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Autore Discussione: IGOR MAN  (Letto 51453 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Aprile 03, 2009, 05:13:59 pm »

3/4/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Un medico sul pianeta galera
 
IGOR MAN
 
Quarantanove anni fa prendemmo la casa dove tuttora vive il Vecchio Cronista perché il sensale ci disse che bastava attraversare Ponte Sisto per tuffarsi nel verde, «unico», del Giardino botanico. Davvero «unico» il Giardino, ma a strapiombo del verde insisteva la lugubre mole di Regina Coeli, il carcere di Roma. La sua sorte ci ha accompagnato fin qui e non c’è una volta che passando con la fedele Croma davanti alla vecchia galera non ci si strizzi «er core». Ed è facile ricordare come, immancabilmente, a ogni cambiamento di governo si sia: a) denunciato «lo stato fatiscente» della galera; b) annunciato l’imminente adeguamento delle strutture (il cesso al posto del bugliolo). Non c’è governo che non abbia affermato che Regina Coeli ha i giorni contati. Ha fatto eccezione l’attuale guardasigilli, Angelino Alfano. Ha detto chiaro che la situazione è «esplosiva». E ciò per «carenze amministrative e di personale». A Favignana le celle si trovano 7 metri sotto il livello del mare e non hanno finestre. A Catania in pochi metri quadri si stipano tredici detenuti, alcuni costretti a dormire in terra per la mancanza di letti. A Torino nella Casa circondariale Lorusso-Cutugno i reclusi sono 1600 mentre la capienza sarebbe di 923. Ancora: oltre 38 mila dei 60 mila carcerati sono «in attesa di giudizio». Di più: nelle 206 galere si scontano una serie di pene accessorie NON previste dal Codice, «lesive della dignità umana e della Costituzione», denuncia Alfano. Che, fuori da ogni buonismo, ha varato un piano-carceri interessante. Contempla lo sdoppiamento dei «circuiti carcerari» il che significa che ci saranno carceri pesanti per detenuti pericolosi «che han commesso crimini con violenza», e carceri «leggere» per quanti siano considerati «a bassa pericolosità». Per questi «si apriranno spazi di socialità, facendo sì che la cella diventi solo spazio di riposo».

Codesto piano-carceri è l’estrema Thule del pianeta-galera. «Tutto lascia prevedere che entro questa settimana saremo a quota 61 mila reclusi quando la capienza «regolare» dovrebbe essere di 43.169 carcerati con un limite tollerabile di 63.623». Lo dice Leo Beneduci, segretario del Sindacato di polizia penitenziaria (cfr. Avvenire, Paolini-Scavo). Nell’estate 2006 si ricorse all’indulto che portò alla liberazione di circa 26 mila dei 60 mila reclusi di allora, ma già nei primi giorni «l’effetto dello sconto generalizzato di pena era svanito». L’attuale governo ha nominato un commissario straordinario (il neodirettore del Dap Franco Ionta) che «entro maggio» dovrà indicare «dove e come costruire» 17 mila nuovi «posti letto». Il piano-carceri di Alfano è civile, innovativo, ma il punto, forse, è un altro. Lo indica Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste. Dice: «Possiamo dare ai detenuti quante più attività culturali si vuole, ma quello che i prigionieri chiedono è di poter lavorare» o addirittura di imparare un mestiere. Il lavoro educa, rafforza il legame del carcerato coi suoi cari, gli permette di giovarsi d’un buon avvocato.

Là dove è stata possibile la terapia-lavoro ha visto non pochi detenuti salvarsi dalle tentazioni della criminalità organizzata. Servono nuove carceri, certo, ma il «maestro di vita» rimane il lavoro, cioè il carcere-bottega secondo il modulo rinascimentale. «Drento Regina Coeli / ce sta ’na campana / possino ammazzallo / chi la sona».
 
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« Risposta #46 inserito:: Aprile 10, 2009, 09:21:16 am »

10/4/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Buona Pasqua con gli spiriti del Vietnam
 
 
IGOR MAN
 
Nella Pasqua del terremoto che ha sfasciato una delle più soavi città d’Europa, l’ascensore della memoria mi porta improvvisamente in una piccola baracca di legno e paglia. È la Pasqua del 1965 e c’è la guerra in quel villaggio del Mekong, a un tiro di mitra da Cantho, a Sud di Saigon. Nel cuore della capanna, l’altarino degli antenati coi bastoncini di incenso, con accanto un «santino» di Gesù che risorge. Il padrone di casa (alla macchia) è cattolico, come cattolici son sua moglie e una vecchia parente, tuttavia «portano rispetto» alla purezza di Buddha.

Qui, nella ricca provincia di Chuong Thien, la più difficile del Delta, vige una sorta di sincretismo inedito, ufficialmente ignorato. «Non facciamo peccato», mi disse il caro Sam P. Dieli, uomo di punta del Field services center. Durante la guerra fu paracadutato in Piemonte, combatté con quei partigiani. Mi parlava del Vietnam con tenerezza, con rispetto. La campagna vietnamita, diceva, è popolata di infiniti spiriti sovrannaturali. Volano rapidi nell’umida aria calda, arrivano col vento della sera. Percorrono le strade sterrate, discendono il corso dei fiumi. Si nascondono nel fondo degli stagni, gli alberi carnosi danno loro asilo e alcuni animali posseggono le loro virtù. Da codesto mondo incerto, avvinghiato alla campagna, scaturisce il Genio del villaggio, il nume tutelare, così come il Dhinh, il tempio. Nel mondo ineffabile degli spiriti egli, il Genio, ha trionfali nomi terrestri: Dai Vuong, signore immenso, lo chiamano i contadini, ovvero Duo Thanh Hoang, Genio principesco. Egli è la Storia ma anche il Presente ed è il Futuro creato dalla fantasia del desiderio.

Non è, il Genio, una leggendaria divinità appartenente a una religione qualunque, bensì un grande poeta, o un eroe, un benefattore, un giusto. Né i comunisti del Nord, atei puri e duri, né i credenti del Sud (cristiani, buddisti, taoisti eccetera) hanno osato negare il Genio. Ho Chi Min diceva pressappoco quello che ripeteva il Vescovo cattolico di Saigon: «Il rispetto timoroso del Genio è alla base della Religione ed è soprattutto la base di una solidarietà che fa la forza del Vietnam». Grazie a Sam rileggo il taccuino sul quale il guerrigliero Nguyen Hung Cam scriveva a sua moglie lettere che non sarebbero mai state spedite. «Mia amata, rileggo quanto mi scrivesti due anni fa a Dong Hoi con il Lamento della moglie del Soldato: “Anche mille leghe lontano, certo, adorato amico, tu senti / nel sole, nella pioggia, nel vento, nella notte / questo cuore che palpita / dentro questa pietra costante”. Aspettami, mia diletta dall’odore buono: tornerò. Per posare sulle tue palme leggere queste lettere che oggi non posso spedirti perché faccio la guerra».

Oggi la guerra, quella guerra, è lontana e il Vecchio Cronista vuole pensare che Lui sia tornato per consegnare a Lei il suo amore. In Vietnam, laggiù, ho conosciuto lo sdoppiamento. Mentre cammini, con i soldati ma armato solo di biro e taccuino, nei canali, nella boscaglia ti vedi e, a volte, non ti riconosci più e questo è il sortilegio del nostro mestiere di Soldato della Notizia: in te vedi l’Altro, scopri l’Uomo. Non importa che sia vivo, morto, amico o nemico: è figlio di Dio come te stesso.

«Thòi gio’ tham thoát nhu bach câu qua cura sò: il tempo scorre rapido come l’ombra d’un cavallo bianco che passa veloce davanti a una finestra».
 
da lastampa.it
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« Risposta #47 inserito:: Aprile 24, 2009, 10:42:57 am »

24/4/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

L'amore dell'ultimo bullo
   
IGOR MAN


Hanno ammazzato a cumpari Turiddu», grida una donna e inesorabile cala la tela. Con quel grido si chiude Cavalleria rusticana, novella di Verga musicata da Mascagni. Lo spavaldo bersagliere, in licenza nel siciliano borgo natio, viene ucciso da don Alfio il carrettiere per esorcizzare le corna di Lola sua moglie che amoreggiò con Turiddu. Il mortale duello, «rusticano» perché combattuto col lungo coltello detto liccasapuni, balzò alla ribalta internazionale grazie all’opera lirica, ma a Roma era di casa: si amava e si uccideva di coltello (ne girano tuttora parecchi), l’arma del «bullo», l’«omo de vita», l’assiduo frequentatore di Regina Coeli, il terrore del vicolo, il re della passatella giuocata col vino «de li Castelli».

