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Autore Discussione: IGOR MAN  (Letto 51378 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Agosto 29, 2008, 07:03:08 pm »

29/8/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I 5 chicchi di Madre Teresa
 
 
IGOR MAN
 
Cristiani perseguitati come duemila anni fa»: così apre la prima pagina Avvenire riferendo della «caccia al cristiano» che da settimane infesta quell’India definita con convinzione «la più grande democrazia del mondo». L’Unione indiana gode d’un multipartitismo non di facciata, la stampa è libera, la magistratura indipendente. Tutte medaglie al «valor democratico» delle quali gli indiani vanno fieri anche se non riescono a dare una «spiegazione logica» all’ondata di violenza che sta massacrando cristiani innocenti, rei di assistere i dalit, i fuori casta. Il massacro dei cristiani non è una «malefica novità»: è il frutto d’una corruzione vasta e coriacea, d’una conduzione spesso mafioso-clientelare della vita politica, «unite alla sostanziale impunità di cui godono le azioni violente delle formazioni estremiste» (cfr V.E. Parsi, Avvenire). A sessant’anni dall’indipendenza la Storia sembra beffarsi della cultura irenica costruita dal genio umanistico di Gandhi poiché a straripare è il fiume limaccioso della violenza assassina: «Movimenti come il Bharatiya janata sono espressione di una cultura nazistoide che predica la falsa equazione “indiani=indù”».

Nella torrida estate del 1965, il Vecchio Cronista ebbe la ventura di incontrare Madre Teresa a Calcutta. Trovare la sua «casa», ritagliata nel tempio della dea Kali - perché Madre Teresa per gli indiani era jivan mukta, liberato/a in questa vita - era facile: tutti i tassisti erano suoi amici; Teresa, al pari di Gandhi, era «nel divino già in vita». Nell’inferno di Calcutta, la Madre che s’affannava appresso a rifiuti da aiutare a morire, nel rispetto della loro religione, si badi (niente proselitismo, «perché fa rima con colonialismo»); appresso a bambini da salvare dalla morte nella spazzatura; appresso a ragazze-madri da sottrarre all’aborto col ferro da calza; lei, Madre Teresa, diceva che «la tragedia più grande per un essere umano è sentirsi spaventosamente solo perché non amato». I relitti umani raccolti on the road li portava nella sua «casa». E colà, lei e le sue sorelle gli davano da bere a quei relitti anonimi, gli facevano i bagnoli, gli sussurravano parole affettuose per aiutarli a trapassare dalla vita senza misericordia all’Aldilà, forse sereno, attraverso il passaggio difficile, ahi quanto, della morte. Per codesta sua «terapia» esclusivamente spirituale Madre Teresa venne spesso attaccata ma non si curò mai di difendersi. Diceva soltanto: «Non sono una santona che fa guarire, cerco solo di far sentire ai poveri più poveri che Dio li ama e Gesù li comprende».

Anche quella remota estate i giornali davano conto di cristiani arsi vivi. Madre Teresa rifiutava d’ascoltare la radio, di leggere i quotidiani. Infine, messa alle strette dal mio collega Egisto Corradi, con un indefinibile sorriso sulle labbra scarne, disse: «I martiri risorgeranno con Gesù: questo so, questo dico». Poi ci portò dai suoi lebbrosi ad applaudire un giocoliere che, ancorché senza più mani, bravissimo, faceva vorticare due piatti.

Dopo una vivace intervista a San Gregorio al Celio, in Roma, scrissi due righe d’augurio a Madre Teresa. Passate le feste, m’arrivò da Calcutta una lettera, l’indirizzo vergato con l’inchiostro verde. Dentro, un rettangolino di carta: «I Cinque chicchi di Riso 1) Il frutto del silenzio è la preghiera. 2) Il frutto della preghiera è la fede. 3) Il frutto della fede è l’amore. 4) Il frutto dell’amore è il servizio. 5) Il frutto del servizio è la pace».
 
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 05, 2008, 03:47:02 pm »

5/9/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Un invito in Italia per Gheddafi
 
 
IGOR MAN
 
Già spiazzati dall’accordo Roma-Tripoli, neocon italiani e foresti, politici in perdita di velocità attaccano l’articolo 4 dell’accordo assumendo ch’esso sia una sorta di patto leonino poiché condannerebbe l’Italia all’immobilismo se la Nato fosse costretta a «punire» un Gheddafi bellicoso. Una nota della Farnesina chiarisce che l’accordo «fa, come ovvio, salvi tutti gli impegni assunti precedentemente dall’Italia». Insomma: «gli impegni Nato non si toccano». Il viaggio della Signora Rice a Tripoli è una sorta di imprimatur a un accordo per molti versi inappuntabile; non poteva essere altrimenti quando a distribuire le carte al «tavolo» è un signore chiamato Gianni Letta, saggio praticante del low profile. Per il Vecchio Cronista che frequenta la Libia da mezzo secolo l’accordo Roma-Tripoli apre un nuovo capitolo nel libro mastro del complicato rapporto con la Jamahirjia libica. Tuttavia.

Tuttavia ci sembra lecito smorzare la legittima soddisfazione governativa. Vediamo. Da 40 anni si dice e si scrive che Gheddafi è un dittatore. Il Colonnello ha inventato la «Terza Teoria» forma e faro della Jamahirjia, il «governo delle masse» del quale Gheddafi sarebbe semplicemente al Qaid, la Guida. Guida, non dittatore. Epperò nel disegnare il «governo delle masse», il Colonnello s’è preoccupato di lasciare ampio margine diremo ideologico-operativo ai Comitati Popolari, piccoli parlamenti disseminati nell’immenso territorio libico. Nell’intenzione di Gheddafi dovrebbero ispirare la Guida. Nel tempo codesti Comitati son diventati una sorta di «coscienza critica» immanente, invadente. Trent’anni fa ero con Enrico Recchi, il non dimenticato costruttore di strade e ponti nel Terzo Mondo e dunque anche in Libia, quando telefonano da Tripoli: «Hanno arrestato il Vescovo Martinelli». Ebbene, dissi a Enrico, chiama Jallud che metta fine a questa cavolata. Ma all’allibito Ingegner Recchi, Jallud (allora potente Numero 2) disse: «Bisogna aver pazienza, i Comitati son difficili da gestire, diamo tempo al tempo». Monsignor Martinelli venne banalmente interrogato durante 11 giorni e infine rilasciato. Ad attenderlo all’uscita dalla «prigione», lui, la Guida, Gheddafi, il beduino dalle sette vite e dalle 700 uniformi.

Il Vecchio Cronista vorrebbe raccomandare a chi di pertinenza di non farsi troppe illusioni. Non nascondiamoci dietro un dito: non ci preoccupa tanto il rifornimento energetico (è un florido capitolo a parte) quanto ci angustia lo sbarco ininterrotto dei clandestini smistati dai porti libici. È la nostra freccia nel fianco. Che i Comitati Popolari possono moltiplicare quando e come vogliono. Il 17 di febbraio di due anni fa, per fermare un «attacco popolare» contro il Consolato d’Italia guidato dai Comitati di Bengasi (provincia ribelle), il Colonnello fu costretto a far sparare l’esercito. Trentuno morti. Fra interviste ufficiali, colloqui informali eccetera, il Vecchio Cronista avrà incontrato il Colonnello almeno otto volte. Gheddafi è soprattutto e soltanto un beduino; «il nemico viene dal mare», lo ammoniva sua madre. Per fugare la fastidiosa, per noi, diffidenza di al Qaid, per farne un interlocutore affidabile, potrebbe funzionare un invito ufficiale in Italia. Amore e odio, questo il sentimento di Gheddafi per l’Italia. Un protocollare invito, magari con tenda piantata nei giardini del Quirinale, non muterebbe il lupo in agnello ma darebbe ai rapporti con l’Italia una valenza seria, pesante, spegnendo gli erratici fuochi dei Comitati Popolari, timonieri dei barconi della morte.

