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Autore Discussione: Sarkozy-Merkel: schiaffo a Berlusconi  (Letto 10196 volte)
Admin
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« inserito:: Luglio 29, 2007, 06:57:31 pm »

29/7/2007
 
Sarkò, un falso mito
 
Barbara Spinelli
   
 
 
Un politico che sa decidere senza esitare, senza farsi influenzare, senza perder tempo: appena eletto presidente, Nicolas Sarkozy s’è trasformato in un’attrazione europea. Affascina le destre, per certi suoi principi molto ostentati e per la non comune flessibilità che li mitiga. Sa esser duro quando occorre, intrattabile quando conviene, e se è opportunista sa imbellire il vizio chiamandolo pragmatismo. Anche le sinistre sono sedotte, per la spregiudicatezza con cui ha cooptato nel governo innumerevoli personalità socialiste o le ha proposte a cariche internazionali. La sarkomania è fenomeno non solo francese ma europeo, e specialmente italiano. Stanchi della propria storia recente, gli europei bramano in casa propria una persona simile: un politico che sappia il fatto suo, un uomo forte. Chi lamenta la fiacchezza del potere politico scopre che quello imperioso è possibile. A sinistra c’è chi sogna di emulare l’astuzia trasgressiva del Presidente, senza interessarsi un granché al suo programma. Walter Veltroni, subito dopo la sua vittoria, ha auspicato una sinistra governativa allargata ad avversari come Gianni Letta.

È un entusiasmo che riflette i tempi che viviamo. Gli Stati europei appaiono così deboli e lenti agli occhi dell’opinione pubblica, quando tocca far riforme o agire all’estero. Non pochi sembrano privi di quello stile spesso vanesio ma luccicante che Blair ha inaugurato, presentandolo come reazione alla stanchezza europea di fare storia. Sembrano ingombrati da poteri più robusti di loro: poteri sindacali o partitici nazionali; poteri europei o internazionali. Sarkozy scavalca tali poteri, pur corteggiandoli ogni tanto, con una strategia che va analizzata per capirne successi e pericoli.

L’uomo è forte anche perché sovente prevarica, sovente ignora abiti europei di lealtà: riempiendo dei vuoti, certo, ma con un’arroganza che potrebbe rivelarsi alla lunga sterile e addirittura distruttiva.

E’ forte perché restaura l’immagine d’una nazione perentoria, capace di fabbricare da sola gli eventi. Tutto quel che ha fatto sinora, in Europa, tende a questo: la rivalutazione dell’ammaccato stato-nazione. In economia come in diplomazia, vuol mostrare che con voce grossa e volontà si può ottenere tutto, compreso l’impossibile: si può ottenere quell’Europa francese che tanti suoi predecessori fantasticarono, turbando per decenni i rapporti franco-tedeschi. Si può sfuggire a un’Europa sospettata di appropriarsi di sovranità nazionali che sarebbero intatte, se statisti succubi non le avessero balordamente trasferite. La bugia è grossa, ma ci son bugie che scintillano. Questo vale per la politica economica e monetaria, per i vincoli di solidarietà scritti e non scritti: la rupture di Sarkozy è per molti versi ritorno a sogni di ieri.

Il conflitto con la Banca Centrale europea è tappa essenziale di questa strategia. Sarkozy contesta la sua indipendenza - fissata per legge a Maastricht - su tassi di cambio e d’interesse. Senza badare all’importanza che tale indipendenza ha per la Germania, nonché alle esigenze dei partner (l’euro forte non nuoce la competitività tedesca, e anche in Italia c’è chi, come Luigi Abete, sostiene che la moneta forte ha accelerato lo svecchiamento industriale), il nuovo Presidente difende un’unione economica-monetaria al servizio delle scelte francesi, non di Eurolandia. In fondo agisce come all’epoca cui gli Stati svalutavano a seconda di loro particolari bisogni: l’Eliseo vuol ottenere lo stesso, oggi, con una moneta che appartiene a 13 Paesi.

