occasione d'una diretta televisiva su Khomeini eccetera. Ricordo in particolare un incontro a Roma, nel vasto living di casa Agnelli, dominato dal nudo castamente sensuale di Modigliani. L'allora giovanissimo Edoardo era con il suo amico Almagia'. Non aveva letto il Corano se non a spizzichi e bocconi sicche' gli consigliai una bella edizione francese e, ovviamente, l'opera del Busani. Edoardo aveva una intelligenza rapace ma spesso dava l'impressione di straniarsi dalla realta' per costruire mentalmente una sorta di «utopia personale rivoluzionaria», come ebbe a dire un amico comune, Enrico Recchi, il giovine ma gia' grande costruttore torinese morto pilotando un vecchio Catalina trasformato in aereo-anfibio. Al funerale di Enrico, Edoardo era accanto a sua madre Marella. All'uscita, qualcuno mi strinse il braccio. Era Edoardo: «Lo sapeva che Enrico le voleva molto bene? Anch'io gliene volevo», disse asciugandosi gli occhi, «e ho pregato per lui, insieme con mia mamma. Mi scusi ma debbo correre da lei, da mia madre, e' proprio addolorata». Dal modo con cui Edoardo disse: «debbo correre da lei», sentii che portava a sua madre un amore sconfinato, di quelli che si provano pei genitori soltanto quando si e' bambini.

Col padre era piu' difficile. «Non vanno d'accordo», dicevano. Banalmente, poiche' non «andar d'accordo» e' un conto, amarsi un altro. E i due, Gianni e Edoardo, si amavano. Si scontravano in un clima affatto piemontese ma guai a chi incautamente criticava il padre cercando di arruffianarsi il figlio: questi lo zittiva con furore. Di Edoardo con l'Avvocato abbiamo parlato una volta sola: io ho «spiegato» al padre quanto suo figlio, a conti fatti, gli somigliasse: era, forse, Edoardo, l'altra meta' di Gianni Agnelli, quello che diceva cose che il Monarca-Fiat non poteva ne' doveva dire - cosi' com'e' nel destino dei leaders.

E qui debbo dire che l'Avvocato ha cominciato a morire (giorno dopo giorno, lentissimamente ma inesorabilmente) il mattino in cui Edoardo tiro' lo zip, ghigliottinando la sua giovine vita agra. Educato a dominare ogni pena, sia fisica che spirituale, l'Avvocato riusci' a non far pesare il suo stravolgimento interiore a chi gli stava intorno per lavoro, per usuale frequentazione. Pochi giorni erano passati dalla tragedia quando, insieme a Donna Marella, non volle mancare al premio Pannunzio, assegnato fra l'altro a un giornalista ch'egli apprezzava e non poco: Paolo Mieli. Lui, l'Avvocato, sembrava esser diventato di giada, lei, Donna Marella, era gia' quella «addolorata» che oggi somma il distacco dal suo compagno che lei sola sa «chi» veramente fosse, alla mutilazione subi'ta con la morte di Edoardo. Ora, Donna Marella, stringe le mani ai visitatori, amici e conoscenti, e sul suo viso tatuato dalla pena il ricordo sovrappone i lineamenti modiglianeschi d'una fanciulla gaia, ricca di interessi artistici. Lei, giovanissima principessa Caracciolo, il cui padre, presidente dell'Aci, accompagnavo spesso dall'ufficio di via Marsala (vi andavo a prendere l'aperitivo sotto l'occhio attento di Enzo de Bernart) alla Lungarina dove, appunto, abitavano i Caracciolo. Come sorrideva bene Donna Marella, allora. Un giorno la marchesa Sant'Angelo mi disse che li aveva fatti incontrare: l'Avvocato e la Principessa «due giovani da romanzo», disse: «Sara' il matrimonio del secolo». Non so se lo sia stato, ed ha poca importanza oramai: so che niente e nessuno e' riuscito a togliere la regalita' a Donna Marella.

