LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => PERSONE che ci hanno lasciato VALORI POSITIVI => Discussione aperta da: Admin - Agosto 02, 2007, 05:44:44 pm



Titolo: IGOR MAN
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2007, 05:44:44 pm
2/8/2007 (9:14) - C'ERA UNA VOLTA...

Così provammo a uccidere Jfk
 
Un'immagine dell'attentato al presidente Kennedy, il 22 novembre del 1963.
 
Dallas 1963: pochi giorni dopo l’attentato tre giornalisti ricostruiscono gli spari di Oswald

IGOR MAN


Il 22 di novembre dell’anno di grazia 1963, a Dallas, ammazzarono John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Quel delitto «sconvolse il mondo». Radio Mosca, data la notizia, annullò tutti i programmi irradiando musica classica. Aveva 46 anni il presidente cattolico che un po’ tutti chiamavamo Camelot immaginando la Oval Room come una replica postmoderna della Tavola di Re Artù. Quarantotto ore dopo il delitto, attribuito immediatamente a «un poco di buono», Lee Harvey Oswald, un ex marine, chi scrive arrivava a Dallas. Mi aspettavo una città in gramaglie mentre, invece, quegli abitanti (se non tutti senz’altro la maggioranza) lietamente si affannavano a preparare il Thanksgiving Day, il giorno del ringraziamento. Il Carousel Lounge, il locale di Ruby, sì, l’assassino di Oswald, non accettava più prenotazioni, tutti i tavoli esauriti diceva un cartello. In verità Dallas era squassata da un isterico vento di follia: c’era chi non si curava di nascondere la gioia per la morte di JFK, colpevole, agli occhi dei neoconservatori texani d’essere un «bostoniano comunista», una «testa d’uovo» wanted per tradimento come affermavano manifesti che ritraevano, di fronte, di profilo, il presidente, in simbolica foto segnaletica. C’era chi manifestava composto dolore, come il signor John L. Block. Nel punto in cui Kennedy è stato ucciso, ai lati della strada che va in discesa, si aprono due verdi prati: sull’erba la pietà di pochi ha improvvisato un sacrario. Accanto a una corona di fiori, un mucchietto di lettere. Ne ricordo una: «...gli Stati Uniti hanno perso il Presidente della Nuova Frontiera, io ho perduto mio fratello». Firmato John L. Block. Il quale signor Block ha avuto il torto di adoperare la carta intestata, con l’indirizzo eccetera. «Ignoti» hanno bussato alla sua porta, si sono fatti aprire per infine massacrarlo di botte. Ricordo come fosse oggi quanto mi disse un costernato reverendo metodista, il dottor Jimmy R. Allen: «Se è vero che il delitto poteva accadere dovunque, è un fatto come nessuno si sia sorpreso che sia avvenuto a Dallas». Ma perché il Vecchio Cronista scrive di JFK quarant’anni «dopo»? Vediamo.

Ai primi di luglio l’agenzia Ansa ha dato rilievo a un singolare test eseguito a Terni dal Comando logistico dell’Esercito. Quegli specialisti dovevano esaminare un glorioso fucile da guerra italiano: il Carcano modello 91,38 matricola C2766, calibro 6,5 prodotto dalla Regia fabbrica d’armi di Terni. E ciò per accertare se l’assassino diremo ufficiale (Oswald) di JFK aveva sparato dal sesto piano del deposito della Libreria pubblica di Dallas, da un’altezza di ottanta metri, esattamente tre colpi; uno di essi fece saltare la calotta cranica di Camelot. Il verdetto di Terni differisce dalle conclusioni del «Rapporto Warren» secondo il quale Oswald agì da solo senza nessun aiuto: alone and unaided. A codesta conclusione giunsero anche i tecnici del Fbi, dopo una ricostruzione animata sul percorso fatale della decappottabile di Kennedy. La stampa italiana aveva a Dallas tre inviati: Virgilio Lilli del Corriere della Sera, Auro Roselli del Giorno e chi scrive.

Il metodo di indagine del Fbi non ci convinceva, non tanto per la conclusione quanto per le sue modalità. Una sera, dopo la oramai abituale discussione sui tempi e i modi della mitica polizia federale, convenimmo che se un esperimento si doveva fare, tanto valeva eseguirlo sparando senza cartuccia con un foto-fucile in modo che ad ogni colpo del percussore scattasse un fotogramma. Il punto indicato sulla fotografia dalle coordinate del mirino avrebbe corrisposto al colpo sul bersaglio. Auro Roselli, figlio di un inventore, riuscì a trovare l’arma, ad adattarle un mirino telescopico a quattro ingrandimenti, una batteria e una Nikon con un potente teleobiettivo che riproduceva l’ingrandimento del mirino, badando ad allineare quest’ultimo con l’obiettivo (da 180 millimetri) della macchina fotografica. Per eseguire l’esperimento che era diventato, per noi tre, una vera e propria scommessa professionale non bastava la Nikon adattata da Roselli con perizia e pazienza rabbinica. Occorreva l’arma, occorreva soprattutto il permesso dei «federali». Presi di petto un antico amico, l’avvocato Carr Collins: «L’America è o non è il paese della libertà? - gli dissi -, fateci fare ’sto esperimento che può aiutare la commissione d’inchiesta, vai a sapere. Vogliamo soltanto dare una mano», conclusi. Carr ci fece avere il permesso di entrare in quel «colossale corpo del reato» ch’era il deposito di libri. Nessun problema per l’arma. Negli Stati Uniti, in quel fosco novembre le statistiche stimavano ci fossero in giro cinquanta milioni di armi da fuoco. Comperare un fucile come quello che ci serviva fu facilissimo. Al 2108 della Elm Street c’è una scritta: Guns. Nel negozio di Billy Hodge, Roselli trova il fucile che ci serve: un Terni 38, calibro 7/35 simile al Carcano calibro 6/5 dell’assassino. Costa 14 dollari e 95 cents. Il signor Hodge scrive su di un registro il numero di matricola, S.5297, la data della vendita e domanda a Roselli come si chiami. Lui potrebbe dare un nome qualsiasi, magari Giuseppe Garibaldi, ma preferisce far le cose a modo. «Se vi serve poche ore, dopo il lavoro riportate pure il fucile. Ve lo ricompro per dieci dollari: mio figlio compie dieci anni a giorni, mi piacerebbe fargli un così bel regalo», dice l’armaiolo.

Ora racconterò il nostro «esperimento»: sulla scorta degli appunti che conservo in una cartella sulla quale, allora, scrissi CAMELOT. Dopo essere andato su e giù con l’ascensore della memoria, adopererò il tempo presente. Nel tentativo di attualizzare la cronaca della tragedia «che sconvolse il mondo».

Col fucile in bella mostra percorriamo un po’ di strada sino a un posteggio di taxi. Nessuno ci bada, nel Texas puoi camminare armato fino ai denti, nessuno ti dirà niente; guai però a portare una pistola nascosta addosso. In taxi sino al 3121 di Rooth Street per ritirare dal signor Jim McCannon la Nikon arrangiata secondo le indicazioni di Roselli. Dieci dollari di spesa. Imbarchiamo pure il giudice di pace Charlie T. Davis, campione di tiro indicatoci dal Times Herald. Giunti al deposito saliamo al sesto piano: noi giornalisti, il signor Truly, guardiano del deposito, tre uomini del Secret Service, un agente del Fbi. Ed eccoci nella vasta soffitta che corre su tutta l’area del palazzo-libreria. Sette finestroni si aprono lungo la facciata esterna; da quello che fa angolo sulla sinistra rispetto alla strada, l’assassino sparò. Oswald piazzò qualche pacco di libri in modo da risultare defilato e appoggiò l’arma proprio su questi libri. Libri sacri, Cristo in croce sulla copertina (il caso è un regista dalla mano pesante, a volte).

Il giudice prende posto seguendo le indicazioni dell’agente federale, io preparo il magnetofono che registrerà la cadenza dei colpi. Da qui, a ottanta metri, si domina ampiamente la Houston Street, volgendo lo sguardo a destra si inquadrano perfettamente i sessanta metri fatali. Roselli ha noleggiato una convertibile rossa e si è portato appresso Nick buon tiratore, come riserva: farà da autista. Accanto a Roselli che siederà al posto di JFK, Virgilio Lilli. È il 4 di dicembre del 1963, una giornata fra il lusco e il brusco come quella in cui si spense nel mondo la luce della democrazia. Accesa da un presidente cattolico.

Allorché la convertibile rossa guidata da Nick con a bordo Roselli e Lilli imbocca la Houston Street, inopinatamente quassù tutti entriamo in tensione. Ecco, la convertibile ricalca il percorso della morte ed è angoscioso osservare «quella» automobile dal punto di vista, nel senso esatto della parola, dell’assassino. Oswald doveva disporre di nervi implacabili se fino all’ultimo succhiò un osso di quel pollo che aveva mangiato in attesa della preda per poi sputarlo e sparare. Adesso è un giudice di pace a sparare: per finta, come in teatro.

Come più tardi ci diranno le fotografie della Nikon incorporata nel fucile, il primo colpo sfiora la tempia destra di Lilli, e finisce nella spalla di Nick al volante; il secondo colpo sfiora di cinque centimetri la testa di Roselli e colpisce il cruscotto; il terzo passa al di sopra, un po’ sulla sinistra, dalla testa di Lilli. Il tutto nello spazio di sei secondi e mezzo con la convertibile a 25 km l’ora. Vale il terzo tentativo, i primi due essendo andati a vuoto: per l’eccessiva velocità della convertibile, per l’emozione del tiratore oltre tutto non pratico dell’arma.

Se il risultato dell’esperimento (nelle condizioni descritte e con lo svantaggio che il peso della Nikon e di una batteria applicate al fucile con rigidi tiranti di fil di ferro han costruito per il tiratore) è quello detto sopra, è lecito affermare come per chi conosceva l’arma (Oswald, che inoltre sparava con un modello più veloce) sia stato possibile, in cinque secondi e mezzo far centro due volte, sia pure con una forte dose di fortuna. In fatto l’assassino aveva cinque secondi e mezzo per sparare non tre ma due colpi: il primo infatti, era già in canna.

Qui finisce il racconto del Vecchio Cronista. Chi volesse saperne di più legga l’intrigante pezzo di Tessandori uscito sulla Stampa del 30 di giugno e ancora il lucido intervento sempre sulla Stampa (del 4 di luglio), dell’americanista Claudio Gorlier.

P.S. Cari amici americani mi dicono che nel suo ultimo viaggio JFK aveva messo in valigia i versi di Whitman. Sottolineando con la matita copiativa questi versi. Un presagio, forse, dell’imminente buio.

«Presso la riva dell’Ontario azzurro / un fantasma dal sacro volto / mi venne vicino / mentre meditavo sulla pace tornata / sui morti che non tornano più. / Cantami, disse, il Poema dell’America / l’inno della vittoria / e prima di andar via / cantami le doglie della democrazia». (Democrazia, predestinata vincitrice, eppure da ogni parte sorrisi ipocriti di traditori, e morte e infedeltà ad ogni passo).

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN - Quando Sadat distrusse il Muro tra Egitto e Israele
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2007, 11:57:39 am
19/11/2007

Quando Sadat distrusse il Muro tra Egitto e Israele
 
L'erede di Nasser in Israele, la speranza di convivenza non fu mai così forte

IGOR MAN


Il giorno in cui scattò la rivolta degli «ufficiali liberi», il colpo di stato che sfrattò re Faruk, Sadat fu l’unico dei congiurati a non esser sulle barricate. Andò al cinema con la graziosa moglie ed apprese del vittorioso colpo di stato a cose fatte. Questo perché Nasser, il vero animatore della storica congiura, s’era raccomandato di non farne parola con Anuar, sì con Sadat, per scongiurare il pericolo ch’egli parlasse un po’ troppo mandando all’aria il piano che avrebbe segnato «il nuovo destino». Spaccone, compiaciuto della propria abilità dialettica, niente affatto stimato dai suoi compagni, Anuar Sadat tuttavia venne nominato vice presidente della Repubblica. Quando Nasser morì e si doveva presentare al popolo il suo successore, gli ex compagni della congiura che depose Faruk convennero sulla opportunità di «non sbranarsi» lasciando a Sadat la carica di presidente. Convocato al ministero della Guerra, gli dissero che sarebbe stato lui il successore del grande Gamal. «Ma non avrai il 100 per cento dei voti, dovrai contentarti di quel che stabiliremo». Sadat accettò senza fiatare. Lo avevano battezzato bikbassci sah (signorsì colonnello) per il suo attaccamento al grande raiss, quel Nasser che amava sfotterlo. Epperò Sadat non è il grullo che sembra (o vuole apparire). Acceso nazionalista, legato al poderoso movimento dei Fratelli musulmani, ha un ruolino di marcia notevole: vi spiccano azioni rivoluzionarie antibritanniche, una formazione storica che esalta la sua oratoria capace di trascorrere dall’arabo delle persone colte a quello da marciapiede, parlato dal popolino. Ancorché assente nelle ore del putsch, Sadat sarà lui ad annunciare alla radio la deposizione di re Faruk. E sarà lui a dare la notizia della morte di Nasser, il bene-amato

Dalle molte letture, dall’esperienza di vice presidente, Sadat ha ricavato «una lezione di vita» drammatica. «Ho sempre pensato che l’Egitto deve vivere e crescere e prosperare secondo le regole del villaggio. L’Egitto sarà un grande villaggio quando nessuno sarà più deluso e cioè quando la pace feconderà i campi»: così mi disse Sadat quando, grazie al caro Lubrano, ebbi modo di avere un lungo colloquio con lui nella sua residenza di Giza, al bordo del Nilo. Erano i giorni fatali seguiti alla «svolta»: la cacciata dei «consiglieri sovietici». La Storia ha i suoi misteri e infatti un po’ tutti, esperti e no del Medio Oriente, pensarono che la cacciata dei sovietici fosse il corollario d’un golpe abortito. Nel tempo abbiamo appreso che «al diavolo el Russ» era la prima pietra di quell’ «edificio magico» che Sadat voleva per il suo villaggio: «il Palazzo della Pace». Sadat spiegò a Kissinger che confidava in lui e dunque negli Stati Uniti, nell’Occidente «per costruire un Egitto moderno». Da qui la sua coraggiosa apertura: la politica dell’infitah, della porta aperta al capitale straniero. (L’infitah è la prima colpa che gli islamisti suoi assassini gli contestano. La pace con Israele è solo la terza «accusa»).

Ma il sogno può diventar realtà, l’Egitto potrà emanciparsi quando l’unica preoccupazione dell’esercito sarà quella di fare ore e ore di «ordine chiuso» invece che di addestramento al combattimento. Insomma, per edificare il Grande Villaggio c’è bisogno d’un incrollabile pilastro: la pace col nemico di sempre, con Israele.

Trent’anni fa, raccogliendo la sfida di Begin, Sadat fece arrivare il messaggio che cambia la Storia: «Verrò da voi e insieme parleremo della pace» fa sapere a Rabin, a Golda Meir, alla leadership israeliana. Trent’anni fa, all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, quando il quadrimotore che porta Sadat in quella che per gli arabi era terra infidelium, si arresta, la delegazione israeliana «trattiene il fiato». Passano sette interminabili minuti, finalmente s’apre lo sportellone e il volto scuro di Sadat viene investito dal sole. Quel sole che Golda Meir aveva sognato, il sole della libertà e della speranza. Della convivenza. Nella sua mitica cucina, nel locale gemütlich della sua casa spartana, là dove avevano luogo le più importanti riunioni del governo, Golda racconterà a un giornalista italiano che «vedere Sadat, rendermi conto che era venuto in Terra di Israele fu una emozione terribile».

Sappiamo dalla Storia e, più in abbondanza, dalla cronaca che la pace siglata da Israele ed Egitto non è stata, come era nei voti, l’anticamera d’un pacifico regolamento totale in Medio Oriente. E vediamo giorno dopo giorno che Annapolis, cioè la conferenza di pace promossa dagli Stati Uniti per la metà di dicembre, rischia di essere una replica degli infiniti tentativi (occulti e palesi) di pace esercitati in cent’anni.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN. Fuoco a Nassiriya 5 anni dopo
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2008, 06:58:48 pm
29/3/2008
 
Fuoco a Nassiriya 5 anni dopo 
 
IGOR MAN

 
Nassiriya: morirono in diciannove, laggiù, dove non crescono fiori per i morti. Il vento che viene dal deserto, quello lontano, s’è mangiato ogni segno della tragedia: diciannove soldati d’Italia, il fiore della meglio gioventù, mandati a dar ristoro a gente disperata, uccisi da quella stessa gente intossicata dall’odio, dall’ignoranza. Era il 12 di novembre dell’anno di grazia 2003 quando, ad ore 10,40 (locali), un commando di guerriglieri iracheni attaccò la base italiana con un blitz subitaneo. Nassiriya: cinque anni dopo, questo conglomerato di edilizia del regime e di baraccopoli miserabile torna nella cronaca della guerra irachena. Ma sotto braccio alla pietà, al rinnovato dolore, al dubbio che ci scava feroce («valeva la pena di mandarli a morire in Iraq?»), si profila «una svolta». A combattere, a Nassiriya, contro i miliziani dell’esercito del Mahdi (profeta), l’agguerrita formazione (ribelle) sciita guidata dal fosco imam Moqtada Sadr non sono i GI né altri militari stranieri. Certo, gli americani assicurano la copertura aerea, ma a sparare, a combattere contro i «ribelli» non sono stranieri venuti da oltremare bensì iracheni. Non importa se sciiti o sunniti: iracheni e basta. È dunque lecito parlare di «battesimo del fuoco», dell’applicazione, sul terreno, del cosiddetto Surge voluto dal generale americano Petraeus. Dopo la fin troppo facile vittoria («alla Patton») dei GI, gli Stati Uniti, presuntuosamente ignorando non pochi «precedenti» (l’Iran, ad esempio) ovvero leggendoli alla rovescia, compirono due errori. Macroscopici.

Sciolsero, si può dire dall’oggi al domani, l’esercito di Saddam col risultato di creare un’armata Brancaleone affamata, disperata. Fatalmente destinata a diventare carne da cannone degli «insurgenti» caduti nella sciabica lanciata dallo sceicco della morte, Osama bin Laden. Di più: verosimilmente per ignoranza, gli americani sciolsero altresì, senza esitare, il Baath, il partito unico dell’Iraq. Ignoravano, gli americani, che quel partito non aveva più nulla di ideologico perché spersonalizzato da Saddam Hussein. Ma il Baath era la spina dorsale degli affari correnti iracheni: regolava le scuole, i ministeri, insomma mandava avanti la macchina-paese. Che con lo scioglimento del partito unico, fuse. Saddam fu un dittatore truce aggravato da una piramidale presunzione. Un uomo senza sentimenti, fiero però d’aver imparato a sparare con una Beretta all’età di otto anni. Governò con la carota (regali in valuta ai capiclan) e il bastone (la tortura, la forca) sbandierando un paese di faticatori come di rado se ne vedono nel mondo arabo. Pochi lo amavano ma in molti lo rispettavano. I vincitori lo trattarono come un cialtrone vagamente rimbecillito. Nessuno, tra i facili vincitori del dittatore, pensò di interrogarlo esistenzialmente. Ma bastava che gli americani avessero riflettuto su quanto, e come, fece Khomeini dopo la sua vittoria, «a mani nude» sul potente esercito dello Scià. Il vecchio imam epurò i vertici delle forze armate lasciando salva la struttura militare: il suo capolavoro fu la «riconversione» della Savak, la mostruosa polizia segreta. Le cambiò nome e fu tutto. Quel «tutto» che avrebbe consentito a Khomeini di soffocare ogni dissidenza, e last but not least, di resistere validamente alla guerra scatenata da Saddam. In Iraq, a distanza di cinque anni di guerra impropria, è venuto il Surge in forza del quale a Nassiriya i miliziani riciclati dal buon senso del proconsole americano stanno combattendo, in queste ore, e con successo contro i «ribelli» sciiti del certamente carismatico imam Moqtada Sadr. Il «piccolo Khomeini». Cinque anni dopo quattromila GI caduti in combattimento ma soprattutto nelle imboscate, dopo disastri dovuti a una presunzione che rischia di somigliare a una sorta di «razzismo psicologico», il presidente degli Stati Uniti può legittimamente affermare «questo è un momento determinante nella storia dell’Iraq libero. Ce ne sono stati altri, ma questo è decisivo». Ancorché comprensibile, l’euforia di Bush lascia tuttavia largo margine all’incertezza. La crisi che la spedizione americana ha provocato per gli errori (che sappiamo) della Casa Bianca non si risolve certo col sorgere d’un esercito regolare iracheno. È un primo, timido passo verso un minimo di normalità. Occorre guardare oltre la «mezzaluna sciita» (Iraq, Iran, Libano, Siria) prima che sia troppo tardi. Occorre fermarsi sulla crisi più antica e più urgente: il conflitto israelo-palestinese. Nessuna riconsegna dell’Iraq al disgraziato popolo iracheno basterà a smorzare l’incalzante incarognirsi della crisi mediorientale. La pace, ammoniva quel mezzo Cavour-Garibaldi che fu Ben Gurion, non si può fare da soli. «La pace si fa con i nostri vicini arabi». Realizzare la pace, una pace che veda il sacrificio del vinto ma anche del vincitore, comporterà in forza dell’«automatismo storico» del quale parlava il Soldato della Pace, Isacco Rabin, una lunga stagione benefica per i figli dei nostri figli. Per i quali, anzi: anche per i quali, il ricordo di Nassiriya si intreccia con la speranza e con l’amore per la meglio gioventù.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 09:55:37 am
26/5/2008 - LIBANO
 
Il generale dichiara la pace
 
IGOR MAN

 
Michel Suleiman è stato eletto presidente del Libano. «Presidente di consenso»: durante una crisi che sembrò più volte degenerare in guerra civile, questo soldato prestato alla politica è riuscito a tenere le forze armate (un nutrito melting pot: cristiano-maroniti, sciiti, sunniti, greci-ortodossi) fuori della mischia. Già nel 1959, al tempo d’una guerra intestina da boys scout rispetto all’ultima costata 150 mila morti e immani rovine, fu un militare, il generale Shehab, a far da nostromo nelle perigliose acque libanesi, assicurando al Paese dei Cedri un lungo periodo di pace.

I libanesi sono fumantini, ma l’uso esasperato delle armi, causa di non poche disgrazie, non è mai riuscito a spegnere la loro anima democratica. Il Libano è l’unico paese arabo dove il parlamento è una vetrina. E dove il tanto ridicolizzato «amor di Patria» ha un senso.

Ed è, appunto, per «salvare il Libano» che i notabili della maggioranza filosaudita han dovuto ingoiare un rospo invero indigesto. L’accordo raggiunto a Doha (Qatar) è infatti un compromesso che gratifica quel partito di Dio (Hezbollah) ch’è, poi, uno Stato nello Stato. Hezbollah ha strappato il potere di veto nel futuro governo di unità nazionale, entrando così nell’esecutivo. La maggioranza s’è dovuta contentare del diritto di nominare il premier (sarà Saad Hariri nel caso di mancata riconferma di Fouad Siniora).

Il ministero dell’Interno a un «uomo di fiducia» del neo presidente. Un contentino.

Il compromesso raggiunto nel Qatar ha visto i fuochi d’artifizio del doppio linguaggio arabo accendersi nell’incerto cielo mediorientale: «Concordiamo su tutto ciò che i fratelli libanesi han concordato», ha detto il ministro degli Esteri siriano, mentre l’Iran ha addirittura espresso «immensa soddisfazione» per una intesa «che assicura “un futuro radioso” al popolo libanese». In fatto la maggioranza libanese paga un copioso prezzo politico per una «pace interna» cui nessuno crede. Certo la normalità ha un prezzo, tuttavia quello pagato dagli orfani di Siniora è un prezzo crudele, aperto a mille ricatti.

A bilanciare il patto leonino imposto al Libano dovrebbe - dico dovrebbe - essere l’incandescente notizia annunciata, sempre a Doha, l’altra notte. E cioè: Israele e Siria si parlano. E parlano di pace. Grande. Sempreché non ci si trovi dinnanzi alla solita ammuina. Ma questa volta, osservano i guru di Zamalek, c’è un elemento nuovo: la mediazione della Turchia. Ankara, Paese islamico vestito all’europea, si distingue nel cosiddetto arco della crisi per una coraggiosa sua specificità. Ankara è in buoni rapporti con Israele pur mantenendo eccellenti relazioni con i Paesi arabi che contano. Ha un piede in Europa grazie al realismo d’una classe dirigente che rispetta, onora l’Islàm senza scivolare per altro nel confessionalismo o, peggio ancora, nel fanatismo.

Che, poi, sia troppo presto per esultare come fa il primo ministro israeliano è un altro discorso. Una stampa veramente libera, seria, qual è quella israeliana mostra più prudenza del solito, non mancando di domandarsi se l’euforia del premier non miri a distrarre l’opinione pubblica dai suoi impicci giudiziari.

I finora misteriosi delegati di Israele e della Siria torneranno a riunirsi ad Ankara «prossimamente». Entrambi vogliono il Golan. Gli israeliani hanno trasformato quelle alture in un paradiso agreste, un affascinante spazio per l’agroturismo. I siriani in segno di dura protesta han voluto che Kuneitra diventasse una sorta di rivendicazione totale lasciandone in piedi soltanto le macerie della guerra dei Sei giorni. Ricostruiranno Kuneitra solo quando tornerà alla Siria, come regolarmente il presidente Assad diceva a Kissinger. La Siria accettò a suo tempo la famosa risoluzione 242 dell’Onu, ma nella versione in lingua francese si parla di ritiro di Israele «dai» territori (occupati) mentre in inglese è detto «from territories». A complicare una «situazione» drammaticamente intricata spunta infine il protagonista del giorno: il petrolio. Lungo le coste libanesi ci sarebbero «almeno otto miliardi di barili di greggio mentre lungo la dorsale del vulcano sottomarino Eratostene ci sarebbe un immenso giacimento che riguarderebbe anche le acque territoriali di Siria, Cipro, Israele». Di più: una nave oceanografica americana ha rilevato, a Nord di Gaza, fuoruscite di gas e il governo di Israele ha stanziato per le ricerche oltre un miliardo di dollari: è persuaso che ci siano «grandi quantità di metano».

È una buona notizia? Sì, in teoria però, giacché gas e petrolio sono il nuovo «oro nero». E nero è il colore del lutto nella Palestina occupata. Gaza fa pensare a una bomba a tempo sicché, paradossalmente, mentre si raccolgono «buone notizie» con visibili buone speranze (grazie alla Turchia di Erdogan), al tempo stesso cresce il timore d’un blitz israeliano nella «striscia» da dove, implacabilmente, missili islamici colpiscono inermi villaggi israeliani. Ne viene che la coraggiosa mediazione della Turchia rischia la sorte d’una goccia d’acqua nel deserto dell’odio.

 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2008, 11:22:33 am
30/5/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Philby, la spia venuta dal caldo
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Beirut: ovvero una città assolutamente diversa dalle altre. Araba ma anche fenicia, musulmana ma altresì cristiana. Orientale ma insieme occidentale. Un mix di Zurigo e di Parigi. E ancora una superba università americana, melting pot di ingegni e un grande albergo veramente «grande»: il Saint Georges. Tutte le città del mondo hanno il loro albergo-simbolo. A Beirut c’è il Saint Georges. Sorge sulla leggendaria corniche, piantato, si direbbe, nel mare dei Fenici e agganciato alla terra da una eccessiva piscina salmastra. Principi e avventurieri, uomini e mascalzoni hanno, nel tempo, abitato le camere del Saint Georges.

Allorché il vaso di Pandora chiamato Libano si ruppe (nell’aprile del 1975), il Paese dei cedri assaporava un livello di vita niente affatto mediorientale e il sistema, forse, più democratico della regione in una con Israele. C’erano più banche, giornali e partiti che non in Egitto, quindici volte più popolato. La guerra civile, una balbuziente tregua dedicata alla ricostruzione, la cacciata dei siriani (uno Stato nello Stato), lo strapotere di Hezbollah, la «piccola guerra» spenta dalla sospirata elezione del presidente della Repubblica, han visto i libanesi combattere contro gli israeliani, contro i siriani, contro i palestinesi, contro se stessi. Ma ora, stanchi di produrre cadaveri, han ripreso a gestire ricchezza per produrre benessere.

E qui va detto come i libanesi-bene non abbiano mai smesso di frequentare (da maggio a ottobre) la piscina del Saint Georges. Quel luogo è stato sempre una sorta di santuario laico. Oggi, visto da lontano, il Saint Georges sembra intatto. Ma da presso, scavalcati i «cippi» delle autobombe assassine, levando lo sguardo in alto ci si accorge del disastro. Una mazzata. Il Saint Georges è sano di fuori e cariato di dentro. E’ come un albero cavo. Le finestre sono orbite vuote, il Saint Georges è un assurdo colosseo dove i gladiatori han sbranato le belve e poi son fuggiti, chissà dove. E tuttavia i libanesi non vedono (non vogliono vedere?) quella testimonianza d’una lunga follia. Nei loro occhi è rimasta, intatta, l’immagine del Saint Georges com’era. E ciò fa sì che essi giurino che un giorno, non troppo lontano, a Dio piacendo, il «loro» albergo-istituzione invece di ospitar calcinacci e pipistrelli, di nuovo alloggerà principi e scienziati, avventurieri e artisti e, perché no?, quei personaggi dalle molte vite che sono e sempre saranno le «spie internazionali». Già, lo spionaggio. Fu nel 1958, al tempo della prima guerra civile che il Vecchio Cronista conobbe (ovviamente al Saint Georges) l’onorevole scolaro Harold Adrien Russell Philby, Kim per gli amici. Lavorava per l’Economist e per l’Observer; disponibilissimo ci spiegava il perché della guerra civile fomentata da Nasser e, per conseguenza, ben vista da Mosca. «Il pericolo sovietico è immenso», non si stancava di ripetere.

La «spia del secolo» lasciò Beirut esattamente trent’anni dopo il suo reclutamento nei ranghi del Css, cioè il Kgb. Dal caldo Kim passò al freddo con imperturbabilità tutta inglese. Kim aveva 51 anni quando la sua fuga a Mosca esplose come una pistolettata in chiesa. Morì, pressoché dimenticato, nel 1988, in un ospedale sovietico riservato alla nomenklatura. La sua seconda patria (o quella vera?) gli dedicò un francobollo con la scritta in cirillico: «Agente segreto sovietico Kim Philby (1912-1988)». La fauna umana incontrata in Libano, il colosseo levantino ch’è il Saint Georges in lunga attesa della rinascita suggeriscono un passo dal Vangelo: «Non potete servire e Dio e Mammona» (Matteo, V, 3-4).
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN. "Val", la dama della pace in terra santa
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:53:44 am
27/6/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
"Val", la dama della pace in terra santa
 
 
 
IGOR MAN
 
Prima di precipitare nella notte, Gerusalemme sembra sfinirsi in un tramonto interminabile. Le sue pietre s’accendono d’una luce personalissima: rischiara vecchi e fanciulli assumendo il colore del sangue. Sangue romano, bizantino, zoroastro, musulmano, cristiano, curdo, israeliano... Quella del tramonto è un’ora «definitiva» per andarsene sottoterra, diceva Valentine Vester, «Val» per gli amici. È morta tre settimane fa, lucidamente. Aveva 96 anni perennemente sconfitti dall’ironia d’un sorriso aristocratico. Con lei va sottoterra un lacerto di Israele seppellendo una vecchia signora ostinatamente in attesa di quel complicato Godot ch’è la pace in Terra Santa. «Val» non era soltanto la rigorosa gerente-padrona dell’American Colony, «l’albergo della pace» dove nella camera numero 16, vasta, luminosa, discretamente si incontrarono gli emissari israeliani e palestinesi aprendo la stagione degli «accordi di Oslo». «Val» era una dama laica (non laicista) che fino a ieri ha raccolto segnali di pace, molti da decifrare, tenendo i giusti contatti con arabi e israeliani, con la «fede bambina» di una monaca dedicata alla splendida utopia che fu di Rabin, che fu di Arafat.

L’American Colony era in origine il «giardino» della famiglia Husseini (sì, il gran Mufti) che lo vendette a una coppia di «millenaristi», i coniugi Stafford, per farne una casa-rifugio aperta a ebrei e palestinesi poveri. A cavallo della seconda guerra mondiale l’American Colony diventa una pensione a gestione famigliare. Ma, posta sulla linea verde che un tempo separava la parte israeliana di Gerusalemme da quella araba, diventò presto il rifugio di personaggi davvero storici: da T. S. Lawrence, il mitico Lawrence d’Arabia, a Glubb Pascià e dal creatore della Legione beduina al generale Allenby, il conquistatore di Gerusalemme il 9 dicembre 1917.

La guerra dei Sei giorni riunifica Gerusalemme consacrando il culto della pace vegliato all’American Colony da una vestale bella e tenace, raffinata intenditrice di tè, instancabile Penelope anglopalestinese. È morta spogliata oramai da ogni speranza immediata di pace ma agli amici-nemici, sino all’ultimo suo giorno, durante il tè delle cinque, nel «giardino delle mogli», fra le palme e gli aranci, «Val» non ha fatto che ripetere: «Quando la smetteranno di odiarsi e tutti saluteranno infine la grande stagione della pacifica convivenza, quel giorno chiederò un permesso speciale per essere con voi, tra di voi, amici. Finalmente felice».

Il Signore Iddio divise tutta la bellezza in dieci parti: ne consegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Poi divise anche il dolore in dieci parti e di nuovo ne assegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Questo apprendiamo da una parabola talmudica e questo dovrebbe aiutarci a comprendere (forse) il destino storico di una città particolare che vive da sempre una giornata particolare. E c’è chi sostiene che la parabola talmudica «è» la vera storia di Gerusalemme «incisa nella pietra dai vivi, dai morti» meglio di quanto non ce la rappresentino i Salmi quando esaltano Jerushalaim «città della pace». (Ipse dixit «Val»).

E qui sia concesso al Vecchio Cronista di ricordare Georges Jacob Koumseyeh e la sua voce baritonale che recava un felice «bene arrivato» - «Kifal hak habibi?», come va, carissimo? - ai clienti vecchi e nuovi. Fu lungamente il portiere dell’American Colony e di lui palestinese cristiano, padre di sette figli e nonno di diciassette nipoti, mortificato sadicamente ai posti di blocco fitti sui dieci chilometri dall’albergo alla casa e viceversa, di lui ricorderò questo desolato interrogativo: «Ma allora, come fa Mrs Val a credere nella pace in Terra Santa?».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN. Se Teheran blocca la via del petrolio
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2008, 06:38:32 pm
29/6/2008
 
Se Teheran blocca la via del petrolio
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
L’Iran, se attaccato, reagirà bloccando la vena jugulare del petrolio che rifornisce l’Occidente. Così Mohammed Ali Jafari, il comandante in capo dei pasdaran, la Guardia rivoluzionaria della Repubblica islamica. Jafari è uomo di mano, potente, i pasdaran sono veramente «espressione del popolo iraniano». Le milizie, partorite dalla presa del potere di Khomeini, sono uno dei punti di forza del bombastico Ahmadinejad, il Presidente voluto dalla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei. Per entrambi esiste una «priorità»: la cancellazione dalle mappe di Israele. A Teheran, nelle segrete stanze della leadership in turbante, è andata maturando la convinzione di un attacco («piuttosto prossimo») in forma di blitz a largo raggio su obiettivi «sensibili» iraniani. La stampa di regime e la gente del bazar, ancorché su posizioni senz’altro opposte, considerano ineluttabile una aggressione che vedrebbe impegnati, in primo luogo, gli Stati Uniti e Israele finendo con il coinvolgere un po’ tutti i paesi del cosiddetto «arco di crisi» mediorientale. Non è la prima volta che l’Iran mette in guardia «il complice di Israele», minacciando sfracelli se aggredito, ma si era sempre trattato di minacce generiche. Questa volta la mullahcrazia è stata prodiga di dettagli: dopo aver rammentato agli «usurpatori» della Terra Santa che Israele è «oramai alla portata dei missili della Repubblica islamica», Jafari ha fatto un terribile elenco dei disastri che colpirebbero i paesi della regione in caso di «attacco nemico». L’Iran non si farà trovare impreparato, ha più volte ripetuto Jafari: lo spettro di una serie di ineluttabili aumenti del greggio che metterebbe in ginocchio amici e nemici potrebbe rivelarsi un efficace deterrente, scongiurando tremendi disastri.

Le cancellerie della regione islamica sono entrate in fibrillazione, gli esperti del Dipartimento di Stato stanno analizzando il testo del discorso di Jafari. Chiaramente il vertice in sottana ha voluto mandare un segnale esplicito ad amici e nemici: i poteri che contano, in primis le milizie popolari, sono con Ahmadinejad. E dunque «il nemico» sappia che in caso di mossa ostile l’Iran bloccherà le vie di afflusso del petrolio (col prezzo in ostinato aumento): sbarrando il leggendario Stretto di Hormuz.

Sempre gli osservatori cairoti fanno notare come le minacciose parole di Jafari tradiscano un «forte nervosismo». A preoccupare la mullahcrazia sono le confermate «trattative» fra la Siria e Israele e, last but not least, la mobilitazione dei paesi mediterranei sollecitata dalla Francia. A Londra i brookers danno blitz e appeasement alla pari. Sarà, in ogni caso, una estate torrida: l’oro nero, il petrolio, tornerà ad essere «la maledizione nera»? Incrociamo le dita.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Tre uomini e il fucile che colpì Jfk
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 12:02:47 am
4/7/2008
 
Tre uomini e il fucile che colpì Jfk
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
È stata l’America profonda, con la sua Corte Suprema, a stabilire, una volta per tutte, che i cittadini degli Stati Uniti hanno il diritto di possedere un’arma da fuoco. Per difesa personale. L’accadimento è storico: siamo all’emendamento del secondo emendamento della Costituzione redatta dai Padri fondatori or è due secoli. In tutto questo tempo gli studiosi si son chiesti se la norma riguardasse i membri di quelle che il secondo emendamento definisce «milizie» (cioè forze armate e di polizia) ovvero potesse considerarsi «diritto costituzionale d’ogni cittadino». I giudici sono nove, la decisione è passata 5 a 4. A scrivere la sentenza è stato il giudice Antonin Scalia: «La Costituzione degli Stati Uniti non ammette divieti assoluti del possesso di pistole a casa e nel loro uso di legittima difesa». Insomma, le armi da fuoco diventano, dopo un secolare dibattito, un diritto dell’individuo come la libertà di culto e di espressione.

È la certezza (o la presunzione) degli americani di vivere nel solco centenario di una Storia unica a provocare una decisione che lascia perplessi non fosse altro perché le statistiche impietosamente denunciano stragi partorite dall’incapacità di difendersi dell’uomo della strada quando il rapinatore lo punta; lascia, poi, increduli la rimozione delle «stragi-bene», opera di ragazzi in età scolare: vedi i massacri di Columbine o del Virginia Tech, con tanti studenti finiti a revolverate da compagni di classe che acquistano armi da fuoco quasi fossero bustine di popcorn. Da sempre il popolo americano, giusti i suggerimenti della Nra (National Rifle Association), ha scelto la libertà di armarsi: do it yourself. A Dallas in quel feroce novembre del 1963, con Virgilio Lilli e Auro Roselli, il Vecchio Cronista cercò di ricostruire l’assassinio di Kennedy.

Quando chiedemmo al proprietario di GUNS un Carcano gemello del fucile assassino, l’armaiuolo non fece storie. Auro Roselli firmò sul registro Giuseppe Garibaldi e uscimmo diretti là dove Oswald avrebbe sparato. Agli agenti del FBI spiegammo che volevamo tentare una ricostruzione del delitto e quelli non fecero una piega. Tra parentesi: ve lo immaginate voi cosa accadrebbe ove mai tre giornalisti andassero a Perugia con tanto di pistolone in vista pretendendo di ricostruire la morte strana di una fanciulla straniera? L’Italia è giustamente severa in fatto di possesso d’armi ma certamente i rapinatori le armi non le comperano dall’armaiuolo.

Gli Stati Uniti invocando il common sense sono permissivi, sin troppo. (Il proprietario di GUNS ci disse: «Quando avrete finito, riportatemi il fucile, se credete. Ve lo pagherò 10 dollari: voglio fare un bel regalo a mio figlio che compie gli anni». Quanti? «Dieci»). Sarà per i numerosi conflitti in giro nel mondo ma il costo delle armi è talmente basso che puoi comperare in Albania un kalashnikov per pochi dollari, barattarlo con un pollo in Uganda, scambiarlo con un sacco di frumento in Mozambico e avere in cambio mezza pagnotta in Kenya. L’attore Michael Douglas, «messaggero di pace dell’Onu», dice che «la violenza che esporta Hollywood è solo virtuale, tuttavia accende la fantasia dei più deboli. Negli Stati Uniti le pistole uccidono quarantamila americani l’anno e ne feriscono altri centomila». L’anno passato ragazzi americani dai 14 ai 17 anni han commesso 3647 omicidi. Almeno centomila studenti vanno a scuola armati. Quant’era presidente, Clinton propose dure misure contro i baby-pistoleros ma la Corte Suprema le bocciò: «Per salvare la libertà di autodifesa». La differenza fra la libertà e le libertà è così grande come fra Dio e gli idoli.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN. Pistorius e l'angelo senz'ali
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 04:16:22 pm
11/7/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Pistorius e l'angelo senz'ali
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Oscar Pistorius, atleta, campione di corsa, disabile: alto, bello, una massa muscolare da statua del Canova; da come sorride capisci che prende la vita a mozzichi, non concede sconti. Di passaggio a Roma si allena per le Olimpiadi di Pechino. Nulla di straordinario se non fosse che Oscar è nato (a Johannesburg il 22 novembre 1986) senza il perone, dev’essere amputato. A 17 mesi il padre gli regala le prime protesi: per essere «normale». S’appassiona al rugby e alla pallanuoto. Ma sarà l’atletica a fare di lui un campione. Nell’estate 2002 giuocando a rugby subisce un terribile infortunio ed è grazie alla fisioterapia che scopre l’atletica e capisce che con speciali protesi da corsa può realizzare tempi eccezionali. Esplode alle paraolimpiadi di Atene 2004: vince i 200 metri stabilendo il nuovo record di categoria. L’anno scorso, a Roma, arriva secondo nei 400 in una gara per normodotati. È il trionfo ma la Federazione internazionale obietta che le protesi avvantaggiano Pistorius. Oscar ricorre e finalmente il tribunale di Losanna stabilisce che può competere con gli atleti normali. Oscar dice che deve tutto alla famiglia ma segnatamente a sua madre, perduta sei anni fa. Gli scrisse una lettera da leggere quando sarebbe stato grande: «Chi perde davvero non è chi arriva ultimo. Chi perde davvero è chi resta seduto a guardare». In forza di questa preghiera laica, Oscar Pistorius cerca di realizzare i tempi necessari per correre le prossime Olimpiadi. «È una dura sfida, mi sto allenando senza soste, e prego». Prega come gli ha insegnato sua madre (cfr. Famiglia Cristiana).

L’ostinata, feroce, volontà di non cedere alla disgrazia ha fatto di Oscar un campione normale, ma chi è invaso dalla sofferenza, come si comporta? La sofferenza è un’arma a doppio taglio: può massacrare col corpo anche la psiche. Misteriosamente, tuttavia, può rafforzare quella immateriale galassia ch’è lo spirito. Sopravvivere al dolore non è facile ma succede. Oscar ringrazia Iddio, e prega e corre e vince. Ma c’è chi non corre più e giace in una barella, immobile. Non maledice la sorte, incredibilmente ringrazia. Parlo di Kirk Kilgour, già allenatore vincente del volley di Ariccia, un omone di due metri, un atleta eccezionale. Successo, gioia e improvvisa la tragedia. Nel gennaio 1976 Kirk ricade male in una capriola: paralisi ai quattro arti. Ma non s’arrende: costruisce una sofisticata barella che lo salva dalla condizione di fossile; oggi è uno dei più popolari commentatori di volley degli Stati Uniti. La vitalità di Oscar mi conduce al ricordo di Kirk. A Roma, nel «Giubileo degli infermi», Kirk lesse questi suoi versi: «Chiesi a Dio d’essere forte: ed egli mi rese debole / per conservarmi nell’umiltà. / Domandai che mi desse la salute / ed egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio. / Gli domandai la ricchezza per tutto possedere / e mi ha lasciato povero per non essere egoista. / Gli domandai il potere affinché gli uomini avessero bisogno di me ed egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno dell’altro. / Domandai a Dio tutto per godere la vita e mi ha lasciato la vita perché io potessi esser contento di tutto. / Signore non ho ricevuto niente di quello che chiedevo / ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno. / Sii lodato o mio Signore: fra tutti gli uomini nessuno possiede di più di quello che ho io». La straripante folla che inondava piazza San Pietro, ascoltò l’atleta paralitico in solenne silenzio. Poi il Padre santo, lui, Karol Wojtyla, andò ad abbracciare Kirk, angelo senz’ali, e dalla gente, dagli storpi, dai sani spicciò una parola sola: «Amen».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Mandela, padre coraggio
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2008, 05:46:10 pm
18/7/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Mandela, padre coraggio
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Un uomo certamente grande è stato nei giorni scorsi a Roma, reduce da uno strabiliante concerto in suo onore a Hyde Park. Parliamo di Nelson Mandela, novant’anni oggi. «46664 Concert»: a indicare il numero di matricola del prigioniero più illustre del mondo, in galera dal 1962 al 1990, Capo dello Stato dal 1994 al 1999. Il concerto è cominciato con una standing ovation, venti minuti di applausi. Una folla immensa con mezzo mondo del pop: da Leona Lewis a Joan Baez, a Zucchero. Il ricavato del concerto alla battaglia contro l’Aids dedicata soprattutto ai bambini: «Tutti loro, gli innocenti, hanno il diritto di esser curati per vivere», ha detto Annie Lennox.