Chi ammira la rottura di Sarkozy deve sapere che rottura è anche questo: rottura con regole e bisogni sovrannazionali, se l’interesse particolare lo consiglia. Modello e stile sono inglesi, solo che Parigi abita Eurolandia e pesa su un’area più vasta. L’irritazione in Germania cresce. In un editoriale sulla Frankfurter Allgemeine dell’11 luglio, Patrick Welter si domanda se i tedeschi «avrebbero rinunciato al marco, qualora l’unione monetaria fosse nata dalle idee di Sarkozy». Ancora più esplicito, il 13 luglio sullo stesso giornale, il presidente della fondazione Ludwig Erhard Hans Barbier: può darsi che quella francese sia mera retorica attivistica, ma la risposta va data «senza cortesia né compromessi». «Se l’indipendenza della Banca centrale non si salva, la Germania deve lasciare la zona euro». L’uomo forte non è necessariamente un innovatore; anche un nazionalista può sedurre, che presenta il vecchio come nuovo.

Da questo punto di vista Sarkozy somiglia a Mitterrand, pur proponendo misure più realistiche tra cui il superamento delle 35 ore. Anche Mitterrand pensava - quando vinse nell’81 - di poter fare da sé, con volontà e grandeur. Imbrigliato nel Sistema Monetario Europeo di Giscard e Schmidt, volle sbrigliarsi con politiche economiche e sociali eterodosse. Per più di un anno indebitò lo Stato, tre volte svalutò il franco. La svolta europeista avvenne nell’83, sollecitata dal premier Mauroy e dal ministro dell’economia Delors.

Le misure di Sarkozy non sono le stesse: son mutati i tempi, le mode economiche. Ma la sua vasta riduzione delle tasse comporta costi non meno alti per lo Stato. I tedeschi calcolano che gli alleggerimenti fiscali costeranno all’erario francese 10-11 miliardi di euro nel 2008, e 13,6 miliardi l’anno a partire dal 2009. È il motivo per cui l’Eliseo ha chiesto di poter ritardare l’adempimento degli obblighi del Patto di stabilità, ottenendo fiducia ma seminando disappunto diffuso. Naturalmente le cose potrebbero cambiare: anche Sarkozy potrebbe un giorno ripensarci, e riconoscere che Parigi non è sola né onnipotente in Europa.

Su alcuni punti tuttavia i personaggi divergono. Mitterrand divenne subito un modello negativo in Europa, mentre Sarkozy no (il socialista Felipe Gonzalez andò al potere nell’82 promettendo di non imitare l’Eliseo). Al tempo stesso Sarkozy è gollista, ha più familiarità col nazionalismo. Nel mezzo d’una offensiva anticapitalista, Mitterrand appoggiò gli euromissili Nato - al Parlamento tedesco nel gennaio ‘83 - sfidando le sinistre di molti Paesi. Sarkozy non si sente in dovere di compensare l’unilateralismo aprendo su altri fronti. La sua popolarità è impastata di un nazionalismo senza gravitas, e tanto più focoso.

Proviamo a immaginare un uomo così in Germania: un politico che rompa per la seconda volta con il Patto di stabilità, senz’alcun rimorso. Che torni a fondere politica e moneta. Che abbia fieramente espulso dai trattati il principio cardine della concorrenza libera e non distorta. Che difenda il protezionismo industriale. Non solo: immaginiamo uno statista a Berlino che polemizzi astiosamente con la politica della memoria, del pentimento, come Sarkozy sta facendo in Francia. Si comincerebbe a diffidare dei tedeschi isolazionisti, in Europa sarebbe naufragio. Con una Germania sarkozista non avremmo avuto, al vertice di giugno, un risultato deludente ma non mortifero per l’Unione.