Cosi' come so che a soffrire terribilmente sara' Susanna Agnelli, la sorella. Un giorno ch'eravamo nel living a prendere l'aperitivo, ed era appena passato come un cordiale uragano Mario d'Urso, vidi d'un tratto l'Avvocato tendere l'orecchio e, poi, con un sorriso estatico sussurrare: «E' lei». Lei era Suni, la sorella cara, la confidente, la Persona con cui aveva vissuto momenti terribili, dolorosi, sempre temperati dall'ironia, dal bon mot. Si abbracciarono come se si vedessero dopo tanto tempo, Suni e l'Avvocato si volevano bene sul serio, basta del resto leggere quel libro per molti versi straordinario ch'e' Vestivamo alla marinara. Si volevano bene assolutamente, e tuttavia quando sua sorella fu Ministro degli Esteri (atipico ministro ma audace e capace) Gianni spesso polemizzo' con lei. Quante se ne sono dette sui rapporti fra Gianni e Umberto, fra l'Avvocato e il Dottore. Io non oso dar giudizi non fosse altro perche' non ero un «intimo di Casa Agnelli», ci mancherebbe. Ma in questo momento difficile - sul piano dei sentimenti, sul piano della realta' industriale - posso dar testimonianza del rapporto forte tra i due fratelli. Una volta che avevo un appuntamento con il Dottore, vidi, prima d'incontrarlo in Corso Matteotti, l'Avvocato: al Lingotto. Accompagnandomi all'ascensore (camminava spedito allora, ancorche' caracollando) disse, come se parlasse a se stesso: «Non e' facile, me ne rendo conto, essere mio fratello. Col mio caratteraccio non capisco, a volte, come faccia a sopportarmi, Umberto. Noi gli dobbiamo molto come... ditta, come famiglia. La morte giovane di Giovannino non ha piegato la sua determinazione. Il suo genio finanziario e' un grosso valore aggiunto», concluse.

Naturalmente mi guardai bene dal riferire questo rapido discorso a Umberto Agnelli, ma ora e' diverso: ora l'Avvocato non c'e' piu' e ogni remora cade di fronte alla verita'. E la verita' parla di un uomo genialmente contraddittorio, che di certo intui' il precipitare del Destino ma volle esorcizzare l'intuizione con l'indifferenza, con la preghiera (clandestina). Proprio l'ultima volta che l'ho visto, non so come il discorso cadde su Cesare Romiti. «Cosa vuole che le dica - disse l'Avvocato -, piu' passa il tempo, piu' mi convinco che a quell'uomo in definitiva io voglio bene. Ha fatto tanto per noi, per Fiat, per il lavoro. Quando lo vede, glielo dica». Non gliel'ho mai detto ma adesso tutto va detto: e' il modo migliore, penso, per chi lo amo', di onorare il Principe. Che aveva una etica dell'amicizia tutta particolare. Avevamo stabilito che non mi chiamasse, se non in casi urgenti, prima delle 8 del mattino ne' io avrei potuto telefonargli dopo le 10 della sera. Ma un mattino (ero a Sabaudia) mi telefono' alle 5 allarmando mia moglie (con la quale poi si scuso' con molto spirito), facendomi prendere un mezzo accidente: «Dovremo spostare di un po' l'appuntamento. Dovevamo vederci alle 9 in via XXIV Maggio, le dispiace rinviare diciamo alle undici?». Roger, ricevuto - risposi, come sempre. Alle undici ero dunque a casa sua, parlammo nel piccolo salotto zeppo di giornali stranieri e italiani, sorseggiando io la solita acqua minerale, l'Avvocato l'abituale te' lunghissimo, bollente. Indossava un paio di jeans molto vissuti e una camicia di lino vecchia di taglio eppur sontuosa. Al momento del congedo mi disse tra l'irritato e il sorpreso: «Non vuol sapere perchè ho spostato l'appuntamento?». Avvocato, se non me lo dice lei, per me va bene lo stesso: immagino siano fatti suoi, risposi. «Vede - disse - e' morto un mio vecchio amico marinaio, un caro amico. E' morto in Corsica, sono andato a salutarlo». Un vecchio marinaio?, dissi: come quello della famosa ballata di Coleridge? (Samuel Taylor Coleridge: poeta, filosofo, 1772-1834). E qui l'Avvocato, con mia sorpresa, prese a recitare i versi della Ballata del Vecchio Marinaio. In inglese, in quell'inglese senza accento che tanto affascinava i suoi amici anglosassoni, Kissinger per primo. «Higher and higher every day/ Till over the mast at noon (...) At length did cross an Albatros:/ torough the fog it came;/ as if it had been a Christian soul/ we hailed il in God's name». (Ogni giorno piu' in alto, sempre piu' in alto, al di sopra dell'albero maestro, a mezzodi' - In fine dalla nebbia sbuco' un albatros - e noi lo salutammo, anima cristiana, nel nome del Signore).