Infine, nello sfinirsi della lunga notte augurale, Peter Gabriel («se il mondo avesse potuto scegliere un padre, avrebbe scelto Nelson Mandela») ha intonato l’happy birthday e lui, Madiba, «il Vecchio» è apparso sul palco inondato di luce. I riflettori han centuplicato le lacrime di Mandela, esattamente due, seguendone il percorso sul volto segnato dagli anni e dalla difficile vita. Vestito di nero, appoggiandosi a un bastone d’ebano sudanese, Mandela ha coraggiosamente ammesso che «il nostro lavoro è ancora lontano le mille miglia dall’essere completato. La gente lo sa, non possiamo deluderla. È giunto il tempo di dare spazio ai giovani».

Oramai da tempo Nelson Mandela è una «icona», come usa dire. Questa «icona» ha salvato il Sud Africa dal disastro. Se è vero com’è vero ch’egli sia stato un rivoluzionario atipico, quel che si dice un «patriota coraggioso», è anche vero e comprensibile ch’egli abbia salvato il suo paese dal disastro in forza d’un messaggio sommesso. Forse non adatto a un lider maximo che si pretende sia sempre sul problema e lo risolva, ma misteriosamente efficace. Il messaggio di Mandela è tutto nell’esempio di quest’uomo coraggioso sino all’incredibile.

Il Vecchio Cronista ricorda la domanda di un bravo reporter della Cnn a Mandela: «Come ha fatto a resistere in poco spazio, al buio, durante 27 anni»? E Madiba: «Ci vuole pazienza», disse.

La cella in cui sopravvisse in grazia della «pazienza» non gli consentiva di starsene disteso: se alzava la testa doveva ripiegare le gambe, se voleva stenderle doveva abbassare il capo. Tutto questo al buio. «Ma io non ero solo», ha sempre detto Mandela. Gli dava conforto la fede, lo aiutava la poesia: componeva versi nel buio della cella sotterranea, appesi a un immaginato pentagramma tracciato a mente.

Da vero rivoluzionario, Mandela è uomo d’azione politica, e di guerriglia armata: se i suoi incessanti messaggi dalla galera al mondo non si fossero tradotti in un patto patriottico egli sarebbe stato un terrorista. Il sole è risorto, laggiù, in Sud Africa paese bello e rude quando i Boeri decisero, incalzati da Mandela, di essere innanzitutto sudafricani. Premio Nobel per la Pace, Mandela assiste impotente al truce presente dell’Africa flagellata dalla fame, svenata dal ping pong dei massacri etnici, straniata da guerre assurde (vedi il Kenya). Madiba soffre ma non si arrende: cede il timone ai giovani («novant’anni sono troppi per fare un certo lavoro») ma si può scommettere che se avessero bisogno di lui per «un certo lavoro», Mandela direbbe quel che disse ai giudici che lo avevano condannato all’ergastolo nel 1964: «Se aveste bisogno di me, sapete dove trovarmi».
 
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Quel 1938 senza misericordia
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2008, 11:26:00 pm
25/7/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Quel 1938 senza misericordia
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Settant’anni sono una lacrima dell’oceano della Storia ma ci sono date che crocifiggono il tempo inchiodandolo all’infamia. In eterno. Settant’anni fa, nella residenza di San Rossore, il giorno 14 luglio dell’anno di disgrazia 1938, Vittorio Emanuele III, Re e Imperatore, firma i 28 articoli che compongono il corpus della legge volta a discriminare i cittadini italiani di razza ebraica. Anni fa, a Ginevra, Maria Pia di Savoia ebbe modo di leggere quel testo. Trasecolata: «Dis donc, ma mio nonno ha firmato davvero una infamia simile?», disse (cfr. Fabio Isman). L’infamia s’era data un titolo che voleva esser scientifico: il Manifesto (sic) degli scienziati razzisti; a scriverlo, con la guida di Mussolini, fu un assistente universitario, Guido Landra, che il Duce aveva convocato a Palazzo Venezia per la bisogna. Gli consegnò una «traccia», come spiegò, e un faldone di «documenti» tedeschi, in massima parte arrabbiati ritagli di giornali nazisti. Ma già nel 1932 Mussolini aveva ordinato la pubblicazione di Mein Kampf di Hitler e, nel 1937, dei crespi Protocolli di Sion. In quegli anni gli ebrei iscritti all’anagrafe italiana erano 58.412, un sesto con la tessera del Partito fascista. Coprivano un vasto territorio sociale: dall’Università all’Artigianato, dalla Medicina alla Ricerca, all’Editoria e via così. La firma di Sciaboletta, l’«infamia storica» per dirla con De Felice, riduce gli ebrei italiani alla condizione di underdogs.

C’è chi si sente tradito da Mussolini e subito fugge dall’Italia; c’è chi si ammazza come l’editore Formiggini: col figlioletto in braccio, mi dicono.

In quel tempo il Vecchio Cronista (ch’era giovanissimo) soffrì l’amarezza incredula di Sasha e Berta Grinstein, ebrei di Odessa approdati a Catania negli anni del terrore bolscevico (non c’è pace per i figli di Abramo). Nella bella Paternò, il giardino di Catania, i Grinstein avevano creato un import-export di agrumi fonte di meritata agiatezza. Facevano parte della Catania-bene, erano generosi e allegri, molto ospitali. (Forse felici). Ma il «sistema antiebraico» italiano aveva norme più spietate di quelle tedesche (questo va detto, a smentita degli Italiani «brava gente»), per esempio contemplava l’espulsione degli stranieri.

Tutta Catania, con rarissime eccezioni, si mobilitò in difesa dei Grinstein, argomentando ch’essi erano da considerarsi «cittadini onorari». Ma non ci fu nulla da fare, per i nostri amici ebrei. Mio padre e altri sette amici vennero brutalmente «diffidati». I Grinstein furono cacciati da Catania come cani rognosi. Ripararono negli Stati Uniti. Li raggiunse più tardi il nipote Piotr, animoso ingegnere: mise su una fabbrica di sanitari, nel Connecticut, brevettò una delle prime siringhe indolore: insomma, dall’ago al milione.

Nel 1959, negli Usa per il giornale, riabbracciai «Tata» Berta Grinstein e Piotr (Sasha era morto, «di crepacuore» sentenziava Berta). Fu, la nostra, una «rimpatriata» particolare: parlammo sempre in dialetto: in catanese. Quella festa fu impreziosita da un regalo di Berta: una lettera per Ben Gurion che mi valse più incontri (illuminanti) con quel mezzo Garibaldi e mezzo Cavour.

Una sera chiesi a Berta Grinstein quale ricordo si portasse addosso di quel 1938 senza misericordia. «Vennero a prenderci di notte, una valigetta e via: cacciati come lebbrosi da Catania, nostra seconda patria. Una partenza nel buio, senza “ciao”. Una ferita che non si chiuderà mai».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Il Papa scoop del "lupo" Cavallari
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2008, 12:04:38 pm
1/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Il Papa scoop del "lupo" Cavallari
 
 
IGOR MAN
 
L’Iraq pare diventato una guerra dimenticata», scrive Mimmo Cándito (La Stampa, 12/7/08). «Quest’ultima guerra del Golfo è, forse, anche l’ultima del giornalismo di guerra. Un mestiere va finendo, quanto meno va finendo il modo in cui lo si faceva. (...) Oggi se pensi ancora di andare in giro ad osservare, intervistare, incontrare persone e informatori sei un aspirante suicida». Un discorso più o meno simile lo fece Oriana Fallaci di ritorno da un blitz in Iraq: non era la «sua» guerra, non era il Vietnam dove il reporter vedeva crescere sotto i suoi occhi sgomenti un’interminabile spedizione postcoloniale, e non c’era censura, non c’era il giornalista embedded, truccato da soldato, dunque non in grado di pianificare il lavoro infischiandosene del generale Westmoreland. Leggendo l’accorato scritto di Cándito un interrogativo zampilla: come avrebbe reagito un grande giornalista che fu anche reporter di guerra, Alberto Cavallari, all’Iraq guerra-dimenticata?

A dieci anni dalla sua morte parliamo di Alberto con il cardinale Achille Silvestrini che fu, ancorché modesto «minutante» della Segreteria di Stato, il grimaldello che aprì al giornalista la loggia papale per un’intervista con Paolo VI che sarebbe riduttivo definire uno scoop e basta. È in fatto un incontro illuminato dalle «intuizioni globali» di Maritain partecipate al suo amico Papa. Silvestrini e il Vecchio Cronista si trovano in sintonia con quanto scritto da Claudio Magris, saggista e scrittore limpido prestato al giornalismo: Cavallari appartiene alla grande generazione e alla più alta stagione del giornalismo italiano ed europeo; univa il fiuto da segugio del cronista alla cultura dell’intellettuale che inquadra l’effimero dettaglio nell’orizzonte globale della realtà. Sapeva, come ha scritto in uno straordinario ricordo Bernardo Valli, che ogni notizia ne nasconde un’altra, di cui andare a caccia. Cavallari è stato, nel lavoro, un lupo solitario, implacabile con la concorrenza. Passava per essere un «figlio di mignotta» ma era, soprattutto, uno «storico dell’istante», come dice Silvestrini.

Oggi gli inviati «speciali», i «figli di mignotta» son ridotti a una pattuglia sparuta, tutti gli altri lavorano in branco ed è forse per questo che certi direttori dicono che il mestiere dell’inviato rischia di diventar superfluo. Cavallari lo scoprì Gaetanino Afeltra, Alfio Russo lo lanciò ma è stato lui, Alberto Cavallari, a creare se stesso grande inviato davvero speciale. Il suo pezzo sul Vajont, da solo, vale una vita. Non c’era più nulla, solo una valle di fango, ma bisognava raccontare quell’immenso cimitero invisibile e fu una sorta di Spoon River alla rovescia, la vita, la morte, la pietà e il dolore, che Alberto ricreò picchiando sui tasti della Olivetti 32, sotto una tenda del primo soccorso, annegando la pena con infinite sigarette.

Magris e tanti colleghi scrivono ammirati di Cavallari-direttore in un terribile triennio (1981/84) in cui il «suo» Corsera era in «gran tempesta». È stato un buon direttore, testimoniano commossi Roberto Martinelli (suo vice coraggioso) e ancora Magris. Aveva un caratteraccio ma «al suo umor nero si accompagnava un fraterno e picaresco coraggio che ha aiutato molti di noi a trovare la nostra strada»: ipse dixit Magris. E il Vecchio Cronista può ricordare che i grandi nostri inviati, i maestri, furono eccelsi testimoni di fatti vicini e lontani ancorché fossero embedded. E da embedded Paolo Monelli scrisse quel capolavoro sinfonico ch’è Le scarpe al sole. Quelle degli alpini morti nella guerra suicida di Cadorna.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN La tisana di Indro
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2008, 09:53:17 am
8/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La tisana di Indro
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
A Roma ogni giorno che passa diminuisce la nostra porzione d’aria respirabile. Non è lontano il momento in cui lo smog de noantri eguaglierà quelli, crudelmente deleteri, di Los Angeles, di Pechino. Persino le rose, le patetiche rose asserragliate nelle vetrine dei fiorai han perduto l’innocenza, appassiscono in fretta, sanno d’aspirina. La città è oppressa da una immensa nuvola giallocilestrina, immobile ombra gonfia d’oscuri presagi che quando s’accendono le luci municipali si colora d’un rosso sinistro siccome il riverbero d’un incendio in zolfara. I turisti dell’estate rovente sono carovanieri ostinati in un deserto abitato, senza neppure il conforto d’un miraggio. Qualche oasi, però, sopravvive nella memoria del Vecchio Cronista.

Nella lontanissima estate del 1963 Indro Montanelli piangeva la rituale crisi di depressione, lo sguardo fisso sulla parete della stanza-corridoio che univa la terrazza su piazza Navona all’appartamento in corso Rinascimento. Avevo letto sul Tempo d’una bottega d’erbe medicinali contro la depressione. Ne parlai a «nuvola bianca», a Colette (Rosselli), e insieme andammo alla scoperta del semplicista. Poco discosto da piazza Rondanini saccheggiata da pachidermiche motociclette, in via Pozzo delle Cornacchie, c’era, c’è la bottega dei miracoli. Un ritaglio d’altri tempi, una sorsata d’aria buona: per trovarla occorre camminar piano, così come non siamo più abituati a fare.

Arrotando la R come solo lei sapeva, Colette illustrò il caso «del nostro amico», come disse, e subito il semplicista cavò da sotto il bancone tre, quattro bilance di rame circondate dalla scintillante serie dei pesi d’ottone. Poi comparve un manoscritto in latino, certamente antico, e il semplicista disse: «Ci siamo». E immediatamente le sue mani scarne cavarono da barattoli di ceramica erbe disseccate (piccoli mucchietti), accolte da quadratini di carta spessa, gialli, azzurri, rossi disposti sui piatti delle bilance. «Zucchero di viola»: sciroppo salutare per il cuore e il fegato; «latte d’aglio»: purifica i bronchi, decongestiona le mucose; «decotto di ginestra»: debella il raffreddore di stagione; e infine in una arcana bottiglietta di opaline il rimedio contro la depressione: la «tisana dei quattro» che agisce sul sistema nervoso alleviando la fatica di vivere.

Ricordo la mezza incazzatura di Montanelli, l’ostinazione di Colette, il suo sorriso testardo: infine Indro dovette arrendersi al tenero arrembaggio di «nuvola bianca». Posso testimoniare che lo sciroppo-tisana del semplicista pontificio di via Pozzo delle Cornacchie ridusse, e di molto, le crisi depressive di Montanelli. Tuttavia. Tuttavia allorché «nuvola bianca» svanì, negli avanzi d’un funerale riservato ricordai a Indro la storia della tisana: sorridendo pietoso, ma brusco, lui mi disse d’aver finto una guarigione pressoché miracolosa grazie alla tisana. «In verità ho subito gettato il contenuto della bottiglietta nel cesso», disse Indro. «Ma non volevo deludere Colette».

Ovviamente il semplicista d’oggi non è lo stesso della «tisana dei quattro»: troppo tempo è passato ma qualcosa è rimasto di quella tenera storia bizzarra. Il profumo. Il profumo della bottega, il profumo della giovinezza: radici e papaveri, erba seccata dalle stagioni, lo stesso che sprofondare in un covone lavato dalla Luna d’eclisse.

Piazza Colonna fumiga e le incaute dimafoniste che s’affacciano dalle alte finestre dei loro uffici rischiano il capogiro. Il mondo s’è impazzito, ma finché ci sarà un filo d’erba, l’uomo potrà salvarsi.

 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN. A Addis Abeba in attesa dell'uragano
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2008, 11:29:25 pm
15/8/2008
 
A Addis Abeba in attesa dell'uragano
 
 
IGOR MAN
 
Quando il buio cala sull’altopiano fitto di eucalipti chiamato Addis Abeba, presente e passato si intrecciano. È il lungo momento dei signori e dei mascalzoni, dei locali notturni e delle teccerie dove donne di indefinibile età vendono se stesse e bicchieroni di presunto idromele. All’apparenza nulla è cambiato ma a far discorso con questo e con quello la realtà prende alla gola: tutti, dal portiere dell’albergo americano al posteggiatore lebbroso che non si può rifiutare, tutti attendono l’uragano; ha una parola antica: carestia. Incombe sul Corno d’Africa. Quattordici milioni di persone (in cinque Paesi) sono «a rischio», come informa un rapporto dell’Onu. L’Etiopia è l’epicentro della crisi da tempo annunciata; se non arriveranno aiuti, e concreti, presto, «il dodici per cento della sua popolazione morirà». Di fame.

«Si stava meglio quando si stava peggio»: l’antico apoftegma banale è sulla bocca di tutti. Il «peggio» si riferisce a due pilastri della Storia etiopica: 1) il regno di Ailé Selassié, il Negus Imperatore d’Etiopia, che non infierì sugli italiani che l’avevano spodestato. A una sterile vendetta preferì aiutarli a integrarsi nella loro effimera colonia, salvandoli dal castigo degli inglesi. 2) La dittatura feroce del terribile Menghistu, finalmente alla sbarra.

Manovrando l’ascensore della memoria, il Vecchio Cronista ritrova i figli e i nipoti dei soci fondatori del «Circolo Juventus», figli e nipoti dei «metti tacco»: gli intrepidi camionisti che tessono l’Africa. Il Vecchio Cronista ricorda il suo incontro col Negus il 13 di aprile del 1961. Piccolo e minuto, mani eleganti, francese perfetto, ad un certo momento mi chiese se conoscessi Mattei, il già mitico, allora, ingegner Mattei. Lo vedo qualche volta, al caffè Rosati, dissi. «Bene ma cerchi di vederlo presto», soggiunse. «I giornali americani scrivono che l’Etiopia ha affidato all’Urss la raffineria di Assab. In linea di massima è così ma desidero che lei informi il signor Mattei che se gli interessa Assab, l’Eni l’avrà subito con buona pace dei russi».

Di ritorno a Roma, proprio da Rosati per il solito caffè da lui offerto, da me pagato, riferii a Mattei della incredibile intenzione del Negus. «Presto gli farò sapere, disse, che il suo invito mi onora ma non desidero far torto all’Urss». Dopo una franca risata: «Alla pelle io ci tengo, disse, e poi c’è tanto da fare per questo benedetto Paese nostro che stenta a sprovincializzarsi», concluse.

Oggi i figli, i nipoti degli «insabbiati» ricordano un passato che torna al presente. Il Negus aveva depositato in Svizzera un tesoro. Sera dopo sera Menghistu interrogava il Negus nella minuscola camera da letto tramutata in prigione. Voleva il numero del conto in Svizzera, quello segreto perché stratosferico. L’esile vecchio tacque ostinatamente (così almeno vuole la vulgata). Menghistu gonfio di idromele mischiato alla vodka, crudelmente, sera dopo sera, giuocò col vecchio sovrano premendogli sulla bocca un cuscino fin quasi a soffocarlo. Ma, una sera, Menghistu trattenne il cuscino un po’ più a lungo del solito. E il Negus Neghesti morì, soffocato dal dittatore comunista, portandosi via, e per sempre, il numero del conto corrente in Svizzera.

Il Negus aveva ricevuto in dono (dal Giappone, dicono) un magnifico leone subito battezzato Tojio. L’Imperatore copto l’aveva domato dolcemente e il leone, innocuo, scorrazzava nel recinto del Ghebì terrorizzando i visitatori. Ebbene, la notte in cui Menghistu ammazzò il Negus, Tojio gannì a lungo e all’alba morì.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Con Fidel a caccia di caviale
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2008, 10:43:29 pm
22/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Con Fidel a caccia di caviale
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Niente adunate oceaniche, nessun chilometrico discorso per l’ottantaduesimo compleanno di Fidel Castro. Business as usual, però con tanti turisti («quelli del dollaro») alla scoperta del Varadero e dell’Habana Antigua, tutta Cuba impegnata nell’ennesima movida lietamente provocata da una santeria senza eguali. Cento e otto babalao’ (sacerdoti mutuati dall’Africa degli schiavi) han pregato intorno a una ceiba, l’albero sacro che porta bene, chiedendo alla pianta, coetanea del Líder Máximo, di trasmettere «forza e coraggio» a Fidel: «Abbiamo bisogno di te, tutto il mondo ti ascolta – scambiamoci amore e salute», ha recitato il gran sacerdote Mario Perez.

È stato Fidel, ci dicono, a non volere le abituali feste pubbliche in suo onore. Non è più comparso in pubblico, in tv, da quando ha ceduto il potere al fratello Raul, prima temporaneamente il 31 di luglio e, poi, definitivamente il 19 di febbraio di quest’anno. È vero che non c’è decreto o decisione politica che non abbia l’imprimatur di Fidel ma la sua immagine dopo un’abbuffata di oltre mezzo secolo è solo e soltanto quella dei manifesti e delle fotografie di sempre che fanno del Líder Máximo il poster di se stesso.

Un ardito intervento allo stomaco ha salvato Fidel dalla morte. L’ha sfangata in grazia d’un fisico da campione di baseball e d’una volontà feroce di vita ma «non mi riconosco in quest’albero caduto», ha detto ordinando ai fotografi di girare alla larga. Fidel Castro ci tiene a far sapere ch’egli aiuta («per quanto possibile») suo fratello Raul nella difficile impresa di far di Cuba «un paese sereno». Studia, corregge decreti, stende analisi politiche, parla al telefono con Chavez (che gli ha regalato un ritratto di Simon Bolivar), insomma per quanto possibile «tiene i contatti» ma come astiosamente dicono gli esuli di Miami, assiste giorno dopo giorno al fallimento del Castrismo. La Revolución è già nella Storia perché restituì dignità e speranza a Cuba che’era il lupanare degli Stati Uniti; il Castrismo, invece, con la sua «apertura turistica», voluta da Fidel per dar respiro a una popolazione stremata da crudele embargo, ha sì portato dollari ma con questi l’esercizio della prostituzione truccata da «fidanzamento» del turista di Abbiategrasso, o di Latina, con prosperose mulatte. Di più: la già precaria società cubana s’è spaccata: quelli del dollaro-quelli del pesos: chi, cinico, se la passa più che decentemente -chi vive da miserabile. Sia come che sia, il futuro di Cuba è legato alla precaria esistenza di Fidel. Un comprendibile machismo gli ha fatto bandire ogni specchio, «no, non voglio vederlo» dice di se stesso con Lorca. La coscienza del líder lo spinge a inventarsi un futuro decente ed ecco i suoi studi, le sue ricerche, le sue estenuanti letture: non più Malaparte (lo leggeva nella Sierra Maestra) ma Keynes.

Il Vecchio Cronista è stato a Cuba nel luminoso 1959, nel tempo in cui Fidel e il Che sognavano il rinascimento dell’America Latina. Fidel, allora, dava interviste soltanto alla stampa americana, a tutti gli altri giornalisti toccava arrangiarsi. Mi ero accorto che, alle cinco de la tarde, Fidel irrompeva nelle cucine dell’ex Hilton. Aveva scoperto il caviale, lo mangiava anche coi fagiuoli immergendo le mani nelle pentole, asciugandosele, poi, sulla divisa verde ulivo. Una sera, saltabeccando da una marmitta all’altra, gli chiesi: «Ma voi barbudos siete comunisti o no?». Risposta: «Non siamo comunisti ma neanche anticomunisti: siamo humanisti». E che vuol dire, humanisti? «Compañero fai tu...».
 
da lastampa.it


Titolo: Re: IGOR MAN
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 07:03:08 pm
29/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I 5 chicchi di Madre Teresa
 
 
IGOR MAN
 
Cristiani perseguitati come duemila anni fa»: così apre la prima pagina Avvenire riferendo della «caccia al cristiano» che da settimane infesta quell’India definita con convinzione «la più grande democrazia del mondo». L’Unione indiana gode d’un multipartitismo non di facciata, la stampa è libera, la magistratura indipendente. Tutte medaglie al «valor democratico» delle quali gli indiani vanno fieri anche se non riescono a dare una «spiegazione logica» all’ondata di violenza che sta massacrando cristiani innocenti, rei di assistere i dalit, i fuori casta. Il massacro dei cristiani non è una «malefica novità»: è il frutto d’una corruzione vasta e coriacea, d’una conduzione spesso mafioso-clientelare della vita politica, «unite alla sostanziale impunità di cui godono le azioni violente delle formazioni estremiste» (cfr V.E. Parsi, Avvenire). A sessant’anni dall’indipendenza la Storia sembra beffarsi della cultura irenica costruita dal genio umanistico di Gandhi poiché a straripare è il fiume limaccioso della violenza assassina: «Movimenti come il Bharatiya janata sono espressione di una cultura nazistoide che predica la falsa equazione “indiani=indù”».

Nella torrida estate del 1965, il Vecchio Cronista ebbe la ventura di incontrare Madre Teresa a Calcutta. Trovare la sua «casa», ritagliata nel tempio della dea Kali - perché Madre Teresa per gli indiani era jivan mukta, liberato/a in questa vita - era facile: tutti i tassisti erano suoi amici; Teresa, al pari di Gandhi, era «nel divino già in vita». Nell’inferno di Calcutta, la Madre che s’affannava appresso a rifiuti da aiutare a morire, nel rispetto della loro religione, si badi (niente proselitismo, «perché fa rima con colonialismo»); appresso a bambini da salvare dalla morte nella spazzatura; appresso a ragazze-madri da sottrarre all’aborto col ferro da calza; lei, Madre Teresa, diceva che «la tragedia più grande per un essere umano è sentirsi spaventosamente solo perché non amato». I relitti umani raccolti on the road li portava nella sua «casa». E colà, lei e le sue sorelle gli davano da bere a quei relitti anonimi, gli facevano i bagnoli, gli sussurravano parole affettuose per aiutarli a trapassare dalla vita senza misericordia all’Aldilà, forse sereno, attraverso il passaggio difficile, ahi quanto, della morte. Per codesta sua «terapia» esclusivamente spirituale Madre Teresa venne spesso attaccata ma non si curò mai di difendersi. Diceva soltanto: «Non sono una santona che fa guarire, cerco solo di far sentire ai poveri più poveri che Dio li ama e Gesù li comprende».

Anche quella remota estate i giornali davano conto di cristiani arsi vivi. Madre Teresa rifiutava d’ascoltare la radio, di leggere i quotidiani. Infine, messa alle strette dal mio collega Egisto Corradi, con un indefinibile sorriso sulle labbra scarne, disse: «I martiri risorgeranno con Gesù: questo so, questo dico». Poi ci portò dai suoi lebbrosi ad applaudire un giocoliere che, ancorché senza più mani, bravissimo, faceva vorticare due piatti.

Dopo una vivace intervista a San Gregorio al Celio, in Roma, scrissi due righe d’augurio a Madre Teresa. Passate le feste, m’arrivò da Calcutta una lettera, l’indirizzo vergato con l’inchiostro verde. Dentro, un rettangolino di carta: «I Cinque chicchi di Riso 1) Il frutto del silenzio è la preghiera. 2) Il frutto della preghiera è la fede. 3) Il frutto della fede è l’amore. 4) Il frutto dell’amore è il servizio. 5) Il frutto del servizio è la pace».
 


Titolo: IGOR MAN Un invito in Italia per Gheddafi
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 03:47:02 pm
5/9/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Un invito in Italia per Gheddafi
 
 
IGOR MAN
 
Già spiazzati dall’accordo Roma-Tripoli, neocon italiani e foresti, politici in perdita di velocità attaccano l’articolo 4 dell’accordo assumendo ch’esso sia una sorta di patto leonino poiché condannerebbe l’Italia all’immobilismo se la Nato fosse costretta a «punire» un Gheddafi bellicoso. Una nota della Farnesina chiarisce che l’accordo «fa, come ovvio, salvi tutti gli impegni assunti precedentemente dall’Italia». Insomma: «gli impegni Nato non si toccano». Il viaggio della Signora Rice a Tripoli è una sorta di imprimatur a un accordo per molti versi inappuntabile; non poteva essere altrimenti quando a distribuire le carte al «tavolo» è un signore chiamato Gianni Letta, saggio praticante del low profile. Per il Vecchio Cronista che frequenta la Libia da mezzo secolo l’accordo Roma-Tripoli apre un nuovo capitolo nel libro mastro del complicato rapporto con la Jamahirjia libica. Tuttavia.

Tuttavia ci sembra lecito smorzare la legittima soddisfazione governativa. Vediamo. Da 40 anni si dice e si scrive che Gheddafi è un dittatore. Il Colonnello ha inventato la «Terza Teoria» forma e faro della Jamahirjia, il «governo delle masse» del quale Gheddafi sarebbe semplicemente al Qaid, la Guida. Guida, non dittatore. Epperò nel disegnare il «governo delle masse», il Colonnello s’è preoccupato di lasciare ampio margine diremo ideologico-operativo ai Comitati Popolari, piccoli parlamenti disseminati nell’immenso territorio libico. Nell’intenzione di Gheddafi dovrebbero ispirare la Guida. Nel tempo codesti Comitati son diventati una sorta di «coscienza critica» immanente, invadente. Trent’anni fa ero con Enrico Recchi, il non dimenticato costruttore di strade e ponti nel Terzo Mondo e dunque anche in Libia, quando telefonano da Tripoli: «Hanno arrestato il Vescovo Martinelli». Ebbene, dissi a Enrico, chiama Jallud che metta fine a questa cavolata. Ma all’allibito Ingegner Recchi, Jallud (allora potente Numero 2) disse: «Bisogna aver pazienza, i Comitati son difficili da gestire, diamo tempo al tempo». Monsignor Martinelli venne banalmente interrogato durante 11 giorni e infine rilasciato. Ad attenderlo all’uscita dalla «prigione», lui, la Guida, Gheddafi, il beduino dalle sette vite e dalle 700 uniformi.

Il Vecchio Cronista vorrebbe raccomandare a chi di pertinenza di non farsi troppe illusioni. Non nascondiamoci dietro un dito: non ci preoccupa tanto il rifornimento energetico (è un florido capitolo a parte) quanto ci angustia lo sbarco ininterrotto dei clandestini smistati dai porti libici. È la nostra freccia nel fianco. Che i Comitati Popolari possono moltiplicare quando e come vogliono. Il 17 di febbraio di due anni fa, per fermare un «attacco popolare» contro il Consolato d’Italia guidato dai Comitati di Bengasi (provincia ribelle), il Colonnello fu costretto a far sparare l’esercito. Trentuno morti. Fra interviste ufficiali, colloqui informali eccetera, il Vecchio Cronista avrà incontrato il Colonnello almeno otto volte. Gheddafi è soprattutto e soltanto un beduino; «il nemico viene dal mare», lo ammoniva sua madre. Per fugare la fastidiosa, per noi, diffidenza di al Qaid, per farne un interlocutore affidabile, potrebbe funzionare un invito ufficiale in Italia. Amore e odio, questo il sentimento di Gheddafi per l’Italia. Un protocollare invito, magari con tenda piantata nei giardini del Quirinale, non muterebbe il lupo in agnello ma darebbe ai rapporti con l’Italia una valenza seria, pesante, spegnendo gli erratici fuochi dei Comitati Popolari, timonieri dei barconi della morte.

Il libro da comodino di Gheddafi è una biografia di Mitridate.



 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN. Vecchie trame contro la pace
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 12:09:11 pm
28/9/2008
 
Vecchie trame contro la pace
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
L’attentato terroristico in un quartiere «sensibile» di Damasco non è il primo, non sarà l’ultimo. Nel febbraio scorso un’autobomba con 200 chilogrammi d’esplosivo uccise Imad Moghaniyah, già direttore della Sicurezza di Hezbollah (il partito di Dio). A lui i servizi occidentali attribuiscono i devastanti attentati che nel 1982 massacrarono, a Beirut, soldati americani e francesi. Per una sorta di riflesso pavloviano i media mediorientali assegnarono la paternità della liquidazione fisica di Moghaniyah al Mossad che «non perdona».

Ma a Damasco una serie di rimpasti nella camera dei bottoni, il licenziamento di personaggi già alla corte del presidente Hafez Assad, il silenzio di giornalisti animosi e tutta una cosiddetta offensiva di charme del giovine presidente (42 anni) Bashar al-Assad, umanizzato da una splendida consorte dai tacchi a spillo, fecero sì che si parlasse della Siria in crisi, divisa al suo interno fra possibilisti ed estremisti. Col tempo s’è avuto modo di verificare che la cacciata dei siriani dal Libano dopo l’uccisione (con autobomba) del presidente Hariri, dopo la guerra lampo contro Hezbollah non proprio egregiamente condotta da Israele, non ha scalfito il potere (ancorché relativo) di Bashar. Costui ha compiuto un gesto invero rivoluzionario, che suo padre non poteva fare e cioè «parlare - di pace - con Israele». Grazie ai buoni uffici del premier turco Erdogan israeliani e siriani discutono, cautamente è vero e indirettamente, però si parlano. E parlano di pace.

Ovviamente un simile accadimento se conforta, diciamo, l’Egitto, fatalmente disturba quello che chiameremo l’islàm oltranzista, «nemico della pace». In forza del comune credo religioso che spiritualmente accomuna gli Alawiti (cioè la Siria), una minoranza islamica minuscola davvero ma autorevole, agli Sciiti, il regime di Teheran ha preso sotto tutela economica (petrolio eccetera) Damasco. Ma va detto subito che il giovine Assad non s’è lasciato stordire né intimidire dall’oltranzismo parolaio del famelico (in politica, beninteso) presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «Finché si parla non si spara», Bashar cita spesso questo aforisma di Churchill e all’omologo persiano che lo esortava a troncare ogni contatto con il nemico (cioè con l’Occidente e con Israele) ha replicato con un apoftegma famoso: «Senza l’Egitto non si può fare la guerra, senza la Siria non si può fare la pace». Il guaio è, osservano i guru di Zamalek, che Ahmadinejad non vuole la pace: «La nostra priorità storica - ha detto una volta ancora a New York - è la cancellazione di Israele dalle mappe». E qui si appalesa la grande madre di tutti i pericoli: vale dire un raid israeliano «preventivo» volto a distruggere i siti nucleari dell’Iran. Proprio due giorni fa, il Guardian ha scritto che in maggio Olmert (in carica allora) chiese il placet di Bush per un blitz di Israele in Iran.

Sempre secondo il Guardian, Bush avrebbe negato qualsiasi copertura, ritenendo l’operazione una «trappola»: a pagare il raid israeliano fatalmente sarebbero stati anche gli Usa che hanno basi un po’ in tutto il Medio Oriente. La precaria esistenza del Libano che faticosamente sta ricucendo («alla pari») il tormentoso rapporto con Damasco - è alle viste un riconoscimento diplomatico - pagherebbe tremendamente l’incursione israeliana (la guerra civile è dietro l’angolo). Ma tranne colpi di scena, sempre possibili in Medio Oriente, quel che Malraux definì «un minestrone ribollente», il mondo potrà tirare il fiato in attesa che l’Oval Room accolga un presidente armato di common sense, giusta la lezione di Tom Paine: «Per essere felice e sicuro un Paese non ha bisogno di eroi bensì di uomini di buon senso». In attesa che questa massima venga applicata per quanto riguarda noi, cittadini d’Europa, vorremmo poter dire agli Americani - ai quali dobbiamo anche la libertà di poterli criticare e, perché no, consigliare - quanto segue: gli Stati Uniti si decidano a coinvolgere la vecchia Europa nel risiko prossimo venturo: voi mettete la potenza, noi l’esperienza.
 
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Spike Lee sui trampoli revisionisti
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 09:40:29 am
10/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Spike Lee sui trampoli revisionisti
 
IGOR MAN
 

Sfidando complicati acciacchi, uomini e donne che l’anagrafe definisce «vecchi» (non anziani, «vecchi») protestano. Non già per il carovita ma per un film dell’estroso Spike Lee sulla strage di Sant’Anna di Stazzema. I «vecchi» sono i partigiani superstiti. Protestano non soltanto per la manipolazione di quel massacro d’innocenti, ma per questa frase sfuggita al (bravo) regista: «I partigiani? Spesso fuggivano abbandonando la popolazione alla rappresaglia». Interviene, pacato ma fermo, il presidente Napolitano. L’Anp, l’associazione-partigiani, protesta «per il travisamento dei fatti», Spike Lee replica che lui s’è affidato alla versione romanzata della strage scritta dallo sceneggiatore James McBride. Una volta ancora ai «vecchi» combattenti della Libertà tocca ingoiar fiele. Certamente il signor Lee può girare la sceneggiatura che vuole, l’importante, per lui, è che il film sia buono e in fatto lo è.

Questo «ci può stare», ma è quella frase che disturba e ferisce: porta acqua al mulino sporco di una indecente offensiva revisionista volta ad assolvere dei loro tremendi peccati i miliziani di Salò. Vogliono «equiparare» repubblichini e partigiani.

Un partigiano-doc, Giorgio Bocca, uno dei protagonisti della Resistenza in Piemonte, lui, il giornalista senza peli sulla lingua ha amaramente scritto: «I prudenti, i vili, la maggioranza non perdonano alle minoranze di aver avuto coraggio o semplicemente il senso di un dovere civico» (cfr, la Repubblica, 1° ottobre).

Due partigiani storici: il comandante Max (Massimo Rendina) e Aldo Benevelli, il sacerdote torturato dalle SS a Cuneo, sono con Bocca, ovviamente, ma sostengono con serenità come l’attuale revisionismo postfascista teso a diffamare la Resistenza sia il frutto di un’arrogante presunzione: ondeggia sui trampoli dell’ignoranza, non cancella la Storia. Si fa un gran parlare, osservano, di nuovi parametri scolastici, ma la Resistenza non viene trattata «secondo i fatti» bensì in modo che gli scolari non possano apprendere quel che dovrebbero.

Il «Vecchio Cronista», che ha fatto la Resistenza rischiando la sua giovine vita, ricorda quel tempo con orgoglio e tenerezza. Eravamo giovani, avevamo coraggiosamente paura. Ma la paura coraggiosa cedette il passo all’odio quando apprendemmo della strage delle Ardeatine. Furono i salesiani di San Callisto a scoprire, a meno di 24 ore dalla strage, i cadaveri sotto la pozzolana, ammucchiati gli uni sugli altri. Sempre i salesiani riuscirono ad arrangiare la prima lista dei martiri e don Battezzati la posò nella grotta della Madonna, tra l’edera. Fu così che giorno dopo giorno la notizia del massacro invase Roma tutta. Con quella strage i tedeschi e i repubblichini persero la partita. Definitivamente. Roma, la Roma attendista e cinica d’un colpo divenne fiera, una città coraggiosa che prese generosamente ad aiutare i partigiani. Soffrimmo la fame noi partigiani, eravamo braccati dalle SS ma sapevamo, ogni giorno di pena, che sarebbe arrivata la Libertà e la vergogna sarebbe finita e l’immenso disonore. Ma il dolore no. Quello sarebbe rimasto.

L’odio pel nemico foresto e di casa s’è stemperato, certo. È oramai lontano, come lontana è la giovinezza. Tuttavia, oggi Spike Lee o non Spike Lee, sappiamo che allora, quando fummo fanciulli, non avevamo fame soltanto di pane ma soprattutto di Libertà. Sicché, oggi, nel ricordo dei morti di Stazzema, di Cuneo, di Boves, delle Ardeatine, in memoria di tutti i compagni assassinati da un nemico senza Dio, sappiamo, oggi, che potremmo magari rinunciare di nuovo al pane ma non alla Libertà.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Siria-Libano riconciliati per liberarsi di Hezbollah
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 09:07:25 am
16/10/2008 - MEDIO ORIENTE
 
Siria-Libano riconciliati per liberarsi di Hezbollah
 
 
IGOR MAN
 
Siria e Libano hanno aperto relazioni diplomatiche. La vulgata vuole che apprendendo di questa o di quella iniziativa araba, Golda Meir immancabilmente si domandasse «dov’è la fregatura?». È troppo difficile rispondere. Possiamo solo constatare che la Siria, cacciata da Beirut a furor di popolo dopo l’assassinio del premier Hariri (assassinio attribuito al Deuxième Bureau damasceno), è uscita dal portone per rientrare dalla finestra. Una finestra destinata a inglobare il portone. Nel senso che sarà facile giustificare il possibile ritorno dei soldati siriani in Libano, sulla spinta delle relazioni diplomatiche.

Qualcuno, a Beirut, parla di «occupazione morganatica» ipotizzando la preoccupazione siriana di far blocco in vista d’una trattativa di pace con Israele. «Senza l’Egitto non si può fare la guerra, senza la Siria non si può fare la pace»: questo, secondo i guru di Zamalekh, il perché del clamoroso accadimento diplomatico. E’ la pace, ovvero il miraggio d’essa, il regista dell’exploit diplomatico. Un conto è andare in ordine sparso a una trattativa che tutti auspicano, altro conto è aprire un tavolo, come suol dirsi, senza la preoccupazione che qualcuno sparigli le carte.

Abbiamo dunque due «interpretazioni» dell’accadimento. Una diremmo «romantica»: il figlio (Bashar) che corona il sogno del padre (Assad) che s’è sempre sentito scippato del Libano. Nell’aprile del 1973, quando ebbi la ventura di intervistarlo, Hafez Assad, lui, la Sfinge di Damasco, mi disse che in Medio Oriente i confini sono le cicatrici della Storia: «Qualcuna non si rimargina mai». C’è, poi, un interrogativo prepotente alla ribalta. Ha un nome fatale: Iran. Non è un mistero che gli Hezbollah - trasferiti nel ‘79 da Khomeini nella vallata della Bekaa «per tener viva la fiamma di Gerusalemme» - siano oggi una valida forza politico-militare, fonte di quotidiana preoccupazione e sul terreno e nelle cancellerie. Quei soldati, telediretti dal regime iraniano, si muovono, a ridosso del Libano, con (preoccupante) mobilità operativa. Se, come da (solenne) comunicato congiunto Siria e Libano dalla gesticolazione passassero ai fatti, vale a dire decidessero di stroncare il montante terrorismo che angustia la Siria colpita nei suoi santuari di intelligence, siamo sicuri che Hezbollah non alzerà paglia?

Il segretario generale dell’Onu, commentando il colpo di scena ha definito «una pietra miliare» la decisione libano-siriana. Incrociamo le dita.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Non si diventa giornalisti all'università
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2008, 10:43:32 am
17/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Non si diventa giornalisti all'università
 
 
IGOR MAN
 
I giornalisti si dividono in due categorie: quelli che han fatto il Vietnam e gli altri»: ipse dixit quell’incrocio magico (cronista scrittore) che fu Tiziano Terzani. Ricordando Tiziano, un (valoroso) «inviato speciale» lamenta sulla Stampa gli infiniti verboten che un po’ dappertutto impediscono ai giornalisti di fare il proprio mestiere. La guerra del Vietnam l’abbiamo vissuta spalla a spalla con i GI (loro combattevano, noi prendevamo appunti). A Washington non gradivano che in Vietnam i giornalisti ficcassero il naso dovunque. C’era, in particolare, un reporter che «rompeva le scatole»: sto parlando di Peter Arnett. Un giorno, a Saigon, il suo capo (lavorava alla Cbs) gli disse che al Pentagono ce l’avevano con lui. «Ma io racconto quel che vedo», disse Peter. «Appunto». «E allora?». «Continua», disse il capo. In un altro Paese, Peter l’avrebbero licenziato; invece gli aumentarono lo stipendio, lo insignirono del Pulitzer. Altri tempi.

Oggi, se un inviato vuol respirare polvere da sparo, deve rassegnarsi a far l’embedded, il finto soldato, agli ordini d’un sergente. La collega Maggioni nobilmente accettò la sfida ma non poteva riuscirci. Addio Vietnam, dunque, dove sotto i nostri occhi sgomenti vedevamo crescere, giorno dopo giorno, la guerra, con tutti i suoi orrori blasfemi. Va detto tuttavia che durante l’ultima guerra mondiale gli «inviati al fronte» furono tutti militarizzati. Ebbene, ancorché in divisa, Dino Buzzati scrisse corrispondenze invero magistrali. (Ma questo è un altro discorso, non fosse perché di Buzzati ce n’è uno solo). Di più: oggi è in crisi, almeno da noi, in Italia, il mito del giornalista come categoria eletta, neutra, vestale dell’informazione. È in crisi l’identità dell’informazione stessa. E allora il Vecchio Cronista ripete quel che già disse al (valoroso) collega che si sente col braccio legato dietro la schiena. Dissi che bisognerà servirsi del passato (recente) per riconquistare il futuro, cioè il nostro esigente padrone: il lettore. Questo discorso però vale per i «professionisti», ma gli altri, quelli che sognano di diventar giornalisti? Bisognerà tornare all’antico: niente esami paludati ma tanta e poi tanta gavetta. Da «volontario». Ti faranno faticare a spezzaschiena, niente «corte», né vacanze, ma giro degli ospedali, caccia ai disastri, cura dei fatti periferici poiché spesso nascondono «fattacci». È banale dire «ai miei tempi», ma una volta il «volontario», il praticante mangiavano pane e piombo, e le interviste le facevano a tu per tu, non per telefono che le omologa. Suggerisco l’attenta lettura d’un libro senza paragoni. Lo ha firmato un giornalista vero, Ferruccio de Bortoli, si intitola L’informazione che cambia. De Bortoli, che oggi dirige Il Sole-24 Ore, di gavetta ne ha fatta tanta. Il suo libro, severo, aiuta i giovani colleghi a non giuocare l’illusione: non si diventa giornalisti frequentando una delle tante benemerite «università». Non basta il faticato diploma per sentirsi giornalisti. Se non si sta, giorno e notte, al chiodo, si finisce col diventare un (presuntuoso) impiegato della notizia, di quelli che «staccano» quand’è ora.