Questo significa che se l’Europa sopravvive, come orizzonte o vecchio rimorso, lo si deve oggi a un solo Paese: la Germania. È quel che sostiene Antonio Puri Purini, ambasciatore a Berlino e già consigliere di Ciampi, sul Sole 24 Ore del 14 luglio: «È bene serrare le file fra i Paesi più europeisti come Italia e Germania per impedire ulteriori smottamenti del progetto europeo», scrive. Smottamenti ominosi, perché al vertice che ha affossato la Costituzione è restata fuori dalla porta, «avvolta da un velo di ipocrisia», «la consapevolezza che, senza unione, saremmo costretti a subire le decisioni o le imposizioni di altri».

La Germania resiste, ma chi può escludere che anche lì appaia un uomo forte, un neo-nazionalista tedesco? Già oggi Berlino è stizzita: per il modo in cui Parigi si assicura la presidenza di un numero anomalo di istituzioni internazionali (l’efficacissimo Blitz per Strauss-Kahn al Fondo Monetario è stato uno stravolgimento della concertazione). Per gli attacchi a Trichet, all’euro. Per la maniera in cui Sarkozy si vanta del successo in Libia, nonostante la liberazione delle infermiere bulgare sia stata ottenuta da sforzi paralleli tedeschi, inglesi, italiani. La fornitura di centrali nucleari a Gheddafi, rischiosa per la proliferazione (oltre a imminenti accordi bilaterali con la russa Gazprom) ha trasformato l’irritazione tedesca in collera.

La Francia non sarebbe migliore se avesse vinto Ségolène Royal. Starebbe probabilmente peggio. Ma Sarkozy non ha messo fine alle spropositate, cocciute illusioni del Paese che ha inventato l’Europa e al tempo stesso l’ha bloccata: le ha anzi dilatate, profittando del vento che accarezza, oggi, quel nervoso appetito di homines novi che assimila l’uomo forte all’uomo nazionalista, l’uomo brillante all’uomo responsabile. Forse il Presidente si ravvederà, come Mitterrand. Ma le patologie francesi non sono finite. Siamo in piena illusione, e l’Europa intera ne patisce.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Agosto 25, 2008, 12:50:58 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 08, 2007, 05:12:02 pm »

Sarkozy, lo stile conquista aspettando la politica

Gianni Marsilli


Più che una presidenza, è un capogiro. Non si era neanche spenta l’eco della liberazione degli ostaggi bulgari in mano a Gheddafi, ed ecco spuntare la strepitosa ipotesi, per quanto non confermata, che anche il calvario di Ingrid Betancourt stia per finire. Ogni giorno sui giornali di tutto il mondo compare una foto di lui, l’onnipresente presidente, anzi l’onnipresidente, come l’ha chiamato François Hollande che voleva prenderlo per i fondelli ma gli ha creato invece nuova popolarità: a cavallo di uno scooter sulle acque del lago Winnepesaukee nel New Hampshire, a torso nudo mentre se ne va a pesca, in costume mentre se la prende con due fotografi.

Non è neanche esclusa una visita a Bush, che 80 km da lì possiede una residenza: amano ambedue pedalare, potrebbero farlo insieme. George non ha nulla da perdere a farsi vedere in giro con il successore di quella bestia nera di Chirac, Nicolas ha tutto da guadagnarci, tanto tra poco più di un anno di Bush resterà solo l’amaro ricordo. A pensarci bene, le vacanze estive della famiglia Sarkozy sono la vera rivoluzione culturale della nuova presidenza. I francesi erano abituati a ben altro stile. Jacques Chirac sulla francesissima spiaggia di Fort Bregançon agghindato come un turista nordico al supermercato: bermuda, mocassini e terrificanti calzini corti. Ma familiare, un vicino come un altro, il roulottista della porta accanto. François Mitterrand all’ombra dei platani della sua tenuta di Latche, nella Charente-Maritime, panama bianco in testa e tra le mani un libro, mentre annusa la brezza atlantica che ne rinfresca i pomeriggi di campagna profonda (in verità a Latche non ci stava molto, piuttosto a Gordes da Anne Pingeot e la piccola Mazarine, ma all’epoca era un segreto di Stato). E prima ancora il pur mondano e moderno Giscard d’Estaing, che in agosto aveva cura di non muoversi dal suolo vulcanico del suo Auvergne, e di bere volentieri un bicchiere con gli indigeni, con la noncuranza e gli abiti del «gentleman farmer». Per non parlare dell’intimità di Colombey-deux-Eglises, dove il Generale si ritirava a vergare le sue memorie, o per appisolarsi un momento, le mani intrecciate sul ventre da notaio. Profondissima vecchia e douce France, agostana e sonnolenta, mosche e rosé, autarchica nella pratica vacanziera.