Cinquant’anni fa, quando il Vecchio Cronista prese casa al Conservatorio, di «bulli» ne era rimasto uno solo. Fieramente sporgeva il braccio sinistro al quale s’appoggiava la donna sua, truccata come Anna Fougez (famosa interprete di Vipera). Lui (che chiameremo Spartaco) camminava da «bullo». Il vestito, avana, attillatissimo, denunciava con un voluto gonfiore il coltello: non esisteva, e ancora non esiste in Italia, il «porto d’armi da taglio» sicché mancando la pistola impossibile da avere, i «bulli» s’affidavano al «Gobbo», l’avo delle lame da duello. Spartaco s’era fatto, da giovine, diciott’anni di galera, ma quando uscì ad aspettarlo c’era Cesira e furono subito nozze. Spartaco aveva la pensione da bidello, lei ritoccava i vestiti di questa o quella «sora». All’epoca non esisteva il Premio Simpatia inventato da Momo Pertica, «er Cocteau de Trastevere»; Spartaco e Cesira l’avrebbero meritato e come.

Poi non li vidi più caracollare sui sanpietrini del Conservatorio. Cesaretto (amabile sbroglia-faccende) sapeva tutto: «So’ morti - mi disse -, il giorno de Pasquetta. Investiti da un carro funebre». Lei morì sul colpo, lui implorandola sino all’ultimo respiro. Sembra copiato da Edmondo de’ Languori ma è solo il ricordo dell’ultimo «bullo». Sì, l’ultimo perché quelli che funestano giorno dopo giorno le cronache dei giornali, i fattacci di Campo de’ Fiori, i duelli rusticani con coltelli a scatto (micidiali assassini) non c’è notte che non abbian luogo. Sociologi e psichiatri quando li vedi in tv danno l’impressione di navigare a vista in un mar di dubbi. E di orrore, malamente mascherato. Perché ogni trucco, e qualsiasi arma, sono consentiti nel duello (rusticano); nessuna cavalleria solo volontà d’uccidere. Vedo che i giornali, un po’ tutti, s’interrogano preoccupati su questa emorragia di violenza che allaga la periferia ma altresì l’antico cuore di Roma, quel Campo de’ Fiori vegliato da Giordano Bruno; ma l’ariosa piazza restaurata dal più amato (finora) dei sindaci, sì, lui, Francesco (pronunciare Franciasco) Rutelli, è perennemente invasa dalla violenza.

«Un abbacchiaro, A.T., questiona con un concorrente; lo sfida al duello alla caprara, l’uccide. Non basta: A.T. strazia il misero corpo dell’abbacchiaro sino a spacciarne i resti a bottega. Quel delitto sarebbe rimasto impunito, forse, se un cliente non avesse messo in allarme la polizia denunciando d’aver rinvenuto in una salsiccia un’unghia umana» (Da Roma in Bianco e Nero di Riccardo Mariani). Non si tratta del cadavere, a pezzi, conservato in due valigie, il fattaccio apparso sui giornali dell’anno di grazia 2009 or è qualche mese. A.T. squartò il rivale ucciso in un mite mattino del maggio del 1912. La lama del «bullo» non conosce calendario. Nel numero dei delitti in Italia, circa 600 l’anno, gli omicidi per arma da taglio sono il 27,4 per cento. Dall’inizio del 2009 a oggi si contano già 50 omicidi con il coltello, l’arma preferita dai minorenni.

da lastampa.it
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« Risposta #48 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:54:40 pm »

1/5/2009
 
Squartatori e altri fantasmi
 
IGOR MAN
 
Hanno (forse) catturato lo squartatore che lasciò al deposito bagagli i resti mutilati di due sconosciuti (finora). È una buona notizia fra le tante che ci dicono dell’ennesima bambina stuprata, del tossico ubriaco che ammazza con l’auto cinque persone cavandosela con un graffio e via così. I vecchi romani, quelli veraci, parlano del fattaccio, certo, ma solo per smorfiarlo (1848771) al lotto. Vale per Roma quel che Jacques Yonnet ha scritto nel suo Enchantements sur Paris: «Non conosce la sua città chi non ha fatto esperienza dei fantasmi che la popolano».

I romani han dimestichezza, per esempio, con quello di Mastro Titta, l’«illustre boja» Giambattista Bugatti, morto novantenne «dopo aver eseguito da sé 514 giustizie dal marzo del 1796 al 17 di agosto del 1864». «Sega sega Mastro Titta», così non poche popolane tuttora addormentano i loro pupi. Cadaveri fatti a pezzi ricorrono non di rado nelle cronache romane del secolo scorso e del precedente; da quello del «russo» scoperto in due valigie, l’anno 1918, in una pensione dei Condotti, a quello di Paolina Gorietti uccisa e smembrata, nel 1933, da Cesare Salviati che ne distribuì i resti in due valigie. Al giudice che gli chiese come mai non avesse provato orrore, rispose: «Se tagli bene, le ossa non sono un problema». Vecchi fantasmi: a un passo da San Pietro c’è la Valle dell’Inferno, così chiamata, a detta del Ruffini, perché «di là irruppero gli indiavolati lanzichenecchi che misero a saccheggio Roma, appiccandovi teste il 6 di maggio del 1527».

Il Vecchio Cronista una volta ancora (ma di notte) ha ricalcato strade uniche che resistono all’alluvione del cemento. È scomparso il Vicolo scellerato, ma resistono la Sedia del Diavolo e ancora il Casale della morte e l’Infernaccio, Quarto di Vipera, Malagrotta, Campomorto, l’Osteria del malpasso, Piscina cupa. A nord e a sud del Tevere giù per l’Agro romano sino ad Anzio e Nettuno ecco Cavallo morto, Coccia de morto, Femmina morta, Fosso del diavolo, Campomorto, Campo di carne; teatro, quest’ultimo di antichi massacri rinnovatisi nell’ultima guerra. «E passano i giorni / lo sbarco non viene / aumentan le pene / ci sembra morir...», cantava Roma occupata dai nazisti e dai repubblichini ma, anche in quel tempo boreale, il romano riusciva a conservare la sua arma segreta, l’ironia. Un giorno di marzo si lesse in Trastevere la scritta: «Americani, tenete duro, che presto verremo a liberarvi».

L’immagine corrente di Roma che, per altro, i quiriti si guardano bene dal contestare, è quella d’una città crapulona e cinica: «A noi ce piace de magnà e beve - e nun ce piace da lavorà». Capitale infingarda, dunque, ovvero cinicamente saggia, consapevole del proprio inventarsi al passo della Storia? Gli aritornelli antichi che i posteggiatori cantano in Campo de’ Fiori in questa primavera goffa suggeriscono un’altra immagine di Roma: sono frammenti della lunga storia senza sostanziali mutamenti del popolino romano, romantico e affabulatore. Amore e tradimento, er Tevere, il coltello come simbolo della virilità e del comando, il furto del gioiello da regalare, i pupi delle battone di Trastevere «prenotati» dalle popolane più povere che li cresceranno. «Che ce frega de li morti ammazzati, i pupi so vita... forza Roma».

da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 08, 2009, 04:56:04 pm »

8/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA

Vigili angeli tra le rovine
   
IGOR MAN


«Pompieri». Complice una letteratura di consumo che nutrì maliziosa i «fogliettoni» dei quotidiani durante tutto l’Ottocento, declinando con il trionfalismo del fascismo cui, per ordini superiori, spettava la palma del coraggio maschilista, i pompieri, ancorché ribattezzati addirittura da Gabriele d’Annunzio Vigili del Fuoco (1939), subirono la retorica del folklore tra sirene e scintillio d’ottoni. È stata la libertà di stampa a far conoscere agli italiani i Vigili del Fuoco. I giornali, la radio, la tv, gli stessi quotidiani diremo «nazionali» diedero subito il giusto spazio al lavoro duro e paziente dei Vigili del Fuoco. Fu così che li scoprimmo arditi nemici degli incendi, infaticabili soccorritori delle vittime dei terremoti. Qualcuno di noi ha scritto di straordinari salvataggi di vittime del terremoto dell’Aquila, raccontando di Vigili del Fuoco al lavoro durante ore ed ore, spesso «a mani nude». Va detto subito che i Vigili hanno adoperato le mani pur essendo dotati d’ogni possibile strumento up to date perché sanno, per esperienza, che c’è un momento in cui la bambina o il vecchio sottratti alle macerie han bisogno di recuperare la vita, insomma di ritrovare se stessi. Ed è in quel preciso momento che il Vigile - con le sue mani, con le sue parole - diventa taumaturgico.