Ognuno ha la sua trincea, e accade che il mestiere del cronista si ponga a volte come metafora della condizione umana. Sicché vien fatto di pensare, ricordando Ilaria Alpi, e Maria Grazia Cutuli, e il solitario Russo e ancora Guido Puletti, Baldoni, tutti armati solo di taccuino e di biro, di cinepresa (Hrovatin), vien fatto di pensare, dico, che c’è «una qualità della morte», e per assurdo la vita della morte. Nel suo Vangelo Giovanni dice: «Chi ama troppo la vita la perderà. Chi non se ne cura la conserverà in eterno». Come a dire, forse, che la vita prosegue nella morte. Ma per chi ha perduto il suo bene più caro la morte è una dura spina.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN La suora "eretica" e la prostituta
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:27:01 am
24/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La suora "eretica" e la prostituta
 
IGOR MAN

 
Madre Teresa (1912-1997), l’abbé Pierre (1912-2007), suor Emmanuelle (1908-2008): i grandi vecchi di Dio se ne vanno. Ognuno di loro è morto come sperava. Madre Teresa di Calcutta in fuga dai funerali di Stato, la minuscola bara passata di mano in mano sino al tempio della Dea Kalì dove i suoi amici indiani avevano ritagliato uno spazio per lei; l’abbé Pierre che dice ai confratelli di non accendere la luce perché «sta arrivando Gesù»; suor Emmanuelle svanita dormendo all’alba dello scorso ottobre, diceva di non temere la morte ma il «prima» (l’agonia) e ogni notte, addormentandosi, «Signore, prendimi nel sonno», pregava. Il Vecchio Cronista ha avuto la ventura di passare una bella serata con lei. Accadde a Palermo nel settembre 2002, dopo la preghiera interreligiosa guidata dalla Comunità (laica) di Sant’Egidio. Nella corte cardinalizia avevano preparato un buon pranzo, Angela ci piazzò al tavolo di suor Emmanuelle. Ogni tanto lei rimaneva con la forchetta a mezz’aria: «Questo buon boccone - bisbigliava,- piacerebbe a Labib, sì a Labib Adli». E chi è Labib? «È l’egiziano che mi ha fatto scoprire gli zabbalín, gli straccivendoli. È lui che mi ha portato a Ezbet el-Nakhl».

In quel luogo non luogo infame dove underdogs in sembianze umane selezionano e riciclano l’immondizia del Cairo, la suora trova «il posto giusto». Per pregare. Nella sua baraccopoli la ragazza-bene che s’è fatta monaca mettendo in crisi l’intera sua famiglia, lei, suor Madeleine Cinquin detta Emmanuelle, arrangia un alloggio saccheggiato dai topi e da tre maiali, col bagno pubblico dietro un cumulo di sterco e monnezza. In quel tempo ha 62 anni, spera di mettere un po’ d’ordine nel letamaio abitato da centomila disgraziati. In quel luogo-non-luogo coabitano islamici cristiani copti, pochi cattolici. Contro le autorità religiose, la suora si ostina a rimanere «a casa mia», come dice. E giorno dopo giorno diventa «una di loro» adoperandosi per dare a chi non ha quel che desidera: il campo di calcio, la scuola, la dignità del lavoro. Ad adottarla sono in primis le donne che grazie a lei scoprono la dignità.

Ma se gli straccivendoli alla fine l’adottano, il rapporto con le autorità religiose rimane difficile: c’è chi l’accusa d’essere «eretica», persino. In fatto suor Emmanuelle è una credente atipica: proclama di rinunciare al proselitismo, nega, fortemente nega che fosse necessario crocefiggere Gesù. E lo scrive ai superiori. «Mi infastidisce - afferma -, l’idea ch’era necessario che Gesù morisse affinché suo padre ci perdonasse. Ma come: Dio ch’è amore senza confini avrebbe avuto bisogno di sacrificare il suo stesso figlio per rimediare ai nostri peccati? Dio coinvolto nell’assassinio di suo figlio, lui che perdona settanta volte sette, vale a dire sempre? Cristo non è morto per far piacere a suo padre, tuttavia non significa ch’egli non sia morto per noi.

Sì, è morto per noi perché si è fatto uno di noi. Ha accettato, per rivelarci ch’era Dio, di morire come noi». Ed è interessante che per dar nerbo al suo discorso, la suora degli straccivendoli citi l’allora cardinale Ratzinger: «Alcuni testi di devozione sembrano suggerire che la giustizia inesorabile abbia preteso un sacrificio umano, il sacrificio del suo stesso figlio. Questa immagine è tanto diffusa quanto fallace» (J. Ratzinger, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Mame 1976).

Congedandoci, chiesi alla suora quale fosse il ricordo suo più bello. «Nel ferragosto del 1967 il caldo si mangiava i polmoni. Avevo sete ma la mia borraccia era sparita. La mia vicina, L., professione meretrice, alzò la stuoia che le faceva da giaciglio e divise con me l’acqua che aveva nascosta.

La bevemmo tutta. Insieme». La suora e la prostituta, lodando San Francesco.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Pietre su Aisha e sul dialogo con l'Islam
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 02:56:46 pm
31/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Pietre su Aisha e sul dialogo con l'Islam 
 
IGOR MAN
 

Aisha Ibraim Dhuhulow è stata lapidata perché «colpevole di fornicazione». Aveva ventitre anni, fino all’ultimo ha gridato la sua innocenza. È accaduto a Chisimaio, porto bananiero a Sud-Ovest di Mogadiscio, l’antica terra dei Bagiuni. Tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, Aisha è stata ficcata sino al collo in una buca per poi essere lapidata. «Sdegno» ha espresso L’Osservatore Romano, denunciando il supplizio di Chisimaio, ma già da ieri Aisha è passata nelle «brevi» mentre, pragmaticamente c’è chi sostiene che il dialogo cristiani-islamici va continuato.

Quelli che hanno mandato a morte la giovine adultera sono i miliziani delle deposte «Corti islamiche», battute col concorso dell’esercito etiopico. Codesti miliziani sono la versione somala dei talebani: ignoranti e dunque facili da manipolare, essi hanno fatto della Somalia, di Mogadiscio in particolare, una sorta di ascesso di fissazione del terrorismo islamista. E quella che fu una torrida ma cordiale città africana altro non sarebbe, oggi, se non la centrale periferica di al Qaeda.

Prima che il mondo democratico abbandonasse la Somalia al suo orrendo destino, il Vecchio Cronista fu più volte in quel Paese, sotto la Croce del Sud. A sera il suono lungo delle campane, la voce del muezzin, il sorriso delle ragazze altere nelle loro fute variopinte, erano una sorta di benefica flebo intrisa di speranza. Siad Barre, il dittatore detto «bocca larga», lui credeva nel «dialogo» cristiani-musulmani.

Non sono poche le consonanze fra cristianesimo e islàm, molte sure del Corano riecheggiano gli Atti degli Apostoli, le cronache degli Evangelisti. Di più: il Corano esalta la verginità feconda di Maria, riconosce in Gesù il santo profeta figlio di Dio. Però qui cala la prima mannaia. Eccola nelle parole di Raimondo Lullo evangelizzatore cristocentrico del XIII secolo: «I saracini credono che nostro Signore Gesù è figlio di Dio ma non credono ch’egli sia Dio». Per il cristiano Dio si è rivelato allorché il tempo fu compiuto manifestandosi nella persona di Cristo Gesù redentore dell’umanità. Per l’islàm Dio rivela la sua parola (al Quran) ma non se stesso. Rimane inaccessibile. L’unica mediazione fra Dio e l’uomo è il Corano. Maometto è solo un Profeta. Santo ma solamente uomo. Ed ecco la seconda mannaia: la sharia. È quell’insieme di regole e disposizioni di legge in forza delle quali i vari califfi venuti dopo Maometto hanno affermato il proprio potere. La sharia è un corpus legislativo che istruisce l’esercizio della quotidianità. Prescrive, fra l’altro, il taglio della mano per il ladro, la lapidazione per gli adulteri. Non pochi ulema ammettono il dogmatico anacronismo della sharia ma poiché essa attinge alla fonte divina (la Sunna, gli hadith: i detti del Profeta) è intoccabile. Certo, dicono gli ulema «modernisti», talune disposizioni andrebbero abrogate. Tuttavia occorrerebbero testi idonei, cioè appartenenti al Corano, alla Sunna. Ma poiché il Profeta è morto «sia la Rivelazione sia la Sunna sono cessate: sicché la sharia è immodificabile».

Non confonderemo mai la sharia con l’islàm che predica la tolleranza. Attribuire a Maometto certe leggi crudeli, fuori del tempo presente come la lapidazione di Aisha sarebbe lo stesso che addossare a Gesù i misfatti della (santa) inquisizione. Ma la sharia attribuisce all’islàm valore di (unica) verità oggettiva. Che fare, dunque? Allah alam, Dio solo lo sa.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN La Casa Bianca aspetta Forrest Gump
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 05:18:04 pm
14/11/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La Casa Bianca aspetta Forrest Gump
 
IGOR MAN
 

I l Vecchio Cronista che ha cominciato a frequentare gli Stati Uniti dall’estate del 1950 ricorda due fatti davvero emblematici. Subito dopo l’assassinio di Kennedy, il direttore de La Stampa (l’irripetibile Giulio De Benedetti) mi spedì nel profondo Sud. Erano in pochi a piangere Camelot. A Little Rock intervistai il governatore Faubus, quello che impediva agli scolari neri di entrare nella scuola dei bianchi. Disse: «Se la son voluta, troppa spocchia. Han tutto, come gli studenti bianchi. Segregazionismo?, balle». A Buckingham (Alabama) un giorno presi posto al tavolo che mi avevano assegnato al ristorante dell’albergo. In attesa del maître mi immersi nella lettura di Ebony, rotocalco patinato fatto e letto da neri. Finito di leggere m’accorsi ch’era trascorsa mezz’ora buona sicché feci cenno al maître. Venne strascicando i piedi ostentatamente. «Vorrei ordinare il lunch», dissi. «Temo che dovrà servirsi del room-service», rispose. «E perché mai?». «Semplice, signore: leggendo davanti a tutti quella rivista di negri, “per” negri, lei ha provocato il personale che qui grazie a Dio è tutto bianco». S’inchinò, se ne andò.

A Jackson (Mississippi) quella comunità protestante aveva vietato l’ingresso nei templi ai sacerdoti neri. Per scrupolo professionale decisi di verificare l’ukase, di più: pregai un sacerdote nero di accompagnarmi, sempreché se la sentisse. Se la sentiva, andammo con mezza città appresso. Si accedeva alla chiesa scalando una erta gradinata di falso marmo di Carrara. Sulla soglia del tempio troneggiava il Pastore, ricco commerciante di tessuti. «Alt», disse il Pastore al prete nero. «Lei, fratello, non può entrare».

Perché? «Perché è la nostra chiesa, questa. Costruita col nostro denaro, una chiesa solo per noi, bianchi. La persona che l’accompagna può entrare e pregare con noi perché è bianco come noi», sillabò il Pastore. Feci per voltargli le spalle e andarmene ma il prete nero mi pregò di rimanere. Assistetti alla messa per soli bianchi. Tutta sopra le righe, una sorta di macumba saccheggiata dall’odore ruffiano della cera.

Sessant’anni dopo, il razzismo agonizza: un nero, lui, Barack Hussein Obama, entra nella Casa Bianca. Ha vinto l’America del cinema, della penicillina, del jazz, del petting, dell’atomica; della ricerca, della danza sulla Luna e delle stramberie. Ha vinto l’America del common sense, sorgente del pragmatismo di Dewey. Ma l’elezione del primo Presidente nero della Storia americana è soprattutto la consacrazione del melting pot calato nei fatti. Che a sua volta ha liftato i connotati d’un grande Paese-Continente usurati da un’improvvida guerra postcoloniale. Il vincitore è un metronomo umano che ha saputo crescere e agire da americano. I suoi compagni di scuola ci dicono che Barack era un ragazzino timido, a volte confuso. Oggi egli, semplicemente, con la sua ispirata voce da gospel, dice: «Mi sono fatto crescendo. E crescendo ho sperimentato che tutti gli americani hanno le stesse opportunità. Basta crederci». (Senza malizia: avete presente Forrest Gump?).

La Grande Nazione che ha distrutto il nazismo offre a chiunque almeno un’opportunità nella vita, ma per farcela, per rompere il guscio duro dell’anonimato occorre passare attraverso la cruna la più stretta. Il nuovo Presidente è approdato alla cattedra universitaria e persino al Senato passando, ostinatamente, per la cruna più ardua. Una cosa è cambiare idea, un’altra è capire «come fare» per convincersi che «si può fare». Vedremo se il giovine Presidente riuscirà a trovare gli strumenti adatti per concretizzare uno slogan felice: «Si può fare».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN I teatranti del quarto potere
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:40:21 am
21/11/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I teatranti del quarto potere
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Eravamo giornalisti»: è il titolo d’un lungo articolo apparso sull’Unità del 14 di novembre del 1996. L’articolo, firmato Gabriel García Márquez, il grande scrittore che si ostina a dichiararsi «giornalista», è tratto dal País (tradotto da Nuccio Ciconte). Come a chiosare la rubrica in cui il Vecchio Cronista scriveva che giornalisti non si diventa all’Università, il lettore Salvatore Marino mi invia il ritaglio (illustrato dalle foto di Indro Montanelli e di Ezio Mauro) tracciando un gran punto interrogativo col pennarello.

Della stampa una volta si diceva ch’era il Quarto Potere. Oggi non lo siamo più ma abbiamo sempre il potere di fare del bene o del male. Nel primo caso riferendo i fatti così come sono; nel secondo torturando i fatti per trarne la «morale» voluta. «Lo scoop ad ogni costo, giovani cronisti divorati da un’ansia di protagonismo, reporter che registrano conversazioni casuali senza avvertire l’interlocutore, redazioni inutilmente numerose dove non viene più insegnato il mestiere». Una cinquantina d’anni fa in Italia non esistevano le scuole di giornalismo. Si imparava nelle redazioni, in tipografia, nel baretto di fronte. Il giornale era una fabbrica di informazione e di formazione. C’erano riti importanti, noi giornalisti stavamo il più possibile sempre insieme: ogni giornale una comunità coi giovani ad ascoltare i vecchi e i vecchi a insegnare ai giovani. Oggi, spesso, l’unica preoccupazione di chi fa il giornale è solo quella d’avere le stesse notizie degli altri mentre è dimostrato che se l’esclusiva costa è anche vero che distingue il tuo giornale dagli altri. E sulla lunga distanza ciò paga.

La prima guerra del Golfo sembrò segnare l’apoteosi dei media, in particolare della tv pervenuta a una sorta di magica perfezione tecnica. La seconda guerra del Golfo, tuttavia, è una museruola a una macchina che si voleva perfetta (Alain Woodrow). Che codesta macchina avesse preso a ingripparsi cominciammo ad accorgercene nel dicembre del 1989. Allora tutti i media avevano mostrato descritto raccontato (e visto...) in Romania una rivolta popolare in quello che fu invece un golpe di palazzo. Avevano raccontato un massacro che non ci fu mai. Non pochi giornali, suggestionati dalla tv, corressero i servizi degli inviati facendo dir loro ciò che non era accaduto: la strage di Timisoara. Le cui (false) immagini allagarono il mondo.

Il fatto è che la tv non è fatta per produrre informazione; la tv, come ha ben scritto Ignacio Ramonet, «riproduce degli avvenimenti» e si propone semplicemente non già di farci comprendere una data situazione ma di farci assistere a un accadimento. Non è poco ma non è abbastanza e, poi, è «scivoloso», come usa dire.

Davanti a un’ informazione che tale non è, che parossisticamente segue la logica dello spettacolo, la gente comincia ad individuare i pericoli della «informazione-teatro». La gente comincia a capire che fra la comunicazione e l’informazione la differenza è enorme. Il giornalista non deve più contentarsi d’informare; deve anche comunicare. Nel suo C’est la faute aux media, Yves Mamou scrive che «informare è dire alla gente “questo fatto è importante”. Comunicare è dire alla gente: “Quest’accadimento è importante: PER VOI”». La verità vera, e sgradevole, è la comunicazione come la praticano coloro che non la considerano un lavoro giornalistico. Ora, se si vuole una corretta informazione, bisogna far sì che fra chi trasmette il messaggio e chi lo riceve ci siano i giornali quotidiani a far da passaggio obbligato, da snodo. Il compito del giornalista vero, faticatore, non è quello di trasmettere messaggi, bensì quello di fornire notizie.

 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN - I misteri delle patrie galere
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 05:54:38 pm
28/11/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I misteri delle patrie galere
 
IGOR MAN
 

«È una strage», dice Angiolo Marroni. Non si riferisce a Mumbai bensì all’Italia. Meglio: alle carceri italiane. A spingerlo a parlar di «strage» è Emiliano L., 35 anni, morto in cella nel carcere di Viterbo. Un «decesso misterioso» che ha spinto la Procura ad aprire un fascicolo «contro ignoti». Angiolo Marroni è il «garante regionale» dei detenuti. Una funzione certamente nobile, nelle intenzioni. Un pannicello caldo, nei fatti. Vediamo.

Il ministro della Giustizia, Alfano, lo ricorderete, ha proposto di affrontare con realismo e un minimo di pietas l’annoso problema-carceri. Spicca nella bozza del suo ddl la «messa in prova». E cioè: sotto la soglia d’un reato che non superi i 4 anni, si può, se incensurati, scontare la pena fuori dal carcere. Il ddl è parente stretto della probation anglosassone. Ha il pregio di «costringere» chi ha errato a danno del prossimo a cercare una sorta di riabilitazione sociale nel lavoro: sia di concetto, sia manuale. Di più: può in qualche misura sfollare le carceri che letteralmente scoppiano. La popolazione carceraria italiana è in «travolgente crescita»: mille detenuti ogni mese. Abbiamo nelle patrie galere 58.426 carcerati a fronte d’una capienza di 42.562. Se il trend è questo, e lo è, nella prossima primavera «verrà superato il limite (tollerabile) di 63 mila detenuti».

La probation è congegnata dall’avvocato Ghedini che tuttavia è visto come un giurista sol preoccupato di evitare leggi che possano «disturbare qualcuno». C’è, poi, a insidiare la probation la «fissa» della Lega che la vede alla stregua di un «favore» agli extracomunitari. Il ministro Maroni, anch’egli contrario, ha tirato fuori l’oramai decrepito «problema delle carceri»: occorre un piano edilizio, le carceri scoppiano, eccetera. Anche per La Russa: prima le carceri, poi il resto. Sono pressappoco 60 anni che il Vecchio Cronista sente parlare di carceri da costruire e da ristrutturare. Molte chiacchiere, niente fatti. La settimana scorsa in Palazzo Chigi-bis (la residenza di Berlusconi) il premier ha convocato gli «addetti ai lavori» per discutere del ddl di Alfano. Sappiamo di un intervento cristianamente audace, politicamente lucido di Gianni Letta che potremmo paragonare a una bilancia coi giusti pesi; ci auguriamo che quando questo scritto uscirà, il governo sia evaso dal tunnel.

Al tempo di Tangentopoli il Vecchio Cronista percorse San Vittore dalle 7 del mattino alle 7 della sera. Una ricognizione che mi ha lasciato, dentro, una cicatrice complicata. «Noi responsabili delle carceri - mi disse Pagano, il direttore - insistiamo da anni sulla necessità d’una profonda riforma che sia anche edilizia. Un recluso, innocente o colpevole che sia, è innanzitutto un essere umano ma la civiltà dei consumi se ne accorge solo quando scoppia la rituale sommossa. È ingiusto, incauto comportarsi così». Abito da 57 anni nella vecchia Roma, a un passo da Regina Coeli e sono 57 anni che sento e leggo della sua «prossima» chiusura: per farne addirittura un hotel di lusso. Ma la vecchia galera è sempre lì. Fu costruita nel 1881, ha celle simili a sepolcreti: 17 mattonelle per otto. In tanto angusto spazio che contiene la tazza del cesso, stanno in media due persone.

«Drento Regina Coeli c’è ‘na campana / possi morì ammazzato chi la sona / La sona ‘n boiaccia de carne umana». Così cantano i carcerati e le loro voci arrivano al Gianicolo, dove bivaccano i famigliari dei prigionieri. I parenti affidano al vento richiami e messaggi. È una tradizione che non s’arrende, un rito amaro, non senza solennità.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Su Mumbai il turbante di Khomeini
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 09:43:19 am
5/12/2008 - IL VECCHIO CRONISTA 
 
Su Mumbai il turbante di Khomeini
 
IGOR MAN

 
La strage di Bombay è passata in pagina interna ma non son pochi i lettori che continuano a interrogarsi e interrogano il Vecchio Cronista. Anticipiamo l’avvenire andando su Marte ma facciamo della Terra un mattatoio? domanda il signor Pietro Lamanna (Chieti). Vediamo. Il terrorismo nichilista («mi uccido per uccidere») è il frutto di una cinica manipolazione del Corano, che si vuole sia stato dettato da Allah al profeta Maometto per il tramite dell’Arcangelo Gabriele. È Khomeini, l’imam che ha spodestato lo Scià Reza Pahlevi con la sua rivoluzione a mani nude, a «inventare» codesta bomba umana.

Intervistato ad hoc in quanto insigne giuresperito, Khomeini afferma che sì il Corano condanna il suicidio. Ma chi si uccide per ammazzare il nemico è degno di «amore e rispetto» e dunque meritevole del Paradiso. L’imam cava dal suo logoro turbante la terribile carta quando l’Iran deve affrontare l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, inopinatamente promosso, dagli Usa, alleato (scomodo ma valido). Un esercito raccogliticcio, quello persiano, contiene l’offensiva irachena, non solo: riesce a insidiare Bassora, città chiave del conflitto. Gli iracheni lamentano tuttavia la mancanza di sminatori sicché gli tocca segnare il passo. Qui il colpo di teatro: Khomeini arruola i bambini. Li veste di bianco con la benda del sacrificio in fronte, li manda, scalzi, a bonificare i campi minati. Saltando per aria con le mine.

Come a prevenire lo stupore e lo sdegno del mondo, Khomeini riempie i giornali delle fotografie degli impuberi «martiri», pubblica lettere esaltate dei genitori dei piccoli i cui parenti il governo colmerà di benefit. Nonostante il sacrificio dei bimbi-martiri, Khomeini subirà il cessate il fuoco dell’Onu. Da quel momento il vecchio gufo di Javaran varerà l’insegnamento del «martirio» spedendo pasdaran un po’ dappertutto nel mondo. La tattica operativa del terrorismo attuale risale presumibilmente ai dettati dell’organizzazione russa Narodnaya Volya (1878-1881): colpire nel mucchio «per uccidere sbalordendo». Anteriore ai russi assassini dello zar Alessandro II, la leggenda del Grande Vecchio della Montagna, capo della setta degli «assassini»: si vuole che fossero ismailiti venuti dalla Persia in Siria nel secolo undecimo: uccidevano anch’essi «per sbalordire». Epperò non si uccidevano per uccidere. Dopo la liberazione di Saigon, il generale Giap disse che «il terrorismo serve ma non risolve». In ogni caso i terroristi andavano classificati come «commandos speciali», non eroi. Così i tre vietcong terroristi, già considerati eroi, rimasero senza medaglia.

Da sempre il terrorismo viene considerato arma «non eroica». L’Agenzia ebraica e Ben Gurion condannarono con sdegno la strage di Deir Yassin (9 aprile 1948), opera dell’Irgun e del Lehi: 250 palestinesi massacrati e gettati nei pozzi o lasciati marcire all’aperto.

Il «salto di qualità» si ha con Khomeini, fonte, l’imam, d’un turpe contagio. Khomeini «spiega» che suicidarsi non è peccato mortale quando si uccide il nemico infedele. Non necessariamente, dunque, i terroristi-suicidi (vedi i replicanti di Bombay) sono tutti persone senza più nulla da perdere come la maggior parte dei «martiri» palestinesi nati e cresciuti in quelle fogne che chiamiamo «campi». E allora? Nel nuovo disordine che ci angustia dopo lo stupro delle Torri Gemelle, riesce difficile immaginare che il terrorismo-suicida più non colpisca. Ma come tutte le cose terrene, finirà. Mai nella storia la contestazione terroristica è diventata istituzione.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN A New York con Marilyn in cucina
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 07:10:25 pm
19/12/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A New York con Marilyn in cucina
 
 
IGOR MAN
 
La «Città del Sole» accende di luci e colori un angolo severo di Roma: San Luigi de’ Francesi. La «Città del Sole» non ha nulla da spartire con l’utopia di Tommaso Campanella: è un negozio. Di giocattoli. Scagli la prima trottola chi non è mai entrato in un negozio di giocattoli. Nel ricordo del Vecchio Cronista i bambini guardavano incantati il trenino, si scambiavano pareri sul triciclo rossoferrari. Ammiravano, commentavano ma non toccavano i regali vigilati da commessi arcigni. Nel dicembre 1963 chi scrive si trovava a New York, sulla via di casa, dopo aver «coperto» l’assassinio di Kennedy. Rimaneva da fare una spedizione da Macy’s a caccia di regali per il figlio (allora) bambino.

Il quinto piano del mitico supermarket era un braciere di luci, Babbo Natale dappertutto, carole natalizie a pieno volume. In fondo rotolava sulla moquette un groviglio di bambini che simulavano mischie di rugby. Altri menavano fendenti con mazze da baseball o demolivano una fiabesca casa di Topolino. Abituato ai composti bambini italiani, turbato dalla vulcanicità di quelli americani, ne parlai a Misha Stille, sempre generoso nello spiegare agli «inviati» l’America. Scaravoltando il reparto toys, i ragazzini prendevano confidenza coi giocattoli, se li godevano tutti. Prima o poi, sorrise Misha, anche gli europei avrebbero fatto dei giocattoli un veicolo di conoscenza. E così è, lo vediamo nei negozi: i bimbi sembrano felici, tutti i regali gli appartengono.

Andando su e giù con l’ascensore della memoria, ricordo la New York frequentata dal 17 luglio 1950. Al 14 di Central Park South abitava un italiano singolare, Renzo Nissim. La sua casa aveva un bel pianoforte sul quale lui e Oscar de Mejo improvvisavano jazz. L’uscio era sempre aperto: una volta Prezzolini cucinò gli spaghetti. Una sera venne Faulkner. Non pronunciò motto, bevve. Tre fiaschi di Chianti. Cholly Knicherbocker mi prenotava sempre l’Algonquin, l’albergo di Scott Fitzgerald, di Hemingway. Fu lì che mi presentarono a J.F.K. quand’era senatore-candidato. Tutta la sera in piedi, poggiato a una colonna di cartongesso: «È a causa della schiena», spiegò. La guerra gli aveva sfondato la schiena, lo tormentavano inestinguibili dolori. Il giorno in cui Franco Occhiuzzi (amico straordinario) mi portò a casa di Marilyn Monroe, la trovammo che faceva i suffumigi in cucina come una ragazza di campagna.

Grande Mela, antico amore. All’angolo di 57 Strade con Broadway un violinista mai stanco suonava rapinosamente laRapsodia in blu. Vai da Tiffany, comperi una robina da 15 dollari e ti ringraziano come se avessi acquistato un monile miliardario. Una sera guardavo un quadro di Pollock nel suo studio e lui mi disse: «Non guardar troppo, ti perderesti». Compresi che New York è un soave labirinto che può sboccare nella felicità. In America arrivano momenti amari e tuttavia la gente non sembra aver perduto la speranza. E da noi, nella nostra incasinata e cara Italia? La Confcommercio ci regala una notizia buona: l’esercito dei consumatori sembra aver varcato il Rubicone, non si ferma alle vetrine, appare deciso a conquistare un friggico di Natale; insomma, si torna ad acquistare e non importa se il regalo è piccolo. Certo non bastano a rasserenarci del tutto i bimbi che sminuzzano i regali, le commesse che acquistano il pulloverino di finto cachemire. Babbo Natale non basta ma, col Vecchio Cronista, facciamo un sforzo: sorridiamo. Non è facile, lo so, ma può aiutare quel che disse un giorno Giovanni Paolo II: «In un viale senza uscite, l’uscita si trova nel viale stesso».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Il quarto dei magi che ritardando giunse in anticipo
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 11:51:52 am
27/12/2008
 
Il quarto dei magi che ritardando giunse in anticipo
 
IGOR MAN
 

E’ nato il bambino ch’è già nato. Un bambino povero, senza giocattoli, una mangiatoia per culla. È nato nel buio della povertà ma subito ha sparso luce perché gli uomini sapessero dove andare e chi adorare. Tanto tempo è passato da quel momentum ma «sembra ieri» e da allora anno dopo anno si rinnova il mistero chiamato Gesù.

Un miracolo non più idilliaco, difficile da rinnovare; un miracolo antico e tuttavia presente. «La novità vera è Gesù, contemporaneo ad ogni epoca», ipse dixit Giovanni Paolo II al Vecchio Cronista allorché questi fu ricevuto nell’appartamento pontificio il 9 di dicembre del 2001. Era prevista una udienza di routine ma papa Wojtyla, inopinatamente, mi dedicò mezza mattinata. Nel lontano 1949 avevo incontrato Padre Pio, lungamente. E Giovanni Paolo II, insaziabile, mi interrogava sul cappuccino che di lì a poco avrebbe fatto santo. In quella inobliabile occasione parlammo dell’islàm nella prospettiva del «dialogo» che secondo il Papa avrebbe potuto trovare una sorta di «paziente scorciatoia» nella preghiera interreligiosa, dal Papa stesso affidata all’«Onu di Trastevere», cioè alla Comunità (laica) di Sant’Egidio. Ogni anno, cristiani, ebrei e islamici si radunano in una capitale del mondo per riflettere e ragionare sulle religioni monoteiste. Chiude la «tre giorni» la preghiera interreligiosa: si prega fisicamente insieme; ognuno a suo modo, spiritualmente. Il Papa parlava sommesso ma la sua voce si fece alta e forte quando ricordò l’Epifania: «Il racconto dei Magi può, in un certo senso, indicarci una rotta spirituale - disse -: i Magi furono in qualche modo i primi missionari. L’incontro col Cristo non li bloccò a Betlemme ma li spinse nuovamente per le strade del mondo». Giovanni Paolo II, l’ho già scritto, fa pensare al «quarto» dei Magi. Mia madre, russa ortodossa, mi raccontava la incredibile storia, appunto, del «quarto».

Si chiamava Artaban ed era un persiano zoroastriano. Comparsa la stella cometa, si mette in viaggio per raggiungere gli altri tre. A poche ore dall’appuntamento, Artaban si imbatte in un ebreo terribilmente ferito. Soccorre il moribondo, questi guarisce e lo ringrazia rivelandogli che il Messia sarebbe nato a Betlemme. Mancato l’appuntamento con Gaspar, Melkior e Balthasar, il «quarto» vende una delle pietre preziose destinate al Bambinello e allestisce una nuova carovana. Arriva a Betlemme ma in piena strage degli innocenti. Con un rubino salva dalla morte un bimbo corrompendo i centurioni che stavano per sgozzarlo. Passano gli anni e il vecchio Artaban conserva gelosamente l’ultimo suo tesoro: una rarissima perla. Con essa, un giorno doloroso, il «quarto» spera di salvare il Messia dalla crocefissione. Ma sul Golgota un ragazzo lo implora di riscattarlo dalla schiavitù romana e il vecchio re sapiente sacrifica l’ultimo suo bene: la perla. In quel preciso momento «egli si avvede d’essere stato ammesso, per primo, alla presenza del re tanto atteso e cercato, quello vero: Gesù». Qui è stato facile a chi scrive identificare, se così può dirsi, il quarto dei Magi in Giovanni Paolo II.

C’è infatti una morale in questa storia, una morale luminosa come la grotta in cui nasce Gesù di Nazareth. Eccola: Artaban è giunto in ritardo a Betlemme ma è arrivato in anticipo sulla Pasqua di Resurrezione. Tutto muta ma nulla è cambiato e allora diremo, credenti e laici, che Gesù non è solamente dalla parte del Mistero di Dio di fronte all’uomo, ma altresì dalla parte dell’uomo di fronte al Mistero di Dio.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN L'assenza degli Usa
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 12:02:15 pm
28/12/2008
 
L'assenza degli Usa
 
IGOR MAN
 

Sul carnaio di Gaza si scontrano, intrecciandosi, parole inquietanti come avvoltoi. «Questa aggressione ci dà il diritto di replica. Tutte le opzioni sono aperte: missili, operazioni suicide».

Eancora: «Tutte le armi possibili saranno puntate sul nemico. I prossimi giorni saranno testimoni della nostra risposta a questo nuovo olocausto»: così, alla tv al Jazira, un portavoce di Hamas, Fawzi Ibrahim. Niente affatto bombastiche ma dure, pesate una ad una, le dichiarazioni di Shimon Peres, lo storico presidente di Israele, già compagno di Rabin in quell’illusorio porto di pace che fu Camp David. «Non abbiamo nessuna intenzione di entrare a Gaza. Vi sono altri mezzi per centrare gli obiettivi. Non abbiamo sgomberato Gaza per farvi ritorno», ha scandito Peres, aggiungendo: «Il problema è che Hamas vuol fare in Cisgiordania il bis di Gaza, un vero e proprio golpe. Senza il colpo di mano di Hamas, al suo posto ci sarebbe oggi uno Stato di Palestina. E’ tutto ciò che preoccupa gli israeliani: Israele ha combattuto sette guerre contro gli arabi. Ora basta». In una giornata fosca che ha seminato morti perloppiù innocenti, i commenti di stampa e tv in Israele sono improntati alla cautela, tesi a tranquillizzare una opinione pubblica che con antica dignità non dà sfogo aperto alla preoccupazione; nel suo intimo ogni israeliano paventa il peggio: una nuova guerra.

Al fermo ma non allarmato discorso di Peres, fa eco sinistra quanto detto dal ministro della Difesa, l’implacabile Ehud Barak al quale si attribuisce da tempo un «piano» per sgominare Hamas. «C’è un tempo per la calma - c’è un tempo per la guerra», ha detto ieri ai giornalisti parafrasando l’Ecclesiaste. Ora è il momento per combattere, ma il blitz «non sarà facile né breve». Quella che Barak ha battezzato «operazione piombo fuso» ha riproposto un logoro copione ch’è, poi, una ennesima parafrasi del déjà-vu in Medio Oriente, dal 1948 a oggi. Con varianti significative. Mosca ritiene «necessario» fermare le operazioni su Gaza, e fin qui siamo nella routine diplomatica che nei riguardi di Hamas suona così: «Invitiamo (nello stesso tempo) la dirigenza di Hamas a cessare i lanci di razzi contro il territorio israeliano». Dalle dichiarazioni del Cairo traspira invece una forte irritazione che investe Israele ma altresì Hamas. Secondo copione, un po’ tutti i raiss deplorano, invitano, auspicano eccetera: da segnalare l’apertura di Refa, voluta da Mubarak, volta a consentire il ricovero dei feriti in Egitto. (Le vittime dell’«operazione piombo fuso» sarebbero finora più di duecento).

Ma l’attenzione dei guru di Zamalek è concentrata sulle dichiarazioni del portavoce Usa. Costui ha chiesto (come riferiscono le agenzie di stampa) a Israele di «evitare a Gaza vittime fra i civili». Washington ha chiesto ad Hamas di interrompere il lancio di missili Qassam contro Israele, «se vuole giuocare un ruolo nel futuro del popolo palestinese». Ma non ha chiesto, la Casa Bianca, ad Israele di interrompere il raid aereo le cui vittime, fatalmente, sono le donne, i bambini. Si vuole che il presidente Mubarak abbia voluto chiedere (a chi di dovere) di interrompere «le rovinose incursioni aeree». In altri tempi, osservano sempre al Cairo, gli Stati Uniti avrebbero condannato con forza un blitz che in fatto anziché i provocatori di Hamas uccide, vuoi o non vuoi, degli innocenti. Ora la domanda è questa: chi è in grado di spegnere il braciere mediorientale?

Una volta, non appena gli Stati Uniti mandavano una (modesta) motosilurante di fronte alle coste del Libano o nel Golfo, tutti i riottosi si fermavano: urlavano maledizioni, minacciavano sfracelli ma non si muovevano. E questo perché gli Stati Uniti facevano paura. Dopo la perdurante guerra in Iraq, e dopo le trappole afghane, oggi insomma, l’America non sembra più all’altezza di svolgere l’antico ruolo di severo paciere. Oggi gli Usa spediscono flotte intere nel Golfo, minacciano punizioni, gridano persino, ma nessuno sembra badar loro. Il Medio Oriente, insomma, mostra di non aver più paura degli Stati Uniti. E questo oltre che amaro è scoraggiante.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Diavoli, angeli e la buia notte di Roma
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2009, 10:30:46 am
2/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Diavoli, angeli e la buia notte di Roma
 
IGOR MAN
 

Quando il buio cala su Roma («la capitale meno illuminata d’Europa») l’Urbe diventa un’Indianapolis alla vaccinara sferruzzata com’è dalla furia mobile di sciagurati automobilisti a caccia dell’uomo-pedone. Di conserva con gli epigoni della Banda della Magliana, fatti di coca, complice il buio, compaiono quelli della notte, i clochards. Questo accade da almeno vent’anni ma l’infaticabile sindaco Alemanno sperava che l’operazione-sicurezza, vale a dire «la presenza sul territorio» di circa mille fra soldati, poliziotti, carabinieri, vigili urbani, unitamente all’apertura notturna della metropolitana avrebbe dato «una ripulita» alla notte romana. «Ripulita» indispensabile per avviare una bonifica. «Nemmeno l’esercito è riuscito a sconfiggere le bidonvilles» ha sconsolatamente titolato il Messaggero. A Castelfusano, scrive Giulio Mancini, mille ettari di pineta compongono una favela mediterranea. Sono un migliaio gli «invisibili» che l’abitano, dividendosi in accampamenti puntiformi composti ciascuno da cinque-sei baracche. Proprio tre giorni prima del «capodanno blindato», è andata a fuoco una baracca bruciando vivi una ragazza romena e il suo bambino di tre anni.

Va subito detto come sia difficile gestire i clochards. Hanno paura della polizia poiché pur essendo a Roma da trent’anni (è il caso di C. e di F., due sorelle), sono senza documenti. «Ce li hanno rubati». Chi? «Che importanza ha: ce li hanno rubati e qui finisce». Una carrozzina fa da abitazione mobile, le due sorelle ogni sera preparano un giaciglio nei giardinetti di Termini. A pochi metri dal giaciglio c’è il dormitorio della Caritas, ma le due sorelle «non si fidano». Di chi, perché? Sorridono furbe dopo aver rifiutato l’offerta di una pizza e mezza fojetta di vino dei Castelli (cfr. G. Giuliani). C. e F., rispettivamente 66 e 70 anni, frequentano, tuttavia, la mensa allestita dalla Comunità di Sant’Egidio, la rinomata «Onu di Trastevere». Su Avvenire Popotus ci informa che a Roma ci sono settemila persone, d’ogni età e lingua, «senza dimora». Cinquemila dormono ogni notte per strada.

Il vecchio cronista ha avuto, una notte, la ventura di porre a un «barbone» una domanda seria: perché e come si diventa clochards. «Improvvisamente t’accorgi che dentro s’è rotto qualcosa. Dentro di te c’è un pezzo che s’è fuso e non si può sostituire. Così si decide di cambiare: la vita».

Nel buio di Roma accanto ai diavoli camminano gli angioli della notte, i «ragazzi» di Sant’Egidio. Hanno imparato a rispettare i «barboni» che, per esempio, non amano essere toccati. Gli angioli sanno porgere una coperta o l’aspirina senza umiliarli. E non importa se i «barboni» puzzino di piscio o di vino pessimo: «L’anima non puzza», dicono i ragazzi di Sant’Egidio che poi sono docenti universitari o semplici ragazzi-bene, non boyscout.

L’«Onu di Trastevere» ha realizzato la pace in Mozambico e per la pace si spende, come in questi terribili giorni di stragi in Terra Santa. Ho chiesto cosa li affatichi di più: servire i poveri o aiutare gli uomini di pace. Risposta: «Noi distribuiamo 1500 pasti al giorno e francamente non è facile imboccare un vecchio vecchissimo, per di più inappetente. Ma non c’è difficoltà più aspra che convincere i politici che la pace è ineluttabile».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Sangue senza fine
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2009, 10:12:25 am
4/1/2009
 
Sangue senza fine
 
 
IGOR MAN
 

E’ un momento grave. L’anno nuovo, segnato dalla spedizione punitiva di Israele a Gaza, cavalca l’incognita del «dopo» - e cioè tutto finirà quando Hamas sarà in ginocchio ovvero il blitz accenderà un nuovo fronte, in Libano, dove Hezbollah sarebbe in pre-allarme? L’interrogativo verosimilmente cadrà nelle prossime quarantott’ore, allorché sarà possibile capire se l’operazione «Piombo fuso» avrà raggiunto l’obiettivo fissato dallo stato maggiore di Tzahal, obiettivo oggi difficile da individuare. Al Cairo quegli esperti puntano l’attenzione sul consenso popolare in Israele, alto.

L’80% della popolazione appoggia «Piombo fuso», solo il 4 per cento si oppone. Detto una volta ancora che Israele s’è mosso per difesa davvero legittima, sarà utile ricordare che gli accadimenti mediorientali non possono misurarsi col metro occidentale. C’è una «previsione» sul risultato del blitz israeliano sulla quale occorre per altro riflettere. A formularla è stato un leader di Hamas, il giuresperito Nizar Rayan, esattamente quattro giorni fa. Dopo aver dettato la «previsione» alle agenzie di stampa, il dottor Rayan è morto: nelle macerie dell’Università islamica rasa al suolo dall’aviazione israeliana. «Qualsiasi cosa faccia Israele ad Hamas, Hamas vincerà. E questo perché se ci uccideranno diventeremo martiri - se non ci uccideranno consacreranno la nostra vittoria». Ipse dixit uno dei più popolari uomini di Hamas. Se le sue parole saranno percepite dai miliziani, sarà estremamente difficile per Israele bonificare Gaza. Certamente i soldati di Israele potrebbero distruggere (nel senso di tabula rasa) Hamas magari in pochi giorni ma l’esercito di Tel Aviv non è un esercito di lazzaroni. Ci sono regole che solo banditi di passo potrebbero violare; c’è un’etica che va rispettata ancorché sia fatta di sangue e odio. Va detto altresì che gli uomini di Hamas sapevano che la pazienza di Israele si era esaurita, la pioggia di razzi sulle città israeliane invalidava un Paese intero. Israele è territorialmente piccolo, è una sorta di «piccola provincia» dove un po’ tutti si conoscono, come da noi nel Sud; ogni persona o soldato ha nome cognome e indirizzo. Tutto il Paese chiedeva da tempo che finisse l’incubo dei razzi di Hamas. Va detto ancora che le formazioni politiche sono sul piede di guerra in vista di prossime elezioni. Ed è possibile che la dura reazione israeliana alla sistematica provocazione dei «guerriglieri di Dio» sia stata anticipata in vista, appunto, della consultazione elettorale.

C’è, poi, un risvolto interno nella tragedia. La guerra è sempre una tragedia e non risolve: è dal 1947 che Israele ha fatto, fa guerre. Per resistere al crescente stillicidio di colpi di mano, conflitti e tregue, insomma per sopravvivere. Israele, oggi, è una minuscola nazione nucleare, ha l’aviazione più forte del mondo e ci precede nel campo della ricerca. E’ diventata un Paese piccolo e felice che tuttavia non ha saputo rassegnarsi a considerare il dramma di un altro popolo, quello palestinese. C’è stato un momentum che la pace con l’eterno nemico sembrava possibile: sul tema della pace ad ogni costo, Rabin, e con lui il partito laburista, vinse le elezioni proponendo agli israeliani un futuro «normale». Ma un giovinetto forse pazzo volle leggere nella Torah che Rabin era un «rinnegato», e come tale passibile di morte. E lo uccise. Da quel momento Israele ha camminato su due piani: la pace ma non ad ogni costo - la pace con tutti i nemici, quindi anche con Hamas, con Hezbollah. Queste due opzioni han finito con l’annullarsi ed oggi, paradossalmente, Israele a dispetto della sua potenza è in difficoltà.