Lui no, lui se ne è andato in America. «Come 900mila miei compatrioti fanno ogni anno», ha replicato risentito a chi s’interrogava sull’opportunità di soggiornare in un posto, di proprietà di un ex «executive» di Microsoft, che costa 20mila dollari la settimana. Ecco, il tempo di un agosto e tutti i suoi predecessori sembrano consegnati ad una storia antica e quasi dimenticata. E nel contempo sono serviti anche gli antiamericani in servizio permanente, che in Francia abbondano particolarmente, a sinistra come a destra: dagli «amerloques» si può portare la famiglia in vacanza, e buonanotte alle partite di «petanque», alle spiagge bretoni o alla lucente Costa Azzurra. La cosa non è leggera come sembra: lavorerà il Paese in modo subliminale, ne scuoterà le abitudini divenute provinciali. Lo sta già facendo, se i sondaggi agostani, per quel che valgono, regalano a Sarkozy livelli di popolarità ai vertici, 60-70%.

E poi c’è lei, Cecilia-D’Artagnan. È andata a Tripoli, l’aspettano a Caracas. Come il moschettiere, è donna da missioni speciali: l’infido Gheddafi, forse il tonitruante Chavez. Il suo ruolo non ha ancora contorni definiti, né del resto potrebbe averli. L’organigramma dell’Eliseo non prevede l’esistenza di un(a) coniuge del capo dello Stato. Una dimenticanza istituzionale che indignò Bernadette Chirac: «Ma il presidente non è vedovo!», esclamò nel ’95, quando divenne «la première dame de France» e scoprì che tra lei e un soprammobile non c’era alcuna differenza. Anche per Cecilia è utile un rapido raffronto con il passato. Yvonne de Gaulle vegliò sulle cucine e sulla polvere dei mobili, o così si crede. Danielle Mitterrand cercò un ruolo fuori dal Palazzo: creò una specie di Ong, France-Libertés, fece della causa curda la sua causa e di Fidel il suo amico, ma qualcuno vegliava sempre che i suoi passi non intralciassero quelli del Quai d’Orsay. Bernadette Chirac si ritagliò un altro genere di spazi: nella beneficenza, ma molto concreta, quasi imprenditoriale, e nel lavorio parapolitico, ma sempre franco-francese. Cecilia no, Cecilia vola qua e là per il mondo. Gheddafi voleva un «contatto diretto» con Sarkozy, ed eccola a Tripoli ad incarnarlo. Certo, si porta dietro l’ombra di un contratto di forniture militari, l’installazione di fabbriche di armamenti e l’export del notevole know-how francese in materia. Ma il risultato della sua missione è lì, fuori dall’ombra: medici e infermiere bulgare sono a casa, restituiti al loro Paese e ai loro affetti. Tutto lascia pensare che con le Farc colombiane la faccenda sarà più spinosa, ma intanto si spera, e la speranza porta il nome, più o meno abusivo che sia, di Cecilia.