Il libro da comodino di Gheddafi è una biografia di Mitridate.



 
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 28, 2008, 12:09:11 pm »

28/9/2008
 
Vecchie trame contro la pace
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
L’attentato terroristico in un quartiere «sensibile» di Damasco non è il primo, non sarà l’ultimo. Nel febbraio scorso un’autobomba con 200 chilogrammi d’esplosivo uccise Imad Moghaniyah, già direttore della Sicurezza di Hezbollah (il partito di Dio). A lui i servizi occidentali attribuiscono i devastanti attentati che nel 1982 massacrarono, a Beirut, soldati americani e francesi. Per una sorta di riflesso pavloviano i media mediorientali assegnarono la paternità della liquidazione fisica di Moghaniyah al Mossad che «non perdona».

Ma a Damasco una serie di rimpasti nella camera dei bottoni, il licenziamento di personaggi già alla corte del presidente Hafez Assad, il silenzio di giornalisti animosi e tutta una cosiddetta offensiva di charme del giovine presidente (42 anni) Bashar al-Assad, umanizzato da una splendida consorte dai tacchi a spillo, fecero sì che si parlasse della Siria in crisi, divisa al suo interno fra possibilisti ed estremisti. Col tempo s’è avuto modo di verificare che la cacciata dei siriani dal Libano dopo l’uccisione (con autobomba) del presidente Hariri, dopo la guerra lampo contro Hezbollah non proprio egregiamente condotta da Israele, non ha scalfito il potere (ancorché relativo) di Bashar. Costui ha compiuto un gesto invero rivoluzionario, che suo padre non poteva fare e cioè «parlare - di pace - con Israele». Grazie ai buoni uffici del premier turco Erdogan israeliani e siriani discutono, cautamente è vero e indirettamente, però si parlano. E parlano di pace.

Ovviamente un simile accadimento se conforta, diciamo, l’Egitto, fatalmente disturba quello che chiameremo l’islàm oltranzista, «nemico della pace». In forza del comune credo religioso che spiritualmente accomuna gli Alawiti (cioè la Siria), una minoranza islamica minuscola davvero ma autorevole, agli Sciiti, il regime di Teheran ha preso sotto tutela economica (petrolio eccetera) Damasco. Ma va detto subito che il giovine Assad non s’è lasciato stordire né intimidire dall’oltranzismo parolaio del famelico (in politica, beninteso) presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «Finché si parla non si spara», Bashar cita spesso questo aforisma di Churchill e all’omologo persiano che lo esortava a troncare ogni contatto con il nemico (cioè con l’Occidente e con Israele) ha replicato con un apoftegma famoso: «Senza l’Egitto non si può fare la guerra, senza la Siria non si può fare la pace». Il guaio è, osservano i guru di Zamalek, che Ahmadinejad non vuole la pace: «La nostra priorità storica - ha detto una volta ancora a New York - è la cancellazione di Israele dalle mappe». E qui si appalesa la grande madre di tutti i pericoli: vale dire un raid israeliano «preventivo» volto a distruggere i siti nucleari dell’Iran. Proprio due giorni fa, il Guardian ha scritto che in maggio Olmert (in carica allora) chiese il placet di Bush per un blitz di Israele in Iran.

Sempre secondo il Guardian, Bush avrebbe negato qualsiasi copertura, ritenendo l’operazione una «trappola»: a pagare il raid israeliano fatalmente sarebbero stati anche gli Usa che hanno basi un po’ in tutto il Medio Oriente. La precaria esistenza del Libano che faticosamente sta ricucendo («alla pari») il tormentoso rapporto con Damasco - è alle viste un riconoscimento diplomatico - pagherebbe tremendamente l’incursione israeliana (la guerra civile è dietro l’angolo). Ma tranne colpi di scena, sempre possibili in Medio Oriente, quel che Malraux definì «un minestrone ribollente», il mondo potrà tirare il fiato in attesa che l’Oval Room accolga un presidente armato di common sense, giusta la lezione di Tom Paine: «Per essere felice e sicuro un Paese non ha bisogno di eroi bensì di uomini di buon senso». In attesa che questa massima venga applicata per quanto riguarda noi, cittadini d’Europa, vorremmo poter dire agli Americani - ai quali dobbiamo anche la libertà di poterli criticare e, perché no, consigliare - quanto segue: gli Stati Uniti si decidano a coinvolgere la vecchia Europa nel risiko prossimo venturo: voi mettete la potenza, noi l’esperienza.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 10, 2008, 09:40:29 am »

10/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Spike Lee sui trampoli revisionisti
 
IGOR MAN
 

Sfidando complicati acciacchi, uomini e donne che l’anagrafe definisce «vecchi» (non anziani, «vecchi») protestano. Non già per il carovita ma per un film dell’estroso Spike Lee sulla strage di Sant’Anna di Stazzema. I «vecchi» sono i partigiani superstiti. Protestano non soltanto per la manipolazione di quel massacro d’innocenti, ma per questa frase sfuggita al (bravo) regista: «I partigiani? Spesso fuggivano abbandonando la popolazione alla rappresaglia». Interviene, pacato ma fermo, il presidente Napolitano. L’Anp, l’associazione-partigiani, protesta «per il travisamento dei fatti», Spike Lee replica che lui s’è affidato alla versione romanzata della strage scritta dallo sceneggiatore James McBride. Una volta ancora ai «vecchi» combattenti della Libertà tocca ingoiar fiele. Certamente il signor Lee può girare la sceneggiatura che vuole, l’importante, per lui, è che il film sia buono e in fatto lo è.

Questo «ci può stare», ma è quella frase che disturba e ferisce: porta acqua al mulino sporco di una indecente offensiva revisionista volta ad assolvere dei loro tremendi peccati i miliziani di Salò. Vogliono «equiparare» repubblichini e partigiani.

Un partigiano-doc, Giorgio Bocca, uno dei protagonisti della Resistenza in Piemonte, lui, il giornalista senza peli sulla lingua ha amaramente scritto: «I prudenti, i vili, la maggioranza non perdonano alle minoranze di aver avuto coraggio o semplicemente il senso di un dovere civico» (cfr, la Repubblica, 1° ottobre).

Due partigiani storici: il comandante Max (Massimo Rendina) e Aldo Benevelli, il sacerdote torturato dalle SS a Cuneo, sono con Bocca, ovviamente, ma sostengono con serenità come l’attuale revisionismo postfascista teso a diffamare la Resistenza sia il frutto di un’arrogante presunzione: ondeggia sui trampoli dell’ignoranza, non cancella la Storia. Si fa un gran parlare, osservano, di nuovi parametri scolastici, ma la Resistenza non viene trattata «secondo i fatti» bensì in modo che gli scolari non possano apprendere quel che dovrebbero.