Ma come si diventa Vigili del Fuoco? C’è un concorso pubblico e i vincitori seguono, durante sei mesi, un rigoroso corso di formazione, più altri sei mesi di pratica. Sei e sei dodici: poi gli esami. La selezione è dura, com’è giusto che sia. Il primo stipendio è di 1.250 euro al mese, i turni di servizio son di dodici ore consecutive con rotazione in quattro turni. E trovano il tempo, i Vigili, di frequentare (generosamente) la Banca del Sangue alle Capannelle. In ogni città d’Italia è senza interruzioni il collegamento fra Vigili e ospedali.

Il Vecchio Cronista «scoprì» i Vigili del Fuoco italiani nel lontano ‘67 quando un terremoto invero catastrofico sfarinò Cefalonia e persino Zante, la remota patria del Foscolo. E notò come i greci invocassero in primo luogo gli italiani, la loro presenza. Non avevo mai visto lavorare i Vigili del Fuoco, mi sembrava impossibile che, oltre a cercare eventuali superstiti, dessero una mano a chi montava le tende e persino ai paramedici degli ospedali da campo. Di più: tutti, dico tutti, i superstiti tratti in salvo e i greci rimasti incolumi ma senza casa, chiedevano l’assistenza degli italiani.

Sarebbe bene (forse) che nelle nostre elementari, dove insegnano maestri veramente motivati, si rispondesse al grande quesito seguente: come mai, perché laggiù (non soltanto in Grecia) la nostra «meglio gioventù» ha lasciato un ricordo invero nobile? Italiani brava gente? No, non fosse altro perché non c’è esercito al mondo che non abbia tralignato. C’è però chi ha torturato il (supposto) nemico, c’è chi ha aggiunto disastro a disastro, spesso per ignoranza. Ma c’è chi riconosce se stesso nell’Altro, magari senza saperlo - ed anche questo, chissà, è un modo di incontrare il Vangelo.

da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Maggio 12, 2009, 04:18:44 pm »

12/5/2009

Gerusalemme una capitale troppo santa
   
IGOR MAN


Con eccezionale tempismo, nel (preciso) momento in cui il Pontefice è ospite in Israele nell’evidente tentativo di limare le non poche asperità che guastano i reciproci rapporti, quelli che chiameremo «i biblisti» fanno esplodere il fino a ieri vago progetto urbanistico volto a definire lo status di Gerusalemme. Il progetto ha una sua logica che coniuga urbanistica e politica territoriale. Ha solo il torto di ricordare una volta ancora al colto e all’inclita che «è stata la capitale del popolo ebraico (per tremila anni) e resterà la capitale riunificata di Israele» giusta la dichiarazione (puntuale) del portavoce della municipalità di Gerusalemme. Ancora: «sotto la sovranità israeliana - ha aggiunto il portavoce -, i Luoghi Santi sono ben protetti (...) Il governo continuerà a sviluppare Gerusalemme per il bene della sua composita popolazione».

Secondo fonti giornalistiche bene informate, il progetto dei «parchi biblici» a Sud e a Est della città contesa, risale al settembre del 2005 quando capo del governo era Sharon. E risulta che allora, due anni prima dell’inutile conferenza di Annapolis, sparigliò le carte con la sua consumata destrezza, lasciando credere ai palestinesi che il progetto era «chiaramente urbanistico» e come tale capace di assicurare alla Città Santa «sviluppo e benessere». Invece, scoprono oggi, insieme con gli stessi israeliani, e grazie a una bene informata Ong, che i negoziatori israeliani (l’ex premier Olmert e Tzipi Livni) lasciavano credere alla controparte palestinese («per non irritarla») che avrebbe inglobato la zona del Santo Bacino - giusto per fare un esempio. Il progetto biblico, la sua divulgazione, coincidono con l’ambizioso progetto decennale di «rilancio» illustrato proprio in questi giorni dal sindaco di Gerusalemme capitale.

I palestinesi protestano e c’è, al solito, chi minaccia sfracelli. Di più: si ha l’impressione che Israele dia per scontato che Gerusalemme «è e sarà» la capitale (santa) dello Stato ebraico. Ben altri timori turbano un popolo affamato di pace. Uno su tutti: un blitz in Iran per distruggere i siti nucleari. Con tutte le conseguenze del caso. Nel 1956 in Israele i giovani cantavano: «Sempre in tre saremo/io, tu/ e la prossima guerra».

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« Risposta #51 inserito:: Maggio 15, 2009, 12:37:08 pm »

15/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Quel k2 dell'Italia rinata
 
IGOR MAN
 
Il Gigante della Montagna, lui, Achille Compagnoni, era di giusta statura, come usa dire di chi non è alto né basso. Ma la sua figura aveva un che di massiccio, ed era impressionante intuire l’ampiezza della sua cassa toracica: veramente da Gigante. Lino Lacedelli, suo compagno d’impresa nella scalata del K2, ancora oggi si muove e gesticola con quell’eleganza un po’ snob ch’è tutta dei «maestri» di Cortina d’Ampezzo; Achille Compagnoni rimane (e rimarrà) il Gigante della Montagna. Un alpigiano della Valtournenche che ha vissuto lunghi anni discreti: da albergatore in un minuscolo resort aggrappato alla montagna. Aveva 94 anni portati con saggezza e consapevolezza, il Nostro, e si adoperava affinché i giovani scalatori affrontassero la montagna «con rispetto».

La benemerita agenzia Ansa ha diffuso una succosa sintesi del momento in cui Compagnoni e Lacedelli conquistarono il K2, 8611 metri, la seconda vetta del mondo. L’Italia, in quel tempo difficile ma fiducioso, si identifica con la volontà di «far di più e meglio»: fu quello un momento magico, «fra il mito del grande Torino e il lancio della Fiat 600, il “Processo alla tappa” di Zavoli e le vittorie di Fausto Coppi (...) la nostra rinascita, il “miracolo” son passati anche per il tricolore attaccato alla piccozza di Compagnoni sul K2 (...), era il 31 di luglio del 1953, s’annunciava il boom economico, invero miracoloso, e lassù, ai confini del cielo, Compagnoni e Lacedelli si abbracciavano. La hit del momento era Te voglio bene-tanto tanto di Renato Rascel, Modugno diffondeva Vecchio frack e Moravia pubblicava Racconti romani. Dopo l’austerity gli italiani avevano ritrovato la voglia di confrontarsi col mondo». Si ricominciava a «pensare in grande», come, sottovoce, il presidente Einaudi disse a un giovanissimo Carli. La conquista del K2 è nella nostra Storia la svolta che porterà alla rinascita, giustappunto. E si fa bene a ricordarlo oggi che lo stellone è un po’ acciaccato.

Il regista Marcello Baldi ricavò un lungometraggio dalle immagini girate lassù da Fantin e, incredibilmente, da Compagnoni e Lacedelli. La «prima» ebbe luogo al Barberini, il presidente Einaudi non nascose la sua commozione. Ancorché incaricato del commento, non ebbi il tempo allora di scavare dentro i 14 alpinisti della spedizione guidata dal mitico Ardito Desio, lo scienziato che aveva trovato l’acqua a Cufra - ma il Duce non gli badò -. Fu solo nel settembre del 2003 che, grazie al multiforme Piero Melazzini, presidente della «Popolare» di Sondrio, parlai a lungo con Compagnoni. Si esprimeva con garbo, sommessamente, un sorriso perenne, timido sulle labbra vermiglie.