Insomma, a due mesi dall’incoronazione, lo stato di grazia, o luna di miele, sembra perdurare per Nicolas Sarkozy. Ha imposto il suo stile, e il suo stile piace. Gli americani guardano a lui con nuovo interesse, gli europei con speranza, gli italiani con invidia. Da noi si sprecano le invocazioni per «un Sarkozy della destra» o «della sinistra», a scelta. Il suo stile politico è finora post-partitico. Ha imbarcato fior di socialisti, ha spedito Dominique Strauss Kahn al Fondo monetario. Ha irritato i vertici del Ps, ma anche i suoi, dell’Ump, perplessi se non incazzati davanti al suo ecumenismo presidenziale. Ma siamo, fino ad ora, sul terreno dello stile, appunto. Che ai tempi nostri è molto, ma non è ancora tutto. Sarkozy ha abbracciato più volte Angela Merkel, sempre con il suo stile irruente e affettivo, ma in verità le relazioni tra Parigi e Berlino si sono fatte malmostose. Non piace ai tedeschi l’insistenza di Sarkozy per un orientamento più politico della Banca centrale europea, non piace il suo adoperarsi per un euro più debole, in modo da favorire l’export francese. Noi, dicono, abbiamo la stessa moneta, e il nostro export vola alto come un falco. Non piace, a Berlino e in particolare alla Spd, che per liberare i bulgari si sia scomodata Eads, consorzio franco-tedesco, e che ai libici si siano offerte armi e soprattutto competenza militare. Non piace, a Berlino, la foga con la quale Sarkozy si oppone tuttora all’adesione della Turchia all’Ue: su questo tema i negoziati e gli equilibri interni alla Grande Coalizione sono delicati, fragili. Dovessero saltare, salterebbe il governo. Visto da Berlino, Sarkozy è al momento un sorvegliato speciale. E non solo da Berlino: non piace a tutti la sua insistenza per allentare i criteri del Patto di stabilità, la sua voglia di far correre debito e deficit. Piace in Francia, perché evoca l’idea di uno Stato grande e generoso, ma certo non a Bruxelles.

Anche a Parigi c’è molta gente che affila i coltelli in vista della rentrèe di settembre. Non tanto i socialisti, paralizzati dalla sconfitta e in attesa di un passo falso del presidente che li rilanci in orbita. Piuttosto gli studenti, qualora Sarkozy (o meglio il governo Fillon, che però assomiglia sempre di più ad un gabinetto presidenziale) dovesse riformare l’università in senso meritocratico. Naturalmente i sindacati, qualora la legge sul servizio minimo e sulle modalità degli scioperi dovesse limitarne l’influenza. E anche il mondo imprenditoriale, felice della sua elezione ma ancora in attesa di verificarne le scelte in materia di mercato del lavoro e di privatizzazioni. Che succederà, per esempio, quando tra pochi mesi la liberalizzazione dei servizi postali sarà una realtà europea? Di quale fibra farà mostra Sarkozy, di autentico liberale o di protezionista e colbertista? Non ci sono segnali in proposito. Non si sa se gli studenti o i postelegrafonici avranno a che fare con il sostanziale immobilismo che fu di Chirac e di Mitterrand o con un vero e tenace rinnovamento. L’ombra dello scontro sociale ha sempre fatto indietreggiare i predecessori di Sarkozy. E lui, cosa farà? Perché lì, quando si tratterà di metter mano al corpaccione nazionale, non sarà più questione di stile, ma di scelte concrete. Allora ne sapremo di più.

Pubblicato il: 08.08.07
Modificato il: 08.08.07 alle ore 10.00   
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 21, 2007, 10:53:36 pm »

ESTERI

Il presidente francese si dice favorevole alle cure mediche per i condannati, anche dopo aver scontato la pena

Mercoledì scorso a Roubaix un plurirecidivo appena scarcerato aveva violentato un bimbo di 5 anni

La ricetta anti-pedofili di Sarkozy: "Ci vuole la castrazione chimica"

 
PARIGI - Non ha paura delle parole, Nicolas Sarkozy, soprattutto se ai francesi ha promesso in primo luogo sicurezza, e se in questo caso a essere insicuri sono i soggetti più deboli, i bambini. Allora, di fronte a un problema come quello della pedofilia non esita a parlare di cure mediche e a evocare addirittura la castrazione chimica.