Il «Vecchio Cronista», che ha fatto la Resistenza rischiando la sua giovine vita, ricorda quel tempo con orgoglio e tenerezza. Eravamo giovani, avevamo coraggiosamente paura. Ma la paura coraggiosa cedette il passo all’odio quando apprendemmo della strage delle Ardeatine. Furono i salesiani di San Callisto a scoprire, a meno di 24 ore dalla strage, i cadaveri sotto la pozzolana, ammucchiati gli uni sugli altri. Sempre i salesiani riuscirono ad arrangiare la prima lista dei martiri e don Battezzati la posò nella grotta della Madonna, tra l’edera. Fu così che giorno dopo giorno la notizia del massacro invase Roma tutta. Con quella strage i tedeschi e i repubblichini persero la partita. Definitivamente. Roma, la Roma attendista e cinica d’un colpo divenne fiera, una città coraggiosa che prese generosamente ad aiutare i partigiani. Soffrimmo la fame noi partigiani, eravamo braccati dalle SS ma sapevamo, ogni giorno di pena, che sarebbe arrivata la Libertà e la vergogna sarebbe finita e l’immenso disonore. Ma il dolore no. Quello sarebbe rimasto.

L’odio pel nemico foresto e di casa s’è stemperato, certo. È oramai lontano, come lontana è la giovinezza. Tuttavia, oggi Spike Lee o non Spike Lee, sappiamo che allora, quando fummo fanciulli, non avevamo fame soltanto di pane ma soprattutto di Libertà. Sicché, oggi, nel ricordo dei morti di Stazzema, di Cuneo, di Boves, delle Ardeatine, in memoria di tutti i compagni assassinati da un nemico senza Dio, sappiamo, oggi, che potremmo magari rinunciare di nuovo al pane ma non alla Libertà.
 
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 16, 2008, 09:07:25 am »

16/10/2008 - MEDIO ORIENTE
 
Siria-Libano riconciliati per liberarsi di Hezbollah
 
 
IGOR MAN
 
Siria e Libano hanno aperto relazioni diplomatiche. La vulgata vuole che apprendendo di questa o di quella iniziativa araba, Golda Meir immancabilmente si domandasse «dov’è la fregatura?». È troppo difficile rispondere. Possiamo solo constatare che la Siria, cacciata da Beirut a furor di popolo dopo l’assassinio del premier Hariri (assassinio attribuito al Deuxième Bureau damasceno), è uscita dal portone per rientrare dalla finestra. Una finestra destinata a inglobare il portone. Nel senso che sarà facile giustificare il possibile ritorno dei soldati siriani in Libano, sulla spinta delle relazioni diplomatiche.

Qualcuno, a Beirut, parla di «occupazione morganatica» ipotizzando la preoccupazione siriana di far blocco in vista d’una trattativa di pace con Israele. «Senza l’Egitto non si può fare la guerra, senza la Siria non si può fare la pace»: questo, secondo i guru di Zamalekh, il perché del clamoroso accadimento diplomatico. E’ la pace, ovvero il miraggio d’essa, il regista dell’exploit diplomatico. Un conto è andare in ordine sparso a una trattativa che tutti auspicano, altro conto è aprire un tavolo, come suol dirsi, senza la preoccupazione che qualcuno sparigli le carte.

Abbiamo dunque due «interpretazioni» dell’accadimento. Una diremmo «romantica»: il figlio (Bashar) che corona il sogno del padre (Assad) che s’è sempre sentito scippato del Libano. Nell’aprile del 1973, quando ebbi la ventura di intervistarlo, Hafez Assad, lui, la Sfinge di Damasco, mi disse che in Medio Oriente i confini sono le cicatrici della Storia: «Qualcuna non si rimargina mai». C’è, poi, un interrogativo prepotente alla ribalta. Ha un nome fatale: Iran. Non è un mistero che gli Hezbollah - trasferiti nel ‘79 da Khomeini nella vallata della Bekaa «per tener viva la fiamma di Gerusalemme» - siano oggi una valida forza politico-militare, fonte di quotidiana preoccupazione e sul terreno e nelle cancellerie. Quei soldati, telediretti dal regime iraniano, si muovono, a ridosso del Libano, con (preoccupante) mobilità operativa. Se, come da (solenne) comunicato congiunto Siria e Libano dalla gesticolazione passassero ai fatti, vale a dire decidessero di stroncare il montante terrorismo che angustia la Siria colpita nei suoi santuari di intelligence, siamo sicuri che Hezbollah non alzerà paglia?

Il segretario generale dell’Onu, commentando il colpo di scena ha definito «una pietra miliare» la decisione libano-siriana. Incrociamo le dita.
 
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 17, 2008, 10:43:32 am »

17/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Non si diventa giornalisti all'università
 
 
IGOR MAN
 
I giornalisti si dividono in due categorie: quelli che han fatto il Vietnam e gli altri»: ipse dixit quell’incrocio magico (cronista scrittore) che fu Tiziano Terzani. Ricordando Tiziano, un (valoroso) «inviato speciale» lamenta sulla Stampa gli infiniti verboten che un po’ dappertutto impediscono ai giornalisti di fare il proprio mestiere. La guerra del Vietnam l’abbiamo vissuta spalla a spalla con i GI (loro combattevano, noi prendevamo appunti). A Washington non gradivano che in Vietnam i giornalisti ficcassero il naso dovunque. C’era, in particolare, un reporter che «rompeva le scatole»: sto parlando di Peter Arnett. Un giorno, a Saigon, il suo capo (lavorava alla Cbs) gli disse che al Pentagono ce l’avevano con lui. «Ma io racconto quel che vedo», disse Peter. «Appunto». «E allora?». «Continua», disse il capo. In un altro Paese, Peter l’avrebbero licenziato; invece gli aumentarono lo stipendio, lo insignirono del Pulitzer. Altri tempi.

Oggi, se un inviato vuol respirare polvere da sparo, deve rassegnarsi a far l’embedded, il finto soldato, agli ordini d’un sergente. La collega Maggioni nobilmente accettò la sfida ma non poteva riuscirci. Addio Vietnam, dunque, dove sotto i nostri occhi sgomenti vedevamo crescere, giorno dopo giorno, la guerra, con tutti i suoi orrori blasfemi. Va detto tuttavia che durante l’ultima guerra mondiale gli «inviati al fronte» furono tutti militarizzati. Ebbene, ancorché in divisa, Dino Buzzati scrisse corrispondenze invero magistrali. (Ma questo è un altro discorso, non fosse perché di Buzzati ce n’è uno solo). Di più: oggi è in crisi, almeno da noi, in Italia, il mito del giornalista come categoria eletta, neutra, vestale dell’informazione. È in crisi l’identità dell’informazione stessa. E allora il Vecchio Cronista ripete quel che già disse al (valoroso) collega che si sente col braccio legato dietro la schiena. Dissi che bisognerà servirsi del passato (recente) per riconquistare il futuro, cioè il nostro esigente padrone: il lettore. Questo discorso però vale per i «professionisti», ma gli altri, quelli che sognano di diventar giornalisti? Bisognerà tornare all’antico: niente esami paludati ma tanta e poi tanta gavetta. Da «volontario». Ti faranno faticare a spezzaschiena, niente «corte», né vacanze, ma giro degli ospedali, caccia ai disastri, cura dei fatti periferici poiché spesso nascondono «fattacci». È banale dire «ai miei tempi», ma una volta il «volontario», il praticante mangiavano pane e piombo, e le interviste le facevano a tu per tu, non per telefono che le omologa. Suggerisco l’attenta lettura d’un libro senza paragoni. Lo ha firmato un giornalista vero, Ferruccio de Bortoli, si intitola L’informazione che cambia. De Bortoli, che oggi dirige Il Sole-24 Ore, di gavetta ne ha fatta tanta. Il suo libro, severo, aiuta i giovani colleghi a non giuocare l’illusione: non si diventa giornalisti frequentando una delle tante benemerite «università». Non basta il faticato diploma per sentirsi giornalisti. Se non si sta, giorno e notte, al chiodo, si finisce col diventare un (presuntuoso) impiegato della notizia, di quelli che «staccano» quand’è ora.