Rimane solo da augurarsi che gli innocenti che fatalmente questo blitz frantuma non siano morti invano. I morti non risolvono il dramma dei vivi: la guerra è un vicolo cieco. Ma la Storia ci dice che sempre dal grembo insanguinato della guerra è nata la pace.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN - Nel kibbutz per capire Israele
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 01:17:04 pm
9/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Nel kibbutz per capire Israele
 
IGOR MAN
 

Sono giornate devastanti quelle che scorrono in Medio Oriente e il Vecchio Cronista una volta ancora ricorda l’incontro, nel 1959, con Berta Grinstein. Non la vedevo dal 1939 (io fanciullo, lei signora di mezza età), allorché venne cacciata, con la famiglia, dall’Italia in forza delle leggi razziali. Ci vedemmo a Waterbury (Co) e fu lei a procurarmi l’intervista con Ben Gurion, suo mezzo parente. Alla lettera di presentazione, Berta aveva accluso un bigliettino per me: «Se vuoi capirci, se vuoi capire Israele, devi, devi visitare Lahomei Haghetaot. Shalom, shalom». È un kibbutz dove gli scampati alla strage di Varsavia (3 agosto 1944) in soli trenta metri hanno allestito un museo della Memoria. L’impatto è forte. L’ambiente è scabro, fiero, ma niente affatto retorico; evidente è l’intenzione di far parlare «in diretta» la Storia affinché la Memoria duri. Sui muri spiccano le macchie gialle delle stelle di pezza imposte da Hans Franck agli ebrei; gli stampati con la scritta Jood da affiggere sulle botteghe; una svastica e un documento che ci riporta, sgomenti, nell’Italia repubblichina: «Questura di Roma - oggetto: traduzione ebrei al concentramento di Carpi, in numero di 38 (trentotto). Pregasi di rilasciare al funzionario latore relativa ricevuta. Firmato: il Questore Pietro Caruso. Roma addì 25 febbraio 1944, XXII».

Quel che colpisce è «relativa ricevuta»: cose erano, povere cose gli ebrei in «traduzione». Cose destinate a finire nel gas nazista. Cose. Che tuttavia risorgeranno: come ci dicono i disegni dei bambini ebrei condannati a morte perché ebrei. Capovolgendo la realtà (siamo, in fatto, al Presagio) quegli innocenti disegnavano gli adulti: il papà, lo zio, l’amico che, armati di lunghi fucili, mettevano in fuga le SS. Inconsciamente quei bimbi ebrei si ribellavano al cliché dell’ebreo rassegnato, eterno perdente. Quei disegni reclamano il diritto d’esser dichiarati profetici. Essi anticipano la mutazione degli sfiniti reduci dai campi di sterminio in soldati vincenti: quelli che hanno costruito Israele, anzi il Nuovo-Israele, paese democratico, prima potenza militare del Medio Oriente, primatista nella Ricerca.

Quello che i Padri fondatori hanno creato in Palestina è certamente da ammirare ma paradossalmente il suo limite è la Supremazia. Un ebreo d’antica famiglia, Gad Lerner, ha citato su Repubblica il «Giobbe» di Joseph Roth: «Tutto ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano». Magari ne serbassero memoria gli Israeliani, esclama Gad. «Esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo-risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l’importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia». Insomma, dice Gad: la guerra non risolve. Ancorché sempre vittorioso, Israele è tuttora accerchiato da nemici che ne sognano la distruzione. Guerre brevi assicurano lunghi periodi di pace ma a ogni vittoria Israele vede crescere l’odio dei vicini. Esiste una dicotomia geopolitica alla base dell’eterno limbo in cui (coraggiosamente) Israele vive. Nell’arengo mondiale è un paese come gli altri, nell’ambito regionale è «un corpo estraneo» condannato a morte dall’islam militante; al tempo stesso è la testimonianza d’una superiorità che esaspera il complesso d’inferiorità dei suoi (frustrati) vicini. Temo che questo scenario non muterà mai. Voglio ricordare che nel 1956 i soldati israeliani cantavano: «Sempre in tre saremo: io, tu e la prossima guerra».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN A Gaza come a Baghdad
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 12:53:44 pm
23/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A Gaza come a Baghdad
 
 IGOR MAN
 

I bambini palestinesi nati a Gaza sotto le bombe omicide, diventeranno terroristi? È questo il destino che li aspetta? Non si riesce a immaginare altro destino per chi col latte succhia odio. La spedizione punitiva chiamata «piombo fuso» si è fermata: non sappiamo ancora se per un’ingannevole tregua ovvero per l’ennesimo «tavolo» affidato a scettici sherpa incaricati di abbozzare una messa in scena sulla falsariga di Annapolis. Israele, in forza della sicurezza, aveva vietato alla stampa mondiale di «coprire» la spedizione punitiva che ancorché non fosse «la guerra» bensì un frullato maledetto di battaglie, ha seminato lutti e danni, distrutto case e speranze, ma soprattutto ha seminato irriducibile odio. Epperò Israele, paese democratico, alla fine ha aperto alla stampa. E accade che l’ascensore della memoria conduca il Vecchio Cronista al 14 di febbraio del 1991, in piena (prima) Guerra del Golfo. Vediamo. Alla tv di Amman lo speaker piange sulle immagini venute da Baghdad: è «la strage del bunker» che ha sfranto il mito giovine della «guerra chirurgica». «Fermate il genocidio...», urla lo speaker. È il telegiornale delle 19, il più seguito al di qua, al di là del Giordano. La guerra pressoché senza immagini ha ora un’immagine antica: la morte degli innocenti.

Sarebbe importante sapere se quel bunker fosse davvero un obiettivo militare centrato con precisione chirurgica da una «bomba intelligente» ovvero un rifugio destinato ai civili, insomma un bunker non intelligente. (Ancora oggi il massacro è la sola realtà che abbiamo).

Nemmeno Dario Argento avrebbe potuto inventare immagini tanto crudeli da apparire mostruose più di quelle cinematografiche: il tronco d’un ragazzo pietrificato dalla morte subitanea, il capo riverso, la bocca spalancata dall’urlo dello spasimo finale (ancora una volta ritorna l’Urlo di Munch a far da logo), le mani a cercare le gambe incenerite. Due mani di donna giovine, due mani soltanto a galleggiare, incrociate, sul grembo sostituito da un grumo di antracite. Allora, nel 1991, quella bomba intelligente, l’ordigno perfetto guidato dal laser, attraversò due spessi strati di cemento e di acciaio giungendo con tragica precisione al punto prestabilito «trovato pieno di donne e bambini». Quell’ordigno stragista non colpì al cuore lo spumeggiare un po’ fatuo del linguaggio di guerra. Triple A (la contraerea), target of opportunity (bersaglio grosso), CD (collateral damage, cioè vittime civili). Ancora pochi giorni fa, a Gaza, sinistramente volavano ordigni portatori di collateral damage: donne e bambini che Israele sosteneva fossero diventati parabersagli per il satanico volere dei miliziani di Hamas.

Ora supponiamo (è facile) che «piombo fuso» abbia centrato tutti gli obiettivi indicati dallo stato maggiore. Il problema è un altro. Antichissimo. Il problema è, sarà, vincere la pace. Jacques Berque ha scritto: «Nessuno ha capito che le guerre coloniali hanno una particolarità: vincerle è peggio che perderle. E più la vittoria è schiacciante, più diventa inutile». La lunga guerra, gravida di infinite vittorie ma laboratorio di odio indotto, questo eterno combattimento di sopravvivenza che Israele persegue (e vince) non è proprio una guerra coloniale ma per il resto penso che Jacques Berque abbia ragione.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Che cosa ne direbbe l'Avvocato
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2009, 02:54:45 pm
30/1/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Che cosa ne direbbe l'Avvocato
 
IGOR MAN
 

I 24 di gennaio (scorso) «fa sei anni» ch’è morto l’Avvocato.

Ma «sembra ieri». È questo un modo di dire affatto italiano per manifestar rimpianto, per dirsi che il tempo trascorso, ancorché lungo e gonfio di accadimenti, ha soltanto scolorito il dolore che la scomparsa di «quella» persona provocò in noi. «Sembra ieri». Secondo quella che chiameremo la filosofia del vecchio cronista, tutti i Personaggi, una volta chiusi gli occhi definitivamente, entrano nel tunnel. Del silenzio. Non se ne parla più, o poco, verosimilmente perché i giorni corsi fra la Morte e il Suffragio hanno divorato le moltissime parole, scritte e dette, in lode del Personaggio. Insomma, il barile della pietas è stato raschiato sino in fondo. Sicché fermiamoci su di un interrogativo che circola e nella Fabbrica e nell’Italia tutta: come avrebbe affrontato Gianni Agnelli l’attuale «crisi»? «Mi raccomando la Fiat», sussurrò a Umberto prima di chiudersi nel silenzio che lo avrebbe guidato sino all’ultima tappa.

Gianni Agnelli, lui che aveva vissuto l’esperienza crespa della «moderna tragedia economica» (sono parole di Guido Carli), nel Ferragosto del 1971 quando Nixon annullò i cambi fissi; l’Avvocato rischiò d’esser preso in contropiede nel 1969-operaio uscendone tuttavia alla grande. Oggi è (tutto) molto più difficile poiché viviamo, ricchi e poveri, italiani e no, un tempo boreale. Osiamo immaginare che ancorché privo di galloni pubblici, l’Avvocato avrebbe parlato all’Europa, esortando quei dirigenti a far squadra, sistema. E all’Europa come grande approdo al benessere pensava addirittura Giovanni Agnelli I, il mitico nonno dell’Avvocato: «La ricostruzione deve porre le premesse d’un allargamento: il bersaglio grosso è oltre le Alpi, oltre il mare. La priorità alla Patria, certamente, ma poiché l’Italia finirà col starci stretta è ai grandi mercati nuovi che dobbiamo puntare, una volta fatto ordine in casa». «Anziché avvilirsi, mio nonno - chiosava l’Avvocato - disegnava scenari affascinanti, incredibilmente parlava da europeista».

Di più: nella sua introduzione al libro con cui l’Avvocato si racconta con le interviste date alla Stampa, Marcello Sorgi dà testimonianza dell’intuito politico di Agnelli citando una sua frase che anticipa «due problemi-base»: «C’è un bisogno d’Europa tutto nuovo, moderno, che nasce dai problemi di oggi. Uno è l’immigrazione che ha favorito la nascita dei nazionalismi. E con l’immigrazione c’è la grande questione dell’islamismo: credo che in futuro noi avremo più problemi dall’Africa (Agnelli si riferisce all’Egitto, all’Algeria, alla Libia) che non dall’Europa dell’Est, e ciò proprio per il problema dell’islamismo». Su codesta incandescente materia sono stato lungamente interrogato dall’Avvocato. Lo stesso accade, ora, con l’erede-delfino che l’Avvocato definiva: «Attento, metodico, rapido, responsabile, ironico quel tanto che basta per lavorare senza trascurare la joie de vivre».

Qualcuno ha detto e scritto che per uscire dal guado la Fiat avrebbe bisogno di un Valletta postmoderno. Ma ce l’ha: non porta la cravatta. Giovanni Agnelli, l’Avvocato, «fa sei anni» ch’è svanito. Si è spento all’aurora, nel momento ch’egli definiva magico, allorché, come diceva, «Dio ti regala un giorno ancora».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN - Re Gheddafi e la tela del potere
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 09:59:52 am
6/2/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Re Gheddafi e la tela del potere
 
IGOR MAN
 

Per la buonanima di Sadat, Gheddafi era un pazzo pericoloso. Il tunisino Burghiba lo definì uno scippatore cinico.

Durante lunghi anni il Colonnello venne marchiato dagli Stati Uniti alla stregua d’un volgare terrorista. «Manca solo che gli attribuiscano il potere di scatenare i terremoti», ironizzò Andreotti che per altro non si è mai stancato (da ministro degli Esteri, da presidente del Consiglio) di esortare Gheddafi a star coi piedi in terra. C’è voluta la strage di Lockerbie, e il bombardamento su Tripoli ordinato da Reagan: maldestre, fuori bersaglio le bombe e tuttavia drammaticamente recepite, per sedarlo. La Libia (o Jamarija) è un gigante economico, grazie al gas e al greggio, ma è un nano politico. Il Colonnello ha sfidato ostinatamente i marosi del panarabismo, nella convinzione d’essere l’uomo del destino, il deus ex machina del riscatto palestinese. Facts are stubborn, i fatti sono ostinati, dicono gli inglesi, e finalmente Gheddafi ha capito che il panarabismo era finito in cantina e bisognava puntare al bersaglio grosso «per dare una mano alla Storia», come ebbe a dirmi quando mi ricevette nella sua tenda vera, piantata nel deserto della Sirte. Il «bersaglio grosso» è l’Africa. È chiaro che capi e capetti africani, quelli bravi, quelli cattivi, i ladri e gli onesti, non gradivano che Gheddafi facesse, in Africa, al Qaid, la guida. Così ogni vertice panafricano si concludeva con un bel niet al Colonnello smanioso di costruire un impero, con la terra degli africani.

Ma da buon beduino, Gheddafi sa invecchiare mantenendo giovani i sogni e il vertice panafricano di Addis Abeba finalmente l’ha incoronato re; gli ha conferito un ruolo «sovrano» che Gheddafi ha definito «re dei re». Il beduino spesso «erratico» ha tessuto una tela di potere degna d’un Andreotti diremo abbronzato. Ha personalmente scritto a ben 52 presidenti, esplicando i punti cardinali del suo, a lungo meditato, riscatto dell’Africa. E alla fine gli han dato una cambiale non proprio in bianco ma garantita da lui stesso, il Colonnello.

Proprio in concomitanza con l’annuncio regale, Italia e Libia hanno finalmente firmato quel «trattato» che dovrebbe disciplinare l’afflusso degli immigrati in Italia. L’accordo c’è, all’Italia costerà una tombola ma dovrebbe infine sanare la piaga dei disgraziati che sbarcano a Lampedusa in cerca di pane. Molti, fra politici ed esperti, hanno ironizzato sui «vertici» di Libia, osservando che Gheddafi è lunatico e cerchiobottista. Hanno trascurato il fatto che Gheddafi ha di fronte uno come il Caw, non un distratto burocrate qualsiasi. Il Vecchio Cronista è stato ricevuto spesso da Gheddafi: ho tratto la convinzione che il beduino dalle sette vite e dalle settecento divise (le ordina a un sarto italiano) è tutt’altro che erratico. Se la politica è un bazar, diremo che Gheddafi ha fatto un buon affare poiché il trattato premia la Libia e sfuma il ricordo d’un passato crespo. Laggiù l’Italia portò verde e benessere ma anche violenza, lacrime. Il Colonnello ha demonizzato l’Italia persino pateticamente. Ma con uno come il Caw non c’è partita per al Qaid. Anzi: la partita c’è fra Libia e Italia ma le carte, questa volta, sono intonse. (C’è solo da augurarsi che il «nuovo giocattolo», la carica di Re dei Re d’Africa, non distolga il Colonnello dagli impegni solennemente sottoscritti).
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Salvador il miracolo di San Romero
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2009, 10:42:32 am
13/2/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Salvador il miracolo di San Romero
 
IGOR MAN
 

C’è un tempo per la guerra /c’è un tempo per la pace», recita l’Ecclesiaste: nel piccolo Salvador dopo anni di martirio la guerra prolongada s’è spenta; nei giardini all’inglese che abbracciano il Camino Real, albergo inn quant’altri mai, al mattino più non si contano i cadaveri con la testa mozzata seminati dagli squadroni della morte. Fioriscono fiori veri e rinasce la speranza che in Salvador regni finalmente la pacifica convivenza. Il Fronte Farabundo Martí di Liberazione (Fmln) ha vinto le elezioni, finisce lo stradominio dei «fascisti» di Arena, degli epigoni sanguinari di Bob d’Abuisson contro i quali i muchachos della guerriglia, sostenuti dalla Dc contadina di Napoleón Duarte, «martire laico», si sono battuti. Ma la partita non è chiusa. Bisognerà attendere le elezioni presidenziali il 15 marzo: ci diranno se finalmente il Salvador avrà pace e lavoro. Il timore è lo stesso da più di 30 anni. Le «14 famiglie» che gestiscono il Salvador accetteranno le regole democratiche, cadranno pali e paletti che imbarbariscono la vita politica?

A modo di scongiuro, la Dc - un partito proletario, non una «balena bianca» - ha ha mobilitato un po’ tutti gli iscritti. Han risposto anche i muchachos: la guerra prolongada ha imbiancato i capelli e scavato rughe indelebili; fuori e dentro. Ma qualcuno ha conservato tratti e sorriso fissati da un modesto pittore su una tela nella disadorna cattedrale di San Salvador. Il Vecchio Cronista si riferisce a monsignor Oscar Romero, nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977: tre anni prima d’essere assassinato. Vediamo: 24 marzo del 1980. All’Elevazione, dal fondo della cappella partì un colpo di Uzi: tranciò la vena giugulare del sacerdote che rimase («miracolosamente») in piedi, le mani levate a mostrare l’ostia consacrata. Poi crollò sull’altare e la particola s’intrise del suo sangue contadino. Così un commando di tre sciagurati al soldo delle «14 famiglie» ammazzò monsignor Romero.

Qualche giorno prima, all’Omelia, l’arcivescovo aveva implorato: «Americani e russi: voi mettete le armi, noi mettiamo i cadaveri. Basta. Basta in nome di Dio: lasciateci soli e usciremo dal tunnel della violenza omicida. Lasciateci soli». Ma la guerra di guerriglia serviva alla borghesia compradora per consolidare un dominio antico insidiato da los comunistas. Fra i quali contavano monsignor Romero, reo d’aver «tradito» schierandosi coi poveri, con la Dc di Duarte. La profezia di monsignor Romero s’è avverata? (Forse). Una volta lasciati soli, i salvadoregni han smesso di ammazzarsi e ora, in parlamento, seggono ex guerriglieri ed ex pirañas. Di più: su preciso mandato di papa Wojtyla, monsignor Vincenzo Paglia, l’attento, infaticabile vescovo di Terni, è stato nominato postulatore della causa di beatificazione di Romero. Come viatico gli han consegnato la croce pettorale del martire. «Postuli pure la causa, noi l’aiuteremo con le nostre incessanti preghiere - gli ha detto -, ma sappia che il popolo salvadoregno ha già fatto santo monsignor Romero».

Ora, con tutto il rispetto, chi scrive vorrebbe porsi un interrogativo. Non è che la «piazza» con il suo straripante amore nuoccia ai processi di beatificazione? Tutti ricorderanno il corale grido-ruggito: «Santo, subito santo, subito», che esplose in Roma ai funerali di quel Papa unico che fu Giovanni Paolo II. Ebbene, il processo di beatificazione di Wojtyla segna il passo. Niente più corsia preferenziale?
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Apprendisti stregoni della paura
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2009, 03:46:30 pm
20/2/2009
 
Apprendisti stregoni della paura
 
IGOR MAN
 

Un italiano su 4 non si sente sicuro quando esce di casa. Aumentano le rapine, dilaga il traffico di stupefacenti.

Risulta dal Rapporto annuale sulla criminalità in Italia. È di 500 pagine e porta la data del 22 giugno 2007. L’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato, definì «impressionanti» i dati sui reati contro le donne. Il 31% delle italiane ha subìto almeno una violenza. Di più: il 62,4% di tutte le violenze sulle donne è stato commesso dal partner (amante o marito) e la percentuale sale al 68,3% per le violenze sessuali e al 69,7% per gli stupri. Con tanti saluti alla famiglia «fiore all’occhiello della società italiana». Oggi non sono disponibili dati «aggiornati» sull’ordine pubblico.

Ma chi di dovere può anticipare che se uscisse, in questo dannato momento, il Rapporto (aggiornato) sulla criminalità, ci sarebbe da preoccuparsi. E questo perché il Rapporto dice che la famiglia è in crisi. Non da oggi. Paradossalmente a mano a mano che il benessere s’allargava cresceva la domanda non già di rapporti intimi gratificati dallo scambio di «affettuosità», cresceva la domanda di beni. Beni banali utili per figurare diversi, cioè «più ricchi» e quindi «più importanti». Oltre il 74,7% degli italiani confonde il consumismo col successo, vede negli status symbol l’imprimatur della promozione sociale.

Negli anni (felici?) dell’immediato dopoguerra, trionfava la modestia, il risparmio (anche feroce) era costume di vita, garanzia di sicurezza. I valori erano valori, la famiglia faceva blocco, ci si aiutava tra parenti e anche amici. Non esisteva l’attuale filosofia perversa che papa Ratzinger denunziò, quand’era cardinale, vale a dire il Relativismo. Epperò, a dispetto delle apparenze, dati certi ancorché non ufficiali smentiscono il presunto crescendo della violenza: il delitto comune è in ribasso. Ma se la violenza reale in fatto è diminuita come si spiega che venga percepita in aumento, che un po’ tutti ci si senta immersi nel pericolo permanente: rapine, omicidi, stupri? La risposta l’affidiamo a un giornalista-umanista, Marco d’Eramo. Ci spiega che la percezione della violenza è aumentata anche con la diffusione di «fattacci» via radio e tv. È il prezzo che esige la democrazia nel rispetto della libertà d’espressione. Sulla spinta dei media, il fattaccio più remoto (un delitto in un borgo lucano ovvero la strage in un college americano) gonfia le agenzie di stampa, rapidamente veicolato nei giornali. Il delitto entra nelle case. Creando allarme, paura.

Qui il Vecchio Cronista vorrebbe fermarsi sulla demagogia di chi cerca, scientemente, di attizzare quella che d’Eramo definisce «l’ansia securitate». È importante rifarsi alla Storia. Che ci dice come l’arma di chi pratica e predica «sicurezza», consista nel sobillare le peggiori paure del (vulnerabile) uomo della strada. Vortica nell’aria nostra una sorta di peronismo alla amatriciana, occorre dunque vivisezionare quanto ci dicono i soliti apprendisti stregoni che invocano «legge e ordine». E c’è un modo egregio di farlo: leggere, ascoltare, riflettere. Sceverare il grano dal loglio. Vedere se le parole corrispondano ai fatti, oppure cerchino di contrabbandare leggi all’apparenza benefiche ma in fatto repressive, lucide anticamere dello Stato autoritario.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN I bambini che vivono di guerra
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2009, 10:17:27 am
27/2/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I bambini che vivono di guerra
 
IGOR MAN

 
Convinto che nessuna guerra sia «giusta» anche se qualcuna è imprescindibile (quella contro il Nazismo), più volte il Vecchio Cronista s’è posto l’interrogativo che con dolorosa civiltà postulò Norberto Bobbio: «Ma avranno le previsioni sulla pace la stessa credibilità delle previsioni sulla guerra?». A quelli della mia generazione dicevano che la guerra «è un male necessario». Oggi è diverso. «La pace, fermando la corsa della morte, salva la vita, dona la speranza della giustizia», non si stancava di ripetere Giovanni Paolo II: «La guerra non risolve nulla». È vero davvero? Non lo so. Sono soltanto un soldato della notizia che ha scarpinato per il mondo inciampando di continuo nella guerra: anche se tutte le volte che l’ho attraversata ho incontrato un’immensa domanda di pace. Armato soltanto di taccuino e di biro ho fatto tutte le guerre mediorientali; ho raccontato la lunga guerra intestina che ha trasformato il Libano da produttore di benessere in produttore di cadaveri; ho testimoniato dell’orrore del Vietnam e delle infinite guerre di guerriglia che hanno sferruzzato il mondo da sessant’anni, ovunque e comunque ho visto invocare la pace. Soprattutto da chi combatteva o era costretto a farlo. Con una lacerante eccezione: la guerra bambina.

Stime attendibili ma da aggiornare, ci informano che nel mondo esistono 250 mila soldati-bambini (cfr. L’esercito invisibile di R. Casadei). E si teme che, travolti dalla sindrome pachistana, codesti impuberi guerrieri, in fatto votati alla morte, si affaccino in quel disgraziato paese ch’è l’Afghanistan. Ma cosa spinge un fanciullo a imbracciare il kalashnikov? Per non pochi adolescenti la guerra è «normale condizione di vita» e questo perché non hanno conosciuto la pace. Per molti altri è un modo efficace di sottrarsi alla fame ma un po’ tutti i soldati-bambini prendono il fucile mossi dal cosiddetto «bisogno d’aiuto» che provano perché «fisicamente o emotivamente separati dai loro genitori naturali». I sociologi del Salvador spiegano che pressoché tutti i più giovani muchachos del Frente Farabundo Martí «erano bambini che avevano visto i propri genitori catturati e/o torturati, persino assassinati dall’esercito, le loro case incendiate dai campieri di Orden. In cerca di protezione erano entrati nella guerriglia». Fra il 1945 e oggi son milioni incalcolabili con precisione i morti in guerra. Sappiamo che questi «ignoti» sono in massima parte civili, in stragrande maggioranza bambini. Da sempre l’Unicef denuncia «un universo di efferatezze»: soltanto negli ultimi 15 anni oltre 3 milioni di corpicini dilaniati dalle bombe, arrostiti dal napalm. Una sterminata legione di orfani.

Gli asceti russi si dicevano convinti che il volto di un uomo «in buona fede» risplende d’una luce tutta sua. «Mi piace il tuo volto», dice uno dei fratelli Karamazov ad Alioscia. Il Che (Guevara) aveva il volto irregolare d’un soriano. «Comandante, dissi, Dio: ci crede, ci ha mai creduto?». «Non mi sono mai posto il problema, disse. E tuttavia, ecco, siccome sono un argentino provinciale e mia madre mi portava a Messa da piccolo, ebbene se Dio esiste come sempre mi ha ripetuto mia madre, se Dio esiste mi piacerebbe pensare che nel suo grande cuore ci sia un posto, piccino, per il comandante Ernesto Che Guevara». Quando morì per mano d’un sergente boliviano ubriaco, il Che, forse, avrà saputo in quel preciso momento che quel posto, per lui, c’era.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Aziz, l'incantatore dell'Occidente
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2009, 04:53:31 pm
3/3/2009
 
Aziz, l'incantatore dell'Occidente
 
IGOR MAN
 
Quella che il presidente Obama chiama «normalizzazione» compie, in Iraq, un passo in avanti: Mikhail Yuhanna, nome di battaglia Tareq Aziz, ministro degli Esteri e vice premier iracheno, è stato assolto dal tribunale speciale che mandò a morte Saddam Hussein. Tareq Aziz, cristiano-caldeo, 72 anni sempre portati male, ancorché sotto giudizio anche per «omicidio-politico», sarebbe già ai «domiciliari», in una villetta della «zona verde» di Baghdad. A differenza della maggior parte dei paesi islamici (arabi in particolare) gli iracheni sono faticatori e attenti alla politica. Non erano pochi quelli che si è usi definire «intellettuali-frondisti»: Saddam non era amato ma rispettato lo era. Governava col bastone (la tortura) e la carota (sussidi in contanti), lasciava le briglie sul collo degli scatenati del clan di Tikrit (città natale del raîss) ma una sorta di casereccio Welfare rabboniva gli iracheni sino alla rassegnazione. Invaso l’Iraq, accusato di possesso del nucleare (una «bufala») gli americani commisero due errori. Fatali.

Sciolsero immediatamente l’esercito iracheno col risultato di creare un’armata brancaleone fonte di disastri senza fine (l’Iraq è tuttora un fiammifero acceso allo sbocco del greggio). Sciolsero il partito unico Baas volendo ignorare (o ignorando davvero?) che non era una cattedra ideologica bensì la macchina (dalla scuola al fornaio, dal traffico all’università) che faceva funzionare il paese. Come sappiamo, il vuoto bruscamente creato da epurazioni improvvide solo adesso sta riducendosi, e faticosamente. L’opinione pubblica sta scoprendo la realtà delle cose, la pace interna germoglia dopo una lunga parentesi d’orrore e di errori. La «grazia» concessa a Tareq Aziz porta l’impronta del presidente Obama. Nel giusto momento (il conto alla rovescia è già cominciato) i GI lasceranno l’Iraq a se stesso, con l’intenzione di giuocare la partita decisiva sul tavolo rosso (perché insanguinato) di quel dolcissimo ma disgraziato paese chiamato Afghanistan. (Che Dio assista i nostri soldati in servizio laggiù: non sarà una passeggiata).

In fatto la crisi mesopotamica nasce con la folle invasione del Kuwait nell’agosto del ’90 – dopo un estenuante braccio di ferro; la reazione americana arriva il 17 di gennaio del ’91: Desert Storm. A ridosso della guerra, il 10 di gennaio del 1991, si incontrano a Ginevra il segretario di Stato Baker e Tareq Aziz. «Si parla di pace con le pistole senza sicura», dirà Baker. Tutta la stampa internazionale è a Ginevra, si giuoca la dernière chance della pace. Di giusta statura, i capelli candidi, baffi neri (tinti) che spiccano sul volto pallido, gli occhiali spessi, Tareq Aziz sembra la controfigura di Groucho Marx. Ma la somiglianza è solo esteriore. L’unico non musulmano del regime iracheno è un uomo freddo, duro come l’ossidiana, l’ideologo inflessibile del Baas. Dicono che abbia «spiegato» lui a Saddam il socialismo arabo ideato dal siriano Michel Aflak, anch’egli cristiano. Dicono che lui e Saddam giuocano al poliziotto buono, al poliziotto cattivo – cambiandosi le parti a seconda del momento.

Ma Tareq Aziz col suo elaborato inglese condito non senza civetteria di citazioni da Shakespeare e Milton quando non da Cervantes (sa pure lo spagnuolo) coi suoi modi garbati e quella sfumatura di sorriso ironico sulle labbra d’ostinato fumatore di sigari cubani, ha sempre incantato la stampa internazionale che gli ha subito appiccicato l’etichetta di moderato. Il resto lo ha fatto il Vaticano che, oggi, dopo cinque dolorosi anni, lo vede tornare a casa. Non senza commozione. Tareq Aziz è l’uomo che ha condotto la grande accostata del battello iracheno dall’approdo (ideologico) sovietico verso il più pragmatico porto americano, quando la guerra con l’Iran aveva messo in ginocchio il regime di Baghdad. E infatti, allorché Saddam invase il Kuwait, di Tareq non si seppe più nulla durante giorni e giorni. Poi ricomparve accanto al raîss smentendo le voci che lo volevano finito sulla forca. Purgò ai «domiciliari» la sua sbornia di americanismo. Fu Tareq a «suggerire» che poiché si era in guerra bisognava indossare la divisa ch’è, poi, la copia conforme di quella dei vecchi padroni inglesi. Tareq e compagni partirono per la Svizzera infrasciamati nell’uniforme kaki. Si cambiarono in volo due ore prima di Ginevra. Indossarono gli abiti borghesi fatti al Cairo da un sarto di origine triestina (israelita), coi pantaloni sbracati e la giacca che sbecca sul collo.

Dopo l’inutile conferenza stampa, lunga, estenuante, con Baker, lo sentimmo dire a un suo tirapiedi: «La cioccolata per mia moglie, i sigari per me, mi raccomando. Se perdo questa occasione dove la trovo più?», e sorrise come un vecchio ragazzo triste che l’ha fatta grossa. Il corrispondente di Le Monde, quello di Newsweek e chi scrive, bloccarono Tareq Aziz mentre stava eclissandosi per la porta della cucina. Protestò d’aver detto «tutto il possibile per la pace» ma infine si arrese alle nostre insistenze. Fissando un punto lontano, sopra le nostre teste, sillabò: «Gli americani non hanno capito che non sarà un film. Sarà una guerra interminabile e sanguinosa».

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Poveri ma belli nell'Italia a pezzi
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 05:23:35 pm
6/3/2009
 
Poveri ma belli nell'Italia a pezzi
 
IGOR MAN
 
Acquisti ragionati, debiti indispensabili. Questo raccomandate, voi vecchi, in vista della crisi globale: così dicono i ragazzi d’un liceo romano al Vecchio Cronista, con un preoccupato interrogativo: «Come sbarcavate il lunario nell’Italia a pezzi?». Durante l’occupazione tedesca di Roma la scelta era secca: contro i nazisti e dunque inchiodati alla fame o coi tedeschi e dunque ricchi d’ogni cibo. La Liberazione ci colse dimagriti (ci fu chi soggiacque alla Tbc) ma felici. Nove mesi di stampa clandestina, la morte sfiorata ripetutamente ci aiutarono a trovar subito lavoro nei giornali fioriti dalla Liberazione. Gli stipendi erano modesti, il sindacalista Di Vittorio, un comunista all’antica, lottò a lungo per farci avere il Contratto con gli editori. Che, ancorché sparagnini, ci davano una mano: a un passo da Monte Citorio, Renato Angiolillo direttore de Il Tempo trovò un negozio d’abbigliamento molto elegante disposto a concederci l’acquisto di indumenti (belli) da pagare a rate.

Non prendevamo il tram se non di rado, al cinema non si pagava. Al mattino ci bastava un cornetto col cappuccino «al vetro». A mezzodì andavamo a mangiare da «Colombo», in via Alibert angolo via Margutta. Colombo, già cameriere di Nino (via Borgognona), aveva lanciato il «pasto felice», 330 lirette: primo, secondo, frutta, un generoso bicchier di vino. A mense sciolte la trattoria diventava un «salotto»: Marlon Brando si faceva indirizzare la posta da «Colombo», dove l’attendevano Novella Parigini, intrigante seguace di Leonor Fini e la prosperosa Ursula Andress che già sognava Hollywood. Era la meta pomeridiana di Germi che, accompagnato da una diafana Cosetta Greco, si fumava un robusto toscano. Turcato pagava i suoi pasti e quelli della dolcissima Orietta Fiume con quadri astratti che han fatto ingrassare non pochi mercanti d’arte. Giancarlo Vigorelli, direttore della Fiera Letteraria, indisse un referendum: «Gide o Claudel?»; premiata con 50 lire la risposta di De Chirico: «Mi piace Gide: apprezzo anche Claudel / a entrambi preferisco / la crème caramel».

Giuseppe Berto veniva da «Colombo» carico di dolcetti per Emanuela, che sposò. Pasquale Festa Campanile leggeva a voce alta le sue sceneggiature al pittoresco Peppino Amato, produttore di Gene Tierney. Eravamo di buon appetito, il menù di Colombo tuttavia ce lo facevamo bastare; il condimento era straordinario: Vittorio de Sica, Rossellini, Zavattini. Ci appassionavano i detti dei Maestri, la sera ci bastava un uovo. In un ritaglio della tipografia de Il Tempo avevano arrangiato un cucinino-menù fisso: un uovo all’occhio, un bicchierino di vino al posto del latte che - dicevano - annacquasse il veleno dell’antimonio sprigionato dal piombo delle linotype, nere ed altere come nordiche cattedrali.

Con duemila lire in contanti e due chili di cambiali, Angiolillo aveva fondato Il Tempo che presto, irrobustito da una coraggiosa campagna acquisti (Moravia, Missiroli, Cecchi, Brancati, Zingarelli, la Manzini...) divenne il quotidiano leader in quegli anni che Carlo Laurenzi definì «fiduciosi». Eravamo giovani, ci sentivamo veramente liberi, facevamo una vita austera, ma eravamo strepitosamente felici. E una sera Alberto Arbasino ci portò in via Veneto, da Mario Pannunzio. Ma questa è un’altra storia.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN A Sabaudia con la Callas innamorata
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 09:08:16 am
13/3/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A Sabaudia con la Callas innamorata
 
IGOR MAN
 

Una barca di 38 metri ha gioiosamente messo in crisi Sabaudia raggiungendo dal lago il centro cittadino grazie a un marchingegno inventato dagli operai del cantiere Rizzardi. La barca è destinata al solito sceicco, ma il ricavo è un’ampia boccata d’ossigeno per il cantiere e il conseguente indotto, come ha detto Maurizio Lucci, il giovane f.f. Sindaco. E, secondo Gaetano Benedetto, presidente del Parco nazionale, la partita si vince allargando l’alta stagione: turismo tutto l’anno. Due scuole di pensiero si fronteggiano. Una postula un turismo da spiaggia non più riservato a pochi privilegiati, quelli delle ville sulle dune, per intenderci. L’altra mira a coniugare lago e mare, facendo di Sabaudia un immenso porto turistico. Codesto faraonico progetto presuppone tuttavia la distruzione della diga romana per consentire, appunto, il viavai delle barche anche da 38 metri.

Il lago a ridosso di Torre Paola, benedetto da un mare cristallino, appartiene da secoli alla Famiglia Scalfati. Divisa sulla sua sorte, Anna Scalfati, la bella inviata del Tg3, condanna «assurde speculazioni». Suo fratello Alfredo spinge per il porto turistico. Italia Nostra è stata allertata. Vedremo.

Sabaudia avrà 75 anni presto; sorse per dar posto a un’area protetta nel parco del Circeo (8.500 ettari). «L’agro redento diede nuove terre da coltivare a sessantamila coloni veneti, friulani, romagnoli e fece sorgere città nuove di zecca» (cfr. L. Colonnelli, Corsera). Sabaudia la disegnò un team guidato dal Piccinato: esempio unico di città a misura d’uomo. Il Vecchio Cronista scoprì Sabaudia grazie a Paolo Monelli. Moravia vi costruì una villa spartana che fu studio di pittori veri come il Tornabuoni, di giornalisti e scrittori: dalla dolcissima Dacia Maraini a Flaminia ed Enzo Siciliano, da Bernardo Bertolucci a Dario Bellezza. Quando si trattò di scrivere la biografia-intervista di Moravia, fu scelto il più giovane di tutti: Alain Elkann. Per anni lunghi e fecondi la casa di Moravia albergò, tra i tanti, Pasolini che vi portò anche la Callas (vanamente) innamorata del regista di Medea. «... quanto abbiamo riso noi intellettuali dell’architettura del regime - scrisse PPP -, sulle città come Sabaudia. Eppure adesso queste città le troviamo assolutamente inaspettate...». Non senza coraggio Carla Fendi ha completato la villa disegnata da Lucio Costa, uno dei campioni del Razionalismo italiano.

«Sabaudia ha Sabaudia», rispondeva Moravia quando gli chiedevano della città cara al suo cuore scontroso. «Sabaudia ha Sabaudia»: venti chilometri di spiaggia bianca, quindici miglia di mare. Zona protetta quant’altra mai, Sabaudia vede nidificare le cicogne, vede il volo solenne degli aironi rossi, degli aironi cinerini; vede nella riserva di Caprolace ricrearsi nei «punti d’inferno» l’habitat caro agli uccelli acquatici. Non c’è una ciminiera che lordi il cielo di ceramica e quando il suono lungo delle campane annuncia l’invasione poderosa del tramonto, i cormorani tornano al nido. E il lago si tinge di rosso e il mare si sfinisce nell’ansia di accogliere il sole. «Sabaudia ha Sabaudia».

 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN I cani infelici e la gallina del duce
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:38:06 am
20/3/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I cani infelici e la gallina del duce
 
IGOR MAN
 
Se siete ricco o povero: ignorante o istruito / peccatore o santo / siete il suo compagno e ciò gli basta. Egli sarà accanto a voi / per confortarvi, proteggervi / e dare se occorre / per voi la sua vita / Egli vi sarà fedele nella fortuna / come nella miseria: / è un cane» (1983-1995). Codesto epitaffio l’abbiamo letto a Roma, in via dell’Imbrecciato, dove da tre generazioni la famiglia Molon gestisce una sorta di Spoon River all’italiana, insomma un cimitero per cani e gatti. Un luogo unico in Italia, non fosse altro perché ospita la gallina di Benito Mussolini (cfr. F. Sansa, Messaggero). Un giorno di primavera del 1936, il veterinario Antonio Molon venne convocato a Palazzo Venezia. «I miei figli giuocavano con la mia gallina. Ma è morta e i miei la piangono. Non mi va di gettarla nella spazzatura», disse Mussolini e Molon ritirò la gallina defunta dalle mani di donna Rachele, correndo a seppellirla nel vasto giardino che aveva ai Colli Portuensi. Nel tempo quell’anomalo cimitero si è allargato ospitando cani e gatti vegliati da lapidi invero struggenti.

Va detto subito come la strage del branco che ha sconvolto paesi buoni e civili di Sicilia non abbia alterato il sentimento di dolenti padroni di cani e/o gatti. Nelle elementari, i bravi maestri spiegano (non è facile ma ci riescono) perché e come cani in selvaggio branco abbiano ucciso e seviziato innocenti persone. Spiegano che il processo di ritorno all’«animalità» di bestiole «abitualmente docili» nasce e matura in conseguenza dell’abbandono. Fra i tanti guasti del consumismo (scambiato per successo sociale) va denunciato l’acquisto, da parte delle famiglie italiane, d’un cane, di razza possibilmente. La bestiola conosce un’estate stupenda ma finite le ferie del padrone, viene abbandonata. A se stessa. Istintivamente si unisce a cani che hanno subito la stessa sua sorte: e nasce il branco che altro non va cercando se non «vitto e alloggio». Secondo la Lega antivivisezione, in Italia abbiamo un milione di animali allo stato brado: un cane abbandonato ogni tre minuti. Il nostro Carlo Grande ha chiesto all’etologo Enrico Alleva: «Esistono cani-killer?». «Non esistono, il branco è fatto di cani abbandonati, di ritorno allo stato brado. È la Caporetto dell’italiano medio che, storicamente, in una società agricola ha sempre gestito i cani, sapeva cosa farne. Oggi non più».

Il Vecchio Cronista prega per gli innocenti sbranati dai cani (anch’essi innocenti) e andando su e giù con l’ascensore della memoria ricorda Cuè, cane lupo di possente stazza, terrore dei ladruncoli che all’epoca (Anni 30) insidiavano le ville tuffate nel verde di Cibali. Cuè ubbidiva soltanto a mia madre e, paradossalmente, al fanciullo ch’io ero. La morte precoce di mia madre scatenò un’inedita depressione nel nostro cane che avendo ostinatamente rifiutato di nutrirsi, infine morì. Su quel quotidiano-digest, il Foglio del Lunedì, confezionato con felice misura da Giorgio dell’Arti, ho letto la citazione d’un articolo di Alleva e Gallavotti sui cani «in lista d’abbandono». I cani abbandonati cadono in preda a feroci sensi di colpevolezza; credono infatti che l’abbandono sia la conseguenza d’una loro colpa. Su Sette Antonio d’Orrico ci dice perché, secondo Freud, si può voler bene ai cani: «Per il loro affetto privo di qualsiasi ambivalenza - per la bellezza d’una esistenza perfetta in se stessa».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Il castello di carta
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:11:24 am
23/3/2009 - OBAMA E L'IRAN
 
Il castello di carta
 
IGOR MAN
 

Finché si parla non si spara», diceva Churchill. Dopo trent’anni di male parole, di reciproche minacce persino rodomontesche, gli Stati Uniti d’America e l’Iran si parlano.

Finora non han fatto se non scambiarsi feroci rimproveri e severe minacce. Tre giorni fa, per la prima volta, han dialogato. Non faccia a faccia, è vero, ma lo han fatto. Niente minacce, non più insulti. Obama ha socchiuso il pugno ma non è andato oltre questa apertura simbolica. Il discorso di Obama gli somiglia e a dar retta ai nostri interlocutori «su piazza» nella Repubblica islamica (nelle vesti di brasseur d’affaires), avrebbe «spiazzato» Khamenei, Guida suprema della Teocrazia persiana - in fatto l’inappellabile successore, designato dal corrucciato imam Khomeini, il vecchio ayatollah («presenza di Dio») in pantofole. Costui con la sua esaltata rivoluzione a mani nude spodestò lo Scià, potente e ricco, vezzeggiato amico della Casa Bianca. Sbalorditi, noi corrispondenti stranieri vedemmo gli scimmieschi «moschettieri dell’imperatore» arrendersi a fanciulli, a donne inermi: si arresero in mutande, coi pantaloni della gallonata divisa ripiegati sull’avambraccio in segno di resa. Khomeini aveva viaggiato, seppur poco, aveva però letto Aristotele e Platone ma non certamente Bodin dal quale tuttavia mutuò il ruolo del dominus assoluto, «padrone del cuore e della mente del popolo». La «fissa» è rimasta

Khamenei non risulta che abbia messo il naso fuori del suo per molti versi grande paese (islamico). Nel tempo tuttavia codesto personaggio ha acquistato scioltezza, le sue orazioni han preso smalto ma la «fissa» è rimasta. La «fissa» ha un nome storico: Israele. Ogni occasione è buona per accusare gli Usa di «complicità» con Israele «bubbone cancerogeno» da estirpare. Nella complicata panoplia orale dell’imam spiccava il «compito supremo», vale a dire Gerusalemme ai palestinesi. Ogni anno, secondo il lascito di Khomeini, l’Iran dedica corrusche giornate volte a rinnovare una sorta di «consegna» al popolo: lottare con ogni mezzo per «cancellare dalle mappe Israele».