«Bisogna rispettare la montagna, così come si rispetta la madre. Chi oltraggia la montagna bestemmia. Insegnate ai giovani che finché crescerà un filo d’erba l’uomo sarà salvo» (cfr. M. Carreri, Messaggero Sant’Antonio). La notte-alba, lassù sul K2, lui e Lacedelli si abbracciavano felici come bimbi, incuranti delle mani orribilmente congelate. Finita l’intervista, Compagnoni mi disse: «Non l’ho detto a nessuno: abbracciandoci, io e Lino, “Viva l’Italia” esultammo, così, di botto...».
 
da lastampa.it
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 22, 2009, 11:59:50 am »

22/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
L'attacchino che faceva politica
 
IGOR MAN
 
Ciao Sandro, gli attacchini di Roma ti ricordano con affetto» è scritto a lettere bianche su di un triste, interminabile sfondo nero. Ma chi è Sandro e perché questo manifesto grande come un’ideale cornice alla Salvator Rosa? E il messaggi, così insolito, da chi viene, a chi va? «Roma non basta una vita», sentenziò Silvio Negro. E Luigi Ceccarelli, romanista-poeta, ammoniva che bisogna sempre «capire» di quale Roma si parla, volta per volta, caso per caso.

Il manifesto bianco e nero che ha letteralmente invaso la capitale - di nuovo bellissima dopo insolite giornate di pioggia importuna perché fuori calendario - è semplicemente il commiato (definitivo) degli attacchini romani a un loro compagno di fatica e di «ideali», Sandro Francavilla, stroncato da un devastante aneurisma cerebrale. (Aveva cinquantasei anni soltanto: anche la morte ha il suo giorno di nascita, sentenzia, amaro, lo scaccino di Santa Maria in Monticelli).

Sandro fu comunista sin da fanciullo, così come fu attacchino da sempre. Attacchino de sinistra. Quello dell’attacchino è un mestiere nobile, almeno a Roma, non fosse altro perché chi lo esercita nel partito ce crede, insomma partecipa. Abbiamo visto quel capolavoro ch’è Ladri di biciclette ma non tutti gli attacchini hanno appesa la disgrazia al collo come quel disgraziato che, privato della sua scassata bicicletta, è un angelo senz’ali precipitato nell’inferno del traffico romano. Sandro cominciò presto a far politica, se lo ricordano in tanti: «Un ragazzo sveglio, batteva tutti quando “i compagni”, anche quelli più importanti, la domenica si improvvisavano “strilloni” e l’Unità andava a ruba». Aveva fatto i suoi bravi studi d’obbligo ma la gioia di leggere - per capire e capirsi, come diceva - ne aveva fatto un assiduo frequentatore della libreria Feltrinelli dove, «se ci metti l’anima e hai piedi forti, puoi leggerti un libro intero, gratis».

C’è una sana rivalità nel mondo degli attacchini di Roma. Epperò son finiti i tempi delle «ammucchiate» quando esplodeva la campagna elettorale e gli attacchini se le davano di santa ragione. «Altri tempi», sospirano in via de’ Giubbonari dove nacque e crebbe la più antica sezione comunista di Roma. Una volta, or è tant’anni, Federico Coen volle avermi ai Giubbonari per un dibattito (manco a dirlo) sulla Palestina: serrato, sinanco rovente ma civile, all’insegna del rispetto. Altri tempi.

Va detto ancora qualcosa degli attacchini: considerano un’arte, ancorché minore, quella che esercitano da sempre. Una volta Sandro ci illustrò la sua tecnica che aveva bisogno soltanto di un secchio con buon amido sapientemente miscelato alla colla e uno spazzolone da Upim. Un buon attacchino non spreca una goccia del suo secchio, nelle sue mani lo spazzolone diventa una durlindana. Con l’anima spuntata, ahimè.

Ma perché racconto di un attacchino? Perché quel saluto appiccicato con l’amido simboleggia la scarsa presa, oggi, di un partito che fu veramente storico. È l’addio al vecchio Pci e qui, nella Roma artigiana, le imminenti elezioni sono vissute come l’ultima scommessa: resistere o scomparire.

 
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« Risposta #53 inserito:: Maggio 29, 2009, 03:52:29 pm »

29/5/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
In Ferrari a Praga tradita
 
 
IGOR MAN
 
La recente buona prova della «rossa» ricorda al vecchio cronista una performance della Ferrari invero unica. La mattina del 21 di agosto del 1968 mi svegliò una telefonata del mio Direttore, il grande Giulio de Benedetti: mi annunciava l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ancorché avessi lasciato Praga il 14 di agosto confidando in una lunga sorsata di riposo a Sabaudia, convenni con il mio (amato) tiranno che bisognava tornare, subito, a Praga. Ci riuscii, non senza fatica, ma ci riuscii. Trasmettevo da Praga schiantata dalla disperazione, beffando la censura sovietica ma non appena possibile raggiungevo Vienna per rimanervi tre-quattro giorni, impiegati a raccontare più distesamente, e in profondità, la tragedia cecoslovacca. Facevo la spola, insomma, sempre in cerca d’un «passaggio» da Praga al «Sacher» di Vienna.

Il pomeriggio del 4 di settembre ero in Ambasciata, quando dal severo cortile giunse il rombo possente d’un motore d’automobile. Grosso fu il mio stupore nel vedere al centro del cortile una fiammeggiante Ferrari. Non credendo ai miei occhi: ma quello è Sergio Busi, esclamai incredulo e Sergio, poiché era lui il pilota: «Soch, ma allora è proprio vero quello che scrivi: questa è una città disperata, ci sono più carri armati che belle ragazze», declamava mentre saliva rapido le antiche scale. (E qui va detto che Sergio Busi, prematuramente falciato dalla morte, fu un audace imprenditore attento all’editoria). Gli concessi due giorni di «turismo», poi partimmo per Vienna. La fremente Ferrari aveva spesso bisogno d’acqua per rimboccare l’avido radiatore sicché Sergio cominciò a buttarsi, ogni tanto, nella campagna lasciando ai soldatini mongoli made in Urss che ci osservavano sbalorditi dall’alto dei carri armati, la strada principale diretta al confine con l’Austria. E fu proprio dalla prima fattoria che cominciò la nostra «missione-portalettere».

Sull’aja trovavamo donne giovani e magari belle: Sergio riusciva a farsi capire meglio di me in grazia del pastoso linguaggio espressivo degli emiliani. Le contadine, fiduciose, chiedevano a Sergio di affidargli una lettera, solo una lettera, da imbucare a Vienna per far sapere al mondo (ai parenti, agli amici) che la Cecoslovacchia era stata tradita e stuprata dai «compagni» sovietici. In quelle fattorie senza uomini non c’era il telefono ma in virtù d’un misterioso tamtam nelle successive trovavamo ad attendere «Ferrari-Italia» ragazze o vecchie già con la lettera pronta. «Soch, Igor, questa è la più importante esperienza della mia vita», non faceva che ripetermi Sergio. A pochi chilometri dal posto di frontiera di Vaculiz fiorì un finale felliniano.

Una vecchia contadina chiese fieramente di «fare un giro». Sergio, ridendo, la sollevò da terra, la sistemò sul sedile e bruciò la ghiaia partendo a razzo. Più tardi la contadina pescò dal reggipetto un uovo, ancora caldo. Lo offrì a Sergio e lui fece una cosa straordinaria. Accese il motore, scese dalla macchina, prese l’uovo e lo posò sul cofano. Vibrando, impercettibilmente, l’uovo rimase lì, sul cofano della magnifica rossa, senza spostarsi d’un millimetro. Immobile. «Ma questo è un sortilegio», esclamai fra l’incredulo e lo stupito. Sergio, fattosi improvvisamente serio: «No, Igor, questa è la Ferrari», disse.
 