Ognuno ha la sua trincea, e accade che il mestiere del cronista si ponga a volte come metafora della condizione umana. Sicché vien fatto di pensare, ricordando Ilaria Alpi, e Maria Grazia Cutuli, e il solitario Russo e ancora Guido Puletti, Baldoni, tutti armati solo di taccuino e di biro, di cinepresa (Hrovatin), vien fatto di pensare, dico, che c’è «una qualità della morte», e per assurdo la vita della morte. Nel suo Vangelo Giovanni dice: «Chi ama troppo la vita la perderà. Chi non se ne cura la conserverà in eterno». Come a dire, forse, che la vita prosegue nella morte. Ma per chi ha perduto il suo bene più caro la morte è una dura spina.
 
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:27:01 am »

24/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La suora "eretica" e la prostituta
 
IGOR MAN

 
Madre Teresa (1912-1997), l’abbé Pierre (1912-2007), suor Emmanuelle (1908-2008): i grandi vecchi di Dio se ne vanno. Ognuno di loro è morto come sperava. Madre Teresa di Calcutta in fuga dai funerali di Stato, la minuscola bara passata di mano in mano sino al tempio della Dea Kalì dove i suoi amici indiani avevano ritagliato uno spazio per lei; l’abbé Pierre che dice ai confratelli di non accendere la luce perché «sta arrivando Gesù»; suor Emmanuelle svanita dormendo all’alba dello scorso ottobre, diceva di non temere la morte ma il «prima» (l’agonia) e ogni notte, addormentandosi, «Signore, prendimi nel sonno», pregava. Il Vecchio Cronista ha avuto la ventura di passare una bella serata con lei. Accadde a Palermo nel settembre 2002, dopo la preghiera interreligiosa guidata dalla Comunità (laica) di Sant’Egidio. Nella corte cardinalizia avevano preparato un buon pranzo, Angela ci piazzò al tavolo di suor Emmanuelle. Ogni tanto lei rimaneva con la forchetta a mezz’aria: «Questo buon boccone - bisbigliava,- piacerebbe a Labib, sì a Labib Adli». E chi è Labib? «È l’egiziano che mi ha fatto scoprire gli zabbalín, gli straccivendoli. È lui che mi ha portato a Ezbet el-Nakhl».

In quel luogo non luogo infame dove underdogs in sembianze umane selezionano e riciclano l’immondizia del Cairo, la suora trova «il posto giusto». Per pregare. Nella sua baraccopoli la ragazza-bene che s’è fatta monaca mettendo in crisi l’intera sua famiglia, lei, suor Madeleine Cinquin detta Emmanuelle, arrangia un alloggio saccheggiato dai topi e da tre maiali, col bagno pubblico dietro un cumulo di sterco e monnezza. In quel tempo ha 62 anni, spera di mettere un po’ d’ordine nel letamaio abitato da centomila disgraziati. In quel luogo-non-luogo coabitano islamici cristiani copti, pochi cattolici. Contro le autorità religiose, la suora si ostina a rimanere «a casa mia», come dice. E giorno dopo giorno diventa «una di loro» adoperandosi per dare a chi non ha quel che desidera: il campo di calcio, la scuola, la dignità del lavoro. Ad adottarla sono in primis le donne che grazie a lei scoprono la dignità.

Ma se gli straccivendoli alla fine l’adottano, il rapporto con le autorità religiose rimane difficile: c’è chi l’accusa d’essere «eretica», persino. In fatto suor Emmanuelle è una credente atipica: proclama di rinunciare al proselitismo, nega, fortemente nega che fosse necessario crocefiggere Gesù. E lo scrive ai superiori. «Mi infastidisce - afferma -, l’idea ch’era necessario che Gesù morisse affinché suo padre ci perdonasse. Ma come: Dio ch’è amore senza confini avrebbe avuto bisogno di sacrificare il suo stesso figlio per rimediare ai nostri peccati? Dio coinvolto nell’assassinio di suo figlio, lui che perdona settanta volte sette, vale a dire sempre? Cristo non è morto per far piacere a suo padre, tuttavia non significa ch’egli non sia morto per noi.

Sì, è morto per noi perché si è fatto uno di noi. Ha accettato, per rivelarci ch’era Dio, di morire come noi». Ed è interessante che per dar nerbo al suo discorso, la suora degli straccivendoli citi l’allora cardinale Ratzinger: «Alcuni testi di devozione sembrano suggerire che la giustizia inesorabile abbia preteso un sacrificio umano, il sacrificio del suo stesso figlio. Questa immagine è tanto diffusa quanto fallace» (J. Ratzinger, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Mame 1976).

Congedandoci, chiesi alla suora quale fosse il ricordo suo più bello. «Nel ferragosto del 1967 il caldo si mangiava i polmoni. Avevo sete ma la mia borraccia era sparita. La mia vicina, L., professione meretrice, alzò la stuoia che le faceva da giaciglio e divise con me l’acqua che aveva nascosta.

La bevemmo tutta. Insieme». La suora e la prostituta, lodando San Francesco.
 
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 31, 2008, 02:56:46 pm »

31/10/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
Pietre su Aisha e sul dialogo con l'Islam 
 
IGOR MAN
 

Aisha Ibraim Dhuhulow è stata lapidata perché «colpevole di fornicazione». Aveva ventitre anni, fino all’ultimo ha gridato la sua innocenza. È accaduto a Chisimaio, porto bananiero a Sud-Ovest di Mogadiscio, l’antica terra dei Bagiuni. Tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, Aisha è stata ficcata sino al collo in una buca per poi essere lapidata. «Sdegno» ha espresso L’Osservatore Romano, denunciando il supplizio di Chisimaio, ma già da ieri Aisha è passata nelle «brevi» mentre, pragmaticamente c’è chi sostiene che il dialogo cristiani-islamici va continuato.

Quelli che hanno mandato a morte la giovine adultera sono i miliziani delle deposte «Corti islamiche», battute col concorso dell’esercito etiopico. Codesti miliziani sono la versione somala dei talebani: ignoranti e dunque facili da manipolare, essi hanno fatto della Somalia, di Mogadiscio in particolare, una sorta di ascesso di fissazione del terrorismo islamista. E quella che fu una torrida ma cordiale città africana altro non sarebbe, oggi, se non la centrale periferica di al Qaeda.

Prima che il mondo democratico abbandonasse la Somalia al suo orrendo destino, il Vecchio Cronista fu più volte in quel Paese, sotto la Croce del Sud. A sera il suono lungo delle campane, la voce del muezzin, il sorriso delle ragazze altere nelle loro fute variopinte, erano una sorta di benefica flebo intrisa di speranza. Siad Barre, il dittatore detto «bocca larga», lui credeva nel «dialogo» cristiani-musulmani.