Come s’è visto, contro tutte le previsioni, Khamenei ha subito risposto all’apertura di Obama. «Fatti, non parole», ha detto in un comizio-festa del capodanno iraniano di primavera. Ha monotonamente elencato le presunte minacce degli Stati Uniti, chiedendosi retoricamente come «qualcuno» potesse pretendere un dialogo costruttivo di pace quando questo «qualcuno» - l’America, lo stesso Obama - aiuta, protegge Israele «Stato sionista». Questo passo del discorso era scontato: fa parte della routine oratoria iraniana, la novità consisterebbe nella mancata sequela di insulti e minacce di solito rovesciata sul nemico da Khamenei, con a ruota il «suo» presidente Ahmadinejad famelicamente impegnato in una estenuante campagna in vista delle elezioni di giugno. Il voto come spartiacque

Ecco lo spartiacque: la prossima consultazione elettorale. Se dalle urne (come sempre manipolate dalla cupola in turbante) uscisse il nome d’un diciamo «moderato», vorrà dire che Teheran ha deciso di scendere dall’asino di Satana per imboccare, passo dopo passo, il sentiero (non facile) della ragionevolezza, magari soffermandosi anche sulla Bibbia... Sia come che sia, far pronostici ad ampio raggio prima delle prossime elezioni d’estate in Iran sarebbe lo stesso che interrogare una Sibilla di Cuma sorda spaccata. Epperò, poiché oltre alla Siria e a Hezbollah (in pratica il Libano) l’Iran aiuta e protegge Hamas, corre l’obbligo di registrare una dichiarazione interessante. A parlare è un personaggio brutalmente politico, il titolato Hamas Meshaal, il leader di Hamas esule in Siria. Ha testualmente detto ad Alix Van Buren: «Dal presidente Obama viene un linguaggio nuovo. La sfida, per tutti, è che sia il preludio d’una stagione nuova della politica americana ed europea. In quanto alla apertura ufficiale ad Hamas è solo questione di tempo».

Lo scambio di messaggi fra il trasparente Obama e il criptico Khamenei, maestro della taqqya, la dissimulazione, può con qualche sforzo definirsi incoraggiante. Ma è un castello di carta quello che ci sembra di vedere. Non è un mistero che fra le poche opzioni Israele (che si sente sempre più assediato, tanto che prima della pace vuol sicurezza) progetti un blitz sui siti atomici dell’Iran. Questo, Khamenei lo sa. Ma sa anche che l’Occidente per sanare l’Afghanistan deve «dialogare» con quei miliziani oltranzisti. Incrociamo le dita.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Eroi di ieri e nuovi scatti d'orgoglio
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2009, 11:48:31 am
27/3/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Eroi di ieri e nuovi scatti d'orgoglio
 
IGOR MAN
 
Nel 65° della strage delle Ardeatine, la pietà, il ricordo, la gratitudine han celebrato un eroe italiano, con un convegno in Monte Citorio. L’eroe ha un nome nobile, fiero: il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Aiutante dell’effimero governatore di «Roma Città Aperta», generale Calvi di Bergolo, Montezemolo riuscì a sottrarsi alla cattura in forza del suo sangue freddo. Era il 23 settembre 1943, nasceva la Repubblica di Mussolini; i tedeschi circondarono il Viminale, arrestarono il generale Calvi, il generale Tabellini, il generale Maraffa. «Ti ordino di darti alla macchia per il bene dell’Italia», sussurrò Calvi. E Montezemolo: «Comandi», rispose. Entrò nel suo ufficio, distrusse documenti «sensibili», vestì un abito, grigio, da borghese, e uscì a passo lento. «Nessuno badò a quel signore sui quarant’anni, magro, biondo che si avviò con l’aria indifferente verso le Quattro Fontane», (P. Monelli, Roma 1943 ). Il tempo scorreva amaro e ingrato, Roma trascinava un’esistenza precaria, giorno dopo giorno; fu irrisoria città aperta. I tedeschi razziavano uomini e cose, spedivano il meglio in Germania mentre i loro ruffiani, sciagurati ragazzi intossicati da una propaganda implacabile, imparavano a torturare «antifascisti giudaicomassoni», in feroce concorrenza con via Tasso dove Kappler torturava con fantasia nibelungica.

Sotto un’apparente indifferenza, il popolo romano resisteva. «Nessuna città fu meno prona di Roma ai nuovi tirannelli. I fatti, i decreti, le gesta nefande del nuovo governo fascista sembravano cose di un altro mondo, ne giungeva la notizia tarda e ottusa» (ibidem). Il processo di Verona, la fucilazione di Ciano, i «diciotto punti», la socializzazione delle aziende, gli appelli alle armi, tutto questo appariva irreale, assurdo. Ma era vero e i romani sapevano che bisognava resistere cancellando il vergognoso: «Francia o Spagna - basta che se magna». Infine, la strage delle Ardeatine voluta da Hitler nel segno della rappresaglia per l’attentato di via Rasella; «atto di guerra», secondo la Resistenza, «azione criminale» per i nazisti. Da punire, con la morte, tot italiani, non importa se colpevoli o no. Trecentotrentacinque uomini, d’ogni età e condizione, furono tratti dal carcere senza preavviso, spogliati, legati con le mani sul dorso, trasportati in autocarri alle Ardeatine. Fra codesta umanità condannata selvaggiamente a morte, il Colonnello di Montezemolo. Il giorno stesso dell’arresto di Calvi, Montezemolo cominciò a organizzare una banda interna ed esterna con compiti di sabotaggio, di informazioni agli Alleati, di guerriglia. I tedeschi lo cercavano: «è l’uomo più intelligente e preparato, il nostro più pericoloso avversario», diceva Dollman. Fu arrestato alla fine di gennaio e subito torturato. «Scientificamente» ma invano. Sinché gli aguzzini, disperando che parlasse, vollero che morisse «perduto nella turba dei 335 martiri». Il «Vecchio Cronista» che fu partigiano citerà il Presidente Fini che, ricordando l’eroe di Montezemolo, ha affermato la continuità fra Risorgimento e Resistenza. Ciampi, il Presidente degli italiani, aveva già colto questo aspetto unico nel suo compiersi ma che l’abbia proposto il presidente della Camera è un fatto non da poco, considerati certi suoi trascorsi politici. È troppo sperare (e operare) una resistenza alla deregulation, uno scatto d’orgoglio per (di nuovo) risorgere?

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Un medico sul pianeta galera
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2009, 05:13:59 pm
3/4/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Un medico sul pianeta galera
 
IGOR MAN
 
Quarantanove anni fa prendemmo la casa dove tuttora vive il Vecchio Cronista perché il sensale ci disse che bastava attraversare Ponte Sisto per tuffarsi nel verde, «unico», del Giardino botanico. Davvero «unico» il Giardino, ma a strapiombo del verde insisteva la lugubre mole di Regina Coeli, il carcere di Roma. La sua sorte ci ha accompagnato fin qui e non c’è una volta che passando con la fedele Croma davanti alla vecchia galera non ci si strizzi «er core». Ed è facile ricordare come, immancabilmente, a ogni cambiamento di governo si sia: a) denunciato «lo stato fatiscente» della galera; b) annunciato l’imminente adeguamento delle strutture (il cesso al posto del bugliolo). Non c’è governo che non abbia affermato che Regina Coeli ha i giorni contati. Ha fatto eccezione l’attuale guardasigilli, Angelino Alfano. Ha detto chiaro che la situazione è «esplosiva». E ciò per «carenze amministrative e di personale». A Favignana le celle si trovano 7 metri sotto il livello del mare e non hanno finestre. A Catania in pochi metri quadri si stipano tredici detenuti, alcuni costretti a dormire in terra per la mancanza di letti. A Torino nella Casa circondariale Lorusso-Cutugno i reclusi sono 1600 mentre la capienza sarebbe di 923. Ancora: oltre 38 mila dei 60 mila carcerati sono «in attesa di giudizio». Di più: nelle 206 galere si scontano una serie di pene accessorie NON previste dal Codice, «lesive della dignità umana e della Costituzione», denuncia Alfano. Che, fuori da ogni buonismo, ha varato un piano-carceri interessante. Contempla lo sdoppiamento dei «circuiti carcerari» il che significa che ci saranno carceri pesanti per detenuti pericolosi «che han commesso crimini con violenza», e carceri «leggere» per quanti siano considerati «a bassa pericolosità». Per questi «si apriranno spazi di socialità, facendo sì che la cella diventi solo spazio di riposo».

Codesto piano-carceri è l’estrema Thule del pianeta-galera. «Tutto lascia prevedere che entro questa settimana saremo a quota 61 mila reclusi quando la capienza «regolare» dovrebbe essere di 43.169 carcerati con un limite tollerabile di 63.623». Lo dice Leo Beneduci, segretario del Sindacato di polizia penitenziaria (cfr. Avvenire, Paolini-Scavo). Nell’estate 2006 si ricorse all’indulto che portò alla liberazione di circa 26 mila dei 60 mila reclusi di allora, ma già nei primi giorni «l’effetto dello sconto generalizzato di pena era svanito». L’attuale governo ha nominato un commissario straordinario (il neodirettore del Dap Franco Ionta) che «entro maggio» dovrà indicare «dove e come costruire» 17 mila nuovi «posti letto». Il piano-carceri di Alfano è civile, innovativo, ma il punto, forse, è un altro. Lo indica Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste. Dice: «Possiamo dare ai detenuti quante più attività culturali si vuole, ma quello che i prigionieri chiedono è di poter lavorare» o addirittura di imparare un mestiere. Il lavoro educa, rafforza il legame del carcerato coi suoi cari, gli permette di giovarsi d’un buon avvocato.

Là dove è stata possibile la terapia-lavoro ha visto non pochi detenuti salvarsi dalle tentazioni della criminalità organizzata. Servono nuove carceri, certo, ma il «maestro di vita» rimane il lavoro, cioè il carcere-bottega secondo il modulo rinascimentale. «Drento Regina Coeli / ce sta ’na campana / possino ammazzallo / chi la sona».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Buona Pasqua con gli spiriti del Vietnam
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 09:21:16 am
10/4/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Buona Pasqua con gli spiriti del Vietnam
 
 
IGOR MAN
 
Nella Pasqua del terremoto che ha sfasciato una delle più soavi città d’Europa, l’ascensore della memoria mi porta improvvisamente in una piccola baracca di legno e paglia. È la Pasqua del 1965 e c’è la guerra in quel villaggio del Mekong, a un tiro di mitra da Cantho, a Sud di Saigon. Nel cuore della capanna, l’altarino degli antenati coi bastoncini di incenso, con accanto un «santino» di Gesù che risorge. Il padrone di casa (alla macchia) è cattolico, come cattolici son sua moglie e una vecchia parente, tuttavia «portano rispetto» alla purezza di Buddha.

Qui, nella ricca provincia di Chuong Thien, la più difficile del Delta, vige una sorta di sincretismo inedito, ufficialmente ignorato. «Non facciamo peccato», mi disse il caro Sam P. Dieli, uomo di punta del Field services center. Durante la guerra fu paracadutato in Piemonte, combatté con quei partigiani. Mi parlava del Vietnam con tenerezza, con rispetto. La campagna vietnamita, diceva, è popolata di infiniti spiriti sovrannaturali. Volano rapidi nell’umida aria calda, arrivano col vento della sera. Percorrono le strade sterrate, discendono il corso dei fiumi. Si nascondono nel fondo degli stagni, gli alberi carnosi danno loro asilo e alcuni animali posseggono le loro virtù. Da codesto mondo incerto, avvinghiato alla campagna, scaturisce il Genio del villaggio, il nume tutelare, così come il Dhinh, il tempio. Nel mondo ineffabile degli spiriti egli, il Genio, ha trionfali nomi terrestri: Dai Vuong, signore immenso, lo chiamano i contadini, ovvero Duo Thanh Hoang, Genio principesco. Egli è la Storia ma anche il Presente ed è il Futuro creato dalla fantasia del desiderio.

Non è, il Genio, una leggendaria divinità appartenente a una religione qualunque, bensì un grande poeta, o un eroe, un benefattore, un giusto. Né i comunisti del Nord, atei puri e duri, né i credenti del Sud (cristiani, buddisti, taoisti eccetera) hanno osato negare il Genio. Ho Chi Min diceva pressappoco quello che ripeteva il Vescovo cattolico di Saigon: «Il rispetto timoroso del Genio è alla base della Religione ed è soprattutto la base di una solidarietà che fa la forza del Vietnam». Grazie a Sam rileggo il taccuino sul quale il guerrigliero Nguyen Hung Cam scriveva a sua moglie lettere che non sarebbero mai state spedite. «Mia amata, rileggo quanto mi scrivesti due anni fa a Dong Hoi con il Lamento della moglie del Soldato: “Anche mille leghe lontano, certo, adorato amico, tu senti / nel sole, nella pioggia, nel vento, nella notte / questo cuore che palpita / dentro questa pietra costante”. Aspettami, mia diletta dall’odore buono: tornerò. Per posare sulle tue palme leggere queste lettere che oggi non posso spedirti perché faccio la guerra».

Oggi la guerra, quella guerra, è lontana e il Vecchio Cronista vuole pensare che Lui sia tornato per consegnare a Lei il suo amore. In Vietnam, laggiù, ho conosciuto lo sdoppiamento. Mentre cammini, con i soldati ma armato solo di biro e taccuino, nei canali, nella boscaglia ti vedi e, a volte, non ti riconosci più e questo è il sortilegio del nostro mestiere di Soldato della Notizia: in te vedi l’Altro, scopri l’Uomo. Non importa che sia vivo, morto, amico o nemico: è figlio di Dio come te stesso.

«Thòi gio’ tham thoát nhu bach câu qua cura sò: il tempo scorre rapido come l’ombra d’un cavallo bianco che passa veloce davanti a una finestra».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN L'amore dell'ultimo bullo
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2009, 10:42:57 am
24/4/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

L'amore dell'ultimo bullo
   
IGOR MAN


Hanno ammazzato a cumpari Turiddu», grida una donna e inesorabile cala la tela. Con quel grido si chiude Cavalleria rusticana, novella di Verga musicata da Mascagni. Lo spavaldo bersagliere, in licenza nel siciliano borgo natio, viene ucciso da don Alfio il carrettiere per esorcizzare le corna di Lola sua moglie che amoreggiò con Turiddu. Il mortale duello, «rusticano» perché combattuto col lungo coltello detto liccasapuni, balzò alla ribalta internazionale grazie all’opera lirica, ma a Roma era di casa: si amava e si uccideva di coltello (ne girano tuttora parecchi), l’arma del «bullo», l’«omo de vita», l’assiduo frequentatore di Regina Coeli, il terrore del vicolo, il re della passatella giuocata col vino «de li Castelli».

Cinquant’anni fa, quando il Vecchio Cronista prese casa al Conservatorio, di «bulli» ne era rimasto uno solo. Fieramente sporgeva il braccio sinistro al quale s’appoggiava la donna sua, truccata come Anna Fougez (famosa interprete di Vipera). Lui (che chiameremo Spartaco) camminava da «bullo». Il vestito, avana, attillatissimo, denunciava con un voluto gonfiore il coltello: non esisteva, e ancora non esiste in Italia, il «porto d’armi da taglio» sicché mancando la pistola impossibile da avere, i «bulli» s’affidavano al «Gobbo», l’avo delle lame da duello. Spartaco s’era fatto, da giovine, diciott’anni di galera, ma quando uscì ad aspettarlo c’era Cesira e furono subito nozze. Spartaco aveva la pensione da bidello, lei ritoccava i vestiti di questa o quella «sora». All’epoca non esisteva il Premio Simpatia inventato da Momo Pertica, «er Cocteau de Trastevere»; Spartaco e Cesira l’avrebbero meritato e come.

Poi non li vidi più caracollare sui sanpietrini del Conservatorio. Cesaretto (amabile sbroglia-faccende) sapeva tutto: «So’ morti - mi disse -, il giorno de Pasquetta. Investiti da un carro funebre». Lei morì sul colpo, lui implorandola sino all’ultimo respiro. Sembra copiato da Edmondo de’ Languori ma è solo il ricordo dell’ultimo «bullo». Sì, l’ultimo perché quelli che funestano giorno dopo giorno le cronache dei giornali, i fattacci di Campo de’ Fiori, i duelli rusticani con coltelli a scatto (micidiali assassini) non c’è notte che non abbian luogo. Sociologi e psichiatri quando li vedi in tv danno l’impressione di navigare a vista in un mar di dubbi. E di orrore, malamente mascherato. Perché ogni trucco, e qualsiasi arma, sono consentiti nel duello (rusticano); nessuna cavalleria solo volontà d’uccidere. Vedo che i giornali, un po’ tutti, s’interrogano preoccupati su questa emorragia di violenza che allaga la periferia ma altresì l’antico cuore di Roma, quel Campo de’ Fiori vegliato da Giordano Bruno; ma l’ariosa piazza restaurata dal più amato (finora) dei sindaci, sì, lui, Francesco (pronunciare Franciasco) Rutelli, è perennemente invasa dalla violenza.

«Un abbacchiaro, A.T., questiona con un concorrente; lo sfida al duello alla caprara, l’uccide. Non basta: A.T. strazia il misero corpo dell’abbacchiaro sino a spacciarne i resti a bottega. Quel delitto sarebbe rimasto impunito, forse, se un cliente non avesse messo in allarme la polizia denunciando d’aver rinvenuto in una salsiccia un’unghia umana» (Da Roma in Bianco e Nero di Riccardo Mariani). Non si tratta del cadavere, a pezzi, conservato in due valigie, il fattaccio apparso sui giornali dell’anno di grazia 2009 or è qualche mese. A.T. squartò il rivale ucciso in un mite mattino del maggio del 1912. La lama del «bullo» non conosce calendario. Nel numero dei delitti in Italia, circa 600 l’anno, gli omicidi per arma da taglio sono il 27,4 per cento. Dall’inizio del 2009 a oggi si contano già 50 omicidi con il coltello, l’arma preferita dai minorenni.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Squartatori e altri fantasmi
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:54:40 pm
1/5/2009
 
Squartatori e altri fantasmi
 
IGOR MAN
 
Hanno (forse) catturato lo squartatore che lasciò al deposito bagagli i resti mutilati di due sconosciuti (finora). È una buona notizia fra le tante che ci dicono dell’ennesima bambina stuprata, del tossico ubriaco che ammazza con l’auto cinque persone cavandosela con un graffio e via così. I vecchi romani, quelli veraci, parlano del fattaccio, certo, ma solo per smorfiarlo (1848771) al lotto. Vale per Roma quel che Jacques Yonnet ha scritto nel suo Enchantements sur Paris: «Non conosce la sua città chi non ha fatto esperienza dei fantasmi che la popolano».

I romani han dimestichezza, per esempio, con quello di Mastro Titta, l’«illustre boja» Giambattista Bugatti, morto novantenne «dopo aver eseguito da sé 514 giustizie dal marzo del 1796 al 17 di agosto del 1864». «Sega sega Mastro Titta», così non poche popolane tuttora addormentano i loro pupi. Cadaveri fatti a pezzi ricorrono non di rado nelle cronache romane del secolo scorso e del precedente; da quello del «russo» scoperto in due valigie, l’anno 1918, in una pensione dei Condotti, a quello di Paolina Gorietti uccisa e smembrata, nel 1933, da Cesare Salviati che ne distribuì i resti in due valigie. Al giudice che gli chiese come mai non avesse provato orrore, rispose: «Se tagli bene, le ossa non sono un problema». Vecchi fantasmi: a un passo da San Pietro c’è la Valle dell’Inferno, così chiamata, a detta del Ruffini, perché «di là irruppero gli indiavolati lanzichenecchi che misero a saccheggio Roma, appiccandovi teste il 6 di maggio del 1527».

Il Vecchio Cronista una volta ancora (ma di notte) ha ricalcato strade uniche che resistono all’alluvione del cemento. È scomparso il Vicolo scellerato, ma resistono la Sedia del Diavolo e ancora il Casale della morte e l’Infernaccio, Quarto di Vipera, Malagrotta, Campomorto, l’Osteria del malpasso, Piscina cupa. A nord e a sud del Tevere giù per l’Agro romano sino ad Anzio e Nettuno ecco Cavallo morto, Coccia de morto, Femmina morta, Fosso del diavolo, Campomorto, Campo di carne; teatro, quest’ultimo di antichi massacri rinnovatisi nell’ultima guerra. «E passano i giorni / lo sbarco non viene / aumentan le pene / ci sembra morir...», cantava Roma occupata dai nazisti e dai repubblichini ma, anche in quel tempo boreale, il romano riusciva a conservare la sua arma segreta, l’ironia. Un giorno di marzo si lesse in Trastevere la scritta: «Americani, tenete duro, che presto verremo a liberarvi».

L’immagine corrente di Roma che, per altro, i quiriti si guardano bene dal contestare, è quella d’una città crapulona e cinica: «A noi ce piace de magnà e beve - e nun ce piace da lavorà». Capitale infingarda, dunque, ovvero cinicamente saggia, consapevole del proprio inventarsi al passo della Storia? Gli aritornelli antichi che i posteggiatori cantano in Campo de’ Fiori in questa primavera goffa suggeriscono un’altra immagine di Roma: sono frammenti della lunga storia senza sostanziali mutamenti del popolino romano, romantico e affabulatore. Amore e tradimento, er Tevere, il coltello come simbolo della virilità e del comando, il furto del gioiello da regalare, i pupi delle battone di Trastevere «prenotati» dalle popolane più povere che li cresceranno. «Che ce frega de li morti ammazzati, i pupi so vita... forza Roma».

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Vigili angeli tra le rovine
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:56:04 pm
8/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Vigili angeli tra le rovine
   
IGOR MAN


«Pompieri». Complice una letteratura di consumo che nutrì maliziosa i «fogliettoni» dei quotidiani durante tutto l’Ottocento, declinando con il trionfalismo del fascismo cui, per ordini superiori, spettava la palma del coraggio maschilista, i pompieri, ancorché ribattezzati addirittura da Gabriele d’Annunzio Vigili del Fuoco (1939), subirono la retorica del folklore tra sirene e scintillio d’ottoni. È stata la libertà di stampa a far conoscere agli italiani i Vigili del Fuoco. I giornali, la radio, la tv, gli stessi quotidiani diremo «nazionali» diedero subito il giusto spazio al lavoro duro e paziente dei Vigili del Fuoco. Fu così che li scoprimmo arditi nemici degli incendi, infaticabili soccorritori delle vittime dei terremoti. Qualcuno di noi ha scritto di straordinari salvataggi di vittime del terremoto dell’Aquila, raccontando di Vigili del Fuoco al lavoro durante ore ed ore, spesso «a mani nude». Va detto subito che i Vigili hanno adoperato le mani pur essendo dotati d’ogni possibile strumento up to date perché sanno, per esperienza, che c’è un momento in cui la bambina o il vecchio sottratti alle macerie han bisogno di recuperare la vita, insomma di ritrovare se stessi. Ed è in quel preciso momento che il Vigile - con le sue mani, con le sue parole - diventa taumaturgico.

Ma come si diventa Vigili del Fuoco? C’è un concorso pubblico e i vincitori seguono, durante sei mesi, un rigoroso corso di formazione, più altri sei mesi di pratica. Sei e sei dodici: poi gli esami. La selezione è dura, com’è giusto che sia. Il primo stipendio è di 1.250 euro al mese, i turni di servizio son di dodici ore consecutive con rotazione in quattro turni. E trovano il tempo, i Vigili, di frequentare (generosamente) la Banca del Sangue alle Capannelle. In ogni città d’Italia è senza interruzioni il collegamento fra Vigili e ospedali.

Il Vecchio Cronista «scoprì» i Vigili del Fuoco italiani nel lontano ‘67 quando un terremoto invero catastrofico sfarinò Cefalonia e persino Zante, la remota patria del Foscolo. E notò come i greci invocassero in primo luogo gli italiani, la loro presenza. Non avevo mai visto lavorare i Vigili del Fuoco, mi sembrava impossibile che, oltre a cercare eventuali superstiti, dessero una mano a chi montava le tende e persino ai paramedici degli ospedali da campo. Di più: tutti, dico tutti, i superstiti tratti in salvo e i greci rimasti incolumi ma senza casa, chiedevano l’assistenza degli italiani.

Sarebbe bene (forse) che nelle nostre elementari, dove insegnano maestri veramente motivati, si rispondesse al grande quesito seguente: come mai, perché laggiù (non soltanto in Grecia) la nostra «meglio gioventù» ha lasciato un ricordo invero nobile? Italiani brava gente? No, non fosse altro perché non c’è esercito al mondo che non abbia tralignato. C’è però chi ha torturato il (supposto) nemico, c’è chi ha aggiunto disastro a disastro, spesso per ignoranza. Ma c’è chi riconosce se stesso nell’Altro, magari senza saperlo - ed anche questo, chissà, è un modo di incontrare il Vangelo.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Gerusalemme una capitale troppo santa
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2009, 04:18:44 pm
12/5/2009

Gerusalemme una capitale troppo santa
   
IGOR MAN


Con eccezionale tempismo, nel (preciso) momento in cui il Pontefice è ospite in Israele nell’evidente tentativo di limare le non poche asperità che guastano i reciproci rapporti, quelli che chiameremo «i biblisti» fanno esplodere il fino a ieri vago progetto urbanistico volto a definire lo status di Gerusalemme. Il progetto ha una sua logica che coniuga urbanistica e politica territoriale. Ha solo il torto di ricordare una volta ancora al colto e all’inclita che «è stata la capitale del popolo ebraico (per tremila anni) e resterà la capitale riunificata di Israele» giusta la dichiarazione (puntuale) del portavoce della municipalità di Gerusalemme. Ancora: «sotto la sovranità israeliana - ha aggiunto il portavoce -, i Luoghi Santi sono ben protetti (...) Il governo continuerà a sviluppare Gerusalemme per il bene della sua composita popolazione».

Secondo fonti giornalistiche bene informate, il progetto dei «parchi biblici» a Sud e a Est della città contesa, risale al settembre del 2005 quando capo del governo era Sharon. E risulta che allora, due anni prima dell’inutile conferenza di Annapolis, sparigliò le carte con la sua consumata destrezza, lasciando credere ai palestinesi che il progetto era «chiaramente urbanistico» e come tale capace di assicurare alla Città Santa «sviluppo e benessere». Invece, scoprono oggi, insieme con gli stessi israeliani, e grazie a una bene informata Ong, che i negoziatori israeliani (l’ex premier Olmert e Tzipi Livni) lasciavano credere alla controparte palestinese («per non irritarla») che avrebbe inglobato la zona del Santo Bacino - giusto per fare un esempio. Il progetto biblico, la sua divulgazione, coincidono con l’ambizioso progetto decennale di «rilancio» illustrato proprio in questi giorni dal sindaco di Gerusalemme capitale.

I palestinesi protestano e c’è, al solito, chi minaccia sfracelli. Di più: si ha l’impressione che Israele dia per scontato che Gerusalemme «è e sarà» la capitale (santa) dello Stato ebraico. Ben altri timori turbano un popolo affamato di pace. Uno su tutti: un blitz in Iran per distruggere i siti nucleari. Con tutte le conseguenze del caso. Nel 1956 in Israele i giovani cantavano: «Sempre in tre saremo/io, tu/ e la prossima guerra».

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Quel k2 dell'Italia rinata
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:37:08 pm
15/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Quel k2 dell'Italia rinata
 
IGOR MAN
 
Il Gigante della Montagna, lui, Achille Compagnoni, era di giusta statura, come usa dire di chi non è alto né basso. Ma la sua figura aveva un che di massiccio, ed era impressionante intuire l’ampiezza della sua cassa toracica: veramente da Gigante. Lino Lacedelli, suo compagno d’impresa nella scalata del K2, ancora oggi si muove e gesticola con quell’eleganza un po’ snob ch’è tutta dei «maestri» di Cortina d’Ampezzo; Achille Compagnoni rimane (e rimarrà) il Gigante della Montagna. Un alpigiano della Valtournenche che ha vissuto lunghi anni discreti: da albergatore in un minuscolo resort aggrappato alla montagna. Aveva 94 anni portati con saggezza e consapevolezza, il Nostro, e si adoperava affinché i giovani scalatori affrontassero la montagna «con rispetto».

La benemerita agenzia Ansa ha diffuso una succosa sintesi del momento in cui Compagnoni e Lacedelli conquistarono il K2, 8611 metri, la seconda vetta del mondo. L’Italia, in quel tempo difficile ma fiducioso, si identifica con la volontà di «far di più e meglio»: fu quello un momento magico, «fra il mito del grande Torino e il lancio della Fiat 600, il “Processo alla tappa” di Zavoli e le vittorie di Fausto Coppi (...) la nostra rinascita, il “miracolo” son passati anche per il tricolore attaccato alla piccozza di Compagnoni sul K2 (...), era il 31 di luglio del 1953, s’annunciava il boom economico, invero miracoloso, e lassù, ai confini del cielo, Compagnoni e Lacedelli si abbracciavano. La hit del momento era Te voglio bene-tanto tanto di Renato Rascel, Modugno diffondeva Vecchio frack e Moravia pubblicava Racconti romani. Dopo l’austerity gli italiani avevano ritrovato la voglia di confrontarsi col mondo». Si ricominciava a «pensare in grande», come, sottovoce, il presidente Einaudi disse a un giovanissimo Carli. La conquista del K2 è nella nostra Storia la svolta che porterà alla rinascita, giustappunto. E si fa bene a ricordarlo oggi che lo stellone è un po’ acciaccato.

Il regista Marcello Baldi ricavò un lungometraggio dalle immagini girate lassù da Fantin e, incredibilmente, da Compagnoni e Lacedelli. La «prima» ebbe luogo al Barberini, il presidente Einaudi non nascose la sua commozione. Ancorché incaricato del commento, non ebbi il tempo allora di scavare dentro i 14 alpinisti della spedizione guidata dal mitico Ardito Desio, lo scienziato che aveva trovato l’acqua a Cufra - ma il Duce non gli badò -. Fu solo nel settembre del 2003 che, grazie al multiforme Piero Melazzini, presidente della «Popolare» di Sondrio, parlai a lungo con Compagnoni. Si esprimeva con garbo, sommessamente, un sorriso perenne, timido sulle labbra vermiglie.

«Bisogna rispettare la montagna, così come si rispetta la madre. Chi oltraggia la montagna bestemmia. Insegnate ai giovani che finché crescerà un filo d’erba l’uomo sarà salvo» (cfr. M. Carreri, Messaggero Sant’Antonio). La notte-alba, lassù sul K2, lui e Lacedelli si abbracciavano felici come bimbi, incuranti delle mani orribilmente congelate. Finita l’intervista, Compagnoni mi disse: «Non l’ho detto a nessuno: abbracciandoci, io e Lino, “Viva l’Italia” esultammo, così, di botto...».
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN L'attacchino che faceva politica
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 11:59:50 am
22/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
L'attacchino che faceva politica
 
IGOR MAN
 
Ciao Sandro, gli attacchini di Roma ti ricordano con affetto» è scritto a lettere bianche su di un triste, interminabile sfondo nero. Ma chi è Sandro e perché questo manifesto grande come un’ideale cornice alla Salvator Rosa? E il messaggi, così insolito, da chi viene, a chi va? «Roma non basta una vita», sentenziò Silvio Negro. E Luigi Ceccarelli, romanista-poeta, ammoniva che bisogna sempre «capire» di quale Roma si parla, volta per volta, caso per caso.

Il manifesto bianco e nero che ha letteralmente invaso la capitale - di nuovo bellissima dopo insolite giornate di pioggia importuna perché fuori calendario - è semplicemente il commiato (definitivo) degli attacchini romani a un loro compagno di fatica e di «ideali», Sandro Francavilla, stroncato da un devastante aneurisma cerebrale. (Aveva cinquantasei anni soltanto: anche la morte ha il suo giorno di nascita, sentenzia, amaro, lo scaccino di Santa Maria in Monticelli).

Sandro fu comunista sin da fanciullo, così come fu attacchino da sempre. Attacchino de sinistra. Quello dell’attacchino è un mestiere nobile, almeno a Roma, non fosse altro perché chi lo esercita nel partito ce crede, insomma partecipa. Abbiamo visto quel capolavoro ch’è Ladri di biciclette ma non tutti gli attacchini hanno appesa la disgrazia al collo come quel disgraziato che, privato della sua scassata bicicletta, è un angelo senz’ali precipitato nell’inferno del traffico romano. Sandro cominciò presto a far politica, se lo ricordano in tanti: «Un ragazzo sveglio, batteva tutti quando “i compagni”, anche quelli più importanti, la domenica si improvvisavano “strilloni” e l’Unità andava a ruba». Aveva fatto i suoi bravi studi d’obbligo ma la gioia di leggere - per capire e capirsi, come diceva - ne aveva fatto un assiduo frequentatore della libreria Feltrinelli dove, «se ci metti l’anima e hai piedi forti, puoi leggerti un libro intero, gratis».

C’è una sana rivalità nel mondo degli attacchini di Roma. Epperò son finiti i tempi delle «ammucchiate» quando esplodeva la campagna elettorale e gli attacchini se le davano di santa ragione. «Altri tempi», sospirano in via de’ Giubbonari dove nacque e crebbe la più antica sezione comunista di Roma. Una volta, or è tant’anni, Federico Coen volle avermi ai Giubbonari per un dibattito (manco a dirlo) sulla Palestina: serrato, sinanco rovente ma civile, all’insegna del rispetto. Altri tempi.

Va detto ancora qualcosa degli attacchini: considerano un’arte, ancorché minore, quella che esercitano da sempre. Una volta Sandro ci illustrò la sua tecnica che aveva bisogno soltanto di un secchio con buon amido sapientemente miscelato alla colla e uno spazzolone da Upim. Un buon attacchino non spreca una goccia del suo secchio, nelle sue mani lo spazzolone diventa una durlindana. Con l’anima spuntata, ahimè.

Ma perché racconto di un attacchino? Perché quel saluto appiccicato con l’amido simboleggia la scarsa presa, oggi, di un partito che fu veramente storico. È l’addio al vecchio Pci e qui, nella Roma artigiana, le imminenti elezioni sono vissute come l’ultima scommessa: resistere o scomparire.

 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN In Ferrari a Praga tradita
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2009, 03:52:29 pm
29/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
In Ferrari a Praga tradita
 
 
IGOR MAN
 
La recente buona prova della «rossa» ricorda al vecchio cronista una performance della Ferrari invero unica. La mattina del 21 di agosto del 1968 mi svegliò una telefonata del mio Direttore, il grande Giulio de Benedetti: mi annunciava l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ancorché avessi lasciato Praga il 14 di agosto confidando in una lunga sorsata di riposo a Sabaudia, convenni con il mio (amato) tiranno che bisognava tornare, subito, a Praga. Ci riuscii, non senza fatica, ma ci riuscii. Trasmettevo da Praga schiantata dalla disperazione, beffando la censura sovietica ma non appena possibile raggiungevo Vienna per rimanervi tre-quattro giorni, impiegati a raccontare più distesamente, e in profondità, la tragedia cecoslovacca. Facevo la spola, insomma, sempre in cerca d’un «passaggio» da Praga al «Sacher» di Vienna.

Il pomeriggio del 4 di settembre ero in Ambasciata, quando dal severo cortile giunse il rombo possente d’un motore d’automobile. Grosso fu il mio stupore nel vedere al centro del cortile una fiammeggiante Ferrari. Non credendo ai miei occhi: ma quello è Sergio Busi, esclamai incredulo e Sergio, poiché era lui il pilota: «Soch, ma allora è proprio vero quello che scrivi: questa è una città disperata, ci sono più carri armati che belle ragazze», declamava mentre saliva rapido le antiche scale. (E qui va detto che Sergio Busi, prematuramente falciato dalla morte, fu un audace imprenditore attento all’editoria). Gli concessi due giorni di «turismo», poi partimmo per Vienna. La fremente Ferrari aveva spesso bisogno d’acqua per rimboccare l’avido radiatore sicché Sergio cominciò a buttarsi, ogni tanto, nella campagna lasciando ai soldatini mongoli made in Urss che ci osservavano sbalorditi dall’alto dei carri armati, la strada principale diretta al confine con l’Austria. E fu proprio dalla prima fattoria che cominciò la nostra «missione-portalettere».

Sull’aja trovavamo donne giovani e magari belle: Sergio riusciva a farsi capire meglio di me in grazia del pastoso linguaggio espressivo degli emiliani. Le contadine, fiduciose, chiedevano a Sergio di affidargli una lettera, solo una lettera, da imbucare a Vienna per far sapere al mondo (ai parenti, agli amici) che la Cecoslovacchia era stata tradita e stuprata dai «compagni» sovietici. In quelle fattorie senza uomini non c’era il telefono ma in virtù d’un misterioso tamtam nelle successive trovavamo ad attendere «Ferrari-Italia» ragazze o vecchie già con la lettera pronta. «Soch, Igor, questa è la più importante esperienza della mia vita», non faceva che ripetermi Sergio. A pochi chilometri dal posto di frontiera di Vaculiz fiorì un finale felliniano.

Una vecchia contadina chiese fieramente di «fare un giro». Sergio, ridendo, la sollevò da terra, la sistemò sul sedile e bruciò la ghiaia partendo a razzo. Più tardi la contadina pescò dal reggipetto un uovo, ancora caldo. Lo offrì a Sergio e lui fece una cosa straordinaria. Accese il motore, scese dalla macchina, prese l’uovo e lo posò sul cofano. Vibrando, impercettibilmente, l’uovo rimase lì, sul cofano della magnifica rossa, senza spostarsi d’un millimetro. Immobile. «Ma questo è un sortilegio», esclamai fra l’incredulo e lo stupito. Sergio, fattosi improvvisamente serio: «No, Igor, questa è la Ferrari», disse.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Somali e bucanieri
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:33:31 pm
5/6/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Somali e bucanieri
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
C’era una volta la Somalia, ex nostra «colonia» ai tempi del Fascio, affidata dalle Nazioni Unite all’Italia dopo la seconda guerra mondiale, vittima innocente della funesta spedizione Restore Hope voluta da Bush padre quand’era un presidente trombato ma col potere di fare e disfare nel «vuoto» che va dal risultato delle presidenziali all’insediamento del conquistatore della Casa Bianca. C’era una volta un paese mite e intelligente che clamorosi errori dell’Occidente han cacciato indietro di un secolo proprio all’inizio del nuovo millennio (cfr P. Petrucci: Mogadiscio).

Trent’anni dopo la Somalia torna sui giornali: nelle acque del Golfo di Aden bucanieri somali esercitano la pirateria a viso aperto: il giorno 11 di aprile hanno sequestrato la nave italiana Buccaneer; i banditi del mare han catturato l’equipaggio, l’Italia tratta ma incontra «serie difficoltà». I banditi volevano trenta milioni di dollari di riscatto, sono scesi a due milioni e mezzo... Il Buccaneer è guardato a vista dalla nostra San Giorgio. Il 10 di giugno «si darà corso alla trattativa» (a Roma) non fosse altro perché l’Italia scarta «decisamente» l’idea di un blitz «autorizzato dalle autorità del Puntland»), la regione autonoma del Nord della Somalia, terra dei migiurtini.

Non è finita: a Mogadiscio miliziani fondamentalisti di al Shabab (Gioventù) combattono da giorni contro gli uomini del presidente in carica, Sheikh Shariff Sheikh Ahmed, che si autodefinisce «islamista moderato». Il presidente in carica è asserragliato a Villa Somalia. L’attuale inquilino ha reso confortevole quella che fu la residenza del nostro ambasciatore, quando l’Italia «dava una mano» alla Somalia. A quella Somalia che il vecchio cronista ricorda con tenerezza, con simpatia.

Mogadiscio non è mai stata bella, l’alito sciroccoso del mare corrodeva la facciata delle case, senza fantasia ma confortevoli, sempre aperte agli italiani. Durante la settimana andavamo alla scoperta del mercati (modesti ma allegri), all’università (eccezionale) alla caserma dove nostri superpoliziotti insegnavano il mestiere a motivati volontari. Qualche volta si andava a gustare «un bicchierino» dal Vescovo monsignor Colombo. Fu ucciso (non s’è mai saputo da chi) e quel delitto segnò l’inizio della rovina. Mogadiscio ha una spiaggia di rena bianca, sottilissima - tuffarsi in quelle acque era un ristoro. La sera andavamo al Lido: sbirri, diplomatici, giornalisti, professori.

Il Lido era un night arrangiato con quattro palanche di legno. Funzionava un radiogrammofono Magnadyne alle cui musiche-disco si ballava con splendide somale alte e flessuose. No, non erano «troniste» o «veline», erano ragazze diventate libere non senza sacrificio: qualcuna faceva l’infermiera, altre la maestra elementare, non mancavano le laureande. Gian Carlo M. sosteneva che una delle ragazze-danzatrici fosse una principessa. Alla Croce del Sud, vetusto albergo solenne, facevano ottimi spaghetti. Noi giornalisti trasmettevamo i «pezzi» via telegrafo. Era, la Somalia, un paese povero ma a suo modo felice. Tornerà ad esserlo? Non credo. Non fosse altro perché è accertato che custodisce in grembo, nel sottosuolo, una riserva «smisurata» di idrocarburi. Una riserva strategica che fa gola un po’ a tutti: dalla Cina ai bucanieri senza bandiera; almeno per ora.

 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Al Cairo il discorso più atteso
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 12:16:03 am
3/6/2009
 
Al Cairo il discorso più atteso
 
 
IGOR MAN
 
Col suo lungo passo atletico il giovine Obama, espressione storica del melting pot americano, entra nel pianeta Africa: arriva al Cairo in visita ufficiale. Ma il suo viaggio supera la valenza politica. Il Presidente della più grande potenza del mondo - gli Stati Uniti d’America -, entra nell’Africa (che è anche «sua») per la porta immensa, tarlata e tuttavia forte: al Kâhirah, semplicemente Cairo. È al Cairo che islàm e Africa mischiano la propria Storia e qui, all’ombra delle piramidi assalite dai turisti, che Politica e Storia vanno insieme. Da sempre.

E’in Egitto, Paese antico, aristocraticamente povero, che si pesano il bene e il male, la speranza e la delusione. Obama conosce bene il dossier Medio Oriente ma lui, così giovine, è un raîss all’antica: non gli bastano i rapporti del Dipartimento di Stato, vuole toccare con mano, vuol capire se il cinismo di Mubarak è una difesa ovvero una resa.

Se c’è spazio per una trattativa seria, non formale, sul destino di Gerusalemme, se c’è futuro per i palestinesi che invocano il diritto alla Patria. Quello di Obama non è un viaggio turistico ma una inedita full immersion nella crisi centenaria del Vicino Levante. E tuttavia osiamo immaginare una segreta gioia di Obama. Quella di respirare un sorso d’Africa, al Cairo, la Vittoriosa. Non solo una città ma anche un pianeta a innumerevoli «anelli» intrecciati l’un dentro l’altro eppur divisi da invisibili confini. Cairo: oro e cenere. Calcutta africana, 17 milioni di abitanti di cui cinquemila allogati nella Città dei Morti: i vecchi cimiteri dei secoli passati; e ancora: milionari che consumano la loro dilagante ricchezza in fastosi ricevimenti negli alberghi a 5 stelle dove una camera costa altrettanti stipendi universitari; miserabili che conquistano, giorno dopo giorno, la sopravvivenza raccogliendo l’immondizia della metropoli per, poi, frugarvi dentro: gli zabbalin dei quali ha scritto Suor Emmanuelle («Ho amato Gesù tra i rifiuti», Piemme).

Al Cairo è il tramonto il momento più bello della giornata. Le strade assumono lentamente la tinta azzurro-metallica della carta copiativa ma riflettono, ostinate, il colore neutro del sole. Il Nilo diventa un fiume di rame fuso, il profilo delle Piramidi sfuma nel violetto, dietro le quinte dei palazzi napoleonici si indovina il respiro vasto del deserto vigilato dalle palme concimate dalla Storia. I caffè addormentati si svegliano al rumore discreto delle pedine veloci del tric-trac, sui marciapiedi sconnessi si allineano dolci di sesamo e fave bollite, lacerti di carne, schidionate di budella cosparse di spezie. Il tanfo del cibo si mischia a quello dei fiori in disfacimento e del sudore umano. Ci si muove tra la folla animosa in un’aria satura di elettricità statica, come a New York ma spalla a spalla con uomini in galabia (ogni maschio del lumpenproletariat possiede due galabie copristracci: una estiva, una invernale), e con ragazze, belle davvero, vestite all’europea ma con in testa il fazzoletto nero delle contadine, succedaneo del velo; con ragazzi smaniosi, fieri dei blue-jeans d’occasione. Le strade sono un Nilo di automobili, vecchie 1100 gloriose e nuovissime Mercedes, taxi ultracinquantenni i cui autisti (detti «no problem»), guidano alla kamikaze con la mano inchiodata sul clacson. Chiudono i negozi, si svuotano gli uffici, la gente prende coraggiosamente d’assalto autobus stracolmi, i trenini biancocelesti del metro si riempiono sino a scoppiare di pendolari: più di 10 milioni di persone lasciano ogni sera Cairo per i dormitori della lontana periferia.