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« Risposta #54 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:33:31 pm »

5/6/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Somali e bucanieri
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
C’era una volta la Somalia, ex nostra «colonia» ai tempi del Fascio, affidata dalle Nazioni Unite all’Italia dopo la seconda guerra mondiale, vittima innocente della funesta spedizione Restore Hope voluta da Bush padre quand’era un presidente trombato ma col potere di fare e disfare nel «vuoto» che va dal risultato delle presidenziali all’insediamento del conquistatore della Casa Bianca. C’era una volta un paese mite e intelligente che clamorosi errori dell’Occidente han cacciato indietro di un secolo proprio all’inizio del nuovo millennio (cfr P. Petrucci: Mogadiscio).

Trent’anni dopo la Somalia torna sui giornali: nelle acque del Golfo di Aden bucanieri somali esercitano la pirateria a viso aperto: il giorno 11 di aprile hanno sequestrato la nave italiana Buccaneer; i banditi del mare han catturato l’equipaggio, l’Italia tratta ma incontra «serie difficoltà». I banditi volevano trenta milioni di dollari di riscatto, sono scesi a due milioni e mezzo... Il Buccaneer è guardato a vista dalla nostra San Giorgio. Il 10 di giugno «si darà corso alla trattativa» (a Roma) non fosse altro perché l’Italia scarta «decisamente» l’idea di un blitz «autorizzato dalle autorità del Puntland»), la regione autonoma del Nord della Somalia, terra dei migiurtini.

Non è finita: a Mogadiscio miliziani fondamentalisti di al Shabab (Gioventù) combattono da giorni contro gli uomini del presidente in carica, Sheikh Shariff Sheikh Ahmed, che si autodefinisce «islamista moderato». Il presidente in carica è asserragliato a Villa Somalia. L’attuale inquilino ha reso confortevole quella che fu la residenza del nostro ambasciatore, quando l’Italia «dava una mano» alla Somalia. A quella Somalia che il vecchio cronista ricorda con tenerezza, con simpatia.

Mogadiscio non è mai stata bella, l’alito sciroccoso del mare corrodeva la facciata delle case, senza fantasia ma confortevoli, sempre aperte agli italiani. Durante la settimana andavamo alla scoperta del mercati (modesti ma allegri), all’università (eccezionale) alla caserma dove nostri superpoliziotti insegnavano il mestiere a motivati volontari. Qualche volta si andava a gustare «un bicchierino» dal Vescovo monsignor Colombo. Fu ucciso (non s’è mai saputo da chi) e quel delitto segnò l’inizio della rovina. Mogadiscio ha una spiaggia di rena bianca, sottilissima - tuffarsi in quelle acque era un ristoro. La sera andavamo al Lido: sbirri, diplomatici, giornalisti, professori.

Il Lido era un night arrangiato con quattro palanche di legno. Funzionava un radiogrammofono Magnadyne alle cui musiche-disco si ballava con splendide somale alte e flessuose. No, non erano «troniste» o «veline», erano ragazze diventate libere non senza sacrificio: qualcuna faceva l’infermiera, altre la maestra elementare, non mancavano le laureande. Gian Carlo M. sosteneva che una delle ragazze-danzatrici fosse una principessa. Alla Croce del Sud, vetusto albergo solenne, facevano ottimi spaghetti. Noi giornalisti trasmettevamo i «pezzi» via telegrafo. Era, la Somalia, un paese povero ma a suo modo felice. Tornerà ad esserlo? Non credo. Non fosse altro perché è accertato che custodisce in grembo, nel sottosuolo, una riserva «smisurata» di idrocarburi. Una riserva strategica che fa gola un po’ a tutti: dalla Cina ai bucanieri senza bandiera; almeno per ora.

 
da lastampa.it
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 07, 2009, 12:16:03 am »

3/6/2009
 
Al Cairo il discorso più atteso
 
 
IGOR MAN
 
Col suo lungo passo atletico il giovine Obama, espressione storica del melting pot americano, entra nel pianeta Africa: arriva al Cairo in visita ufficiale. Ma il suo viaggio supera la valenza politica. Il Presidente della più grande potenza del mondo - gli Stati Uniti d’America -, entra nell’Africa (che è anche «sua») per la porta immensa, tarlata e tuttavia forte: al Kâhirah, semplicemente Cairo. È al Cairo che islàm e Africa mischiano la propria Storia e qui, all’ombra delle piramidi assalite dai turisti, che Politica e Storia vanno insieme. Da sempre.

E’in Egitto, Paese antico, aristocraticamente povero, che si pesano il bene e il male, la speranza e la delusione. Obama conosce bene il dossier Medio Oriente ma lui, così giovine, è un raîss all’antica: non gli bastano i rapporti del Dipartimento di Stato, vuole toccare con mano, vuol capire se il cinismo di Mubarak è una difesa ovvero una resa.

Se c’è spazio per una trattativa seria, non formale, sul destino di Gerusalemme, se c’è futuro per i palestinesi che invocano il diritto alla Patria. Quello di Obama non è un viaggio turistico ma una inedita full immersion nella crisi centenaria del Vicino Levante. E tuttavia osiamo immaginare una segreta gioia di Obama. Quella di respirare un sorso d’Africa, al Cairo, la Vittoriosa. Non solo una città ma anche un pianeta a innumerevoli «anelli» intrecciati l’un dentro l’altro eppur divisi da invisibili confini. Cairo: oro e cenere. Calcutta africana, 17 milioni di abitanti di cui cinquemila allogati nella Città dei Morti: i vecchi cimiteri dei secoli passati; e ancora: milionari che consumano la loro dilagante ricchezza in fastosi ricevimenti negli alberghi a 5 stelle dove una camera costa altrettanti stipendi universitari; miserabili che conquistano, giorno dopo giorno, la sopravvivenza raccogliendo l’immondizia della metropoli per, poi, frugarvi dentro: gli zabbalin dei quali ha scritto Suor Emmanuelle («Ho amato Gesù tra i rifiuti», Piemme).

Al Cairo è il tramonto il momento più bello della giornata. Le strade assumono lentamente la tinta azzurro-metallica della carta copiativa ma riflettono, ostinate, il colore neutro del sole. Il Nilo diventa un fiume di rame fuso, il profilo delle Piramidi sfuma nel violetto, dietro le quinte dei palazzi napoleonici si indovina il respiro vasto del deserto vigilato dalle palme concimate dalla Storia. I caffè addormentati si svegliano al rumore discreto delle pedine veloci del tric-trac, sui marciapiedi sconnessi si allineano dolci di sesamo e fave bollite, lacerti di carne, schidionate di budella cosparse di spezie. Il tanfo del cibo si mischia a quello dei fiori in disfacimento e del sudore umano. Ci si muove tra la folla animosa in un’aria satura di elettricità statica, come a New York ma spalla a spalla con uomini in galabia (ogni maschio del lumpenproletariat possiede due galabie copristracci: una estiva, una invernale), e con ragazze, belle davvero, vestite all’europea ma con in testa il fazzoletto nero delle contadine, succedaneo del velo; con ragazzi smaniosi, fieri dei blue-jeans d’occasione. Le strade sono un Nilo di automobili, vecchie 1100 gloriose e nuovissime Mercedes, taxi ultracinquantenni i cui autisti (detti «no problem»), guidano alla kamikaze con la mano inchiodata sul clacson. Chiudono i negozi, si svuotano gli uffici, la gente prende coraggiosamente d’assalto autobus stracolmi, i trenini biancocelesti del metro si riempiono sino a scoppiare di pendolari: più di 10 milioni di persone lasciano ogni sera Cairo per i dormitori della lontana periferia.