Uno scrive l'Avvocato, e tutti capiscono. Non c'e' bisogno di specificare che il dottor Agnelli Giovanni, presidente onorario della Fiat, sia «lui», l'Avvocato: lo sanno anche nel Burundi. Enzo Biagi, tanti anni fa, dedicandogli un libro intero, lo ha chiamato Il Signor Fiat. E son tanti gli scritti, perlopiu' di autori stranieri, a lui dedicati: nel senso che ambiscono a raccontare il Personaggio e la Fabbrica. La Fiat, giustappunto, intimamente legati - uomo e azienda, a filo doppio alla Storia, non soltanto italiana. Nella buona e nella cattiva sorte. Si sa che l'Avvocato, pur essendo uno degli uomini piu' ricchi del mondo, non ha mai toccato il denaro. Una mattina, tanti e tanti anni fa, Agnelli decise di andare a Villa Giulia perche' alla Galleria di Arte Moderna Palma Bucarelli esponeva anche il famoso Modigliani contestato nella sua autenticita' da Virgilio Guzzi, critico rigoroso. L'Avvocato coinvolse Alberto Ronchey, ch'egli da sempre giudica un grande giornalista swiftiano, che a sua volta recluto' il sottoscritto. Varcato l'ingresso della Galleria, un'impiegata chiese all'Avvocato se volesse il catalogo. «Certo che si', grazie», disse lui. Sono 15 mila lire, aggiunse quella e l'Avvocato sfiorando il suo doppiopetto galles: «Non ho con me denaro - disse -, Ronchey le dispiace fare per me?». Borbottando: si figuri, Alberto sgancio'.

Un po' tutti conoscono la sua competente passione in fatto di antiquariato, ebbene, sempre un bel po' di anni fa, a Hong Kong, ando' a trovare uno dei piu' rinomati antiquari (un cinese) della terra. Acquisto' in cambio di un bel mucchietto di dollari un cavallino di legno di buona dinastia, ma quando venne il momento di firmare l'assegno, chiese uno sconto. Il cinese e l'accompagnatore (l'allora console generale Bolla) trasecolarono: «Io, lei lo sa, non pratico mai sconti», obietto' il cinese. «Allora non se ne fa nulla», scandi' l'Avvocato, irritatissimo. Fini' che ebbe lo sconto: cinquecento dollari, un'inezia, ma era tutta una questione di principio del signor Agnelli, non dell'Avvocato, uno degli «imperatori del mondo» , quella di farsi fare lo sconto, da buon piemontese. Lo so, codesta e' aneddotica: per certi versi «illuminante»; ma sempre aneddotica. Io che ho avuto la fortuna di frequentarlo dal 1963 e che sono pressoche' suo coetaneo, ho avuto modo di ascoltarlo quando si abbandonava ai ricordi. Perche' raccontando di questo o di quello, egli finiva col raccontarsi, non accorgendosi - seppure vigile e controllatissimo -, di squarciare un po' l'aura di mistero che l'avvolgeva. Mistero intimo, non biografico, sia chiaro, custodito da un sorriso da antico marinaio: un sorriso appena accennato che sfuma malinconico in una piega quasi dolorosa delle labbra, agli angoli della bocca. Sappiamo del suo coraggioso comportamento in combattimento, e' noto il suo «no» all'imboscamento sia pure stragiustificato durante la guerra; sua sorella Suni in quel libro unico che e' Vestivamo alla marinara, ci ha fatto toccare con mano la sua eccezionale capacita' di dominare il dolore piu' atroce, ironizzandoci sopra, addirittura.

Ebbene, la sua cognizione del dolore (non solo fisico) faceva si' ch'egli partecipasse della sofferenza altrui recandosi a visitare un suo vecchio marinaio in difficolta', ovvero un operaio ferito o semplicemente un amico: che puo' essere Rockefeller ovvero un suo anonimo dipendente. Aveva il culto dell'amicizia, l'Avvocato, sicche' l'addolorava il «tradimento».

E questo puo' valere per un calciatore come per una sua eccezionalmente, signorilmente brava assistente personale. Un piemontese come lui, quella versione postmoderna di Principe Rinascimentale ch'egli fu, aveva dell'amicizia un culto curiosamente siciliano. (Per un siciliano spesso l'amico e' piu' del fratello. Col fratello puoi vivere alla peggio insieme, con l'amico ti coniughi). Mi piaceva ascoltarlo, tanto che infinite volte ci siamo ripromessi di mettere sul tavolo un registratore a andar sul filo della memoria. Era importante per me sentirlo parlare di New York («colei che non si deve amare», come diceva Ugo Stille), la New York del Cinquanta, del Sessanta in particolare. Scoprii che avevamo incontrato le stesse persone, poiche' un giornalista e' come la salamandra, va dappertutto: da casa Vanderbilt allo studio di Pollock, dall'Algonquin al Village.