Non sono poche le consonanze fra cristianesimo e islàm, molte sure del Corano riecheggiano gli Atti degli Apostoli, le cronache degli Evangelisti. Di più: il Corano esalta la verginità feconda di Maria, riconosce in Gesù il santo profeta figlio di Dio. Però qui cala la prima mannaia. Eccola nelle parole di Raimondo Lullo evangelizzatore cristocentrico del XIII secolo: «I saracini credono che nostro Signore Gesù è figlio di Dio ma non credono ch’egli sia Dio». Per il cristiano Dio si è rivelato allorché il tempo fu compiuto manifestandosi nella persona di Cristo Gesù redentore dell’umanità. Per l’islàm Dio rivela la sua parola (al Quran) ma non se stesso. Rimane inaccessibile. L’unica mediazione fra Dio e l’uomo è il Corano. Maometto è solo un Profeta. Santo ma solamente uomo. Ed ecco la seconda mannaia: la sharia. È quell’insieme di regole e disposizioni di legge in forza delle quali i vari califfi venuti dopo Maometto hanno affermato il proprio potere. La sharia è un corpus legislativo che istruisce l’esercizio della quotidianità. Prescrive, fra l’altro, il taglio della mano per il ladro, la lapidazione per gli adulteri. Non pochi ulema ammettono il dogmatico anacronismo della sharia ma poiché essa attinge alla fonte divina (la Sunna, gli hadith: i detti del Profeta) è intoccabile. Certo, dicono gli ulema «modernisti», talune disposizioni andrebbero abrogate. Tuttavia occorrerebbero testi idonei, cioè appartenenti al Corano, alla Sunna. Ma poiché il Profeta è morto «sia la Rivelazione sia la Sunna sono cessate: sicché la sharia è immodificabile».

Non confonderemo mai la sharia con l’islàm che predica la tolleranza. Attribuire a Maometto certe leggi crudeli, fuori del tempo presente come la lapidazione di Aisha sarebbe lo stesso che addossare a Gesù i misfatti della (santa) inquisizione. Ma la sharia attribuisce all’islàm valore di (unica) verità oggettiva. Che fare, dunque? Allah alam, Dio solo lo sa.
 
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 14, 2008, 05:18:04 pm »

14/11/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
La Casa Bianca aspetta Forrest Gump
 
IGOR MAN
 

I l Vecchio Cronista che ha cominciato a frequentare gli Stati Uniti dall’estate del 1950 ricorda due fatti davvero emblematici. Subito dopo l’assassinio di Kennedy, il direttore de La Stampa (l’irripetibile Giulio De Benedetti) mi spedì nel profondo Sud. Erano in pochi a piangere Camelot. A Little Rock intervistai il governatore Faubus, quello che impediva agli scolari neri di entrare nella scuola dei bianchi. Disse: «Se la son voluta, troppa spocchia. Han tutto, come gli studenti bianchi. Segregazionismo?, balle». A Buckingham (Alabama) un giorno presi posto al tavolo che mi avevano assegnato al ristorante dell’albergo. In attesa del maître mi immersi nella lettura di Ebony, rotocalco patinato fatto e letto da neri. Finito di leggere m’accorsi ch’era trascorsa mezz’ora buona sicché feci cenno al maître. Venne strascicando i piedi ostentatamente. «Vorrei ordinare il lunch», dissi. «Temo che dovrà servirsi del room-service», rispose. «E perché mai?». «Semplice, signore: leggendo davanti a tutti quella rivista di negri, “per” negri, lei ha provocato il personale che qui grazie a Dio è tutto bianco». S’inchinò, se ne andò.

A Jackson (Mississippi) quella comunità protestante aveva vietato l’ingresso nei templi ai sacerdoti neri. Per scrupolo professionale decisi di verificare l’ukase, di più: pregai un sacerdote nero di accompagnarmi, sempreché se la sentisse. Se la sentiva, andammo con mezza città appresso. Si accedeva alla chiesa scalando una erta gradinata di falso marmo di Carrara. Sulla soglia del tempio troneggiava il Pastore, ricco commerciante di tessuti. «Alt», disse il Pastore al prete nero. «Lei, fratello, non può entrare».

Perché? «Perché è la nostra chiesa, questa. Costruita col nostro denaro, una chiesa solo per noi, bianchi. La persona che l’accompagna può entrare e pregare con noi perché è bianco come noi», sillabò il Pastore. Feci per voltargli le spalle e andarmene ma il prete nero mi pregò di rimanere. Assistetti alla messa per soli bianchi. Tutta sopra le righe, una sorta di macumba saccheggiata dall’odore ruffiano della cera.

Sessant’anni dopo, il razzismo agonizza: un nero, lui, Barack Hussein Obama, entra nella Casa Bianca. Ha vinto l’America del cinema, della penicillina, del jazz, del petting, dell’atomica; della ricerca, della danza sulla Luna e delle stramberie. Ha vinto l’America del common sense, sorgente del pragmatismo di Dewey. Ma l’elezione del primo Presidente nero della Storia americana è soprattutto la consacrazione del melting pot calato nei fatti. Che a sua volta ha liftato i connotati d’un grande Paese-Continente usurati da un’improvvida guerra postcoloniale. Il vincitore è un metronomo umano che ha saputo crescere e agire da americano. I suoi compagni di scuola ci dicono che Barack era un ragazzino timido, a volte confuso. Oggi egli, semplicemente, con la sua ispirata voce da gospel, dice: «Mi sono fatto crescendo. E crescendo ho sperimentato che tutti gli americani hanno le stesse opportunità. Basta crederci». (Senza malizia: avete presente Forrest Gump?).

La Grande Nazione che ha distrutto il nazismo offre a chiunque almeno un’opportunità nella vita, ma per farcela, per rompere il guscio duro dell’anonimato occorre passare attraverso la cruna la più stretta. Il nuovo Presidente è approdato alla cattedra universitaria e persino al Senato passando, ostinatamente, per la cruna più ardua. Una cosa è cambiare idea, un’altra è capire «come fare» per convincersi che «si può fare». Vedremo se il giovine Presidente riuscirà a trovare gli strumenti adatti per concretizzare uno slogan felice: «Si può fare».
 
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:40:21 am »

21/11/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I teatranti del quarto potere
 
 
 
 
 
IGOR MAN
 
Eravamo giornalisti»: è il titolo d’un lungo articolo apparso sull’Unità del 14 di novembre del 1996. L’articolo, firmato Gabriel García Márquez, il grande scrittore che si ostina a dichiararsi «giornalista», è tratto dal País (tradotto da Nuccio Ciconte). Come a chiosare la rubrica in cui il Vecchio Cronista scriveva che giornalisti non si diventa all’Università, il lettore Salvatore Marino mi invia il ritaglio (illustrato dalle foto di Indro Montanelli e di Ezio Mauro) tracciando un gran punto interrogativo col pennarello.

Della stampa una volta si diceva ch’era il Quarto Potere. Oggi non lo siamo più ma abbiamo sempre il potere di fare del bene o del male. Nel primo caso riferendo i fatti così come sono; nel secondo torturando i fatti per trarne la «morale» voluta. «Lo scoop ad ogni costo, giovani cronisti divorati da un’ansia di protagonismo, reporter che registrano conversazioni casuali senza avvertire l’interlocutore, redazioni inutilmente numerose dove non viene più insegnato il mestiere». Una cinquantina d’anni fa in Italia non esistevano le scuole di giornalismo. Si imparava nelle redazioni, in tipografia, nel baretto di fronte. Il giornale era una fabbrica di informazione e di formazione. C’erano riti importanti, noi giornalisti stavamo il più possibile sempre insieme: ogni giornale una comunità coi giovani ad ascoltare i vecchi e i vecchi a insegnare ai giovani. Oggi, spesso, l’unica preoccupazione di chi fa il giornale è solo quella d’avere le stesse notizie degli altri mentre è dimostrato che se l’esclusiva costa è anche vero che distingue il tuo giornale dagli altri. E sulla lunga distanza ciò paga.