Negli attici superprotetti di Zamalek, dove i ricchi vivono gomito a gomito coi diplomatici ci si prepara per la rituale cena-ricevimento: i protagonisti son sempre gli stessi, cambiano soltanto i gioielli e i pettegolezzi ai quali, spesso, corrispondono verità sociali e politiche. Nel cuore della città, egiziani stanchi, poveri ma non rancorosi, salgono lentissimamente le scale di servizio dei grattacieli-nani per raggiungere le proprie dimore improprie. Cubi di compensato e cartone arrangiati sui tetti. (Quanti sono i cairoti che vivono sui tetti? Non si sa). In Kasr el Nil ch’è un po’ il centro della città «europea», dall’alto del grattacielo Wuabhay è possibile cogliere la vita degli inquilini «dei tetti piatti». Stendono la biancheria, accendono piccoli fornelli di argilla o di latta, qualche primus, rattoppano i loro rifugi addossati ai grandi camini. In un angolo han steso una stuoia, vi si inginocchiano per pregare, rivolti idealmente alla Mecca. Durante lunghe ore, di giorno, sui tetti stanno donne e bambini poiché gli uomini vanno in giro «arrangiandosi» per poche piastre: il Cairo non regala nulla. Epperò questi delle terrazze non sono tra i più infelici dei miserabili della città madre e matrigna al tempo stesso. Dai loro rifugi aerei godono lo spettacolo mosso della capitale, del suo cuore più aristocratico, ne assorbono le pulsazioni, respirano un’aria sempre rinnovata dal vento. È come se vivessero tuttora nel deserto dal quale sono venuti, o nel villaggio senza più limo ché la Diga di Assuan, intitolata a Nasser, ha stravolto l’ecologia antica. Dall’alto dei loro cartoni issati fra le antenne paraboliche, quelli dei «tetti piatti» vedono il brulicame umano di Bab el Sciaria. In questo quartiere si ammucchiano 140 mila persone in un chilometro quadrato. Nugoli di bambini piccolissimi (il 25 per cento dei 14 milioni di abitanti del Cairo si calcola abbia meno di sei anni) corrono da un marciapiedi all’altro, i piedi arabescati di fango. Bancarelle piene di bottigliette di brillantina alle rose, pettini di plastica, toscanelli, sigarette Cleopatra.

Altoparlanti invisibili spargono a pieno volume musiche tristi che tuttavia sembrano scatenare una umanissima allegria. C’è gran ressa intorno ai ristorantini ambulanti: carrette a due ruote, spinte a mano. Sui ripiani protetti da vetri multicolori istoriati da mosche invulnerabili, troneggiano vassoi di riso insanguinati dal pomodoro, di lenticchie, di insalata, e l’immancabile marmitta di fave bollite. Tutti mangiano e con poche piastre: in un pane cavo tondo e schiacciato, vien fatta, con abili dita, un’apertura colmata con un cucchiaio di foul, fave tritate all’olio di semi, il piatto nazionale. Ma c’è anche chi compra carne d’agnello per il kebab. L’Egitto, paese nel quale ogni trenta secondi nasce un bambino, non è certo un paese ricco eppure i negozi dei beccai straripano di bestie squartate appese fuori della bottega. Qui i turisti non vengono, a Bab el Sciaria, dico, ma quei pochi che vi capitano per caso, stupiti da tanta abbondanza fotografano increduli gli agnelli e i quarti di montone. Il miracolo dell’abbondanza si deve alle cooperative di Stato create da Nasser, sopravvissute alla infitah (la politica della porta aperta al capitale estero, voluta da Sadat) e alla cosiddetta «privatizzazione assistita» dell’accorto Mubarak. Grazie alle cooperative, una famiglia media (cinque-sei persone) riesce a imbandire il desco spendendo una somma «ragionevole». Tuttavia, poiché lo stipendio d’un colletto bianco è irrisorio, secondo i nostri parametri, si riesce a sfamarsi, non a mangiar bene.

Ma chi mangia bene in Egitto? Sicuramente i bayumi. Hassan Bayumi è un nome tristemente «storico»: costruì nei Settanta, nel quartiere residenziale di Dokki, un lotto di sei isolati, rivendendoli subito con un guadagno del cento per cento. Qualche mese dopo quell’operazione tanto (per lui) fruttuosa, uno dei falansteri crollò; dalle macerie del palazzo costruito con materiale infame, furono estratti «non pochi cadaveri», come scrissero pudicamente i giornali. Al Cairo i bayumi son detti anche «le iene grasse» e il marchio bayumi vale altresì per i super-ricchi ai quali a suo tempo la denasserizzazione consentì di far breccia nel sistema, accumulando fortune enormi. Fatalmente i bayumi son dappertutto, ma chi volesse evitarli (Obama?) vada al Khan Khalil. Non è soltanto il bazar più favoloso del Medio Oriente, è in fatto un mondo estremamente civile popolato di artigiani impareggiabili, di mercanti incredibilmente seri.

E infine, prima di accostarsi alla Moschea severa e colta di al Azhar, per chi voglia veramente sentirsi dentro il Cairo e ascoltare il suo cuore antico, ecco il rifugio discreto e ammaliante del «café Fichaoui» sopravvissuto alle ingiurie del tempo, alle soffiate di ben quattro polizie. Qui, in questo luogo deputato, è possibile ascoltare il racconto del tempo, fumando il gorgogliante narghilè, bevendo caffè ziada o masbout (molto zuccherato o giusto), ovvero il tè alla menta in enormi bicchieri appannati dalla bevanda bollente. Più caldo è il tè alla menta, più disseta.

E quando, finalmente, il Presidente americano varcherà la soglia di al Azhar, solenne moschea e università celebre, luogo incontaminato, faro di intelligenza, ecco in quel preciso momento egli (pensiamo) sarà rassicurato. Questo perché al Azhar è la diga possente che comunque fermerà il magma brutale dell’integralismo. In al Azhar il Corano viene letto e meditato, scandito nei suoi versi secondi solo a quelli della Divina Commedia. Non manipolato, come avviene da parte degli apprendisti stregoni gonfi d’odio e di ignoranza, seminatori di morte quant’altri mai. Epperò il Corano, da solo, non riuscirà a sconfiggere l’integralismo selvaggio se Mubarak non riuscirà a domare la corruzione. Ma questo Obama lo sa. Sa soprattutto che in questa parte del mondo, sono stati sempre i miserabili a fare e disfare le fortune dei potenti.
 
da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:49:01 pm »

11/6/2009
 
La rivalsa di Muhammar
 
IGOR MAN
 
Il volto di Gheddafi, «al Qaid» (Guida) della Libia, ispessito dagli anni, è una impassibile terracotta ma, a guardarlo bene, t’accorgi che le palpebre ancorché schermate da occhialoni extralarge sbattono denunciando tensione. Il Colonnello è avvolto in una delle settecento divise da lui disegnate secondo il modello sovietico; sul torace protetto dall’antiproiettile ballonzolano, al posto delle decorazioni, pallide foto. Ritraggono Omar Mukhtar, eroe nazionale, lo sceicco senussita catturato e impiccato da Graziani. Ma perché questa esibizione d’un medagliere anomalo (si deve a Breznev, ma lui esibiva stakanovisti)?

Nel mondo di Gheddafi esiste il cosiddetto doppio linguaggio: quello che serve a comunicare genericamente, quello che sottintende. Con le mostrine fuori ordinanza Gheddafi ha inteso dire ai suoi interlocutori (italiani) che la sospirata «pax» fra Italia e Libia non cancella il passato. S’è aperta una pagina nuova ma quella vecchia non sarà mai dimenticata. E qui va ricordato come nella Jamahiriya (equivalente arabo di Repubblica popolare) sono i Comitati popolari a far da barometro, a rivelare gli umori delle «masse». Gheddafi è il leader ma lo si discute, non di rado.

Per darsi disinvoltura Gheddafi giocherella con uno dei suoi tanti bastoni, parente povero d’una durlindana turca. Infine lo rifila a una prosperosa «tigre» col basco rosso: fa parte della leggendaria scorta femminile del Colonnello.