Pero' lui li ha conosciuti dentro, il reporter li ha solo sfiorati, i big. Ma qualche amico comune c'e' stato, ad esempio Raimondo Lanza che aveva acquistato un centravanti per il Palermo solo perche' lo incantava l'eleganza del suo dribbling stretto. E cio' spiega il rapporto di simpatia amicale che legava l'Avvocato al grande Platini. A proposito: lui che era sempre piuttosto aggiornato in fatto di letteratura straniera, e di saggistica economico-finanziaria, non nascondeva, al pari del Vecchio Cronista, di leggere il Guerin Sportivo... Mi piaceva ascoltarlo anche perche' imparavo.

Per esempio che il cinismo ch'egli ostentava truccandolo da battuta, non aboliva il sentimento profondo dell'etica cristiana. Mi racconto', un giorno, che capi' definitivamente quanto sporca sia la guerra vedendo, sul fronte russo, soldati tedeschi con lo zaino pieno di munizioni andare su di una passerella per rifornire un reparto isolato, cadendo come le mosche sotto il fuoco sovietico. Espresse il suo sgomento e si senti' rispondere dall'ufficiale tedesco di collegamento: «Ma no, quelli sono prigionieri russi ai quali abbiamo messo la divisa tedesca». Era stato ufficiale in Africa e in Russia e, pur avendo sofferto, aveva molti bei ricordi della vita militare. Tra gli altri, come amava ripetere, uno, tra il malinconico e il gentile, degli ufficiali rumeni di cavalleria che, a Bucarest, portavano un ramo di jasmin sul kepi.


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18/12/2009 (18:38)  - LUTTO NEL MONDO DEL GIORNALISMO

Addio al "Vecchio cronista" E' morto il giornalista Igor Man

Firma de La Stampa, aveva 87 anni.

Napolitano: «Intensa commozione»

TORINO


E' morto il giornalista de La Stampa Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella. Era nato a Catania il 9 ottobre 1922, aveva 87 anni. Il decesso risale a mercoledì scorso. Ad annunciarne la scomparsa, oggi a funerali già avvenuti, è stata la famiglia. Un’uscita di scena, per sua volontà, in punta di piedi. Lo stesso stile che lo ha reso uno dei più grandi testimoni dell’ultimo mezzo secolo.

Figlio di Titomanlio Manzella (esperto di politica estera) e di una nobile russa esule in Italia, Man è stata una delle firme più prestigiose del nostro quotidiano dove cominciò a lavorare nel 1963 sotto la direzione di Giulio de Benedetti. Studioso delle religioni e delle società, Man aveva una spiccata sensibilità e competenza per i temi riguardanti il mondo arabo ed islamico. Nel 2009 aveva ricevuto il Premio America della Fondazione Italia USA. Nel 2000 aveva vinto il premio di giornalismo Saint-Vincent alla carriera. Nella sua straordinaria carriera ha intervistato grandi personaggi, tra i quali spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khruščёv, Ernesto "Che" Guevara, Gheddafi, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.

I tratti del volto, ironia della sorte, facevano assomigliare il «vecchio cronista» (come amava definirsi) ad un uomo mediorientale, in realtà era siciliano. Si dedicò al giornalismo sin da giovanissimo. Dopo la Liberazione, mosse i primi passi al Tempo. La chiamata della Stampa, allora diretta da Giulio de Benedetti, arrivò nel 1963. Da allora Man non lasciò più il quotidiano, per il quale ha raccontato da inviato le principali guerre - lui che era un convinto pacifista - dell’ultimo mezzo secolo. Dal Vietnam, dove era sopravvissuto all’assedio di Camp Kannack, all’Africa, dove era scampato al plotone di esecuzione, e all’America Latina. I suoi reportage, lucidi e appassionati, lo hanno reso «un giornalista d’eccellenza» - così lo ricorda il presidente della Fnsi, Franco Siddi - e al tempo stesso, come sottolinea l’ex direttore della Stampa Marcello Sorgi, «un personaggio mitico». Come mitiche sono le sue interviste ai grandi personaggi della storia del Novecento: da John Fitzgerald Kennedy a Madre Teresa di Calcutta, passando per Gheddafi, Khomeini, Arafat, Shomon Peres ed Ernesto Che Guevara.