La prima guerra del Golfo sembrò segnare l’apoteosi dei media, in particolare della tv pervenuta a una sorta di magica perfezione tecnica. La seconda guerra del Golfo, tuttavia, è una museruola a una macchina che si voleva perfetta (Alain Woodrow). Che codesta macchina avesse preso a ingripparsi cominciammo ad accorgercene nel dicembre del 1989. Allora tutti i media avevano mostrato descritto raccontato (e visto...) in Romania una rivolta popolare in quello che fu invece un golpe di palazzo. Avevano raccontato un massacro che non ci fu mai. Non pochi giornali, suggestionati dalla tv, corressero i servizi degli inviati facendo dir loro ciò che non era accaduto: la strage di Timisoara. Le cui (false) immagini allagarono il mondo.

Il fatto è che la tv non è fatta per produrre informazione; la tv, come ha ben scritto Ignacio Ramonet, «riproduce degli avvenimenti» e si propone semplicemente non già di farci comprendere una data situazione ma di farci assistere a un accadimento. Non è poco ma non è abbastanza e, poi, è «scivoloso», come usa dire.

Davanti a un’ informazione che tale non è, che parossisticamente segue la logica dello spettacolo, la gente comincia ad individuare i pericoli della «informazione-teatro». La gente comincia a capire che fra la comunicazione e l’informazione la differenza è enorme. Il giornalista non deve più contentarsi d’informare; deve anche comunicare. Nel suo C’est la faute aux media, Yves Mamou scrive che «informare è dire alla gente “questo fatto è importante”. Comunicare è dire alla gente: “Quest’accadimento è importante: PER VOI”». La verità vera, e sgradevole, è la comunicazione come la praticano coloro che non la considerano un lavoro giornalistico. Ora, se si vuole una corretta informazione, bisogna far sì che fra chi trasmette il messaggio e chi lo riceve ci siano i giornali quotidiani a far da passaggio obbligato, da snodo. Il compito del giornalista vero, faticatore, non è quello di trasmettere messaggi, bensì quello di fornire notizie.

 
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 28, 2008, 05:54:38 pm »

28/11/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
I misteri delle patrie galere
 
IGOR MAN
 

«È una strage», dice Angiolo Marroni. Non si riferisce a Mumbai bensì all’Italia. Meglio: alle carceri italiane. A spingerlo a parlar di «strage» è Emiliano L., 35 anni, morto in cella nel carcere di Viterbo. Un «decesso misterioso» che ha spinto la Procura ad aprire un fascicolo «contro ignoti». Angiolo Marroni è il «garante regionale» dei detenuti. Una funzione certamente nobile, nelle intenzioni. Un pannicello caldo, nei fatti. Vediamo.

Il ministro della Giustizia, Alfano, lo ricorderete, ha proposto di affrontare con realismo e un minimo di pietas l’annoso problema-carceri. Spicca nella bozza del suo ddl la «messa in prova». E cioè: sotto la soglia d’un reato che non superi i 4 anni, si può, se incensurati, scontare la pena fuori dal carcere. Il ddl è parente stretto della probation anglosassone. Ha il pregio di «costringere» chi ha errato a danno del prossimo a cercare una sorta di riabilitazione sociale nel lavoro: sia di concetto, sia manuale. Di più: può in qualche misura sfollare le carceri che letteralmente scoppiano. La popolazione carceraria italiana è in «travolgente crescita»: mille detenuti ogni mese. Abbiamo nelle patrie galere 58.426 carcerati a fronte d’una capienza di 42.562. Se il trend è questo, e lo è, nella prossima primavera «verrà superato il limite (tollerabile) di 63 mila detenuti».

La probation è congegnata dall’avvocato Ghedini che tuttavia è visto come un giurista sol preoccupato di evitare leggi che possano «disturbare qualcuno». C’è, poi, a insidiare la probation la «fissa» della Lega che la vede alla stregua di un «favore» agli extracomunitari. Il ministro Maroni, anch’egli contrario, ha tirato fuori l’oramai decrepito «problema delle carceri»: occorre un piano edilizio, le carceri scoppiano, eccetera. Anche per La Russa: prima le carceri, poi il resto. Sono pressappoco 60 anni che il Vecchio Cronista sente parlare di carceri da costruire e da ristrutturare. Molte chiacchiere, niente fatti. La settimana scorsa in Palazzo Chigi-bis (la residenza di Berlusconi) il premier ha convocato gli «addetti ai lavori» per discutere del ddl di Alfano. Sappiamo di un intervento cristianamente audace, politicamente lucido di Gianni Letta che potremmo paragonare a una bilancia coi giusti pesi; ci auguriamo che quando questo scritto uscirà, il governo sia evaso dal tunnel.

Al tempo di Tangentopoli il Vecchio Cronista percorse San Vittore dalle 7 del mattino alle 7 della sera. Una ricognizione che mi ha lasciato, dentro, una cicatrice complicata. «Noi responsabili delle carceri - mi disse Pagano, il direttore - insistiamo da anni sulla necessità d’una profonda riforma che sia anche edilizia. Un recluso, innocente o colpevole che sia, è innanzitutto un essere umano ma la civiltà dei consumi se ne accorge solo quando scoppia la rituale sommossa. È ingiusto, incauto comportarsi così». Abito da 57 anni nella vecchia Roma, a un passo da Regina Coeli e sono 57 anni che sento e leggo della sua «prossima» chiusura: per farne addirittura un hotel di lusso. Ma la vecchia galera è sempre lì. Fu costruita nel 1881, ha celle simili a sepolcreti: 17 mattonelle per otto. In tanto angusto spazio che contiene la tazza del cesso, stanno in media due persone.

«Drento Regina Coeli c’è ‘na campana / possi morì ammazzato chi la sona / La sona ‘n boiaccia de carne umana». Così cantano i carcerati e le loro voci arrivano al Gianicolo, dove bivaccano i famigliari dei prigionieri. I parenti affidano al vento richiami e messaggi. È una tradizione che non s’arrende, un rito amaro, non senza solennità.
 
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 05, 2008, 09:43:19 am »

5/12/2008 - IL VECCHIO CRONISTA 
 
Su Mumbai il turbante di Khomeini
 
IGOR MAN

 
La strage di Bombay è passata in pagina interna ma non son pochi i lettori che continuano a interrogarsi e interrogano il Vecchio Cronista. Anticipiamo l’avvenire andando su Marte ma facciamo della Terra un mattatoio? domanda il signor Pietro Lamanna (Chieti). Vediamo. Il terrorismo nichilista («mi uccido per uccidere») è il frutto di una cinica manipolazione del Corano, che si vuole sia stato dettato da Allah al profeta Maometto per il tramite dell’Arcangelo Gabriele. È Khomeini, l’imam che ha spodestato lo Scià Reza Pahlevi con la sua rivoluzione a mani nude, a «inventare» codesta bomba umana.

Intervistato ad hoc in quanto insigne giuresperito, Khomeini afferma che sì il Corano condanna il suicidio. Ma chi si uccide per ammazzare il nemico è degno di «amore e rispetto» e dunque meritevole del Paradiso. L’imam cava dal suo logoro turbante la terribile carta quando l’Iran deve affrontare l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, inopinatamente promosso, dagli Usa, alleato (scomodo ma valido). Un esercito raccogliticcio, quello persiano, contiene l’offensiva irachena, non solo: riesce a insidiare Bassora, città chiave del conflitto. Gli iracheni lamentano tuttavia la mancanza di sminatori sicché gli tocca segnare il passo. Qui il colpo di teatro: Khomeini arruola i bambini. Li veste di bianco con la benda del sacrificio in fronte, li manda, scalzi, a bonificare i campi minati. Saltando per aria con le mine.