Due i gesti di cortesia: Berlusconi ancorché afflitto da un torcicollo all’ultimo momento è andato a Ciampino ad accogliere il Colonnello e costui ha rinunciato al bastone dai mille segnali, sostituendolo con uno spadino fieramente impugnato con la destra. Il Colonnello venuto dal deserto sembra che sorrida ironico come un gatto, non riesce a dominare un (per lui) prelibato stato d’animo. E’ una lunga battaglia politica quella che «al Qaid» ha combattuto contro l’Italia, lugubremente scandita dal «giorno della vendetta» che mobilitava ogni anno un popolo senza troppi ideali, solo preoccupato di star bene lavorando poco, possibilmente nulla grazie al «Welfare State» edificato dal Colonnello col «petrolio di Allah». Nel suo insieme l’accordo concluso con Gheddafi è un impegno gravoso ma imprescindibile. Dietro le varie sceneggiate (con lancio, sbilenco, persino di missili su Lampedusa) marciava un sentimento di amore-odio per l’Italia. Chi scrive, tra colloqui e interviste, ha avvicinato il Colonnello almeno dieci volte, a partire dall’aprile del 1972 quando egli riceveva (nell’ex residenza di Balbo) i giornalisti vestito in borghese con la camicia a maniche corte sotto la giacca color senape, le scarpe di finto coccodrillo; così magro e giovine, gli occhi implacabili, sembrava uno studente di scuola serale piuttosto che un leader sin da allora inquietante. Nel 1972 eravamo in dodici i giornalisti invitati a Tripoli per una «intervista collettiva». Quando fu la mia volta: «Mann?», interrogò, «ebreo?». E se lo fossi?, replicai. «Se sei ebreo sei mio fratello e come tale due volte il benvenuto», rispose. No, non sono ebreo, il mio nome si scrive Man con una enne sola, ma ho molti cari amici ebrei, dissi. «Anch’io», sorrise il Colonnello. Non fu altrettanto gentile con il collega della «Tass». Fu, anzi, maleducato: «Vada via, esca immediatamente», sibilò. «Al Qaid» non ha mai amato i russi. «Li odio, mercanti fino all’ultima piastra ti appioppano quattro missili stravecchi», mi disse una volta.

Chi scrive ha avuto modo di seguire il ministro degli Esteri Giulio Andreotti nei suoi viaggi in Libia anzi nella Jamahiriya. Negli anni, Andreotti non ha mai nascosto l’utilità di un «rapporto realistico» fra l’Italia e la Libia. Oggi può consolarsi d’aver spianato la strada all’accordo che escluderebbe ripensamenti, bizze e mutamenti di rotta. Gestire un accordo come quello che Tripoli e Roma hanno sottoscritto comporta fermezza ma anche tolleranza reciproca. Incidenti di percorso son da mettere in conto ma Gheddafi sa essere, quando vuole, pragmatico, estremamente corretto. Non è un personaggio facile, non fosse altro perché è un beduino. Essere beduini comporta nello specifico una visione della vita invero particolare. Certamente il beduino è un buon islamico: osservante del Corano, «muslim»: sottomesso al volere di Allah. Il beduino, in più, è «figlio del deserto» ed è, sempre, il vento a segnare il destino: così come muove le dune, il vento guida il beduino. Gheddafi è uno solo, cordiale e arrogante, tirchio e generoso, ma non di rado può capitare di incontrare con lui un personaggio diverso; insomma è come se si sdoppiasse, quando meno te lo aspetti. Chi s’accorda con Gheddafi ha il dovere di non dimenticare mai ch’egli è un beduino. Cioè un islamico «diverso» intimamente sospettoso.

Fra i tanti incontri il vecchio cronista conserva un ricordo particolare: l’intervista a Taurga, la notte del 9 di febbraio del 1986 (apparsa su «La Stampa» dell’11 febbraio). Chi mi accompagna, durante il tedioso viaggio di 375 chilometri da Tripoli al deserto sirtico, assicura ch’io sia l’unico giornalista occidentale ad avere la chance di incontrare Gheddafi fuori dal protocollo. Il Colonnello è in piedi sul limitare d’una tenda beduina marrone ingentilita da drappi di cotone dai colori smaglianti. «Benvenuto», sorride (in italiano) fra il divertito e l’ironico. Davanti alla tenda arde un mucchietto di braci a scaldare una teiera di smalto blu. Dopo l’intervista il Colonnello licenzia l’interprete e restiamo soli a parlare. In inglese. Visto così, da vicino, sotto la tenda autentica, senza una delle sue settecento divise (da cambiare durante sette vite), senza il braccialetto di Cartier al polso, senza gli stivaletti dal tacco vertiginoso, il Colonnello, se non fosse per lo sguardo scaltro potrebbe veramente sembrare un qualsiasi giovine beduino. «Vorrei parlarti della mia Terza Teoria», mi dice, una teoria universale che non è predicazione bensì un «sistema» politico e quindi socioeconomico, valido per tutti. Suppongo che «al Qaid» abbia illustrato la sua fatica ideologica al nostro presidente del Consiglio. Che verosimilmente ne avrà, dentro di sé, sorriso. Anch’io ne sorrisi, allora, oggi sono portato a riflettere che quel «nulla di nuovo» ch’è la Teoria di Gheddafi calza a pennello a un paese, la Libia, dove vige miracolosamente il caos organizzato, una sorta di neomaoismo coi colori del Profeta. Il socialismo coranico, postulato dal Colonnello, nega ogni influenza laburista o scandinava, avversa il capitalismo ma anche il comunismo.

Il collega Valentino Parlato, tripolino doc, ha scritto come la sigla di Gheddafi, massimamente problematica, sia il «mabul», vale a dire il matto «con tutta l’espressione, compresa quella sacrale che la parola “mabul” comporta» (non risulta che in merito il Colonnello abbia avuto a ridire). E, poi, va detto che questo matto che prende il potere a 27 anni, senza spargimento di sangue, deve inventarsi tutto. Come stupirsi, dunque, se i soli modelli di comportamento, per lui, siano quelli dei nomadi del deserto, dei beduini? Gheddafi appartiene soltanto a se stesso. Per lui, giungere a Roma in pompa magna è come sciogliere un voto.
 
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« Risposta #57 inserito:: Giugno 12, 2009, 06:52:58 pm »

12/6/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Nimeiri, raiss senza pietà
 
 IGOR MAN
 
Gli eroi sono stanchi e se ne vanno, «svaniscono», come i vecchi soldati. Questo vale soprattutto per l’Africa, perennemente alla ricerca di «tenerezza», per citare l’epico Ben Bella. A uscir di scena, in questo momento invero agitato, è un personaggio del quale s’era perduta traccia: parliamo di Gaafar an Nimeiri. Ha staccato il fatale biglietto di sola andata un raiss che irruppe sulla scena politica del Sudan nel 1956, visse tutte le battaglie del suo rovente paese, e dell’Africa in generale, da convinto «ufficiale libero», da nasseriano insomma, per infine uscir di scena da fondamentalista. Tutto il contrario di Gheddafi (oggi ospite di Roma, finalmente) che fedele alla filosofia di vita del beduino, beduino è rimasto e il pane tuttora distribuisce ai suoi compatrioti, non di rado erratici, imparzialmente. Ma qui il «vecchio cronista» ricorda Nimeiri perché a lui è legato un momento drammatico della sua vita di reporter.

Nel maggio del 1969, Nimeiri trionfa con un colpo di Stato, di impronta nasseriana, ma quando annuncia che avrebbe raso al suolo i comunisti i giovani ufficiali di sentire marxista lo arrestano. I golpisti durarono solo tre giorni perché gli ufficiali fedeli a Nimeiri lo liberano facendone un raiss forte e spietato. Tutta la stampa internazionale era a Khartum e una mattina Eric Rouleau, Therry de Jarden, Egisto Corradi e il «vecchio cronista» (allora giovanissimo) decisero di andare a Ondurman. Volevamo parlare alla moglie d’un leader comunista impiccato nella notte. Eravamo lì a parlare con le donne della famiglia che manifestavano il lutto segnandosi la faccia col sughero affumicato, allorché irruppe un camioncino carico di giovani soldati a caccia di «comunisti». A calci e piattonate ci caricarono per subito ripartire. Invano mostrammo tessere di identità, i giovani soldati cercavano un posto dove fucilarci.