Negli attici superprotetti di Zamalek, dove i ricchi vivono gomito a gomito coi diplomatici ci si prepara per la rituale cena-ricevimento: i protagonisti son sempre gli stessi, cambiano soltanto i gioielli e i pettegolezzi ai quali, spesso, corrispondono verità sociali e politiche. Nel cuore della città, egiziani stanchi, poveri ma non rancorosi, salgono lentissimamente le scale di servizio dei grattacieli-nani per raggiungere le proprie dimore improprie. Cubi di compensato e cartone arrangiati sui tetti. (Quanti sono i cairoti che vivono sui tetti? Non si sa). In Kasr el Nil ch’è un po’ il centro della città «europea», dall’alto del grattacielo Wuabhay è possibile cogliere la vita degli inquilini «dei tetti piatti». Stendono la biancheria, accendono piccoli fornelli di argilla o di latta, qualche primus, rattoppano i loro rifugi addossati ai grandi camini. In un angolo han steso una stuoia, vi si inginocchiano per pregare, rivolti idealmente alla Mecca. Durante lunghe ore, di giorno, sui tetti stanno donne e bambini poiché gli uomini vanno in giro «arrangiandosi» per poche piastre: il Cairo non regala nulla. Epperò questi delle terrazze non sono tra i più infelici dei miserabili della città madre e matrigna al tempo stesso. Dai loro rifugi aerei godono lo spettacolo mosso della capitale, del suo cuore più aristocratico, ne assorbono le pulsazioni, respirano un’aria sempre rinnovata dal vento. È come se vivessero tuttora nel deserto dal quale sono venuti, o nel villaggio senza più limo ché la Diga di Assuan, intitolata a Nasser, ha stravolto l’ecologia antica. Dall’alto dei loro cartoni issati fra le antenne paraboliche, quelli dei «tetti piatti» vedono il brulicame umano di Bab el Sciaria. In questo quartiere si ammucchiano 140 mila persone in un chilometro quadrato. Nugoli di bambini piccolissimi (il 25 per cento dei 14 milioni di abitanti del Cairo si calcola abbia meno di sei anni) corrono da un marciapiedi all’altro, i piedi arabescati di fango. Bancarelle piene di bottigliette di brillantina alle rose, pettini di plastica, toscanelli, sigarette Cleopatra.

Altoparlanti invisibili spargono a pieno volume musiche tristi che tuttavia sembrano scatenare una umanissima allegria. C’è gran ressa intorno ai ristorantini ambulanti: carrette a due ruote, spinte a mano. Sui ripiani protetti da vetri multicolori istoriati da mosche invulnerabili, troneggiano vassoi di riso insanguinati dal pomodoro, di lenticchie, di insalata, e l’immancabile marmitta di fave bollite. Tutti mangiano e con poche piastre: in un pane cavo tondo e schiacciato, vien fatta, con abili dita, un’apertura colmata con un cucchiaio di foul, fave tritate all’olio di semi, il piatto nazionale. Ma c’è anche chi compra carne d’agnello per il kebab. L’Egitto, paese nel quale ogni trenta secondi nasce un bambino, non è certo un paese ricco eppure i negozi dei beccai straripano di bestie squartate appese fuori della bottega. Qui i turisti non vengono, a Bab el Sciaria, dico, ma quei pochi che vi capitano per caso, stupiti da tanta abbondanza fotografano increduli gli agnelli e i quarti di montone. Il miracolo dell’abbondanza si deve alle cooperative di Stato create da Nasser, sopravvissute alla infitah (la politica della porta aperta al capitale estero, voluta da Sadat) e alla cosiddetta «privatizzazione assistita» dell’accorto Mubarak. Grazie alle cooperative, una famiglia media (cinque-sei persone) riesce a imbandire il desco spendendo una somma «ragionevole». Tuttavia, poiché lo stipendio d’un colletto bianco è irrisorio, secondo i nostri parametri, si riesce a sfamarsi, non a mangiar bene.

Ma chi mangia bene in Egitto? Sicuramente i bayumi. Hassan Bayumi è un nome tristemente «storico»: costruì nei Settanta, nel quartiere residenziale di Dokki, un lotto di sei isolati, rivendendoli subito con un guadagno del cento per cento. Qualche mese dopo quell’operazione tanto (per lui) fruttuosa, uno dei falansteri crollò; dalle macerie del palazzo costruito con materiale infame, furono estratti «non pochi cadaveri», come scrissero pudicamente i giornali. Al Cairo i bayumi son detti anche «le iene grasse» e il marchio bayumi vale altresì per i super-ricchi ai quali a suo tempo la denasserizzazione consentì di far breccia nel sistema, accumulando fortune enormi. Fatalmente i bayumi son dappertutto, ma chi volesse evitarli (Obama?) vada al Khan Khalil. Non è soltanto il bazar più favoloso del Medio Oriente, è in fatto un mondo estremamente civile popolato di artigiani impareggiabili, di mercanti incredibilmente seri.

E infine, prima di accostarsi alla Moschea severa e colta di al Azhar, per chi voglia veramente sentirsi dentro il Cairo e ascoltare il suo cuore antico, ecco il rifugio discreto e ammaliante del «café Fichaoui» sopravvissuto alle ingiurie del tempo, alle soffiate di ben quattro polizie. Qui, in questo luogo deputato, è possibile ascoltare il racconto del tempo, fumando il gorgogliante narghilè, bevendo caffè ziada o masbout (molto zuccherato o giusto), ovvero il tè alla menta in enormi bicchieri appannati dalla bevanda bollente. Più caldo è il tè alla menta, più disseta.

E quando, finalmente, il Presidente americano varcherà la soglia di al Azhar, solenne moschea e università celebre, luogo incontaminato, faro di intelligenza, ecco in quel preciso momento egli (pensiamo) sarà rassicurato. Questo perché al Azhar è la diga possente che comunque fermerà il magma brutale dell’integralismo. In al Azhar il Corano viene letto e meditato, scandito nei suoi versi secondi solo a quelli della Divina Commedia. Non manipolato, come avviene da parte degli apprendisti stregoni gonfi d’odio e di ignoranza, seminatori di morte quant’altri mai. Epperò il Corano, da solo, non riuscirà a sconfiggere l’integralismo selvaggio se Mubarak non riuscirà a domare la corruzione. Ma questo Obama lo sa. Sa soprattutto che in questa parte del mondo, sono stati sempre i miserabili a fare e disfare le fortune dei potenti.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN La rivalsa di Muhammar
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:49:01 pm
11/6/2009
 
La rivalsa di Muhammar
 
IGOR MAN
 
Il volto di Gheddafi, «al Qaid» (Guida) della Libia, ispessito dagli anni, è una impassibile terracotta ma, a guardarlo bene, t’accorgi che le palpebre ancorché schermate da occhialoni extralarge sbattono denunciando tensione. Il Colonnello è avvolto in una delle settecento divise da lui disegnate secondo il modello sovietico; sul torace protetto dall’antiproiettile ballonzolano, al posto delle decorazioni, pallide foto. Ritraggono Omar Mukhtar, eroe nazionale, lo sceicco senussita catturato e impiccato da Graziani. Ma perché questa esibizione d’un medagliere anomalo (si deve a Breznev, ma lui esibiva stakanovisti)?

Nel mondo di Gheddafi esiste il cosiddetto doppio linguaggio: quello che serve a comunicare genericamente, quello che sottintende. Con le mostrine fuori ordinanza Gheddafi ha inteso dire ai suoi interlocutori (italiani) che la sospirata «pax» fra Italia e Libia non cancella il passato. S’è aperta una pagina nuova ma quella vecchia non sarà mai dimenticata. E qui va ricordato come nella Jamahiriya (equivalente arabo di Repubblica popolare) sono i Comitati popolari a far da barometro, a rivelare gli umori delle «masse». Gheddafi è il leader ma lo si discute, non di rado.

Per darsi disinvoltura Gheddafi giocherella con uno dei suoi tanti bastoni, parente povero d’una durlindana turca. Infine lo rifila a una prosperosa «tigre» col basco rosso: fa parte della leggendaria scorta femminile del Colonnello.

Due i gesti di cortesia: Berlusconi ancorché afflitto da un torcicollo all’ultimo momento è andato a Ciampino ad accogliere il Colonnello e costui ha rinunciato al bastone dai mille segnali, sostituendolo con uno spadino fieramente impugnato con la destra. Il Colonnello venuto dal deserto sembra che sorrida ironico come un gatto, non riesce a dominare un (per lui) prelibato stato d’animo. E’ una lunga battaglia politica quella che «al Qaid» ha combattuto contro l’Italia, lugubremente scandita dal «giorno della vendetta» che mobilitava ogni anno un popolo senza troppi ideali, solo preoccupato di star bene lavorando poco, possibilmente nulla grazie al «Welfare State» edificato dal Colonnello col «petrolio di Allah». Nel suo insieme l’accordo concluso con Gheddafi è un impegno gravoso ma imprescindibile. Dietro le varie sceneggiate (con lancio, sbilenco, persino di missili su Lampedusa) marciava un sentimento di amore-odio per l’Italia. Chi scrive, tra colloqui e interviste, ha avvicinato il Colonnello almeno dieci volte, a partire dall’aprile del 1972 quando egli riceveva (nell’ex residenza di Balbo) i giornalisti vestito in borghese con la camicia a maniche corte sotto la giacca color senape, le scarpe di finto coccodrillo; così magro e giovine, gli occhi implacabili, sembrava uno studente di scuola serale piuttosto che un leader sin da allora inquietante. Nel 1972 eravamo in dodici i giornalisti invitati a Tripoli per una «intervista collettiva». Quando fu la mia volta: «Mann?», interrogò, «ebreo?». E se lo fossi?, replicai. «Se sei ebreo sei mio fratello e come tale due volte il benvenuto», rispose. No, non sono ebreo, il mio nome si scrive Man con una enne sola, ma ho molti cari amici ebrei, dissi. «Anch’io», sorrise il Colonnello. Non fu altrettanto gentile con il collega della «Tass». Fu, anzi, maleducato: «Vada via, esca immediatamente», sibilò. «Al Qaid» non ha mai amato i russi. «Li odio, mercanti fino all’ultima piastra ti appioppano quattro missili stravecchi», mi disse una volta.

Chi scrive ha avuto modo di seguire il ministro degli Esteri Giulio Andreotti nei suoi viaggi in Libia anzi nella Jamahiriya. Negli anni, Andreotti non ha mai nascosto l’utilità di un «rapporto realistico» fra l’Italia e la Libia. Oggi può consolarsi d’aver spianato la strada all’accordo che escluderebbe ripensamenti, bizze e mutamenti di rotta. Gestire un accordo come quello che Tripoli e Roma hanno sottoscritto comporta fermezza ma anche tolleranza reciproca. Incidenti di percorso son da mettere in conto ma Gheddafi sa essere, quando vuole, pragmatico, estremamente corretto. Non è un personaggio facile, non fosse altro perché è un beduino. Essere beduini comporta nello specifico una visione della vita invero particolare. Certamente il beduino è un buon islamico: osservante del Corano, «muslim»: sottomesso al volere di Allah. Il beduino, in più, è «figlio del deserto» ed è, sempre, il vento a segnare il destino: così come muove le dune, il vento guida il beduino. Gheddafi è uno solo, cordiale e arrogante, tirchio e generoso, ma non di rado può capitare di incontrare con lui un personaggio diverso; insomma è come se si sdoppiasse, quando meno te lo aspetti. Chi s’accorda con Gheddafi ha il dovere di non dimenticare mai ch’egli è un beduino. Cioè un islamico «diverso» intimamente sospettoso.

Fra i tanti incontri il vecchio cronista conserva un ricordo particolare: l’intervista a Taurga, la notte del 9 di febbraio del 1986 (apparsa su «La Stampa» dell’11 febbraio). Chi mi accompagna, durante il tedioso viaggio di 375 chilometri da Tripoli al deserto sirtico, assicura ch’io sia l’unico giornalista occidentale ad avere la chance di incontrare Gheddafi fuori dal protocollo. Il Colonnello è in piedi sul limitare d’una tenda beduina marrone ingentilita da drappi di cotone dai colori smaglianti. «Benvenuto», sorride (in italiano) fra il divertito e l’ironico. Davanti alla tenda arde un mucchietto di braci a scaldare una teiera di smalto blu. Dopo l’intervista il Colonnello licenzia l’interprete e restiamo soli a parlare. In inglese. Visto così, da vicino, sotto la tenda autentica, senza una delle sue settecento divise (da cambiare durante sette vite), senza il braccialetto di Cartier al polso, senza gli stivaletti dal tacco vertiginoso, il Colonnello, se non fosse per lo sguardo scaltro potrebbe veramente sembrare un qualsiasi giovine beduino. «Vorrei parlarti della mia Terza Teoria», mi dice, una teoria universale che non è predicazione bensì un «sistema» politico e quindi socioeconomico, valido per tutti. Suppongo che «al Qaid» abbia illustrato la sua fatica ideologica al nostro presidente del Consiglio. Che verosimilmente ne avrà, dentro di sé, sorriso. Anch’io ne sorrisi, allora, oggi sono portato a riflettere che quel «nulla di nuovo» ch’è la Teoria di Gheddafi calza a pennello a un paese, la Libia, dove vige miracolosamente il caos organizzato, una sorta di neomaoismo coi colori del Profeta. Il socialismo coranico, postulato dal Colonnello, nega ogni influenza laburista o scandinava, avversa il capitalismo ma anche il comunismo.

Il collega Valentino Parlato, tripolino doc, ha scritto come la sigla di Gheddafi, massimamente problematica, sia il «mabul», vale a dire il matto «con tutta l’espressione, compresa quella sacrale che la parola “mabul” comporta» (non risulta che in merito il Colonnello abbia avuto a ridire). E, poi, va detto che questo matto che prende il potere a 27 anni, senza spargimento di sangue, deve inventarsi tutto. Come stupirsi, dunque, se i soli modelli di comportamento, per lui, siano quelli dei nomadi del deserto, dei beduini? Gheddafi appartiene soltanto a se stesso. Per lui, giungere a Roma in pompa magna è come sciogliere un voto.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Nimeiri, raiss senza pietà
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2009, 06:52:58 pm
12/6/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Nimeiri, raiss senza pietà
 
 IGOR MAN
 
Gli eroi sono stanchi e se ne vanno, «svaniscono», come i vecchi soldati. Questo vale soprattutto per l’Africa, perennemente alla ricerca di «tenerezza», per citare l’epico Ben Bella. A uscir di scena, in questo momento invero agitato, è un personaggio del quale s’era perduta traccia: parliamo di Gaafar an Nimeiri. Ha staccato il fatale biglietto di sola andata un raiss che irruppe sulla scena politica del Sudan nel 1956, visse tutte le battaglie del suo rovente paese, e dell’Africa in generale, da convinto «ufficiale libero», da nasseriano insomma, per infine uscir di scena da fondamentalista. Tutto il contrario di Gheddafi (oggi ospite di Roma, finalmente) che fedele alla filosofia di vita del beduino, beduino è rimasto e il pane tuttora distribuisce ai suoi compatrioti, non di rado erratici, imparzialmente. Ma qui il «vecchio cronista» ricorda Nimeiri perché a lui è legato un momento drammatico della sua vita di reporter.

Nel maggio del 1969, Nimeiri trionfa con un colpo di Stato, di impronta nasseriana, ma quando annuncia che avrebbe raso al suolo i comunisti i giovani ufficiali di sentire marxista lo arrestano. I golpisti durarono solo tre giorni perché gli ufficiali fedeli a Nimeiri lo liberano facendone un raiss forte e spietato. Tutta la stampa internazionale era a Khartum e una mattina Eric Rouleau, Therry de Jarden, Egisto Corradi e il «vecchio cronista» (allora giovanissimo) decisero di andare a Ondurman. Volevamo parlare alla moglie d’un leader comunista impiccato nella notte. Eravamo lì a parlare con le donne della famiglia che manifestavano il lutto segnandosi la faccia col sughero affumicato, allorché irruppe un camioncino carico di giovani soldati a caccia di «comunisti». A calci e piattonate ci caricarono per subito ripartire. Invano mostrammo tessere di identità, i giovani soldati cercavano un posto dove fucilarci.

A ridosso di un muretto, coi soldati a bracciarm aspettavamo un graduato, il solo che potesse ordinare «fuoco», giusto il regolamento. Il caldo (29 all’ombra) e l’umidità al 100% ci stordivano. Prendevamo coscienza che quando fosse giunto il graduato, per noi sarebbe stata la fine. Io non ci volevo credere sicché incredibilmente pregavo: «Cristo pietà, Signore pietà», subito cancellando quelle parole per dirmi che stavo sognando, che tutto sarebbe andato bene... Infine il sergente arrivò. Nero, gallonatissimo; Corradi s’accorse del nastrino del Congo, gli rivolse la parola in francese e quello rispose contento. Breve: l’equivoco fu chiarito e il sergente venne con noi a farsi una birra. Noi giornalisti giurammo che avremmo buttato alle ortiche il blasone di inviato. Ma sono qui a testimoniare che abbiamo sempre violato quel giuramento. Perché il nostro mestiere (certamente artigianale) ti fa amare la vita e rispettare la morte.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN A Teheran in rivolta
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2009, 06:09:43 pm
19/6/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A Teheran in rivolta
 
IGOR MAN
 
Tutto si ripete, ma nulla è diverso», recitava un antico adagio sciita. Trent’anni dopo l’Iran vede l’ira popolare esplodere in quelle stesse piazze che costrinsero il Re dei Re alla fuga, sospinto dal grido ideologico «Marg Bar Scià - Marg Bar Amerika», a morte lo Scià - a morte l’Amerika. Ma, allora, quella che passerà alla Storia come la «Rivoluzione a mani nude», l’immenso rifiuto corale della Corte del Pavone, aveva, giustappunto, un bersaglio preciso: Reza Pahlevi colpevole di stravolgere i connotati culturali dell’Iran. Oggi è diverso. I ragazzi che inondano le piazze, quando Khomeini mise in fuga lo Scià proclamando la Teocrazia sciita erano infanti. Sono cresciuti col mito di Khomeini che in molti ritengono vittima d’un tradimento ideologico. E chi ne ha preso il posto, come Imam-Guida Suprema, vale a dire il pensoso Khamenei, viene contestato (civilmente) per il suo incondizionato appoggio al presidente in carica, l’ascetico Ahmadinejad. A costui viene rimproverata una gestione «erratica, fallimentare » dell’economia, vale a dire del «grande dono», il petrolio. «Siamo ricchi ma viviamo da miserabili», questo striscione sbandierato in faccia ai poliziotti ne avrebbe provocato una «smodata reazione »: hanno sparato sui dimostranti, sette morti.

Non è dunque una «sommossa» quella che agita l’Iran ma qualcosa di più tremendamente serio. Questo ci dice la «disponibilità a ricontare i voti», espressa dalla presidenza della Teocrazia.

Vedendo alla tv Teheran saccheggiata dai dimostranti, colpisce che essi siano giovani quando non giovanissimi. Allora, quando la «Rivoluzione a mani nude» conquistava giorno dopo giorno sempre più spazio nella mente e nel cuore della gente, la folla vedeva in maggioranza persone mature, professionisti, operai e, poi, c’erano i soldati, in prima fila, spesso gettavano il fucile alla folla e così diventavano seguaci di Khomeini che, immancabilmente, dedicava loro «giuste parole». Ogni giorno quel che colpiva noi giornalisti stranieri era la serenità dei dimostranti. Sfidavano la Savak, l’implacabile polizia dello Scià: sapevano di rischiare la galera, la tortura, la vita sinanco, ma alle nostre domande rispondevano sempre, e tutti, così: «Non abbiamo paura del martirio». Il Vecchio Cronista è stato in Iran, Paese dal forte tratto indoeuropeo, anche dopo la morte di Khomeini. Ha raccolto, così, per fortunato caso, quello che si può considerare una sorta di «commiato definitivo» dell’Imam perdutamente vecchio, stanco. Ma lo ha soprattutto colpito l’altruismo della gente. Vediamo.

Un giorno i «moschettieri» dello Scià (già all’estero) colmi di frustrazione scorrazzavano sparando a vanvera. Ferirono il collega Flesca dell’Espresso, ma se ce la cavammo fu perché sconosciuti iraniani ci coprirono coi loro corpi. Finita la cruenta incursione dei «moschettieri», mentre prestavamo i primi soccorsi al coraggioso Giancesare, chiedemmo a uno di quegli sconosciuti che ci avevano così, di slancio, coperto coi loro corpi, perché mai lo avessero fatto. Risposta: «Perché siamo tutti fratelli. Lo dice il Corano ». Tutto si ripete ma nulla è diverso?
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Il sogno dei turbanti s'è rotto
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2009, 11:06:38 am
25/6/2009
 
Il sogno dei turbanti s'è rotto
 
IGOR MAN
 
Grazie a quella che Gandhi chiamava «la prepotenza della notizia», veicolata da Twitter, il sito Internet che raccoglie e diffonde stringati messaggi, un po’ tutti nel mondo seguiamo gli accadimenti iraniani. Il «no» degli iraniani di buona coscienza alla truffa elettorale che ha ribaltato il responso delle urne, e la protesta popolare che ha provocato una repressione spietata, entrano nelle nostre case tranquille col loro corteo di sangue, di morte. Giorno dopo giorno, ora per ora. I lettori, la gente, l’opinione pubblica mondiale (chi per un verso chi per l’altro) si interrogano, ansiosamente: riusciranno gli iraniani che si riconoscono nel «moderato» Mir Hossein Mousavi (il grande truffato) a cancellare la frode elettorale, ad avere giustizia, insomma?

La risposta niente affatto elegante è «ni». Non pochi commentatori hanno scritto che laggiù, in Iran, «qualcosa s’è rotto». Vale a dire che quella sorta di complicità che regnava pro bono pacis nella camera dei turbanti, fra gli ayatollah ortodossi, fermi al dettato di Khomeini, e i «riformisti» alla Khatami, per intenderci, è andata in pezzi. Lasciando solitari arbitri della situazione i militari. Un esercito bene addestrato che aspetta solo l’atomica per guardare oltre i confini del cosiddetto «arco della crisi»: dal Golfo all’Indonesia passando per l’Africa afflitta da due orchi: l’Aids e la corruzione. Le ambizioni dei militari, il loro disegno strategico, si coniugano con il sogno dei turbanti khomeinisti.

La oramai remota ma sempre esaltata vittoria elettorale di Khatami svelò del tutto la realtà nascosta dalle speranze, dagli slogan degli studenti, dei commercianti del bazar (generosi sovvenzionatori di Khomeini). E cioè: in Iran può dichiararsi ed essere un presidente davvero operativo il politico che goda dell’appoggio dei pasdaran (le milizie di regime), che abbia dalla sua i rapaci bassji (polizia mobile e senza misericordia, quella che ha ucciso la giovinetta Neda, sotto gli occhi del padre), ma soprattutto chi possa contare sull’appoggio delle forze armate, oggetto di cure e premure del mistico presidente Ahmadinejad. Il New York Times ha scritto che «la frattura è al top» (non tutti i grandi religiosi sono con Khamenei) e nel frattempo la rivolta popolare è diventata un «movimento di base».

Sappiamo per esperienza storica e per la frequentazione con persiani cultori della pace, delle buone letture, «gente come noi», che i veri «moderati» sono i borghesi e gli studenti: sono loro, in queste giornate terribili, a tener vivo il braciere della protesta. Ma è solo un braciere, poiché a ravvivare la protesta sono giustappunto (relativamente) pochi iraniani. Di più: un movimento come quello che sconvolge un grande Paese indoeuropeo con la sua protesta, con i suoi animatori schiaffati in galera, un movimento così lo spegni solo col sangue. Molto sangue.

Nessuno dei contendenti vuol sopprimere l’antagonista sicché dietro le quinte c’è un grande lavorio di intelligence. Nell’attentato suicida al mausoleo di Khomeini potrebbe esserci la chiave di lettura della crisi che sta massacrando l’Iran. Se gli autori del sacrilego attentato risultassero i «fedayn dell’esterno», quelli scesi subito in campo contro Khomeini, il contestato governo avrebbe spianata la via d’una repressione ad alzo zero per radere al suolo la meglio gioventù di Teheran. Ma chi ha profanato il mausoleo dell’imam? Agenti provocatori, «fedayn dell’esterno» o James Bond che scaldano i muscoli per un blitz punitivo sui siti nucleari dell’Iran?

Dalla natura della risposta dipende il destino d’un Paese antico che ha sempre guardato all’Europa, all’Italia in particolare.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Il tredicesimo apostolo
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2009, 10:36:15 am
26/6/2009
 
Il tredicesimo apostolo
 
IGOR MAN
 
Una volta ancora Padre Pio ha sconfitto il diavolo», dice la gente di San Giovanni Rotondo. «Papa Benedetto ha rinunziato al comodo viaggio in elicottero per quello in aereo e ancora per treno pur di raccogliersi in preghiera nella cripta dove riposa “San Pio”». Cinquantamila persone hanno sfidato la tempesta per celebrare, col Papa, la Messa e infine il cielo s’è schiarito. Se il frate cappuccino fosse stato vivo, nessuno avrebbe osato gridare al miracolo» «Il tempo dei miracoli passò», ipse dixit Padre Pio. Il Vecchio Cronista ebbe modo di incontrare Padre Pio a tu per tu. Esattamente il 10 febbraio 1949.

Stringendo le sue mani protette da mezzi guanti di lana, piano, incredulo, quasi inorridito sentii il mio pollice affondare nel palmo di Padre Pio e mi sconvolse una vertigine improvvisa. Fu un attimo. «Ne’ guagliò, come siamo messi con la fede?». Ero giovanissimo allora: «Va, viene...», dissi. «Guagliò, guardami attento: certum est quia impossibile», scandì il frate piagato: «Tu aggrappati a ’sta zattera e vivrai in grazia di Dio. E mo’», sorrise, «inginocchiati che ti benedico. Felice viaggio di vita». Si vuole che nel rivestirlo i frati accertassero, sconvolti, la scomparsa delle cinque stigmate dal corpo di Padre Pio.

Santo o stregone? Straziato come Francesco d’Assisi dalle cinque piaghe di Gesù ovvero isterico, malato di protagonismo oppure Talpa del Sacro venuta dal buio del Medioevo per rivelarne la luce che nessuno (o pochi) ammette abbia rischiarato quel tempo remoto? Ora che Giovanni Paolo II l’ha fatto santo nonserve porsi certi interrogativi. Alla vigilia della proclamazione della Santità di colui che oserei chiamare «il tredicesimo apostolo», papa Wojtyla ebbe la bontà di ricevermi nel suo studio in Vaticano, insieme con mia moglie.

In fatto il Santo Padre non fece che interrogarmi su Padre Pio. Una «intervista» inimmaginabile, incalzante, venata da un filo di tenerezza tesa a legare stupore e devozione. In ultimo dissi al Papa che, all’indomani dell’incontro col cappuccino dalle cinque piaghe, assistetti (all’alba) alla sua lunghissima, sfibrante Messa. Le mani che reggevano calice e patena non erano ricoperte dai rozzi mezzi guanti di lana, sicché le stigmate, impietosamente scarlatte, spiccavano contro i candidi pizzi del rocchetto. Sembravano di cera del ’600, le sue mani: così belle e martoriate. Un ex voto ricalcato sulla Croce. Gocce di sudore gli tormentavano la fronte siccome spine del Calvario.

E lui, Padre Pio da Pietrelcina, sembrava in trance, lo sguardo fisso a interrogare Gesù in croce al sommo dell’altare. Non oso immaginare che Padre Pio peccasse di superbia spirituale, solo che, divorandolo l’ascesi, egli si isolava dal mondo. Dolorosamente. E quella sublimazione condita di pena fisica era un fatto intimo, nonsi poteva spartirlo con gli altri. Scrutando il Papa polacco avido di sapere di Lui, del frate sannita, a chi scrive è sembrato di cogliere nello sguardo di Giovanni Paolo II lo stesso intimo «contatto» di Padre Pio con il Cristo e forse ho capito quel che i due Santi, Karol e Pio, sanno da sempre: si attinge la Grazia anche attraverso la cruna stretta del dolore.
 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Saremo tutti africani
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:45:27 pm
10/7/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Saremo tutti africani
 
IGOR MAN
 
Si parva licet, il Vecchio Cronista affascinato dal nutrito inserto dedicato all’Africa, colmo di personaggi e di ricordi, dedica questa puntata della sua rubrica all’Africa. Il mio interminabile giro del Mondo principia, tanti anni fa, proprio in Africa. Quell’Africa ch’è il terzo mondo del terzo mondo l’ho amata per la sua bellezza e per il suo strazio, subendo il suo fascino misterioso alla stregua di una pena necessaria. Al tempo dei Mau-Mau la figlia di Jomo Kenyatta mi disse che «insigni studiosi» avevano localizzato il Paradiso terrestre in Africa. «Ebbene, ci siamo autoespulsi dal Paradiso vendendo l’anima al Faust colonialista», concluse.

Fu allora che scoprii, giovine com’ero, e per tanto certamente presuntuoso, come per capire, per riuscire ad ascoltare - magari un solo momento -, il cuore profondo del Mondo non bastasse aver letto un bel mucchio di libri e viaggiare «ad occhi aperti»: serve ma non basta.

«Si affidi ai missionari», mi disse la figlia di Jomo Kenyatta, «loro sanno». Fu così che passo dopo passo scoprii quell’incessante fiume carsico ch’è la Missione. Non soltanto in Africa, bene inteso, giacché i missionari sono dappertutto, dovunque ci sia una persona che cerchi Dio magari senza saperlo. Ma cosa spinge un ragioniere di Cuneo a mollare tutto «per dare una mano» nel più remoto villaggio dell’Angola o del Sudan? Tanti e tanti anni fa ebbi l’ardire di rivolgere codesta domanda a padre Alex Zanotelli. Era «in pausa» a Roma in attesa di tornare una volta ancora in Africa e una sera venne alla redazione romana de La Stampa. Aveva un libro per Vittorio Gorresio, Vittorio non c’era, così affidò il libro a me. Diventammo amici e gli sono grato dei suoi infiniti racconti sulla vita in missione.

Che, in fatto, è apostolato. Duro. (Con Alex ci siamo persi di vista, ahimè, ma non è facile stare appresso a un missionario). Come ha ben scritto l’anglista Claudio Gorlier, «le ferite della colonizzazione stanno sotto la pelle dell’Africa: il mondo globalizzato e internettizzato è ben lontano dall’aver risolto i suoi problemi primordiali \ ricorrenti conflitti riportano indietro l’orologio della Storia». A mezzo secolo, grosso modo, dalla esaltante stagione dell’indipendenza in Africa muoiono ogni anno quaranta milioni di persone, di cui diciotto milioni bambini. L’Aids è in difficoltà grazie anche alla abnegazione di «missionari laici», come i ragazzi della comunità di Sant’Egidio. (Molti di loro trascorrono le vacanze laggiù). L’Aids è in difficoltà, ma un male antico si è rifatto vivo: la Tbc. La siccità (non piove da tre anni nelle zone più colpite) sta portando carestia, morte. Il 90 per cento dei fiumi è oramai senza acqua, l’80 per cento del bestiame è già morto.

«Il Sudan sta morendo», ammoniscono i volontari del Cesvi la cui opera pietosa rasenta l’eroismo. E padre Zanotelli, missionario scomodo, dov’è, come sta? Le ultime notizie ci dicono che prega e digiuna «affinché la beata speranza non muoia». Lo stesso vale per padre Gian Mario che quand’è a Roma dice Messa in Santa Maria in Monticelli. Ben Bella, africano-patriarca, dice che «l’Africa ha bisogno, anche, di tenerezza». Un giorno piuttosto prossimo, un essere umano su cinque sarà africano: se non sapremo dargli attenzione ci odierà. «O Dio, perché hai creato / due manghi diversi: / un mango bianco / un mango nero?», ha scritto il poeta congolese Martial Sinda.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Il male bianco dell'Africa
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 05:09:07 pm
17/7/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Il male bianco dell'Africa
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Col suo passo atletico, sorridendo convinto, il giovine presidente americano con la sua visita in Ghana ha (anche) voluto esplicitare l’attenzione del mondo industrializzato all’Africa. Il Ghana è uno dei pochi Stati africani dove la vita non è un inferno e lo sviluppo non s’arresta. «Aiutati che Dio ti aiuta», dove quell’aiutati comprende un ragionevole sviluppo in sano sposalizio con la lotta, coraggiosa, alla corruzione (con l’Aids la peste che svena l’Africa si chiama corruzione).

Africa parla è il titolo d’un film che il Vecchio Cronista vide bambino, una sorta di versione cinematografica della Capanna dello Zio Tom. A differenza del più problematico Trader Horn, un cult movie in fatto, il primo presentava i negri (allora non si diceva Neri) divisi fra selvaggi cattivi e selvaggi buoni, domati e protetti dal sahib, il Bianco eroico, saggio, generoso perché civilizzatore.

Durante lunghi anni la nostra visione del Continente Nero è stata, in definitiva, quella di Africa parla; poi è venuta la stagione dell’anticolonialismo pagata a caro prezzo dai Neri, e infine quella, esaltante, dell’Indipendenza. Oggi il macello in Somalia, quella guerra-non guerra mix micidiale di intrallazzo e di primordiale violenza, ci fan riflettere, quarant’anni dopo, se l’Indipendenza fu davvero un avvio stentato verso il Nulla ovvero un coraggioso decollo verso la libertà. Il sanguinoso caos somalo ci dice altresì che il destino dell’Africa ci tocca da vicino poiché l’Africa «è dentro di noi» occidentali, nella nostra coscienza che alberga non pochi rimorsi. Il cosiddetto Terzo Mondo è una vasta polveriera che disordinatamente esplode qua e là. E non importa se Osama bin Laden sia vivo grazie alla dialisi ovvero sia in Paradiso: il seme da lui sparso contro l’Occidente trova in Africa la buona terra - ma non solo in Africa.

Il deficit dell’Occidente è un «vizio cartesiano» poiché quegli accadimenti esulano dal pragmatismo, non collimano con la nostra visione del mondo.

Gli accadimenti somali (per citare i più recenti) sono un saggio perfetto di quella che chiameremo l’Utopia politica islamica. Una utopia (negativa) che non va ristretta alla unicità: essa infatti abbraccia l’insieme di quell’assemblaggio ricco-e-povero che chiamiamo Terzo Mondo. Nello spazio di codesta utopia ogni contraddizione viene annullata. E la vittoria e/o la sconfitta sono entrambe viste come parentesi della Storia. Di più: lo status del terzomondista qualunque è parossisticamente legato alla fede: per tanto esso, sia pure a livello inconscio, non conosce confini fuori di quelli che separano il Dar al-Harb cioè l’islam dal mondo degli infedeli.

L’Utopia sconfigge la realtà e in forza della assabya, cioè il modo di analizzare la società non in base al singolo individuo bensì nel suo complesso, lo Sceicco della Morte non morirà mai. Sarà l’invito eterno a «mortificare» l’infedele, sarà il «martire vittorioso» che vinca o perda sul terreno. Jacques Berque, con il nostro Gabrielli, ha scritto che nessuno ha capito che le guerre coloniali hanno una particolarità: «vincerle è peggio che perderle. E più la vittoria è schiacciante più diventa inutile».

Qualcuno in Africa sostiene che son gli africani stessi gli artefici della propria disgrazia. Ciò è forse eccessivo ma tradisce l’impotenza della intellighentzia africana di fronte alle sette piaghe del Continente Nero (con rare eccezioni): corruzione - clientelismo - nessuna pianificazione - finanza parallela - sclerosi del potere - sfinirsi delle istituzioni - evasione fiscale. Gli ex colonizzatori sono in larga misura i responsabili della deriva africana. Occorre rivedere ogni forma di cooperazione, bisogna aiutare quei paesi che vogliono sperimentare la democrazia. Che s’accompagni alla meritocrazia. Non esiste corrotto senza corruttore, anche in Africa, l’altra faccia nel nostro malessere.

 
da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN La movida de nojantri
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2009, 11:49:36 am
7/8/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La movida de nojantri
 
IGOR MAN
 
Com’è bizzarra Roma, com’è bizzarra: un sito storico, Campo de’ Fiori, subisce sera dopo sera, oltre la notte lunga, una movida babelica di importazione. Una incessante poltiglia di consonanti sommerge il corrucciato volto di Giordano Bruno, posteggiatori allegri intonano romaneschi aritornelli, fanciulle in fiore dell’Hudson accettano innocenti birre alla spina da abbronzati (eccessivamente) pischelli di periferia. Corretti carabinieri sorvegliano un melting-pot de nojantri e spesso, per non dire ogni sera, ci scappa la scazzottata, se non addirittura l’arresto. Ma quando a finire in manette è un pischello di 12 anni ci si domanda, una volta ancora, se non sia il caso di chiudere un occhio e affidarsi a «santa pupa». Anche Piccadilly Circus e St-Germain-des-Prés conoscono l’invasione notturna dei turisti con quel che può comportare; ma cent’anni di intruppamenti festosi hanno allenato francesi e foresti ad assalire festosamente giardini e fontane, senza far danni. E qui il Vecchio Cronista confessa d’aver provato disagio in Campo de’ Fiori: dopo la mezzanotte la festa giovine cambia volto e scopri che la mutazione l’han portata ragazzotti non proprio innocenti: son loro a spacciare?

Verosimilmente. Ma sarebbe comunque spaccio diremo casereccio, poca roba. Va detto ancora che le «forze dell’ordine» agiscono con prudenza, discretamente e infatti l’estate notturna che dal Campo straripa in piazza Farnese, nella sublime piazza Navona, s’arresta al limite della città diremo impiegatizia.

Com’è bizzarra Roma, com’è bizzarra. Il caldo, in certe ore feroce, non ferma il viavai dei turisti. Drappelli di uomini e donne, di fanciulli animosi seguono capi-pattuglia sui generis: son le guide autorizzate che in decente inglese o in francese d’occasione spiegano Roma a gente del Nevada o di Lione. I romani escono quel tanto che serve e con affanno, i turisti sfidano allegramente la callaccia. Il Vecchio Cronista, appreso che un nutrito drappello di giovani turisti era diretto a Valle Giulia per visitare la storica Galleria d’Arte Moderna, ha chiesto e ottenuto di partecipare alla visita.

Grazie all’ascensore della memoria, Palma Bucarelli, «Palmina» per gli amici (della Domenica), la bella Sovrintendente dagli occhi azzurri è apparsa sullo schermo del passato. Un miracolo: Maria Vittoria Marini Clarelli, l’attuale sovrintendente, ha allestito una mostra di impareggiabile importanza. Affidandosi a opere firmate da Guttuso e da Savinio, da Burri a Viani, da Turcato a Colla, a Giacometti e via così, splendidamente. Chi scrive ebbe in sorte, nella Roma che rifaceva se stessa dopo la Liberazione, di essere ammesso alla «libera università» di Mario Pannunzio, partecipando, così, all’intrepido cammino di «Palmina» che incredibilmente portò a Valle Giulia i grandi pittori astratti e no, gli Artisti del mondo, che l’Italia ignorava. Incredulo, seguendo i visitatori (non solo giovani) mi sono ripassato un lacerto di Storia della Pittura, della Scultura. In quel lontano dopoguerra Campo de’ Fiori di notte era buio, niente movida. Si viveva modestamente ma con un immenso tesoro dentro: il futuro. Palma Bucarelli è una nuvola (deliziosa) del passato.

La mostra a lei dedicata non è soltanto un accadimento artistico; è uno scatto d’orgoglio e la speranza che fino a quando ci sarà un pittore, un quadro, una statua il mondo potrà salvarsi.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Un po' di pietà Agente Orange
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2009, 11:30:17 am
14/8/2009
 
Un po' di pietà Agente Orange
 
IGOR MAN
 
Le temps s’écoule rapidement comme l’ombre d’un cheval blanc qui passe vite devant une fenêtre»: il tempo scorre rapidamente come l’ombra d’un cavallo bianco che passa veloce davanti a una finestra. La finestra della Storia spalancata sul mare infinito dei ricordi. Oggi il vecchio cronista vuole aggiungere qualche riga al suo articolo sul cosiddetto «Agente Orange», il defoliante alla diossina lanciato dagli americani (per la prima volta) in Vietnam, il 10 di agosto di quarantotto anni fa.

Tiziano Terzani diceva che i giornalisti-inviati si dividono in due categorie: quelli che hanno «fatto» il Vietnam e tutti gli altri. Lo diceva non senza sofferenza, le sue parole non le dettava l’albagia bensì la pietas. Chi scrive ha «fatto» il Vietnam, dolorosamente, e dunque può esser d’accordo con Tiziano. Sia come sia, chi c’è stato, laggiù, durante quella guerra fosca e inutile, non riesce a liberarsi d’un bagaglio invero pesante. Anche se è andato armato soltanto di taccuino e biro, senz’armi addosso. Ho destinato alla mia rubrica del venerdì, il libro dei ricordi del vecchio cronista, giustappunto, non pochi flash vietnamiti - e vedo dai messaggi dei lettori che quella guerra lontana fa ancora notizia, come usa dire.

La finestra della Storia, dicevo: nata per sgonfiare la pressione del comunismo cino-vietnamita-sovietico sul Vietnam del Sud fieramente cattolico ma debole, la guerra degenerò in un conflitto assolutamente coloniale pareggiato militarmente, perduto politicamente.

«La vittoria sul campo è importante ma rischia di fare un buco nell’acqua se non riusciremo (noi americani) a conquistare il cuore e la mente del popolo vietnamita»: mi disse quel grande soldato-intellettuale che fu l’ammiraglio Maxwell Taylor, presago proconsole in Vietnam.

Per combattere quel comunismo l’americano seminò lutti, distribuì frigoriferi nei millenari villaggi senza energia elettrica, arò campi e risaie, intossicò con l’Agente Orange antiche boscaglie.

Guardando il filmato della drammatica sfilata dei reduci deformati dalla diossina, nel fatidico 10 di agosto, ho improvvisamente visto sullo schermo della memoria lo strazio di due bambine e di un maschietto scuoiati, letteralmente, dalla diossina. Accadde in un remoto villaggio della ricca provincia di Chuong Thien. Era con me, a guidarmi, il caro Sam P. Dieli, uomo di punta del Field services center. Allestì un immediato pronto soccorso, ma quei bambini non la sfangarono. Oggi altri innocenti sfregiati dall’Agente Orange, penosamente cresciuti, invalidi i più, sfilano per le strade coloniali di Saigon implorando (sommessamente) un po’ d’attenzione, il sospirato «sussidio di guerra». La loro discreta sfilata, applaudita da fanciulle in fiore, è corsa in tutta la vecchia capitale.

Da un mondo incerto, avvinghiato alla campagna, scaturisce il Genio del villaggio. Egli è la Storia ma altresì il Tempio.

Né i comunisti del Nord, atei puri e duri, né i credenti del Sud (cristiani, buddisti, taoisti) osano negare il Genio. Ho Chi Minh diceva pressappoco quello che ripeteva il vescovo cattolico di Saigon: «Non è il Genio una leggendaria divinità d’un mondo qualunque, bensì la base della Ragione e per conseguenza della Religione». Il Genio principesco è la Storia ma anche il Presente ed è il Futuro creato dalla fantasia del desiderio (desiderio di pace).

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Titolo: IGOR MAN Mala Capri e Malaparte
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2009, 11:22:37 am
21/8/2009
 
Mala Capri e Malaparte
 
IGOR MAN
 
Ha fatto centro la notizia dei liquami di fogna nella Grotta Azzurra, méta romantica di turisti italiani e foresti. In altri tempi non sarebbe accaduto, dicono in Piazzetta signori napolitani che si gloriano d’esser cresciuti con Capri; era il segreto di Pulcinella, proclamano gli aficionados dell’Isola. Il vecchio cronista, con tutto il rispetto, non scommetterebbe un soldo bucato sull’efficacia d’una «condanna esemplare» da infliggere agli spurgatori della Grotta. «Vengono puniti non ravveduti», scrisse Goethe di un Cardinale conosciuto nel suo viaggio in Italia, famoso per la spazzatura che lo «inseguiva» persino in camera da letto. «Viene ma poi se ne va», (la spazzatura) secondo quel Principe di romana chiesa. E qui sia concessa a chi scrive qualche divagazione.

Nella storia del nostro dopoguerra spicca Palmiro Togliatti. Il partito comunista c’è già, secondo lo statista, ma va «completato»: occorre «mettere accanto all’operaio l’intellettuale per una reciproca infusione culturale». Ipse dixit Palmiro Togliatti a Paolo Alatri e al sottoscritto nel febbraio del 1947, nella sezione del Pci di via dei Giubbonari. Citerò qui qualche passo biografico attingendo al Malaparte illustrato di Giordano Bruno Guerri. L’incontro di Malaparte con Togliatti avvenne nell’aprile del 1944 a Capri: «Togliatti si guardò intorno e disse: “Lei ha un Dufy, laggiù”. Un capo comunista che riconosce un Dufy a trenta passi è certamente uno di quei mostri che spaventano i borghesi. Per quel che mi riguarda, mi incantò», confessò Malaparte. Il futuro sindaco comunista di Napoli, Valenzi, ricordava come Togliatti non avesse nessuna intenzione di sbarrare le porte agli intellettuali ex fascisti, rendendosi conto che la nuova Italia non poteva reggersi su poche migliaia di ex fuorusciti o confinati.

Togliatti tornò nella villa di Malaparte e concesse a Curzio di seguire l’avanzata degli Alleati, firmando Gianni Strozzi cinque articoli invero memorabili. Ma Alicata scoprì che Gianni Strozzi era Malaparte e Togliatti dovette ingoiare il rospo di quella che Malaparte definì «prassi fascista»: l’epurazione. Vien fatto di domandarsi se, «non disturbato», Curzio sarebbe diventato una «penna comunista» o no. Io ricordo Malaparte nello studio di Angiolillo con le dita sempre in movimento sulla tastiera della Olivetti e il pensiero a galoppare in groppa alla giumenta del tempo, così falsa e bugiarda e tuttavia innocente come la memoria.