Come a prevenire lo stupore e lo sdegno del mondo, Khomeini riempie i giornali delle fotografie degli impuberi «martiri», pubblica lettere esaltate dei genitori dei piccoli i cui parenti il governo colmerà di benefit. Nonostante il sacrificio dei bimbi-martiri, Khomeini subirà il cessate il fuoco dell’Onu. Da quel momento il vecchio gufo di Javaran varerà l’insegnamento del «martirio» spedendo pasdaran un po’ dappertutto nel mondo. La tattica operativa del terrorismo attuale risale presumibilmente ai dettati dell’organizzazione russa Narodnaya Volya (1878-1881): colpire nel mucchio «per uccidere sbalordendo». Anteriore ai russi assassini dello zar Alessandro II, la leggenda del Grande Vecchio della Montagna, capo della setta degli «assassini»: si vuole che fossero ismailiti venuti dalla Persia in Siria nel secolo undecimo: uccidevano anch’essi «per sbalordire». Epperò non si uccidevano per uccidere. Dopo la liberazione di Saigon, il generale Giap disse che «il terrorismo serve ma non risolve». In ogni caso i terroristi andavano classificati come «commandos speciali», non eroi. Così i tre vietcong terroristi, già considerati eroi, rimasero senza medaglia.

Da sempre il terrorismo viene considerato arma «non eroica». L’Agenzia ebraica e Ben Gurion condannarono con sdegno la strage di Deir Yassin (9 aprile 1948), opera dell’Irgun e del Lehi: 250 palestinesi massacrati e gettati nei pozzi o lasciati marcire all’aperto.

Il «salto di qualità» si ha con Khomeini, fonte, l’imam, d’un turpe contagio. Khomeini «spiega» che suicidarsi non è peccato mortale quando si uccide il nemico infedele. Non necessariamente, dunque, i terroristi-suicidi (vedi i replicanti di Bombay) sono tutti persone senza più nulla da perdere come la maggior parte dei «martiri» palestinesi nati e cresciuti in quelle fogne che chiamiamo «campi». E allora? Nel nuovo disordine che ci angustia dopo lo stupro delle Torri Gemelle, riesce difficile immaginare che il terrorismo-suicida più non colpisca. Ma come tutte le cose terrene, finirà. Mai nella storia la contestazione terroristica è diventata istituzione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 19, 2008, 07:10:25 pm »

19/12/2008 - IL VECCHIO CRONISTA
 
A New York con Marilyn in cucina
 
 
IGOR MAN
 
La «Città del Sole» accende di luci e colori un angolo severo di Roma: San Luigi de’ Francesi. La «Città del Sole» non ha nulla da spartire con l’utopia di Tommaso Campanella: è un negozio. Di giocattoli. Scagli la prima trottola chi non è mai entrato in un negozio di giocattoli. Nel ricordo del Vecchio Cronista i bambini guardavano incantati il trenino, si scambiavano pareri sul triciclo rossoferrari. Ammiravano, commentavano ma non toccavano i regali vigilati da commessi arcigni. Nel dicembre 1963 chi scrive si trovava a New York, sulla via di casa, dopo aver «coperto» l’assassinio di Kennedy. Rimaneva da fare una spedizione da Macy’s a caccia di regali per il figlio (allora) bambino.

Il quinto piano del mitico supermarket era un braciere di luci, Babbo Natale dappertutto, carole natalizie a pieno volume. In fondo rotolava sulla moquette un groviglio di bambini che simulavano mischie di rugby. Altri menavano fendenti con mazze da baseball o demolivano una fiabesca casa di Topolino. Abituato ai composti bambini italiani, turbato dalla vulcanicità di quelli americani, ne parlai a Misha Stille, sempre generoso nello spiegare agli «inviati» l’America. Scaravoltando il reparto toys, i ragazzini prendevano confidenza coi giocattoli, se li godevano tutti. Prima o poi, sorrise Misha, anche gli europei avrebbero fatto dei giocattoli un veicolo di conoscenza. E così è, lo vediamo nei negozi: i bimbi sembrano felici, tutti i regali gli appartengono.

Andando su e giù con l’ascensore della memoria, ricordo la New York frequentata dal 17 luglio 1950. Al 14 di Central Park South abitava un italiano singolare, Renzo Nissim. La sua casa aveva un bel pianoforte sul quale lui e Oscar de Mejo improvvisavano jazz. L’uscio era sempre aperto: una volta Prezzolini cucinò gli spaghetti. Una sera venne Faulkner. Non pronunciò motto, bevve. Tre fiaschi di Chianti. Cholly Knicherbocker mi prenotava sempre l’Algonquin, l’albergo di Scott Fitzgerald, di Hemingway. Fu lì che mi presentarono a J.F.K. quand’era senatore-candidato. Tutta la sera in piedi, poggiato a una colonna di cartongesso: «È a causa della schiena», spiegò. La guerra gli aveva sfondato la schiena, lo tormentavano inestinguibili dolori. Il giorno in cui Franco Occhiuzzi (amico straordinario) mi portò a casa di Marilyn Monroe, la trovammo che faceva i suffumigi in cucina come una ragazza di campagna.

Grande Mela, antico amore. All’angolo di 57 Strade con Broadway un violinista mai stanco suonava rapinosamente laRapsodia in blu. Vai da Tiffany, comperi una robina da 15 dollari e ti ringraziano come se avessi acquistato un monile miliardario. Una sera guardavo un quadro di Pollock nel suo studio e lui mi disse: «Non guardar troppo, ti perderesti». Compresi che New York è un soave labirinto che può sboccare nella felicità. In America arrivano momenti amari e tuttavia la gente non sembra aver perduto la speranza. E da noi, nella nostra incasinata e cara Italia? La Confcommercio ci regala una notizia buona: l’esercito dei consumatori sembra aver varcato il Rubicone, non si ferma alle vetrine, appare deciso a conquistare un friggico di Natale; insomma, si torna ad acquistare e non importa se il regalo è piccolo. Certo non bastano a rasserenarci del tutto i bimbi che sminuzzano i regali, le commesse che acquistano il pulloverino di finto cachemire. Babbo Natale non basta ma, col Vecchio Cronista, facciamo un sforzo: sorridiamo. Non è facile, lo so, ma può aiutare quel che disse un giorno Giovanni Paolo II: «In un viale senza uscite, l’uscita si trova nel viale stesso».
 
da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 28, 2008, 11:51:52 am »

27/12/2008
 
Il quarto dei magi che ritardando giunse in anticipo
 
IGOR MAN
 

E’ nato il bambino ch’è già nato. Un bambino povero, senza giocattoli, una mangiatoia per culla. È nato nel buio della povertà ma subito ha sparso luce perché gli uomini sapessero dove andare e chi adorare. Tanto tempo è passato da quel momentum ma «sembra ieri» e da allora anno dopo anno si rinnova il mistero chiamato Gesù.