Un «giornalista e scrittore di altissimo livello», è il cordoglio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio Saint Vincent alla carriera, che nel 2000 gli è stato consegnato al Quirinale dall’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi. «Un amico e un collega - come lo ricorda Mimmo Candito (audio) - che mancherà molto ai suoi lettori».

da lastampa.it


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Lutto nel giornalismo. E' morto Igor Man

E' morto all'età di 87 anni il giornalista Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella, firma storica del quotidiano La Stampa.

Grande esperto del mondo arabo e islamico Man era nato a Catania il 9 ottobre del 1922. Nel 2000 aveva vinto il premio giornalistico Saint Vincent alla carriera.

La morte di Igor Man, secondo quanto si è appreso, risale a mercoledì scorso. La notizia è stata data a funerali già avvenuti dalla famiglia, secondo quanto disposto dallo stesso giornalista.

Man si è spento per vecchiaia in una clinica romana, dove era ricoverato da alcuni giorni per una banale influenza.

Ignor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella, era figlio di Titomanlio Manzella, esperto di politica estera. È stato una delle firme più prestigiose del quotidiano La Stampa, dove aveva iniziato a lavorare nel 1963 sotto la direzione di Giulio de Benedetti.

Studioso delle religioni e delle società, Man aveva una spiccata sensibilità e competenza per i temi riguardanti il mondo arabo e islamico. Nel 2009 aveva ricevuto il Premio America della Fondazione Italia Usa. Nel 2000 aveva vinto il premio di giornalismo Saint-Vincent alla carriera. In oltre quarant'anni di professione, ha intervistato grandi personaggi, tra i quali spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khruscev, Ernesto Che Guevara, Gheddafi, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.

18 dicembre 2009
da unita.it


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Era Nato a Catania 87 anni fa

È morto Igor Man, grande firma e appassionato del mondo arabo

La Federazione della stampa: testimone di un secolo, un giornalista eccellente, inviato nella cronaca e nella storia


MILANO - È morto Igor Man, uno dei più noti giornalisti italiani. Nato a Catania 87 anni fa, vero nome Igor Manlio Manzella, era figlio del giornalista e scrittore Titomanlio Manzella e di una nobildonna russa. Studioso delle religioni e appassionato in particolare di mondo arabo e Medio Oriente, ha lavorato al quotidiano La Stampa fin dal 1963, quando era direttore Giulio de Benedetti. Ha intervistato personaggi simbolo del Novecento, come John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khrusciov, Che Guevara, Gheddafi, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.

OPERE E RICONOSCIMENTI - Le sue opere: «Diario arabo. Tra il serio della guerra e il sacro del Corano» (Bompiani, 2002), «L'Islàm dalla A alla Z. Dizionario di guerra scritto per la pace» (Garzanti, 2001), «Il professore e le melanzane e altri racconti» (Rizzoli, 1996), «Gli ultimi cinque minuti. Cronache con forma di racconto» (Sellerio, 1992). Ha avuto molti riconoscimenti: nel 2000 ha vinto il premio di giornalismo Saint-Vincent alla carriera e nel 2001 è stato insignito del titolo di Grande ufficiale dell'ordine al merito della repubblica italiana dal presidente Ciampi; quest'anno ha ricevuto il premio America della Fondazione Italia-Usa.

NAPOLITANO: IMPEGNO CIVILE - Il presidente Napolitano ha espresso intensa commozione per la morte di Igor Man, definendolo nel messaggio alla famiglia «giornalista e scrittore di altissimo livello professionale e impegno civile». «Ha fortemente contribuito alla formazione di una ben informata e responsabile opinione pubblica sui grandi temi della politica internazionale e dell'evoluzione mondiale - scrive Napolitano -. Restano incancellabili nella mia memoria le occasioni di incontro che, in modo particolare negli ultimi anni, mi hanno permesso di cogliere la sempre straordinaria vitalità del suo pensiero e di constatare la profondità del nostro comune sentire».

I FATTI PRIMA DI TUTTO - Franco Siddi, presidente della Federazione nazionale della stampa, lo ricorda così: «Era il testimone di un secolo, un giornalista di eccellenza, un grande inviato nella cronaca e nella storia di un mondo vissuto e conosciuto in profondità. I fatti prima di tutto, raccontati con sapienza avendone prima penetrato tutti i risvolti, affinché chiunque potesse avere accesso vero anche alle vicende più complesse di geopolitica, di politica internazionale, di cronaca. Comprendeva subito come anche episodi che per taluni potevano apparire secondari fossero destinati a incidere profondamente nel corso della storia. Eppure è rimasto sempre radicato alle sue terre: la Sicilia di nascita, Torino di adozione, l'Italia. Oggi lo ricordiamo con ammirazione».


18 dicembre 2009
da corriere.it
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