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Titolo: IGOR MAN Boat people
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2009, 11:30:23 am
28/8/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Boat people
   
IGOR MAN


Boat people, gente di barca, dice niente questo appellativo? Non passa settimana senza che nel Canale di Sicilia si consumi una tragedia umana: barconi da pesca come quello dei Malavoglia, più recenti gommoni, rappezzati, approdano nell’Italia che confina con l’Africa, scaricando da battelli di fortuna persone stupefatte di vivere ancora: boat people.

La gente di barca (sino a qualche tempo fa) una volta sbarcata a Lampedusa o in qualche altra ansa dell’Italia insulare riusciva ad eludere leggi e regolamenti e subito cominciava a rifarsi una vita. A casa nostra. Ovvero, guadagnati i soldi necessari alla bisogna si trasferiva in altri Paesi d’Europa. C’era da smazzare, da subire instancabili soprusi ma in ultimo il già professore del Senegal o il cuoco eritreo si sistemavano: il pizzaro egregio che frequento, a un passo da Campo de’ fiori, dopo sette anni è riuscito a far venire a Roma la famiglia. Ahmed il pizzaro sostiene che il nostro Paese non ha saputo distinguere fra il profugo per necessità e il briccone travestito da migrante. E questo perché «sotto sotto siete degli ipocriti». La nostra colpa, «celata dal sorriso», sarebbe quella di assoldare manodopera a prezzi stracciati ingrossando così le già nutrite file dei clandestini. Il pizzaro sostiene che solo quelli «che pagano» sbarcano a Lampedusa dove vengono presi in carico dai «mercanti di carne umana». Insomma, in Italia esisterebbe una Spectre ben più potente di quella dei film di James Bond.

L’ultima tragedia: lo sterminio in mare di settantatré migranti eritrei - superstiti cinque, sull’orlo dell’agonia - ha turbato vacanze per altro precarie e ne è seguito il solito scambio di accuse, tipico d’una classe dirigente in visibile crisi di identità. Il rimpallo delle responsabilità coinvolge un Paese amico (Malta) e tutti quei Paesi che dalla Croce del Sud s’arrampicano verso il mondo ricco delle ex colonie. La tragedia è terribile, riesuma il famoso quadro La Méduse di Théodore Géricault ch’è in fatto l’ultimo fotogramma di quella strage datata 2 di luglio del 1816: 139 cristiani, fra passeggeri e equipaggio, finirono alla deriva perché la zattera affollata di disperati, infine, colò a picco. Alessandro Baricco nel suo Oceano racconta, magistralmente, quella sciagura del mare che «somiglia» a quest’ultima ingorda d’orrore.

Tutto questo ci fa ricordare un’altra immensa tragedia del mare, intitolata Boat people: perduta la guerra i vietnamiti «collaborazionisti» fuggirono da Saigon anche su vascelli precari. Era il 26 di luglio del 1979 allorché la Vittorio Veneto col Doria e lo Stromboli recuperano i primi 128 boat people. Il 21 agosto sbarcano a Venezia 907 profughi vietnamiti: ne sbarcheranno tremila in Italia «trovando l’integrazione più puntuale». Trent’anni dopo, a Jesolo, s’è svolta una manifestazione direi pudica in onore di quel fatto strepitosamente civile. Solo che manca la spinta di allora. Colpì il vecchio cronista la rude tenerezza dei nostri marinai: un marò fu scoperto cantare con trepida voce la ninna-nanna a tre fagottini vietnamiti. Che, trent’anni dopo, dicono sommessamente «grazie». In italiano.

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Titolo: IGOR MAN Addio a Elvira la partigiana
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2009, 07:47:28 pm
4/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Addio a Elvira la partigiana
   
IGOR MAN


La temutissima, a Roma, callaccia s’è portata via Elvira Sabbatini Paladini che durante lunghi anni fu direttrice del Museo storico della Liberazione. Il vecchio Cronista la ricorda coraggiosa staffetta partigiana durante l’occupazione tedesca di Roma. Ricca d’una bellezza antica, trinciava Roma in bicicletta distribuendo a giovani compagni bombe a mano e giornali clandestini che riportavano le notizie degli Alleati. Lascia due libri, Il cammino della Libertà e La lezione di via Tasso – che qualche politico farebbe bene a leggere –, affida al tempo un mix straordinario: la bellezza coniugata col coraggio.

La compagna Elvira fu spalla indomita del partigiano Arrigo Paladini che arrestato dai nazisti superò con incredibile stoicismo torture orrende nella turpe via Tasso. Subito dopo la Liberazione, a un reporter americano che si stupiva del suo stoicismo, disse: «Un buon soldato della Libertà ha il dovere di essere coraggioso quand’è il momento. Non è facile, quasi impossibile resistere alla tortura, ma uno ci prova».

Elvira e Arrigo sono stati una coppia sui generis: ancorché «de sinistra» non si vergognavano di prendere la Messa; Elvira ha avuto i conforti religiosi nella chiesa dei Santi Angeli Custodi. Una scelta ragionata poiché diceva sempre, con un filo di ironia rispettosa, che se lei e Arrigo non avessero avuto angeli custodi eccezionali non sarebbero riusciti a sfangarla.

A distanza di tanti anni, in un mondo che perde come stracci «Patria, Fede, Libertà», si tende a dimenticare nel parco dei buoni sentimenti la guerra di liberazione combattuta pressoché a mani nude contro un nemico che non faceva sconti. Arrigo Paladini, confortato dalla sua compagna di vita e di ideali, sognava per le nostre scuole (pubbliche e private) «corsi regolari di antifascismo: dalle elementari a tutte le superiori». E guai a sfotticchiarlo in merito: anche la Resistenza, ragionava, battuta in partenza, riuscì a ribaltare la Storia.

Più realista la sua sposa-compagna si spendeva con tenero impegno spiegando la Resistenza nelle scuole «di frontiera» di Roma. Nonostante il fastidio che i suoi corsi sulla Resistenza provocavano in qualche Preside, forte del suo passato davvero carismatico, Elvira Paladini, sino all’ultimo, ha «raccontato la favola vera del riscatto italiano, ha confortato i vecchi partigiani» che cercavano gratitudine e rispetto: faceva riflettere la presenza in via Tasso di animosi vegliardi che si intruppavano coi ragazzi delle scuole, per ascoltare Elvira.

Era un modo civile di ritrovare se stessi con la guerra partigiana: giovani di forza antica, sognatori di un Paese onesto combattemmo con poche munizioni ma con impegno. Quello di far risorgere il nostro Paese. Ma i giorni belli sembrano oggi lontani e riesce difficile tornare al passato: anche col semplice ricordo. Addio Elvira, anzi: Bella ciao.

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Titolo: IGOR MAN Un bluff per celare le divisioni tra gli ayatollah
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2009, 07:11:57 pm
8/9/2009

Un bluff per celare le divisioni tra gli ayatollah
   
Le strane aperture del presidente


IGOR MAN

Parliamo di pace», sfida il controverso Mahmoud Ahmadinejad, presidente dell’Iran, in un suo «appello» all’Occidente. Parlare di pace non comporta, però, sempre secondo Ahmadinejad, un tavolo sull’atomica. Il programma di ricerca e di perfezionamento nucleare «andrà comunque avanti» poiché, afferma il persiano, quel programma corrisponde «a un diritto ovvio, innegabile del popolo iraniano». Teheran continuerà a sviluppare il suo «programma nucleare» (come da «sacrosanto diritto») ma «in stretta collaborazione con l’Aiea» (l’Agenzia dell’Onu per l’energia nucleare). Insomma, l’Iran propone un discorso «profondo e aperto» sul nucleare in un «quadro giusto e logico». Codesto discorso, chiarisce un Ahmadinejad in «versione agnello», va affrontato «serenamente, pragmaticamente» nell’ambito del cosiddetto Gruppo 5+1: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna con l’aggiunta della Germania.

Ma sia ben chiaro, dice Ahmadinejad, che l’Iran non accetta compromessi. «Qualcuno, dice Ahmadinejad, ha minacciato nuove sanzioni» (se l’Iran continuerà a lavorare sul nucleare), «ma questo è un linguaggio non più compatibile col mondo di oggi». Ora, per quanto abituati alle bombastiche uscite del famelico (di successo) leader iraniano, facciamo difficoltà a decifrare il discorso del pupillo dell’ayatollah Khamenei. Se «tradotto» nel linguaggio di tutti i giorni, quello che ascoltiamo, o/e leggiamo, sembra un discorso a due facce. La prima e più ruffiana sfodera un sorriso accattivante: «Parliamo di pace», dice al mondo. La seconda, a modo di postilla, chiarisce:... «purché trionfi il nostro “logico” diritto; quello di lavorare in piena libertà al test atomico». Per dirla in soldoni il presidente iraniano ribadisce il «diritto logico» secondo il quale il suo Paese «può e deve» dedicarsi all’energia nucleare. Una cosa, sembra dire Ahmadinejad, è l’atomica (e non si tocca), altra «la politica di buon vicinato», che comporta doveri, non solo diritti.

Dal testo iraniano del suo intervento non risulta quella «disponibilità a logiche aperture» che si potrebbe dedurre dal paper fatto pervenire alla stampa. Poco male: è nel costume dei leaders islamici rivolgersi a nuora affinché suocera intenda - o viceversa. La truffa elettorale, con lo strascico tragico che ne è seguito, è una ferita tuttora aperta. Una censura invisibile ma efficace smussa una realtà aperta a sbocchi cruenti: l’Iran attraversa uno dei momenti più drammatici della sua Storia. Tuttavia sarebbe forse un errore respingere il pacco al mittente.

In un Paese islamico e - attenzione - sciita, una situazione pericolosamente cangiante come quella vissuta oggi dal popolo iraniano ripropone un concetto di merito ben chiarito da Gilles Kepel nel suo utilissimo Fitna (Laterza). Due poli opposti, spiega, hanno regolato il flusso e riflusso della civiltà nata dall’Islam: il jihad e la fitna. Il primo è connotato positivamente ed è, in fatto, il «motore» di propagazione della fede, che si afferma «con la spada e con il Corano». Il secondo termine, fitna, è meno conosciuto fuori dall’universo islamico e possiede una connotazione del tutto negativa - è a un gradino dal caos. Quanto è accaduto in Iran, in giugno, con la truffa elettorale e il suo seguito di morte e galera, le stesse «aperture» finte e bugiarde ammoniscono a non fidarsi. Epperò l’invito al dibattito con Obama gettato lì, nell’orazione di Ahmadinejad, può essere il timido primo passo verso un porto d’acqua serena. Ovvero l’ennesimo bluff d’un regime in difficoltà.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Il carcere parla col ponentino
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2009, 11:09:47 am
11/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Il carcere parla col ponentino
   
IGOR MAN


La callaccia, un mix di scirocco e di nuvole basse, è stata sconfitta dal ponentino, un vento antico che concilia la pennichella. Ma il ponentino per i romani che gravitano nell’ampio spazio occupato dalla struttura ottocentesca del carcere di Regina Coeli, è un mezzo di comunicazione affidato, nel pomeriggio, al vento che viene di lontano, giustappunto il ponentino. Dall’alto del Gianicolo i parenti dei carcerati affidano al vento messaggi ma anche tenerezze destinati ai famigliari o agli amici in prigione. Sapendo ben raccogliere l’ala del vento, Marcello dichiara il suo amore a Patrizia che a sua volta, con vetusta tecnica eolica, dichiara amore e fedeltà «all’omo mio». Nei vicoli stravecchi di Trastevere i bambini sfortunati (come pietosamente li chiamano) imparano presto come, in che modo, quando è possibile colloquiare coi propri cari reclusi in quel carnaio che in fatto è l’ottocentesco carcere. I detenuti di Regina Coeli, costruito nel 1891, affidano al vento notizie importanti: l’ultima è la morte terribile d’un detenuto del carcere di Pavia; sì, Pavia: il ponentino sfida per celerità ogni distanza - c’è un «comitato ad hoc» che seleziona le notizie del giorno e le diffonde, in grazia del ponentino.

Nelle carceri c’è la tv, non mancano le radio e dunque le notizie, tutte le notizie, arrivano sicché diremo tranquillamente che il ponentino è «un telefono a due sensi - andata e ritorno» per citare Giuseppe Adinolfi, medico penitenziario di Regina Coeli. «Adinolfi coniugava la competenza dello storico e la passione per la medicina e per questo ricorda alcuni ricercatori ottocenteschi che univano il sapere scientifico e quello umanistico, sorretti da un reale interesse per l’essere umano» (cfr. A. Borzacchiello). Al tempo di «Mani pulite» mi fu concessa una full immersion in San Vittore. Un’esperienza dura come l’ossidiana: le carceri sono un luogo di pena, questo non va dimenticato - quegli accadimenti ci dicono però che c’è una sola «medicina», la speranza. I detenuti sono uomini, anche i più trucidi, questo non va dimenticato ancorché non sia facile. Il discorso che mi fece, allora, il direttore di San Vittore Luigi Pagano, è tragicamente «attuale». In breve: il tunisino Sami Mbarka Ben Gargi, chiuso nel carcere di Pavia, si è suicidato. Con un’arma insolita: lo sciopero della fame. Si è lasciato morire giorno dopo giorno. Sembra che tutti gli sforzi per fargli accettare il cibo siano stati vani. La mia, ha detto il tunisino, è la protesta di un innocente, di un uomo derubato nel suo unico bene: l’onore.

Appresa la notizia della morte-suicidio del tunisino Ben Gargi i carcerati hanno protestato vigorosamente ma, dicono i responsabili, una volta chiarito che quello del tunisino è un suicidio, insomma che non ha subìto violenze, l’ordine è tornato dietro le sbarre. Ora il vecchio cronista si chiede se e quando il ministro Alfano riuscirà a dare più spazio ai detenuti, se il pianeta galera conoscerà infine una pena severa ma non infame.

Oggi le carceri scoppiano: la capienza complessiva ammonta a 45 mila reclusi. Le carceri ne ospitano oltre 63 mila. 20 mila sono gli stranieri. Che fare?

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Dall'Africa infelix una lezione di giornalismo
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2009, 11:55:08 am
18/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Dall'Africa infelix una lezione di giornalismo
   
IGOR MAN


La strage degli innocenti continua, sembra inarrestabile, ma c’è chi, alla stregua del bambino della leggenda olandese, con un dito impedisce che la diga crolli cancellando la vita. Nel caso del Vecchio Cronista «l’Olanda» è l’Africa. Massacrata dalla fame in Etiopia, sacrificata nei suoi bambini in Somalia, mortificata in Kenya, in Ruanda eccetera. E il dito che impedisce la mortale tracimazione del Male (con la maiuscola) è, sinteticamente, il lavoro veramente cristiano dei padri missionari. Ho girato l’Africa quando ancora non era «di moda» durante anni lunghi. Al tempo dei Mau-Mau incontrai la figlia di Jomo Kenyatta. Mi disse: «Vuole ascoltare parole di verità? Ebbene, vada a trovare i padri missionari. Essi sanno». In verità essi sanno. Disperatamente soli sanno e dicono «cosa» accade laggiù. «Facciamo informazione», spiegano. Se non ci fossero loro, poco o nulla sapremmo dell’Africa. Dobbiamo in particolare a padre Zanotelli, a padre Kizito (due «tosti») se l’interminabile tragedia africana sia coraggiosamente monitorizzata «affinché giustizia sia fatta».

«Avete soltanto un’ora e mezza per poter rientrare in Kenya», dicono un giorno a padre Kizito. «Ok». Dal Kenya al Sudan sono cinque ore di volo. Il missionario ha portato la videocamera («regalo di amici italiani»), gira otto minuti di orrore. Un bimbo che urla impazzito agitando un braccio che non ha più la mano - la suora che cerca di rimettere al loro posto gli intestini d’un uomo espulsi da una scheggia. Otto minuti di immagini senza paragoni e tuttavia cariche di pietà. Alla polizia fanno storie: «Le bombe son cadute su un campo di ribelli, dove dovevano cadere», dicono i doganieri. «No, non mi arrendo; nessun campo militare. Tutti debbono sapere cosa sta veramente accadendo ai piedi delle montagne Nuba», scandisce padre Kizito.

Chi scrive, allorché riceve posta dall’Africa infelix, ogni volta capisce cos’è, come dev’essere il giornalismo. Un servizio. E si rende conto come la serenità con cui i padri missionari raccontano non sia soltanto civile understatement bensì lezione. Alta lezione di carità, di amore. Nel nome di Gesù, vittima della lotta di potere. Perché sono i Romani a decidere (non senza riluttanza) della sorte di Gesù? Perché non vogliono che nella Palestina da loro governata saltino i precari equilibri fra l’establishment giudaico e Roma. Gesù è giustappunto l’agnello (tre volte innocente) sacrificato sull’altare del compromesso politico. Il suo sacrificio riassume, duemila anni dopo, l’incessante tragedia dei capri espiatori.

P.S. In lingua kiswahili Amami significa Pace. Amami ha una sede anche a Milano in via Gonin 8 - CAP 20147, tel. 02/489.511.49. Chiedere di Andrea, Ilario, Attilia. Quando può padre Kizito manda una lettera agli amici. Credenti e no. Perché tutti «son figli di Dio e fratelli di Gesù». Anche se lo ignorano.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Khomeini come Saturno
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:28:47 pm
2/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA


Khomeini come Saturno
   
IGOR MAN

Roma non è soltanto ruderi e cinecittà, è anche cassa di risonanza di accadimenti internazionali. Accanto alla Roma ufficiale vive una variegata «colonia» di uomini politici stranieri, gli Esuli, che periodicamente si riuniscono per seguire le ricorrenti crisi del proprio e di altri paesi (del Terzo Mondo). Non pochi Esuli sono alti professionisti ma non mancano i venditori di tappeti. Queste che scorrono sono giornate roventi per la diaspora iraniana che non si riconosce nella rovinosa «intossicazione nazionalista» del premier Ahmadinejad. Gli Esuli sono dichiaratamente pessimisti. Il dottor K, distinto odontoiatra, dice che se è vero che «il lupo di Teheran» è stato preso in contropiede dalla mossa, obbligata per altro, degli Stati Uniti sull’uranio nascosto, è altrettanto vero che Ahmadinejad, battuto sul tempo da un affaticato Obama, vede crescere il consenso dei «senza scarpe», i sanculotti iraniani. Il commerciante AZ sostiene che a ben vedere nell’angolo si trovano gli Stati Uniti, altri ricordano il 1936 quando sanzioni furono imposte all’Italia fascista che aveva invaso l’Etiopia: fu il preludio dell’ultima guerra mondiale. Gli Esuli sono drammaticamente pessimisti. Non vedono soluzioni sul piano diplomatico, paventano una «azione di forza» di Israele sottoposto a una continua provocazione da Ahmadinejad. I razzi mirati a sfiorare obiettivi israeliani li ha lanciati Hamas.

Dà un passaggio al Vecchio Cronista il medico A. che al tempo di Khomeini era assistente del ministro degli Esteri Sadegh Ghotbzadeh, fucilato nell’aprile del 1982 dai «senza scarpe». Per il medico A. nessuno avrebbe dimenticato Ghotbzadeh, veglie funebri clandestine lo celebrano spesso. Khomeini lo definiva «la pupilla dei miei occhi» il che non gli impedì di mandarlo davanti al plotone di esecuzione. «La rivoluzione, come Saturno, divora i suoi figli», scrisse Ghotbzadeh dal carcere di Evin, luogo di immonde torture. Ebbi in sorte di intervistarlo, nel palazzo bonapartesco degli Esteri, che lasciò per andare a morire.

Da vagabondo politico quale era, teneva i vestiti e le sue adorate orribili cravatte americane in una valigia. Mi diede l’intervista in piena crisi degli ostaggi. Un cupo sospiro concluse il suo lungo discorso: «I veri ostaggi siamo noi e quelli non lo capiscono». In fatto quelli (i radicali) tenevano in ostaggio Bani Sadr e lui stesso, «Sadegh l’Americano». Bani Sadr fugge a Parigi, lui, «figlio del Profeta», come amava definirsi, volle rimanere. Quando lo arrestarono, prese con sé una copia del Corano e una del suo adorato Voltaire, un tappetino da preghiere e la sua pipa preferita. «Sciocchi, pregherò per voi», disse al plotone di esecuzione (aveva 46 anni).

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Titolo: IGOR MAN Regina Coeli odiato-amato
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 06:01:02 pm
25/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA


Regina Coeli odiato-amato
   
IGOR MAN

L’aver accennato, di sguincio, al vetusto problema delle carceri, in particolare Regina Coeli, ha provocato non poche lettere al Vecchio Cronista. Tutte - dico, tutte - rivelano, paradossalmente, una sorta di «fascinazione» per il carcere più odiato d’Italia, Regina Coeli, giustappunto. Gaia e strafottente, crapulona, cinica questa l’immagine corrente di Roma. A crearla potrebbero aver contribuito gli stornelli a dispetto. Ma i meno conosciuti aritornelli antichi suggeriscono una diversa immagine di Roma popolana, se non più autentica certamente più drammatica. Gli aritornelli che in queste sere afose qualche vecchio intona in Trastevere, in via della Scala o al Mattonato, sono frammenti della lunga storia, senza radicali mutamenti, del «popolino» romano, romantico e sanguinario, che fu plebe oppressa e che rimane sottoproletariato, se non altro culturalmente. Amore e tradimento, la morte augurata al nemico, all’amante spergiuro, il coltello come simbolo della virilità e del comando, il Tevere nel suo implacabile fluire, la galera.

Per quasi un secolo (si cominciò a edificarlo nel 1870, fu inaugurato nel 1881) Regina Coeli ha esercitato un ruolo emblematico nella storia di Roma. Costruito secondo il sistema detto «panottico», rivisto da Jeremy Bentham (1748-1832), il filosofo del Beccaria, il Coeli ha otto «raggi» a raggiera e due rotonde, finestre a bocca di lupo, e celle simili a sepolcreti: 17 mattonelle per 8. In tanto avaro spazio s’ammucchiano in media due persone. Fra le sue antiche mura sono stati rinchiusi uomini e gentiluomini, assassini e innocenti, Arsenio Lupin di borgata, monsignori e uomini politici. Nei «bracci» dei politici, il terzo e il sesto, hanno sofferto i patrioti torturati dalle bande nazifasciste, da Regina Coeli son partiti i martiri delle Ardeatine. È difficile che si nasca delinquenti, più facile morire criminali. Secondo alcuni sociologi, nel cuore della malavita romana ci sono i germi del nichilismo da disperazione. Può sembrare assurdo, ma il detenuto che s’è comportato ingiustamente non può sopportare l’ingiustizia, spiegano.

In fatto la società ignora i detenuti figli tuttavia delle sue stesse contraddizioni. Molti rapinano e uccidono, persino, non tanto per protesta contro la società affluente, quanto per potersi integrare. Certi delinquenti, insomma, sarebbero tutto sommato «dei grossi conformisti». Una volta chiuso in cella, il carcerato, subito il trauma della immatricolazione che comporta la violenza dell’ispezione corporale, diventa Recluso e come tale avverte il peso d’una condizione umana degradata. Un ex recluso del Coeli, Er nasone, dice: «Fin quando la società continuerà ad allecare rejetti la criminalità non morirà mai. Bisogna avere il coraggio di rifare tutto daccapo».

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Titolo: IGOR MAN Un velo politico sul Cairo
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2009, 04:12:00 pm
7/10/2009 - IL CASO

Un velo politico sul Cairo
   
IGOR MAN


H. Abukir: dall’alto di queste Piramidi...» (Lesseps) - son parole di tutti i giorni, in Egitto; una sorta di mantra dedicato al popolino del più grande e problematico dei Paesi arabi. L’esortazione ad arrangiarsi è antica. Ma va detto, per onestà di cronista, che il Nilo non è soltanto turismo.

Grazie al quale, tuttavia, il regime sistema ogni anno i conti d’un Paese dove nasce un bambino ogni trenta secondi. Per annosa deficienza strutturale, l’Egitto vive da sempre la stagione della speranza: che finiscano le ruberie dei bajumi, costruttori di falansteri eretti con annacquato cemento. Nell’attesa d’una svolta culturale che vorrebbe cancellare anni lunghi in precario equilibrio sul filo dell’abisso, il Presidente Mubarak, sollecitato e sorretto da una moglie che ai cenoni dei nuovi ricchi preferisce cibo da caserma, il raiss duramente contestato, ha sciolto un nodo invero «storico». Il grande imam dei sunniti, Sheik Mohammad Tantawi ha parlato chiaro e semplice affinché potessero capirlo i fellah che spesso vanno a letto, la sera, saltando il pasto solitario d’una giornata miserabile. Lo Sceicco ha testualmente detto: «Il nikab, il velo che copre il volto delle donne (con l’eccezione di quelle occidentalizzate), è una tradizione del tutto estranea all’islam (...). Emanerò una direttiva che proibisce l’uso del velo in tutte le scuole gestite da Al Azhar (la celeberrima “cattedrale islamica”)».

«Finalmente il Rettore di Al Azhar, suprema autorità della Sunna (in contrasto secolare con gli sciiti), ha chiarito che le donne mussulmane hanno diritto alla loro identità.

«Il velo è del tutto estraneo alla tradizione islamica», dice una radiosa Saltamartini, responsabile delle Pari Opportunità del Pdl. A Montecitorio è in corso l’esame delle proposte di legge per vietare il velo. (Sbaglierò ma è piuttosto difficile che passi - E poi?).

Le dichiarazioni dello Sceicco han fatto sortire bandierine di carta e stenti lumini nei quartieri più poveri di Cairo. Il lettore si chiederà il perché di questa euforia, proveremo a spiegarlo, anzi a tentar di spiegarcelo. Al tempo di Nasser, raiss laico ma credente, la preoccupazione della gente era quella del pane che scarseggiava. Nasser col suo sogno della diga di Assuan trascurò per forza di cose quello che chiamava «il mio villaggio». La parentesi di Sadat aspetta ancora un critico schietto, la libertà di nikab, voluta dal raiss in carica ha due facce. Vediamo. Non è un mistero che l’Egitto stia passando momenti difficili: l’economia è in (timida) ripresa ma a crucciare gli effendi è uno stato d’allarme permanente: l’immenso groviglio di posti di frontiera non basta ad assicurare una vita decente. Sharm el Sheik è sempre gremita di turisti a prezzi stracciati ma s’è fatto il calcolo che per proteggerli si spendono cifre paradossali.

Qui è da fare una domanda. Sheik Tantawi era contrario alla «condanna» del velo. Come mai e perché. Risposta: «I changed my mind, ho cambiato idea». Troppo poco, in un Paese dove comanda uno solo: lui, Mubarak. Mentre in Iran (altro immenso spazio religioso, però sciita) i pasdaran, le forze di polizia, sono autonomi (gli ordini li danno, non li prendono), in Egitto gli ulema li prendono: sono ufficialmente alla greppia governativa. Mubarak, scaltro, tenace, coraggioso, se ne serve e, finora, al momento giusto. Gli egiziani son «brava gente», lasciamoli seminar ottimismo, poi si vedrà, si sarà detto, una volta ancora, Mubarak. In un Paese obbligatoriamente mite, la sua «mobilitazione» dei credenti è una gran mossa. Forse solo psicologica. Dice un vecchio aforisma beduino: «Puoi picchiare la tua giumenta tutta la vita ma non stupirti se un giorno ti morderà».

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN Missionari tra i pischelli di Roma
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 12:12:46 pm
9/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Missionari tra i pischelli di Roma

 
IGOR MAN
 
C’è da stupirsi: Campo de’ Fiori è, una volta tanto, una vasta fioriera; a piazza del Popolo è sorto il Villaggio dello Sport (gestito dal Csi) ad abbracciare il Villaggio della Gioia; a piazza Navona c’è il Villaggio dell’Incontro. Frotte di giovani, discretamente, danno il benvenuto agli studenti che in numero di tremila hanno invaso il cuore di Roma: è la Festa dei missionari. Una scampagnata archeologica? No, siamo qui per annunciare il Vangelo, rispondono al Vecchio Cronista - perché il Vangelo «annuncia il tempo della verità». E’ il sesto anno consecutivo che vengono a Roma, adolescenti e anziani, per scambiarsi il «segno di pace» nel ricordo di Papa Giovanni Paolo II. Questo raduno che intimidisce i bancarellari usi a pittoresche invettive ha un titolo ch’è un mix di pietà e di speranza: «Gesù al centro»: della vita, della missione. I giovani che accolgono i coetanei, turisti ovvero «de borgata», confessano ai missionari che una volta ancora sentono dolorosamente l’assenza di Papa Wojtyla. «E’ un vuoto difficile da colmare». Chi scrive onora Giovanni XXIII ma nel cuore suo s’è annidato il Papa polacco che gli concesse una lunga udienza. Un inedito «tu per tu» indelebile.

I missionari s’accostano ai giovani che riempiono luoghi non solo storici di Roma e parlano loro di Gesù. Gesù oggi, a Roma, in Africa, dovunque. Qualche ragazzo, «figlio del branco» che notte dopo notte invade il centro storico folleggiando: risse, sbornie, scazzottate, chiede di scambiare «due parole» con un missionario (spesso più giovane di lui). «E’ tutto uno sfogo, questi ragazzi sono assetati di normalità». Da quando i missionari hanno conquistato il centro antichissimo di Roma, è crollato il numero dei pischelli che si sbronzano o, peggio, sniffano. «Il pudore uno se lo porta dentro, il problema è farlo emergere». Ma perché questa ennesima (la sesta) pastorale dei missionari? Risponde don Maurizio Mirilli, infaticabile patron d’una festa che è preghiera corale. «Per dar luogo ai tanti giovani che si impegnano nelle nostre realtà ecclesiali». Codesta missione, discreta, persino gioiosa coinvolge il «ragazzo della strada». E quelli di venti scuole e in più tremila «contattati». Non manca la musica in piazza che Papa Benedetto dedica ai «fratelli missionari», lontani geograficamente, vicini spiritualmente. Sabato il raduno si conclude, i missionari torneranno alla loro lontana fatica: molti andranno all’Aquila, altri dalla città straziata son venuti a Roma guidati dal vescovo Molinari e da Luigi Accattoli. Padre Z, in partenza per l’Africa, chiede d’esser fotografato ai piedi del corrucciato Giordano Bruno di bronzo. «Ci sono momenti in cui quale che sia il movimento del corpo, l’anima è in ginocchio».

 
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Titolo: IGOR MAN Il gusto iraniano della crudeltà
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 12:29:33 pm
16/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Il gusto iraniano della crudeltà
   
IGOR MAN


Altre tre condanne a morte, a Teheran. Vanno sulla forca tre «nemici del popolo» accusati di connivenza «col nemico». Come spesso succede laggiù, la «Cupola» è spaccata fra chi vuole la rottura con gli Usa («costi quel che costi») e chi lavora per un compromesso. Maestri dell’arte del «ni» (la taqqia) i gerarchi iraniani han proposto agli americani di riaprire i giuochi: un Paese terzo fornirebbe ai persiani l’uranio arricchito ma soltanto per uso civile - insomma, gli iraniani avrebbero le centrali, non la «bomba». Due anni fa il compromesso venne inopinatamente bocciato dalla Guida Suprema, il Grand’Ayatollah Khamenei. Fragile fisicamente, candidamente barbuto, colmo d’odio per gli infedeli, la Guida è un capo di Stato atipico. Non si è mai recato all’estero, non legge i giornali stranieri poiché non conosce altra lingua se non il persiano, non guarda la tv. Ma è furbissimo e serenamente crudele. Come, del resto, lo era il suo maestro, l’imam Khomeini. L’imam, però, era aggiornatissimo. Entrambi odiavano gli americani giudicati «piagnoni». Dopo la presa degli ostaggi, Khamenei suggeriva di ucciderli «uno alla volta», Khomeini tentò invano di farne merce di scambio. Il presidente Carter ci rimise la Casa Bianca.

Il Vecchio Cronista ha viaggiato un po’ tutto l’Iran: al tempo dello Scià, durante la rivoluzione a mani nude, e dopo. L’Iran è un Paese bellissimo ma intimamente triste; amante dei piaceri mondani, intelligente ma catafratto in un amaro cupio dissolvi. E questo spiegherebbe tante cose, anche il gusto della crudeltà. Vediamo. Lo studente Omar Sharib è arrestato dopo aver ricevuto una lettera da un amico francese. Il procuratore, Mohammed Guilami, gli contesta d’essersi occidentalizzato, di aver studiato «troppo a lungo in Europa», di fumare sigarette americane. E lo manda sul patibolo. All’indignazione dell’opinione pubblica occidentale, ad Amnesty International Khomeini replica secco: «L’Iran islamico non ha ucciso un solo uomo; ha soltanto purificato, imprigionato o eliminato bestie feroci che l’avevano aggredito».

In piena crisi degli ostaggi cinque giornalisti stranieri vennero ammessi nell’umile casa di Khomeini. Ottanta metri quadrati, due stanze, un solo cesso alla turca. Un pagliericcio per terra. Due bottiglie d’acqua di rose. Il Grande Vecchio disse: «Non vi chiediamo di essere dalla nostra parte, vi chiediamo soltanto di comprenderci». Obiettai che anche l’Iran avrebbe dovuto cercare di capire il nostro sdegno di fronte alla cattura degli ostaggi in contrasto col culto dell’ospitalità dell’islam. Sollevando le palpebre corrucciate, Khomeini sillabò perentorio: «Gli ostaggi... non dico sia giusto, ma così è». Il cinismo? Un vezzo intellettuale.

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Titolo: IGOR MAN L'eterno duello con l'America
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2009, 03:42:09 pm
19/10/2009


L'eterno duello con l'America
   
IGOR MAN

L’attentato contro i Guardiani della Rivoluzione nella capitale del Beluchistan ha fatto quarantanove morti. I pasdaran, una sorta di duplicato dell’esercito regolare, perdono uomini d’alto rango militare, perdono la presunzione dell’incolumità ritualmente esaltata dalla stampa di regime.

I pasdaran (trecentomila uomini, unità antisommossa, navi ed aerei) furono legalizzati da Khomeini. Negli anni sono diventati i moschettieri, prima di Khomeini e dopo dell’ayatollah Khamenei, il successore dell’imam.

Torna qui facile rifarsi all’Italia di Mussolini che, per mettere la mordacchia ai dissidenti, creò la Milizia volontaria della sicurezza nazionale: il 25 di luglio si dissolse spontaneamente. Va detto che la notizia dell’attentato ha turbato la gente, da qui le dichiarazioni bombastiche dei gerarchi col turbante: Ali Larijani, presidente del Parlamento, ha accusato gli Stati Uniti, immediatamente: «Gli ultimi attentati vengono da Washington. Il presidente Barack Obama aveva detto di tendere la mano all’Iran, ma con questa strage la sua mano l’ha bruciata».

E ancora: «L’arroganza globale ha sollecitato i mercenari che hanno compiuto l’attacco», dice una successiva «nota». Nel linguaggio cifrato dei gerarchi iraniani «arroganza globale» indica gli Stati Uniti e in genere le potenze occidentali. Esperti del complicatissimo Iran sottolineano un intrigante accadimento: oggi a Vienna si incontrano (tranne disdetta dell’ultima ora) delegati occidentali e iraniani per affrontare il dossier atomica. Questo per dare un segnale di buona volontà nell’imminenza di un inverno precoce che, si teme, possa essere la prova generale di una dura lezione di Israele a «obiettivi militari» dell’Iran.

Dopo le accuse con relative smentite, e cioè che dietro il disastroso attentato nel Beluchistan ci siano Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e il confinante Pakistan, crescono le scommesse, a Vienna, dove oggi si incontrano al «5+1» Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia più la Germania. Assai diffuso è il timore che «si tagli acqua», che tutto finisca nel paniere della formalità, nel torrente della rissa diplomatica. Non per esser sospettosi, ma intriga la coincidenza attentato-conferenza. (Incrociamo le dita).

Lascia perplessi quello che chiameremo il «caso Khamenei». E’ sparito da oltre una settimana, le sue foto sembrano truccate. Teheran gronda sospetto e formula minacce: «vendetta», dice il premier alla tv dove ricorda le «asperità colonialiste» che il «generoso popolo» ha affrontato e superato nel corso della sua Storia.

Una Storia invero granguignolesca, zuppa di speranze e di sangue, ma anche zuccherata dai settimanali in rotocalco.

Chi scrive ricorda l’avventurosa vicenda di Reza Khan che volle farsi chiamare Imperatore e dopo la guerra barattò il suo petrolio con il riconoscimento nel Gotha dei «Paesi ricchi», a dispetto d’un lumpenproletariat che muore di fame. Letteralmente. Opportunista nel senso totale della parola, il rozzo ma dinamico Reza padre finita la Grande Guerra manda a casa inglesi e americani: «Noi siamo una libera nazione, non un palliativo», mandò a dire ai suoi «alleati-amici-dispotici». Ma la sua pietra del destino è il Nazionalismo, cioè il petrolio. Le grandi holding lo costringono a infuocare la partita, ma invano. E’ costretto all’esilio - e non è da credere che non ci scappasse periodicamente il morto, guarda caso un personaggio del suo regno. Lo segue il figlio.

Ha perso la partita ma con l’interessato aiuto degli Stati Uniti riesce (un capolavoro diplomatico) a riavere il trono, quel Trono del Pavone ch’era un mix di regalità da filodrammatici e di grasso business.

«Lo ha perduto il successo», mi disse la sua malinconica ex moglie, l’amatissima Soraya, incontrata a Roma, nella casa sul Gianicolo di Antonella di Bugnano. Certamente lo Scià si illuse di guadagnarsi il consenso dei giovani che preferirono la fame agli stipendi d’oro che l’Imperatore gli offriva «per fare dell’Iran un pilastro di benessere». Ma i giovani iraniani erano già ammaliati dai «video» che il vecchio Khomeini con velocità invero giovanile diffondeva dall’esilio in Iraq e poi dalla «fatale Parigi» da dove spiccò il volo della vittoria per sbarcare a Teheran come un santone. Ma colui che doveva diventare la Guida d’un Paese bello e potenzialmente straricco, da santone divenne spietato regista d’una saga senza misericordia. Fu crudele, specie con coloro che lo servirono gratis et amore dei. Fucilò innocenti giusto «per dare l’esempio»; se potesse, camminerebbe su chilometri di scheletri che furono uomini, sovente a lui devoti.

Il ferreo imam tuttavia conobbe l’amarezza della sconfitta. Se la (vergognosa) presa degli ostaggi americani scalfì il suo essere personaggio-sapiente, la Guida giustappunto, la pretesa di fare di cinquanta milioni di brava gente intelligente e dedicata al lavoro un esercito felice e docile, fu il cappio ideologico che strangolò il religioso e l’ignorante, un po’ tutti i persiani.

Un giorno i morti verranno finalmente contati e una volta ancora scopriremo che la violenza è come l’acido muriatico: brucia ma non uccide, sfigura.

Arrogante e pio. Testardo e vendicativo. Sanguinario. Profeta di sciagura. Privo di humour. Spietato. Ascetico. Affamato di potere. Un po’ rozzo, un po’ genio. L’uomo che ha cambiato la Storia. Ecco qualcuna delle definizioni dedicate a Khomeini. Lo hanno anche definito un fanatico, ma mi sembra più propria la definizione di Popper: «Khomeini fu un essenzialista», un uomo cioè convinto di essere sempre nel giusto.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN La feroce estate dei colonnelli
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2009, 09:50:08 am
23/10/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

La feroce estate dei colonnelli
   
IGOR MAN

Abbasso i colonnelli, ha gridato un giovine deputato durante un acceso dibattito in televisione. Siamo abituati alla canizza che fantasiosi ospiti scatenano alla tv con evidente divertimento personale ma quel richiamo ai «colonnelli» ci ha velocemente portati (con l’ascensore della memoria) alla rovente estate del 1965 allorché tre colonnelli, giustappunto, con un golpe da manuale presero il potere (col tacito consenso di Costantino, re di Grecia) instaurando una volgare dittatura sui generis: un mix di destra militarfascista grottesca eppur feroce, unmoralismo accattone con seriose campagne contro i capelloni e la minigonna. Il lutto sottobraccio con le grandi democrazie occidentali. Oggi è facile ricordare quel colpo di stato nel Paese culla della democrazia, ma allora fu una tragedia.

(Un piccolo dettaglio: la stampa italiana spedì giovani giornalisti coraggiosi in Atene e quei ragazzi denunciarono la brutalità dei colonnelli, pagando brutto pegno: l’arresto, il sequestro del materiale, l’espulsione. Atene era in lutto stretto,ma quella gente tenne accesa la speranza e l’orgoglio d’un popolo fiero, apparentemente incasinato).

Oggi che un ragionevole governo democratico restituisce ai greci la parola, il vecchio cronista ricorda un momento dell’estate insanguinata dal golpe di Papadopulos & C.; trascrivo dal taccuino: «Oggi ho visto George Papandreu. I colonnelli volevano provare ch’egli è vivo e lo han costretto a ricevere la stampa. Siamo in cinquanta a salire le scale dell’ospedale militare.

È l’ora del pasto, nell’aria galleggia un tanfo di zuppa e acido fenico. (...) Entriamo nella stanza 625, tre alla volta: tre dentro, tre fuori. Ci concedono due domande. George Papandreu è seduto su di una bassa poltrona, la schiena abbandonata all’indietro, ma non appena entriamo erge il busto levando la testa spoglia in un gesto di sfida. Alla sua destra un medico, alla sinistra un ufficiale. Un grande mazzo di rose rosse, un televisore, un transistor. Sul comodino una tazza di caffè consumata a metà. In un angolo una valigia di cuoio, zeppa di etichette. Possiamo rivolgergli due domande. Prima: «Come sta, è ben curato?» - Risposta: «Il trattamento all’ospedale è ottimo». Seconda: «Cosa può dire del trattamento dei soldati? ». «I soldati fanno il loro mestiere», e ha un gesto di fastidio. Chinandosi su di lui: «Good luck mister President» mormora un collega americano. «Buona fortuna, signor Presidente da parte dei lettori della Stampa », gli dico in francese prendendo così in contropiede l’ufficiale-mastino. «Merci mon petit», risponde il grande vecchio, in francese, rapidissimamente, un guizzo divertito sulle labbra affilate. Ratto si impadronisce del microfono del corrispondente della tv dei colonnelli. Scandisce: «W la liberté», e la sua voce, ora, è quella di un patriarca.

Uscendo qualcuno dice: «Quello che abbiamo visto ora è il simbolo della democrazia umiliata». Andiamo via alla spicciolata, mortificati.

Ma sappiamo che la democrazia non muore. Mai.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN - Vassalli, il pianto del partigiano
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2009, 10:54:31 am
31/10/2009

Vassalli, il pianto del partigiano
   
IGOR MAN


I necrologi sul Messaggero sono una Spoon River casalinga. Molti li leggono col caffè, sono oggetto di riflessione, vanno scrutati fra le righe siccome radiografie. Questo nella normalità quotidiana: fra dispiacere e sorpresa, poiché la morte arriva quando vuole. Così è stato per chi ha appreso - due giorni dopo - che Giuliano Vassalli aveva staccato un biglietto di sola andata. Aveva 94 anni ma non era un vecchietto «buono pei cimiteri». Lucido sino all’ultimo, se n’è andato con l’understatement del suo aristocratico sorriso. Con lui svanisce una biblioteca copiosa e ordinata - ci conforta una lunga lezione di procedura, di diritto, di generosa, e rigorosa, applicazione della Legge. Nell’estate del 1960 il vecchio cronista (allora giovanissimo) venne ad abitare in via del Conservatorio, a un passo dal Lungotevere dei Vailati, dove Villa Vassalli è tuffata nel glicine. Prima che si allettasse (con sereno distacco, va detto) ebbi modo di fargli leggere una asciutta lettera di Bobbio (ora, chissà, sfioreranno con lieve passo i pascoli del cielo).

I necrologi (invero straripanti e sinceri) esaltano il giurista sapiente; pochi accennano alla sua giovinezza partigiana, quando Roma era sotto il tallone nazista. Alto, elegante, gli occhi chiari, sfidava quotidianamente la sorte, audace pedina d’una scacchiera chiamata Resistenza. La nostra scuola (nei testi d’obbligo) è frettolosa sulla Resistenza. «Non ci sono testi validi», ti dicono e allora ecco il vecchio cronista suggerire subito due libri, due soli: Roma 1943 di Paolo Monelli e Roma clandestina di Fulvia Ripa di Meana. Il primo è, in fatto, un bestseller, il secondo una scheggia di inedita luce nell’oceano della Storia.