A ridosso di un muretto, coi soldati a bracciarm aspettavamo un graduato, il solo che potesse ordinare «fuoco», giusto il regolamento. Il caldo (29 all’ombra) e l’umidità al 100% ci stordivano. Prendevamo coscienza che quando fosse giunto il graduato, per noi sarebbe stata la fine. Io non ci volevo credere sicché incredibilmente pregavo: «Cristo pietà, Signore pietà», subito cancellando quelle parole per dirmi che stavo sognando, che tutto sarebbe andato bene... Infine il sergente arrivò. Nero, gallonatissimo; Corradi s’accorse del nastrino del Congo, gli rivolse la parola in francese e quello rispose contento. Breve: l’equivoco fu chiarito e il sergente venne con noi a farsi una birra. Noi giornalisti giurammo che avremmo buttato alle ortiche il blasone di inviato. Ma sono qui a testimoniare che abbiamo sempre violato quel giuramento. Perché il nostro mestiere (certamente artigianale) ti fa amare la vita e rispettare la morte.
 
da lastampa.it
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« Risposta #58 inserito:: Giugno 19, 2009, 06:09:43 pm »

19/6/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A Teheran in rivolta
 
IGOR MAN
 
Tutto si ripete, ma nulla è diverso», recitava un antico adagio sciita. Trent’anni dopo l’Iran vede l’ira popolare esplodere in quelle stesse piazze che costrinsero il Re dei Re alla fuga, sospinto dal grido ideologico «Marg Bar Scià - Marg Bar Amerika», a morte lo Scià - a morte l’Amerika. Ma, allora, quella che passerà alla Storia come la «Rivoluzione a mani nude», l’immenso rifiuto corale della Corte del Pavone, aveva, giustappunto, un bersaglio preciso: Reza Pahlevi colpevole di stravolgere i connotati culturali dell’Iran. Oggi è diverso. I ragazzi che inondano le piazze, quando Khomeini mise in fuga lo Scià proclamando la Teocrazia sciita erano infanti. Sono cresciuti col mito di Khomeini che in molti ritengono vittima d’un tradimento ideologico. E chi ne ha preso il posto, come Imam-Guida Suprema, vale a dire il pensoso Khamenei, viene contestato (civilmente) per il suo incondizionato appoggio al presidente in carica, l’ascetico Ahmadinejad. A costui viene rimproverata una gestione «erratica, fallimentare » dell’economia, vale a dire del «grande dono», il petrolio. «Siamo ricchi ma viviamo da miserabili», questo striscione sbandierato in faccia ai poliziotti ne avrebbe provocato una «smodata reazione »: hanno sparato sui dimostranti, sette morti.

Non è dunque una «sommossa» quella che agita l’Iran ma qualcosa di più tremendamente serio. Questo ci dice la «disponibilità a ricontare i voti», espressa dalla presidenza della Teocrazia.

Vedendo alla tv Teheran saccheggiata dai dimostranti, colpisce che essi siano giovani quando non giovanissimi. Allora, quando la «Rivoluzione a mani nude» conquistava giorno dopo giorno sempre più spazio nella mente e nel cuore della gente, la folla vedeva in maggioranza persone mature, professionisti, operai e, poi, c’erano i soldati, in prima fila, spesso gettavano il fucile alla folla e così diventavano seguaci di Khomeini che, immancabilmente, dedicava loro «giuste parole». Ogni giorno quel che colpiva noi giornalisti stranieri era la serenità dei dimostranti. Sfidavano la Savak, l’implacabile polizia dello Scià: sapevano di rischiare la galera, la tortura, la vita sinanco, ma alle nostre domande rispondevano sempre, e tutti, così: «Non abbiamo paura del martirio». Il Vecchio Cronista è stato in Iran, Paese dal forte tratto indoeuropeo, anche dopo la morte di Khomeini. Ha raccolto, così, per fortunato caso, quello che si può considerare una sorta di «commiato definitivo» dell’Imam perdutamente vecchio, stanco. Ma lo ha soprattutto colpito l’altruismo della gente. Vediamo.

Un giorno i «moschettieri» dello Scià (già all’estero) colmi di frustrazione scorrazzavano sparando a vanvera. Ferirono il collega Flesca dell’Espresso, ma se ce la cavammo fu perché sconosciuti iraniani ci coprirono coi loro corpi. Finita la cruenta incursione dei «moschettieri», mentre prestavamo i primi soccorsi al coraggioso Giancesare, chiedemmo a uno di quegli sconosciuti che ci avevano così, di slancio, coperto coi loro corpi, perché mai lo avessero fatto. Risposta: «Perché siamo tutti fratelli. Lo dice il Corano ». Tutto si ripete ma nulla è diverso?
 
da lastampa.it
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« Risposta #59 inserito:: Giugno 25, 2009, 11:06:38 am »

25/6/2009
 
Il sogno dei turbanti s'è rotto
 
IGOR MAN
 
Grazie a quella che Gandhi chiamava «la prepotenza della notizia», veicolata da Twitter, il sito Internet che raccoglie e diffonde stringati messaggi, un po’ tutti nel mondo seguiamo gli accadimenti iraniani. Il «no» degli iraniani di buona coscienza alla truffa elettorale che ha ribaltato il responso delle urne, e la protesta popolare che ha provocato una repressione spietata, entrano nelle nostre case tranquille col loro corteo di sangue, di morte. Giorno dopo giorno, ora per ora. I lettori, la gente, l’opinione pubblica mondiale (chi per un verso chi per l’altro) si interrogano, ansiosamente: riusciranno gli iraniani che si riconoscono nel «moderato» Mir Hossein Mousavi (il grande truffato) a cancellare la frode elettorale, ad avere giustizia, insomma?

La risposta niente affatto elegante è «ni». Non pochi commentatori hanno scritto che laggiù, in Iran, «qualcosa s’è rotto». Vale a dire che quella sorta di complicità che regnava pro bono pacis nella camera dei turbanti, fra gli ayatollah ortodossi, fermi al dettato di Khomeini, e i «riformisti» alla Khatami, per intenderci, è andata in pezzi. Lasciando solitari arbitri della situazione i militari. Un esercito bene addestrato che aspetta solo l’atomica per guardare oltre i confini del cosiddetto «arco della crisi»: dal Golfo all’Indonesia passando per l’Africa afflitta da due orchi: l’Aids e la corruzione. Le ambizioni dei militari, il loro disegno strategico, si coniugano con il sogno dei turbanti khomeinisti.

La oramai remota ma sempre esaltata vittoria elettorale di Khatami svelò del tutto la realtà nascosta dalle speranze, dagli slogan degli studenti, dei commercianti del bazar (generosi sovvenzionatori di Khomeini). E cioè: in Iran può dichiararsi ed essere un presidente davvero operativo il politico che goda dell’appoggio dei pasdaran (le milizie di regime), che abbia dalla sua i rapaci bassji (polizia mobile e senza misericordia, quella che ha ucciso la giovinetta Neda, sotto gli occhi del padre), ma soprattutto chi possa contare sull’appoggio delle forze armate, oggetto di cure e premure del mistico presidente Ahmadinejad. Il New York Times ha scritto che «la frattura è al top» (non tutti i grandi religiosi sono con Khamenei) e nel frattempo la rivolta popolare è diventata un «movimento di base».

Sappiamo per esperienza storica e per la frequentazione con persiani cultori della pace, delle buone letture, «gente come noi», che i veri «moderati» sono i borghesi e gli studenti: sono loro, in queste giornate terribili, a tener vivo il braciere della protesta. Ma è solo un braciere, poiché a ravvivare la protesta sono giustappunto (relativamente) pochi iraniani. Di più: un movimento come quello che sconvolge un grande Paese indoeuropeo con la sua protesta, con i suoi animatori schiaffati in galera, un movimento così lo spegni solo col sangue. Molto sangue.

Nessuno dei contendenti vuol sopprimere l’antagonista sicché dietro le quinte c’è un grande lavorio di intelligence. Nell’attentato suicida al mausoleo di Khomeini potrebbe esserci la chiave di lettura della crisi che sta massacrando l’Iran. Se gli autori del sacrilego attentato risultassero i «fedayn dell’esterno», quelli scesi subito in campo contro Khomeini, il contestato governo avrebbe spianata la via d’una repressione ad alzo zero per radere al suolo la meglio gioventù di Teheran. Ma chi ha profanato il mausoleo dell’imam? Agenti provocatori, «fedayn dell’esterno» o James Bond che scaldano i muscoli per un blitz punitivo sui siti nucleari dell’Iran?

Dalla natura della risposta dipende il destino d’un Paese antico che ha sempre guardato all’Europa, all’Italia in particolare.
 
da lastampa.it
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