Un miracolo non più idilliaco, difficile da rinnovare; un miracolo antico e tuttavia presente. «La novità vera è Gesù, contemporaneo ad ogni epoca», ipse dixit Giovanni Paolo II al Vecchio Cronista allorché questi fu ricevuto nell’appartamento pontificio il 9 di dicembre del 2001. Era prevista una udienza di routine ma papa Wojtyla, inopinatamente, mi dedicò mezza mattinata. Nel lontano 1949 avevo incontrato Padre Pio, lungamente. E Giovanni Paolo II, insaziabile, mi interrogava sul cappuccino che di lì a poco avrebbe fatto santo. In quella inobliabile occasione parlammo dell’islàm nella prospettiva del «dialogo» che secondo il Papa avrebbe potuto trovare una sorta di «paziente scorciatoia» nella preghiera interreligiosa, dal Papa stesso affidata all’«Onu di Trastevere», cioè alla Comunità (laica) di Sant’Egidio. Ogni anno, cristiani, ebrei e islamici si radunano in una capitale del mondo per riflettere e ragionare sulle religioni monoteiste. Chiude la «tre giorni» la preghiera interreligiosa: si prega fisicamente insieme; ognuno a suo modo, spiritualmente. Il Papa parlava sommesso ma la sua voce si fece alta e forte quando ricordò l’Epifania: «Il racconto dei Magi può, in un certo senso, indicarci una rotta spirituale - disse -: i Magi furono in qualche modo i primi missionari. L’incontro col Cristo non li bloccò a Betlemme ma li spinse nuovamente per le strade del mondo». Giovanni Paolo II, l’ho già scritto, fa pensare al «quarto» dei Magi. Mia madre, russa ortodossa, mi raccontava la incredibile storia, appunto, del «quarto».

Si chiamava Artaban ed era un persiano zoroastriano. Comparsa la stella cometa, si mette in viaggio per raggiungere gli altri tre. A poche ore dall’appuntamento, Artaban si imbatte in un ebreo terribilmente ferito. Soccorre il moribondo, questi guarisce e lo ringrazia rivelandogli che il Messia sarebbe nato a Betlemme. Mancato l’appuntamento con Gaspar, Melkior e Balthasar, il «quarto» vende una delle pietre preziose destinate al Bambinello e allestisce una nuova carovana. Arriva a Betlemme ma in piena strage degli innocenti. Con un rubino salva dalla morte un bimbo corrompendo i centurioni che stavano per sgozzarlo. Passano gli anni e il vecchio Artaban conserva gelosamente l’ultimo suo tesoro: una rarissima perla. Con essa, un giorno doloroso, il «quarto» spera di salvare il Messia dalla crocefissione. Ma sul Golgota un ragazzo lo implora di riscattarlo dalla schiavitù romana e il vecchio re sapiente sacrifica l’ultimo suo bene: la perla. In quel preciso momento «egli si avvede d’essere stato ammesso, per primo, alla presenza del re tanto atteso e cercato, quello vero: Gesù». Qui è stato facile a chi scrive identificare, se così può dirsi, il quarto dei Magi in Giovanni Paolo II.

C’è infatti una morale in questa storia, una morale luminosa come la grotta in cui nasce Gesù di Nazareth. Eccola: Artaban è giunto in ritardo a Betlemme ma è arrivato in anticipo sulla Pasqua di Resurrezione. Tutto muta ma nulla è cambiato e allora diremo, credenti e laici, che Gesù non è solamente dalla parte del Mistero di Dio di fronte all’uomo, ma altresì dalla parte dell’uomo di fronte al Mistero di Dio.
 
da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 28, 2008, 12:02:15 pm »

28/12/2008
 
L'assenza degli Usa
 
IGOR MAN
 

Sul carnaio di Gaza si scontrano, intrecciandosi, parole inquietanti come avvoltoi. «Questa aggressione ci dà il diritto di replica. Tutte le opzioni sono aperte: missili, operazioni suicide».

Eancora: «Tutte le armi possibili saranno puntate sul nemico. I prossimi giorni saranno testimoni della nostra risposta a questo nuovo olocausto»: così, alla tv al Jazira, un portavoce di Hamas, Fawzi Ibrahim. Niente affatto bombastiche ma dure, pesate una ad una, le dichiarazioni di Shimon Peres, lo storico presidente di Israele, già compagno di Rabin in quell’illusorio porto di pace che fu Camp David. «Non abbiamo nessuna intenzione di entrare a Gaza. Vi sono altri mezzi per centrare gli obiettivi. Non abbiamo sgomberato Gaza per farvi ritorno», ha scandito Peres, aggiungendo: «Il problema è che Hamas vuol fare in Cisgiordania il bis di Gaza, un vero e proprio golpe. Senza il colpo di mano di Hamas, al suo posto ci sarebbe oggi uno Stato di Palestina. E’ tutto ciò che preoccupa gli israeliani: Israele ha combattuto sette guerre contro gli arabi. Ora basta». In una giornata fosca che ha seminato morti perloppiù innocenti, i commenti di stampa e tv in Israele sono improntati alla cautela, tesi a tranquillizzare una opinione pubblica che con antica dignità non dà sfogo aperto alla preoccupazione; nel suo intimo ogni israeliano paventa il peggio: una nuova guerra.

Al fermo ma non allarmato discorso di Peres, fa eco sinistra quanto detto dal ministro della Difesa, l’implacabile Ehud Barak al quale si attribuisce da tempo un «piano» per sgominare Hamas. «C’è un tempo per la calma - c’è un tempo per la guerra», ha detto ieri ai giornalisti parafrasando l’Ecclesiaste. Ora è il momento per combattere, ma il blitz «non sarà facile né breve». Quella che Barak ha battezzato «operazione piombo fuso» ha riproposto un logoro copione ch’è, poi, una ennesima parafrasi del déjà-vu in Medio Oriente, dal 1948 a oggi. Con varianti significative. Mosca ritiene «necessario» fermare le operazioni su Gaza, e fin qui siamo nella routine diplomatica che nei riguardi di Hamas suona così: «Invitiamo (nello stesso tempo) la dirigenza di Hamas a cessare i lanci di razzi contro il territorio israeliano». Dalle dichiarazioni del Cairo traspira invece una forte irritazione che investe Israele ma altresì Hamas. Secondo copione, un po’ tutti i raiss deplorano, invitano, auspicano eccetera: da segnalare l’apertura di Refa, voluta da Mubarak, volta a consentire il ricovero dei feriti in Egitto. (Le vittime dell’«operazione piombo fuso» sarebbero finora più di duecento).

Ma l’attenzione dei guru di Zamalek è concentrata sulle dichiarazioni del portavoce Usa. Costui ha chiesto (come riferiscono le agenzie di stampa) a Israele di «evitare a Gaza vittime fra i civili». Washington ha chiesto ad Hamas di interrompere il lancio di missili Qassam contro Israele, «se vuole giuocare un ruolo nel futuro del popolo palestinese». Ma non ha chiesto, la Casa Bianca, ad Israele di interrompere il raid aereo le cui vittime, fatalmente, sono le donne, i bambini. Si vuole che il presidente Mubarak abbia voluto chiedere (a chi di dovere) di interrompere «le rovinose incursioni aeree». In altri tempi, osservano sempre al Cairo, gli Stati Uniti avrebbero condannato con forza un blitz che in fatto anziché i provocatori di Hamas uccide, vuoi o non vuoi, degli innocenti. Ora la domanda è questa: chi è in grado di spegnere il braciere mediorientale?

Una volta, non appena gli Stati Uniti mandavano una (modesta) motosilurante di fronte alle coste del Libano o nel Golfo, tutti i riottosi si fermavano: urlavano maledizioni, minacciavano sfracelli ma non si muovevano. E questo perché gli Stati Uniti facevano paura. Dopo la perdurante guerra in Iraq, e dopo le trappole afghane, oggi insomma, l’America non sembra più all’altezza di svolgere l’antico ruolo di severo paciere. Oggi gli Usa spediscono flotte intere nel Golfo, minacciano punizioni, gridano persino, ma nessuno sembra badar loro. Il Medio Oriente, insomma, mostra di non aver più paura degli Stati Uniti. E questo oltre che amaro è scoraggiante.
 
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