Giuliano Vassalli era della stessa tempra del mitico colonnello Montezemolo: un eroe da romanzo destinato alla Storia. Anch’egli, Vassalli, venne arrestato dalle SS e subito messo sotto tortura a via Tasso. «Per me funzionò la baraka», mi disse una volta amaramente ironico. Per Giuliano Vassalli la vita, la morte coniugandosi nella Resistenza hanno costituito un capitale irripetibile. Pure Vassalli venne orribilmente torturato. Rimase a lungo cieco per via delle percosse (sofisticate) degli sgherri di Kappler.

Montezemolo, Beppo per parenti ed amici, è stato trucidato alle Ardeatine: gridò, da antico soldato, «Viva l’Italia». Vassalli riuscì ad evadere da via Tasso proprio nelle ore (fatali) che videro i crucchi fuggire da Roma.

Radio-carcere aveva dato la notizia dell’avvenuta strage delle Ardeatine, ma sino all’ultimo parenti e amici vollero illudersi. Quando capì e seppe che Beppo l’avevano ammazzato, lui, Giuliano Vassalli, uomo gagliardo e temerario, pianse. «Sa, io li sogno spesso i nostri compagni», mi disse una volta.

La gente ha sete di autenticità. Crede più ai testimoni che ai maestri. E se crede ai maestri è perché sono testimoni.

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN I sopravvissuti della Roma da bere
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2009, 09:36:24 am
6/11/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

I sopravvissuti della Roma da bere
   
IGOR MAN


Una volta la «Roma da bere» da Via Veneto, scavalcando Villa Borghese, arrivava a Piazza del Popolo. Aveva due illustri mescite: Rosati in via Veneto a due passi dalla libreria cara a Cardarelli («vive in un cappotto, a via Veneto: anche d’estate»), Rosati in piazza del Popolo, illustre omonimo di quello di via Veneto. Ai tempi, irripetibili, del Mondo di Pannunzio i Maestri decisero di dedicare due interi giorni (o sere: dalle 21 ai primi lucori del giorno nuovo) all’omonimo di piazza del Popolo e l’onore fu salvo, tanto è vero che, nell’anno di Grazia in cui viviamo, il Rosati di via Veneto confluisce nell’Harry’s Bar mentre al locale di piazza del Popolo approdano gli ultimi epigoni della «Università» di Pannunzio, magnifico (davvero) Rettore, i cui allievi o sono volati via per sempre, cancellati dal calendario che non sgarra, ovvero preferiscono la tv accompagnata dal whisky. A casa. Magari con qualche amico-nostalgico, miracolosamente immune da cirrosi ed altri malanni da bar.

Negli Anni Cinquanta via Veneto era proprio il Deux Magots (o la Brasserie Lipp) del Village. Sere fa, non senza emozione, il Vecchio Cronista ha ascoltato a radio Montecarlo un concerto di rapinosa bellezza celebrato dalla perentoria Juliette Gréco. Allora, nel tempo che fu, via Veneto e il Village erano complementari. Oggi non più. Anche se, lo abbiamo visto in quest’ultima settimana, la Mostra cinematografica di Roma (anzi del sempre giovine Gian Luigi Rondi) abbia chiamato a Roma personaggi come la Kidman e il napoletanissimo De Laurentiis, coraggioso ex machina di film belli. Oggi fra i due poli della bevuta ha trovato spazio una Roma da bere - impiegatizia - popolare. Nulla di male se non fosse che i clienti di oggi fanno arrossire i (pochi) superstiti di via Veneto e questo perché sono cambiati i bevitori che invadono ogni sera, dalle 19 in poi, via Monte della Farina. Va detto subito che son giovani se non giovanissimi e, ahimè, non sanno proprio bere. E dunque si inciuccano straripando col bicchiere in mano nella tortuosa via che l’orgia dell’indomabile traffico-posteggio ha trasformato in osteria postmoderna. I bevitori in via Monte della Farina lo aspettano: il tempo che fu è già oggi.

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Titolo: IGOR MAN Romero, beato per la libertà
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 11:49:51 am
13/11/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Romero, beato per la libertà
   
IGOR MAN


Monsignor Vincenzo Paglia, arcivescovo di Terni, è appena tornato dal Salvador. Laggiù in quel Paese di variopinta bellezza, i salvadoregni scendono oramai in piazza da mesi. Che vogliono? Semplicemente vogliono dare un’accelerata al processo di beatificazione di Monsignor Oscar Arnulfo Romero. E su questo argomento che abbraccia amore e liturgia scendono periodicamente in piazza «per esigere che lo Stato chieda pubblicamente perdono per la morte assassina di Monsignor Romero». Da bravo diplomatico, Monsignor Paglia dice e non dice cercando di rasserenare un po’ tutti. Romero venne nominato Arciprete di San Salvador col placet delle 14 famiglie salvadoregne che lo consideravano un «prete allineato». Ma una lunga ricognizione di fedeli di sua fiducia lo convinse a calarsi nella realtà - vera - e fu così che la sua omelia domenicale assunse il ruolo d’una denuncia, invero cristiana, d’un atto d’accusa dei parafascisti di Arena. In breve: sotto la spinta di una opinione popolare sempre più forte, l’omelia di Monsignor Romero divenne una sorta di appuntamento della speranza, una denuncia coraggiosa degli intrallazzi del potere. Mai s’era vista, in Salvador, la cattedrale strapiena, mai la denuncia dell’officiante fu così partecipata. Il piccolo ufficio di Romero in cattedrale si trasformò in succursale della Posta.

A chi gli raccomandava «prudenza, prudenza», Romero rispondeva sereno: «Ma al massimo potranno farmi fuori. E con questo?». Ubriachi d’odio, i neofascisti di Arena decisero in un convegno mafioso di «spegnere la candela». E la morte di Romero fu segnata. Il 24 di marzo del 1980, il maggiore d’Aubuisson e due sicari irruppero nella cappella d’una clinica privata. Monsignor Romero non batté ciglio e proprio mentre elevava l’ostia della comunione, l’assassino sparò. Un solo colpo, una sola cartuccia a centrare la vena jugulare di Don Romero. Il sacerdote ripiegò su se stesso nel vano tentativo di proteggere l’ostia - e con essa di tra le dita crollò. Il suo sangue contadino macchiò i paramenti.

La morte di Monsignor Romero fu il preludio, il lungo preludio del ritorno. Semplicemente alla libertà. Teoricamente la guerra prolongata è uscita dalla porta di servizio ma non è in fatto finita. E’ un Paese martire il Salvador poiché se è vero che non si combatte più e c’è un Parlamento eccetera, è vero altresì che a comandare son sempre le 14 famiglie, abilissime nel perpetuare una sorta di medio-evo postmoderno dove imperano i signori e i campesinos faticano, faticano sempre, in cambio di scarsa mercede. E lenta, appare la giustizia sociale.

Nella sua ultima omelia in cattedrale, Monsignor Romero così concluse, la voce strozzata dall’emozione: «Gli Stati Uniti mettono le armi. L’Urss mette le armi. Il Salvador mette i morti. In nome di Dio: lasciateci soli». Il giorno dopo, il 24 di marzo del 1980, il maggiore d’Aubuisson lo uccideva, all’Elevazione.

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Titolo: IGOR MAN Il Crocifisso dall'Ucraina
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2009, 11:51:48 am
20/11/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Il Crocifisso dall'Ucraina
   
IGOR MAN


Arrivò l’estate e mia madre si portò via. Per sempre. Lei aveva lasciato scritto a mio padre di non portarci al cimitero. «Non mi vedrete epperò sarò sempre accanto a voi, in casa, nel Mondo». Da convinta allieva di Tolstoi, mia madre insegnò la scrittura ai contadini di Cibali. Era una menscevica nobile e molto attiva, sicché amici fascisti (si può essere amici e fascisti solo a Catania) consigliarono a mio padre di lasciare l’Isola. Prima di partire ci fu concesso di traslare mia madre nella semplice tomba di marmo creata da Emilio Greco. Dal tumulo emerse persino il triciclo che il piccolo dei fratelli aveva voluto andasse con sua madre, ma non ci fu verso di trovare un crocifisso d’arte povera, ucraino. Prima di lasciare la Sicilia, mio padre promise «adeguate ricompense» a chi avesse mai trovato quel Crocifisso.

Parentesi (il 2 di novembre è festa grande in Sicilia, è la giornata dei Morti: anziché averli per Natale, i giocattoli, i dolcini eccetera i bambini li hanno per i Morti. I bambini hanno lasciato cartoncini allo Zio Tano, a Zia Mariuccia e via così: al posto di Gesù implorano i Morti di «lasciargli» il regalo desiderato. Nelle famiglie più modeste vige una regola invero crudele: i bambini potranno godersi i regali dello Zio Tano eccetera non più di una settimana. Li riavranno l’anno venturo sempreché siano stati bravi. Dalla Liberazione in poi la Festa dei Morti è diventata appannaggio della middle class, e le statistiche municipali ci dicono che perde terreno anche nei quartieri più poveri sotto l’incalzar del consumismo, dei venefici giocattoli made in Formosa. Insomma, è una festa povera quella dei Morti ma niente affatto lugubre. Una maniera gentile di ricordarsi di chi è partito pei pascoli del Cielo. Il regalo emblematico, le Ossa di Morto: biscotti di farina di mandorle dolci, cotti a forma di quelle umane: clavicole, piedi, teschi piccini. Stranamente questi dolci che si presume macabri i bambini del diffuso sottoproletariato li amano. Molto. Sembra che la Festa dei Morti l’abbiano portata in Sicilia i Romani). Parentesi chiusa.

Mi è appena arrivata una scatoletta, da Catania. L’apro col cuore in tumulto e (finalmente) vedo «risorgere» il Crocifisso ucraino tanto caro al Vecchio Cronista, ai suoi genitori. Ma affascina e dolcemente turba il fatto che l’indirizzo del mittente della scatoletta del Cristo in Croce «non risulta» alle Poste insomma, è apocrifo. E’ forse un «segnale»? Dice il Vangelo: «...e tutti saremo chiamati».

da lastampa.it


Titolo: IGOR MAN è morto.
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2009, 10:03:04 pm
18/12/2009 (18:44)  - DALL'ARCHIVIO DE LA STAMPA
   
IGOR MAN
Ripubblichiamo l'articolo "Ricordo di un mattino a tu per tu" scritto da Igor Man e pubblicato il 01/04/2005

TORINO
«Meno chitarra, piu' Vangelo»: con queste precise parole Giovanni Paolo II concluse il breve incontro (a tu per tu) col Vecchio Cronista. Breve incontro ma ricco di contenuti, come vedremo. Mi corre l'obbligo di dir subito ai lettori che quella che segue non e' una intervista ufficiale e neppure «rubata». A parte Vittorio Messori che ha scritto addirittura a quattro mani con Karol Wojtyla, l'unico giornalista italiano cui il Santo Padre abbia rilasciato una intervista in buona e dovuta forma e' Jas Gawronski, il 2 novembre 1993. Io ho potuto colloquiare con Giovanni Paolo II a conclusione di una udienza davvero privata del Papa a me e a mia moglie Mariarosa. Avevo cercato l'incontro privato col Santo Padre subito dopo aver vinto il premio Artisan de la Paix, onore che divido con l'Abbe' Pierre. Vanamente. Amici cari (laici) e alti prelati avevano perorato la mia causa, anche con insistenza, senza far centro, tuttavia. Ma una mattina suona il telefono e una voce corposa mi dice che a chiamarmi e' il segretario del Papa, l'arcivescovo don Stanislao Dziwisz, l'infaticabile angiolo custode di Karol Wojtyla. «Se lei tuttora ambisce ad avere udienza privata, anzi privatissima, per lei e sua moglie, le va bene domani mattina alle 7 precise? Se si', le spiego come dovra' fare per venire su da noi».

E' il 9 di dicembre del 2001. Dopo la messa, intensa, celebrata in italiano dal Papa nella piccola cappella diremo personale, scandita da un sommesso leitmotiv bachiano grazie al liuto di una delle sette suorine presenti, il tempo che il Santo Padre si spogli dei paramenti assistito dal giovine don Mierek ed eccoci, mia moglie ed io, inginocchiati davanti a lui, assiso su di una poltrona segnata dai tarli. Sorride fra il benevolo e il curioso mentre ci fa cenno di accomodarci a lui d'accanto bisbigliando qualcosa come «speriamo che reggano 'ste poltrone». Mariarosa gli ha portato la riproduzione in scala ridotta d'un ritratto a china di Padre Pio, custodito in una semplice cornice d'argento - il tutto in un pacchetto «natalizio» da lei confezionato. Il Papa gia' allora era storto, piagato dal cilicio della sofferenza fisica ma era autonomo, vigoroso di voce, sicuro nei gesti. Il tremolio della mano sinistra lo dominava splendidamente, allora. Apre con gesti gentili il pacchetto e quando, tolta la carta velina, si appalesa il profilo grave di Padre Pio: «Oh - sussurra commosso - presto lo faccio Santo» e carezza il ritratto del frate di Pietrelcina. Poi, rivolto a mia moglie: «Grazie del dono cosi' pensato», dice: «Io sono molto devoto a lui». E qui scoppia la mia gaffe: «E' Padre Pio, che ha profetizzato il suo avvento sul trono di San Pietro», dico, ma il Papa, abbuiato: «Oh no, sospira, e' questa una fola. Mai Padre Pio ha toccato questo argomento. E' una fola, si dice cosi'?».

Cerco di rimediare dicendo al Papa che nel lontanissimo febbraio del 1949 in seguito al dipanarsi di circostanze invero straordinarie, io ebbi in sorte di intervistare Padre Pio, nella clausura del suo convento, a San Giovanni Rotondo. E visto che la notizia l'interessa visibilmente, dico al Papa che so benissimo che chiedere una intervista al Sommo Pontefice non sia corretto (mia moglie e' con Padre Stanislao che affabilmente le illustra la cappella, le variopinte vetrate), e dunque me ne asterro', ma forse, azzardo, il Santo Padre vorra' degnarsi di rispondere a una mia sola domanda, cosi' «a futura memoria». Sorridendo ironico tace, poi, spiazzandomi, mi domanda del mio incontro con Padre Pio ed io gli faccio una cronaca dettagliata dell'accadimento che ha profondamente segnato la mia vita: di uomo, di cronista.

Parlo come in trance e lui, il Papa mi incalza con precise domande, ascolta avidamente. Ma quando gli dico che stringendo le mani del frate ho rischiato il deliquio poiche' ho sentito le mie dita affondare nel palmo della mano di Padre Pio, il Papa ha come un trasalimento e leva la destra quasi a benedire qualcosa, qualcuno. Chissa'. S'e' detto e scritto che «fuori» Giovanni Paolo II e' moderno, imprevedibile, up to date, sinanco rivoluzionario, ma dentro e' intransigente, assolutista, conservatore, sicche' il «suo» Dio e' severo, intransigente. E quel «non abbiate paura, aprite le porte a Cristo» altro non vuol significare che l'uomo e' zero e solo la misericordia di Dio potra' «numerarlo» mentre cerchera', com'e' suo dovere, di salire sempre piu' in alto, a guisa di alpinista: con la sola differenza di affidarsi, anziche' alla corda del rocciatore, al Rosario. Santita', gli dissi, non le sembri banale oltreche' impertinente, ma come definisce Dio, lei che ha deciso di arruolarsi sotto la sua bandiera gia' da uomo fatto, segnato da esperienze mondane (la morte delle persone piu' care - il teatro - il lavoro da operaio: uomo fra gli uomini), dalla guerra. Ed ecco la risposta del Papa, segnata da un sorriso generoso: «Dio e' come il sole: riscalda tutti. Anche chi presume di non volerlo conoscere». Ma allora, dico, accorgendomi ahime' tardi, di abusare della pazienza del Papa (ma e' come se parlasse un altro, non il Vecchio Cronista), ma allora come spiega che l'immensa domanda di fede che sale dal basso venga spesso disattesa? Forse perche' la Chiesa s'e' assunta troppe supplenze, nel sociale soprattutto, e il Vangelo per conseguenza finisce col perdere la sua misteriosa sacralita'? Giovanni Paolo II si leva senza sforzo (allora era ancora autonomo, l'ho gia' detto) dalla poltrona tarlata e sorride vedendo svolazzare verso di lui, come un derviscio affettuosamente allegro, Don Stanislao. «Lui Igor, si chiama cosi', Igor, perche' sua madre e' russa. Igor e' slavo, come noi», dice ridendo e il Papa divertito mi rivolge la parola in russo. Ma e' giunto il momento del commiato, il Santo Padre «ricambia» consegnando a Mariarosa una piccola icona che viene dal Monte Tabor. Ci inginocchiamo ed egli, pietoso, ci benedice esortandoci a levarci in piedi.
L'udienza e' finita ma il momento (davvero) magico no. Con mia beata sorpresa, sommessamente:
«Meno chitarra, piu' Vangelo», mi dice il Santo Padre. Forse, chissa', questa e' la risposta. La sua risposta a un peccatore che, ancorche' pressato dal dubbio, cerca la' dove gli hanno detto: dentro di se'. In quella messa del Papa padre Mierek scandi' il Vangelo secondo Matteo: «In quel giorno comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea (...). Io vi battezzo con acqua, ma colui che viene dopo di me e' di me piu' potente (...), egli vi battezzera' in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulira' la sua aja e raccogliera' il suo grano ma brucera' la pula con fuoco inestinguibile». Acqua, fuoco ecco la vita, ecco la pace e la guerra, ecco lo svelamento della nostra precarieta'. Giovanni annuncia il fuoco e la scure (l'albero sterile viene tagliato e gettato nel fuoco); Isaia, il profeta che 700 anni prima di Cristo apri' l'ebraismo all'universalismo, evoca una armonia cosmica di creature tutte riconciliate. Giovanni dice di un mondo da costruire, Isaia di un dono immeritato piu' bello della nostra speranza». Anche noi pensavamo che venisse la pace poiche' il tempo sembro' maturo allorche' Rabin e Arafat si strinsero la mano, decidendo di gettare nelle fiamme l'albero cattivo della guerra. Credemmo a lungo nella pace, chiusa laggiu', nel cuore antico del mondo, in Palestina e invece vedemmo, abbiam visto, vediamo moltiplicarsi belve feroci e serpenti. Eppero' il Papa polacco ci lascio', mediante i testi della sua Messa partecipata al Vecchio Cronista, una rassicurazione preziosa: invece del fuoco verra' Gesu' «come un re mite, commensale di peccatori, agnello esperto di perdono». S'e' detto che Dio semina sogni: Dio ha un sogno che presta agli uomini, la pace. Parola di Wojtyla.


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18/12/2009 (18:22)  - DALL'ARCHIVIO DE LASTAMPA
Igor Man e l'avvocato Agnelli
Il giornalista Igor Man
   
IGOR MAN
Ripubblichiamo l'articolo "Il vecchio cronista racconta trent'anni di frequentazioni con l'Avvocato, la sua famiglia, gli amici" scritto da Igor Man e pubblicato il 25/01/2003

TORINO
E cosi' sia, Giovanni (Gianni) Agnelli, detto l'Avvocato. Sopravvive allo strazio fisico il sorriso antico del vecchio marinaio, la curva amara delle labbra s'e' fatta paziente, distesa. Dio con una mano da', con l'altra leva: e accade che la morte asciughi la sofferenza, prima che possa umiliare troppo l'uomo. Dice il Salmo: «Tenero e pietoso e' il Signore / lento all'ira e grande nella benignita' (...). Come il padre e' tenero coi suoi figli / cosi' il Signore e' tenero verso coloro che credono in Lui». Questo che cito, il Salmo 103-3, era molto caro a Edoardo Agnelli, il figlio-bambino dell'Avvocato e di Donna Marella, la Principessa Caracciolo, moglie infinitamente paziente di Gianni Agnelli, madre dolorosa. A chi scrive riesce difficile, in questo momento, mettere ordine nel tumulto dei sentimenti. Era, fu, un Potente ma non dimentico' mai i doveri del gentiluomo.

Consapevole d'essere uno degli «Imperatori del Mondo Industriale», non trascuro' la lezione di suo Nonno-Fiat: «Gianni, l'educazione e' tutto. Non dimenticare mai le buone maniere». La sua gentilezza era, dunque, una divisa che indossava notte e giorno?, gli chiesi una volta. Rispose che se l'era domandato spesso anche lui concludendo che, buone maniere o no, il segreto stava nel sapersi dominare, nel temperare l'arroganza. «So d'esserlo, arrogante, e me ne dolgo sicche' capita che magari invece d'un cicchetto sembra ch'io elogi chi ha fatto una cappellata. E in questo caso chi e' intelligente capisce e incassa mentre il cretino (l'Avvocato arrotava tremendamente la R quando diceva cre-ti-no) se ne va tutto contento, tranne a realizzare dopo il disastro». Pensa di avere molti nemici?, gli domandai una delle ultime volte che l'ho visto al Lingotto, diciamo prima della Malattia. «Certamente», rispose, subito aggiungendo con un sorriso divertito: «Ma qualche amico ce l'ho e me lo tengo caro». Henry Kissinger e' stato un amico, forse il primo amico dell'Avvocato e certamente lo era quell'ignoto marinaio al centro d'un accadimento che raccontero' perche' da' la misura di chi fosse, e come fosse, il Personaggio. L'Avvocato era un uomo impaziente, facile ad annoiarsi. Aveva un solo aggettivo, lui che parlava veloce e incisivo, elegante. «Divertente». Tutto quello che andava bene: una partita di calcio, un articolo, un libro, un'operazione finanziaria - se meritava, appunto, il suo interessamento, era «divertente». Ma quest'unico aggettivo - «divertente» - non e' che ricorresse sempre nel suo discorso.

Era molto esigente, l'Avvocato e questo si puo' capire, e spesso divertente quando non affascinante (allorche' parlava della sua esperienza di soldato nell'ultima guerra) ma non avrei mai immaginato che potesse risultare «noioso». Sua figlia Margherita, si' la pittrice che riesce a «dipingere in russo» Il Piccolo Principe, mi disse un giorno che «Papa' come genitore e' piuttosto noioso, sicche' quando siamo insieme, a famiglie riunite, cerchiamo di portare il discorso sul giornale, su di lei, sulle sue avventure che tanto interessano papa'». E cosa dice di me? «Divertente», rispose con un sorriso terribilmente simile a quello di suo padre. «Papa' dice che lei e' divertente». Coi figli, dunque, era «noioso». E tuttavia li amava. Oh come li amava: di Margherita ammirava non tanto il «talento d'artista» («dovrebbe solo organizzare meglio il suo lavoro, forse», diceva) quanto il carattere, la fantasia. «E' come una matrioska all'incontrario», mi disse di lei quando fece una mostra - presentata da monsignor Ravasi a Milano. Sarebbe a dire? «Alla fine, leva leva, rimane la bambola piu' grande. Appunto, una matrioska in ordine inverso».

Stimava dunque sua figlia Margherita, l'Avvocato. Ma con Edoardo, con suo figlio Edoardo quali erano, furono, i rapporti? «Nec tecum nec sine te vivere possum»: potrebbe essere questa la risposta giusta a un interrogativo crudele. Li univa, padre e figlio, una affettuosa incompatibilita' di carattere, se cosi' puo' dirsi. L'Avvocato mi chiese un giorno, or e' tant'anni, di ricevere suo figlio: «Ha molti interessi, forse troppo, lo attira l'Oriente in senso lato, quelle religioni ama studiarle ma temo faccia un po' di confusione, le dispiace incontrarlo?». Venne a casa mia, ci vedemmo ancora una volta in via XXIV Maggio, e di nuovo in occasione d'una diretta televisiva su Khomeini eccetera. Ricordo in particolare un incontro a Roma, nel vasto living di casa Agnelli, dominato dal nudo castamente sensuale di Modigliani. L'allora giovanissimo Edoardo era con il suo amico Almagia'. Non aveva letto il Corano se non a spizzichi e bocconi sicche' gli consigliai una bella edizione francese e, ovviamente, l'opera del Busani. Edoardo aveva una intelligenza rapace ma spesso dava l'impressione di straniarsi dalla realta' per costruire mentalmente una sorta di «utopia personale rivoluzionaria», come ebbe a dire un amico comune, Enrico Recchi, il giovine ma gia' grande costruttore torinese morto pilotando un vecchio Catalina trasformato in aereo-anfibio. Al funerale di Enrico, Edoardo era accanto a sua madre Marella. All'uscita, qualcuno mi strinse il braccio. Era Edoardo: «Lo sapeva che Enrico le voleva molto bene? Anch'io gliene volevo», disse asciugandosi gli occhi, «e ho pregato per lui, insieme con mia mamma. Mi scusi ma debbo correre da lei, da mia madre, e' proprio addolorata». Dal modo con cui Edoardo disse: «debbo correre da lei», sentii che portava a sua madre un amore sconfinato, di quelli che si provano pei genitori soltanto quando si e' bambini.

Col padre era piu' difficile. «Non vanno d'accordo», dicevano. Banalmente, poiche' non «andar d'accordo» e' un conto, amarsi un altro. E i due, Gianni e Edoardo, si amavano. Si scontravano in un clima affatto piemontese ma guai a chi incautamente criticava il padre cercando di arruffianarsi il figlio: questi lo zittiva con furore. Di Edoardo con l'Avvocato abbiamo parlato una volta sola: io ho «spiegato» al padre quanto suo figlio, a conti fatti, gli somigliasse: era, forse, Edoardo, l'altra meta' di Gianni Agnelli, quello che diceva cose che il Monarca-Fiat non poteva ne' doveva dire - cosi' com'e' nel destino dei leaders.

E qui debbo dire che l'Avvocato ha cominciato a morire (giorno dopo giorno, lentissimamente ma inesorabilmente) il mattino in cui Edoardo tiro' lo zip, ghigliottinando la sua giovine vita agra. Educato a dominare ogni pena, sia fisica che spirituale, l'Avvocato riusci' a non far pesare il suo stravolgimento interiore a chi gli stava intorno per lavoro, per usuale frequentazione. Pochi giorni erano passati dalla tragedia quando, insieme a Donna Marella, non volle mancare al premio Pannunzio, assegnato fra l'altro a un giornalista ch'egli apprezzava e non poco: Paolo Mieli. Lui, l'Avvocato, sembrava esser diventato di giada, lei, Donna Marella, era gia' quella «addolorata» che oggi somma il distacco dal suo compagno che lei sola sa «chi» veramente fosse, alla mutilazione subi'ta con la morte di Edoardo. Ora, Donna Marella, stringe le mani ai visitatori, amici e conoscenti, e sul suo viso tatuato dalla pena il ricordo sovrappone i lineamenti modiglianeschi d'una fanciulla gaia, ricca di interessi artistici. Lei, giovanissima principessa Caracciolo, il cui padre, presidente dell'Aci, accompagnavo spesso dall'ufficio di via Marsala (vi andavo a prendere l'aperitivo sotto l'occhio attento di Enzo de Bernart) alla Lungarina dove, appunto, abitavano i Caracciolo. Come sorrideva bene Donna Marella, allora. Un giorno la marchesa Sant'Angelo mi disse che li aveva fatti incontrare: l'Avvocato e la Principessa «due giovani da romanzo», disse: «Sara' il matrimonio del secolo». Non so se lo sia stato, ed ha poca importanza oramai: so che niente e nessuno e' riuscito a togliere la regalita' a Donna Marella.

Cosi' come so che a soffrire terribilmente sara' Susanna Agnelli, la sorella. Un giorno ch'eravamo nel living a prendere l'aperitivo, ed era appena passato come un cordiale uragano Mario d'Urso, vidi d'un tratto l'Avvocato tendere l'orecchio e, poi, con un sorriso estatico sussurrare: «E' lei». Lei era Suni, la sorella cara, la confidente, la Persona con cui aveva vissuto momenti terribili, dolorosi, sempre temperati dall'ironia, dal bon mot. Si abbracciarono come se si vedessero dopo tanto tempo, Suni e l'Avvocato si volevano bene sul serio, basta del resto leggere quel libro per molti versi straordinario ch'e' Vestivamo alla marinara. Si volevano bene assolutamente, e tuttavia quando sua sorella fu Ministro degli Esteri (atipico ministro ma audace e capace) Gianni spesso polemizzo' con lei. Quante se ne sono dette sui rapporti fra Gianni e Umberto, fra l'Avvocato e il Dottore. Io non oso dar giudizi non fosse altro perche' non ero un «intimo di Casa Agnelli», ci mancherebbe. Ma in questo momento difficile - sul piano dei sentimenti, sul piano della realta' industriale - posso dar testimonianza del rapporto forte tra i due fratelli. Una volta che avevo un appuntamento con il Dottore, vidi, prima d'incontrarlo in Corso Matteotti, l'Avvocato: al Lingotto. Accompagnandomi all'ascensore (camminava spedito allora, ancorche' caracollando) disse, come se parlasse a se stesso: «Non e' facile, me ne rendo conto, essere mio fratello. Col mio caratteraccio non capisco, a volte, come faccia a sopportarmi, Umberto. Noi gli dobbiamo molto come... ditta, come famiglia. La morte giovane di Giovannino non ha piegato la sua determinazione. Il suo genio finanziario e' un grosso valore aggiunto», concluse.

Naturalmente mi guardai bene dal riferire questo rapido discorso a Umberto Agnelli, ma ora e' diverso: ora l'Avvocato non c'e' piu' e ogni remora cade di fronte alla verita'. E la verita' parla di un uomo genialmente contraddittorio, che di certo intui' il precipitare del Destino ma volle esorcizzare l'intuizione con l'indifferenza, con la preghiera (clandestina). Proprio l'ultima volta che l'ho visto, non so come il discorso cadde su Cesare Romiti. «Cosa vuole che le dica - disse l'Avvocato -, piu' passa il tempo, piu' mi convinco che a quell'uomo in definitiva io voglio bene. Ha fatto tanto per noi, per Fiat, per il lavoro. Quando lo vede, glielo dica». Non gliel'ho mai detto ma adesso tutto va detto: e' il modo migliore, penso, per chi lo amo', di onorare il Principe. Che aveva una etica dell'amicizia tutta particolare. Avevamo stabilito che non mi chiamasse, se non in casi urgenti, prima delle 8 del mattino ne' io avrei potuto telefonargli dopo le 10 della sera. Ma un mattino (ero a Sabaudia) mi telefono' alle 5 allarmando mia moglie (con la quale poi si scuso' con molto spirito), facendomi prendere un mezzo accidente: «Dovremo spostare di un po' l'appuntamento. Dovevamo vederci alle 9 in via XXIV Maggio, le dispiace rinviare diciamo alle undici?». Roger, ricevuto - risposi, come sempre. Alle undici ero dunque a casa sua, parlammo nel piccolo salotto zeppo di giornali stranieri e italiani, sorseggiando io la solita acqua minerale, l'Avvocato l'abituale te' lunghissimo, bollente. Indossava un paio di jeans molto vissuti e una camicia di lino vecchia di taglio eppur sontuosa. Al momento del congedo mi disse tra l'irritato e il sorpreso: «Non vuol sapere perchè ho spostato l'appuntamento?». Avvocato, se non me lo dice lei, per me va bene lo stesso: immagino siano fatti suoi, risposi. «Vede - disse - e' morto un mio vecchio amico marinaio, un caro amico. E' morto in Corsica, sono andato a salutarlo». Un vecchio marinaio?, dissi: come quello della famosa ballata di Coleridge? (Samuel Taylor Coleridge: poeta, filosofo, 1772-1834). E qui l'Avvocato, con mia sorpresa, prese a recitare i versi della Ballata del Vecchio Marinaio. In inglese, in quell'inglese senza accento che tanto affascinava i suoi amici anglosassoni, Kissinger per primo. «Higher and higher every day/ Till over the mast at noon (...) At length did cross an Albatros:/ torough the fog it came;/ as if it had been a Christian soul/ we hailed il in God's name». (Ogni giorno piu' in alto, sempre piu' in alto, al di sopra dell'albero maestro, a mezzodi' - In fine dalla nebbia sbuco' un albatros - e noi lo salutammo, anima cristiana, nel nome del Signore).

Uno scrive l'Avvocato, e tutti capiscono. Non c'e' bisogno di specificare che il dottor Agnelli Giovanni, presidente onorario della Fiat, sia «lui», l'Avvocato: lo sanno anche nel Burundi. Enzo Biagi, tanti anni fa, dedicandogli un libro intero, lo ha chiamato Il Signor Fiat. E son tanti gli scritti, perlopiu' di autori stranieri, a lui dedicati: nel senso che ambiscono a raccontare il Personaggio e la Fabbrica. La Fiat, giustappunto, intimamente legati - uomo e azienda, a filo doppio alla Storia, non soltanto italiana. Nella buona e nella cattiva sorte. Si sa che l'Avvocato, pur essendo uno degli uomini piu' ricchi del mondo, non ha mai toccato il denaro. Una mattina, tanti e tanti anni fa, Agnelli decise di andare a Villa Giulia perche' alla Galleria di Arte Moderna Palma Bucarelli esponeva anche il famoso Modigliani contestato nella sua autenticita' da Virgilio Guzzi, critico rigoroso. L'Avvocato coinvolse Alberto Ronchey, ch'egli da sempre giudica un grande giornalista swiftiano, che a sua volta recluto' il sottoscritto. Varcato l'ingresso della Galleria, un'impiegata chiese all'Avvocato se volesse il catalogo. «Certo che si', grazie», disse lui. Sono 15 mila lire, aggiunse quella e l'Avvocato sfiorando il suo doppiopetto galles: «Non ho con me denaro - disse -, Ronchey le dispiace fare per me?». Borbottando: si figuri, Alberto sgancio'.

Un po' tutti conoscono la sua competente passione in fatto di antiquariato, ebbene, sempre un bel po' di anni fa, a Hong Kong, ando' a trovare uno dei piu' rinomati antiquari (un cinese) della terra. Acquisto' in cambio di un bel mucchietto di dollari un cavallino di legno di buona dinastia, ma quando venne il momento di firmare l'assegno, chiese uno sconto. Il cinese e l'accompagnatore (l'allora console generale Bolla) trasecolarono: «Io, lei lo sa, non pratico mai sconti», obietto' il cinese. «Allora non se ne fa nulla», scandi' l'Avvocato, irritatissimo. Fini' che ebbe lo sconto: cinquecento dollari, un'inezia, ma era tutta una questione di principio del signor Agnelli, non dell'Avvocato, uno degli «imperatori del mondo» , quella di farsi fare lo sconto, da buon piemontese. Lo so, codesta e' aneddotica: per certi versi «illuminante»; ma sempre aneddotica. Io che ho avuto la fortuna di frequentarlo dal 1963 e che sono pressoche' suo coetaneo, ho avuto modo di ascoltarlo quando si abbandonava ai ricordi. Perche' raccontando di questo o di quello, egli finiva col raccontarsi, non accorgendosi - seppure vigile e controllatissimo -, di squarciare un po' l'aura di mistero che l'avvolgeva. Mistero intimo, non biografico, sia chiaro, custodito da un sorriso da antico marinaio: un sorriso appena accennato che sfuma malinconico in una piega quasi dolorosa delle labbra, agli angoli della bocca. Sappiamo del suo coraggioso comportamento in combattimento, e' noto il suo «no» all'imboscamento sia pure stragiustificato durante la guerra; sua sorella Suni in quel libro unico che e' Vestivamo alla marinara, ci ha fatto toccare con mano la sua eccezionale capacita' di dominare il dolore piu' atroce, ironizzandoci sopra, addirittura.

Ebbene, la sua cognizione del dolore (non solo fisico) faceva si' ch'egli partecipasse della sofferenza altrui recandosi a visitare un suo vecchio marinaio in difficolta', ovvero un operaio ferito o semplicemente un amico: che puo' essere Rockefeller ovvero un suo anonimo dipendente. Aveva il culto dell'amicizia, l'Avvocato, sicche' l'addolorava il «tradimento».

E questo puo' valere per un calciatore come per una sua eccezionalmente, signorilmente brava assistente personale. Un piemontese come lui, quella versione postmoderna di Principe Rinascimentale ch'egli fu, aveva dell'amicizia un culto curiosamente siciliano. (Per un siciliano spesso l'amico e' piu' del fratello. Col fratello puoi vivere alla peggio insieme, con l'amico ti coniughi). Mi piaceva ascoltarlo, tanto che infinite volte ci siamo ripromessi di mettere sul tavolo un registratore a andar sul filo della memoria. Era importante per me sentirlo parlare di New York («colei che non si deve amare», come diceva Ugo Stille), la New York del Cinquanta, del Sessanta in particolare. Scoprii che avevamo incontrato le stesse persone, poiche' un giornalista e' come la salamandra, va dappertutto: da casa Vanderbilt allo studio di Pollock, dall'Algonquin al Village.

Pero' lui li ha conosciuti dentro, il reporter li ha solo sfiorati, i big. Ma qualche amico comune c'e' stato, ad esempio Raimondo Lanza che aveva acquistato un centravanti per il Palermo solo perche' lo incantava l'eleganza del suo dribbling stretto. E cio' spiega il rapporto di simpatia amicale che legava l'Avvocato al grande Platini. A proposito: lui che era sempre piuttosto aggiornato in fatto di letteratura straniera, e di saggistica economico-finanziaria, non nascondeva, al pari del Vecchio Cronista, di leggere il Guerin Sportivo... Mi piaceva ascoltarlo anche perche' imparavo.

Per esempio che il cinismo ch'egli ostentava truccandolo da battuta, non aboliva il sentimento profondo dell'etica cristiana. Mi racconto', un giorno, che capi' definitivamente quanto sporca sia la guerra vedendo, sul fronte russo, soldati tedeschi con lo zaino pieno di munizioni andare su di una passerella per rifornire un reparto isolato, cadendo come le mosche sotto il fuoco sovietico. Espresse il suo sgomento e si senti' rispondere dall'ufficiale tedesco di collegamento: «Ma no, quelli sono prigionieri russi ai quali abbiamo messo la divisa tedesca». Era stato ufficiale in Africa e in Russia e, pur avendo sofferto, aveva molti bei ricordi della vita militare. Tra gli altri, come amava ripetere, uno, tra il malinconico e il gentile, degli ufficiali rumeni di cavalleria che, a Bucarest, portavano un ramo di jasmin sul kepi.


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18/12/2009 (18:38)  - LUTTO NEL MONDO DEL GIORNALISMO

Addio al "Vecchio cronista" E' morto il giornalista Igor Man

Firma de La Stampa, aveva 87 anni.

Napolitano: «Intensa commozione»

TORINO


E' morto il giornalista de La Stampa Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella. Era nato a Catania il 9 ottobre 1922, aveva 87 anni. Il decesso risale a mercoledì scorso. Ad annunciarne la scomparsa, oggi a funerali già avvenuti, è stata la famiglia. Un’uscita di scena, per sua volontà, in punta di piedi. Lo stesso stile che lo ha reso uno dei più grandi testimoni dell’ultimo mezzo secolo.

Figlio di Titomanlio Manzella (esperto di politica estera) e di una nobile russa esule in Italia, Man è stata una delle firme più prestigiose del nostro quotidiano dove cominciò a lavorare nel 1963 sotto la direzione di Giulio de Benedetti. Studioso delle religioni e delle società, Man aveva una spiccata sensibilità e competenza per i temi riguardanti il mondo arabo ed islamico. Nel 2009 aveva ricevuto il Premio America della Fondazione Italia USA. Nel 2000 aveva vinto il premio di giornalismo Saint-Vincent alla carriera. Nella sua straordinaria carriera ha intervistato grandi personaggi, tra i quali spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khruščёv, Ernesto "Che" Guevara, Gheddafi, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.

I tratti del volto, ironia della sorte, facevano assomigliare il «vecchio cronista» (come amava definirsi) ad un uomo mediorientale, in realtà era siciliano. Si dedicò al giornalismo sin da giovanissimo. Dopo la Liberazione, mosse i primi passi al Tempo. La chiamata della Stampa, allora diretta da Giulio de Benedetti, arrivò nel 1963. Da allora Man non lasciò più il quotidiano, per il quale ha raccontato da inviato le principali guerre - lui che era un convinto pacifista - dell’ultimo mezzo secolo. Dal Vietnam, dove era sopravvissuto all’assedio di Camp Kannack, all’Africa, dove era scampato al plotone di esecuzione, e all’America Latina. I suoi reportage, lucidi e appassionati, lo hanno reso «un giornalista d’eccellenza» - così lo ricorda il presidente della Fnsi, Franco Siddi - e al tempo stesso, come sottolinea l’ex direttore della Stampa Marcello Sorgi, «un personaggio mitico». Come mitiche sono le sue interviste ai grandi personaggi della storia del Novecento: da John Fitzgerald Kennedy a Madre Teresa di Calcutta, passando per Gheddafi, Khomeini, Arafat, Shomon Peres ed Ernesto Che Guevara.

Un «giornalista e scrittore di altissimo livello», è il cordoglio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio Saint Vincent alla carriera, che nel 2000 gli è stato consegnato al Quirinale dall’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi. «Un amico e un collega - come lo ricorda Mimmo Candito (audio) - che mancherà molto ai suoi lettori».

da lastampa.it


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Lutto nel giornalismo. E' morto Igor Man

E' morto all'età di 87 anni il giornalista Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella, firma storica del quotidiano La Stampa.

Grande esperto del mondo arabo e islamico Man era nato a Catania il 9 ottobre del 1922. Nel 2000 aveva vinto il premio giornalistico Saint Vincent alla carriera.

La morte di Igor Man, secondo quanto si è appreso, risale a mercoledì scorso. La notizia è stata data a funerali già avvenuti dalla famiglia, secondo quanto disposto dallo stesso giornalista.

Man si è spento per vecchiaia in una clinica romana, dove era ricoverato da alcuni giorni per una banale influenza.

Ignor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella, era figlio di Titomanlio Manzella, esperto di politica estera. È stato una delle firme più prestigiose del quotidiano La Stampa, dove aveva iniziato a lavorare nel 1963 sotto la direzione di Giulio de Benedetti.

Studioso delle religioni e delle società, Man aveva una spiccata sensibilità e competenza per i temi riguardanti il mondo arabo e islamico. Nel 2009 aveva ricevuto il Premio America della Fondazione Italia Usa. Nel 2000 aveva vinto il premio di giornalismo Saint-Vincent alla carriera. In oltre quarant'anni di professione, ha intervistato grandi personaggi, tra i quali spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khruscev, Ernesto Che Guevara, Gheddafi, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.

18 dicembre 2009
da unita.it


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Era Nato a Catania 87 anni fa

È morto Igor Man, grande firma e appassionato del mondo arabo

La Federazione della stampa: testimone di un secolo, un giornalista eccellente, inviato nella cronaca e nella storia


MILANO - È morto Igor Man, uno dei più noti giornalisti italiani. Nato a Catania 87 anni fa, vero nome Igor Manlio Manzella, era figlio del giornalista e scrittore Titomanlio Manzella e di una nobildonna russa. Studioso delle religioni e appassionato in particolare di mondo arabo e Medio Oriente, ha lavorato al quotidiano La Stampa fin dal 1963, quando era direttore Giulio de Benedetti. Ha intervistato personaggi simbolo del Novecento, come John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khrusciov, Che Guevara, Gheddafi, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.

OPERE E RICONOSCIMENTI - Le sue opere: «Diario arabo. Tra il serio della guerra e il sacro del Corano» (Bompiani, 2002), «L'Islàm dalla A alla Z. Dizionario di guerra scritto per la pace» (Garzanti, 2001), «Il professore e le melanzane e altri racconti» (Rizzoli, 1996), «Gli ultimi cinque minuti. Cronache con forma di racconto» (Sellerio, 1992). Ha avuto molti riconoscimenti: nel 2000 ha vinto il premio di giornalismo Saint-Vincent alla carriera e nel 2001 è stato insignito del titolo di Grande ufficiale dell'ordine al merito della repubblica italiana dal presidente Ciampi; quest'anno ha ricevuto il premio America della Fondazione Italia-Usa.

NAPOLITANO: IMPEGNO CIVILE - Il presidente Napolitano ha espresso intensa commozione per la morte di Igor Man, definendolo nel messaggio alla famiglia «giornalista e scrittore di altissimo livello professionale e impegno civile». «Ha fortemente contribuito alla formazione di una ben informata e responsabile opinione pubblica sui grandi temi della politica internazionale e dell'evoluzione mondiale - scrive Napolitano -. Restano incancellabili nella mia memoria le occasioni di incontro che, in modo particolare negli ultimi anni, mi hanno permesso di cogliere la sempre straordinaria vitalità del suo pensiero e di constatare la profondità del nostro comune sentire».

I FATTI PRIMA DI TUTTO - Franco Siddi, presidente della Federazione nazionale della stampa, lo ricorda così: «Era il testimone di un secolo, un giornalista di eccellenza, un grande inviato nella cronaca e nella storia di un mondo vissuto e conosciuto in profondità. I fatti prima di tutto, raccontati con sapienza avendone prima penetrato tutti i risvolti, affinché chiunque potesse avere accesso vero anche alle vicende più complesse di geopolitica, di politica internazionale, di cronaca. Comprendeva subito come anche episodi che per taluni potevano apparire secondari fossero destinati a incidere profondamente nel corso della storia. Eppure è rimasto sempre radicato alle sue terre: la Sicilia di nascita, Torino di adozione, l'Italia. Oggi lo ricordiamo con ammirazione».


18 dicembre 2009
da corriere.it