L'annuncio della guerra alla pedofilia è avvenuto in pieno "stile sarkozista". Prima il presidente della Repubblica ha ricevuto all'Eliseo il padre del piccolo Enis, 5 anni, rimasto vittima mercoledì scorso di un pedofilo, plurirecidivo e appena scarcerato grazie a un abbrevio della pena. Poi ha riunito i ministri di Giustizia, Sanità e Interno. Infine, davanti alla stampa, ha dettato le nuove, dure, misure nella lotta alla pedofilia, misure che saranno pronte per il prossimo novembre. In primo luogo, per i condannati non sarà possibile alcun sconto di pena. Alla fine della loro detenzione, i pedofili, se ritenuti ancora pericolosi, dovranno andare in un "ospedale chiuso" per farsi curare. Quelli che lo vorranno, verranno sottoposti a un trattamento ormonale, ossia alla castrazione chimica. L'apertura del primo "ospedale chiuso per pedofili" è prevista per il 2009, a Lione.

Al rientro dalle discusse vacanze americane, Sarkozy ha scelto quindi di puntare su un tema tutto interno, con un intervento destinato a rassicurare un Paese ancora scosso dal dramma di Roubaix, dove una settimana fa un pedofilo plurirecidivo, Francis Evrard, 61 anni, ha rapito e violentato in un garage un bambino di 5 anni. La polemica è divampata perché Evrard era uscito lo scorso 2 luglio da un carcere, dove era stato rinchiuso per 18 anni, dopo essere stato condannato a 27 anni per aggressioni sessuali nei confronti di minorenni.

A rendere ancora più clamoroso il caso ci ha pensato oggi un medico del carcere di Caen, che ha riconosciuto di aver prescritto del Viagra a Evrard, perché sosteneva di avere "disturbi di erezione". Il medico si difende affermando di non "aver avuto accesso al dossier giudiziario" dell'uomo. Il padre del bambino non usa mezzi termini: "Se il medico gli ha prescritto il Viagra, bisognerà metterelo in prigione, perchè ha alimentato una bestia".

E così Sarkozy ha indossato i panni dello sceriffo. Ha promesso "leggi severe" e ha detto che "predatori come Evrard non possono restare in libertà".
Insomma, l'avere scontato interamente la pena non garantirà l'uscita dal carcere. A fine detenzione, il pedofilo dovrà essere esaminato da un collegio di medici. Se questi riconosceranno la sua pericolosità sociale, andrà in un ospedale chiuso, per essere curato.

La ricetta del presidente è chiara. "Quelli che non accetteranno di essere curati - ha detto Sarkozy - resteranno nell'ospedale chiuso per tutto il tempo che i medici decideranno. Quelli che accetteranno potranno avere dei permessi per uscire, ma lo faranno portando un braccialetto elettronico, seguendo un trattamento ormonale". L'inquilino dell'Eliseo, sfidando il politicamente corretto, ha invitato tutti a non essere timidi con il linguaggio: "Chiamatela pure castrazione chimica, le parole non mi fanno paura".

(20 agosto 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 26, 2007, 12:12:11 am »

25 agosto 2007

 Sarkozy chiama Monti e chiede alla Bce di evitare una stretta

Ciclone Sarkozy, fresco dei primi cento giorni al potere, il presidente francese continua a cercare modi per stupire e rompere gli schemi. Per esempio, chiama due italiani a dargli consigli su come rilanciare l'economia: l'ex ministro Franco Bassanini, padre della riforma della pubblica amministrazione, e l'economista, Mario Monti, ex commissario europeo alla Concorrenza, rettore - e poi presidente - della Bocconi. Non solo. Sempre sul versante economico il nuovo inquilino dell'Eliseo ha messo nel mirino la Bce, santuario delle istituzioni finanziarie europee, mandando chiari segnali circa la necessità di ridurre i tassi di interesse, anziché aumentarli ancora di un quarto punto il 6 settembre, per non limitare l'accesso ai prestiti a famiglie e piccole e medie imprese. Insomma, la stretta creditizia, secondo la Francia, sarebbe una iattura. Parole dette in consiglio dei ministri e riferite alla stampa. Una mossa irrituale, che ha irritato i vertici dell'Eurotower.

Ma è sul fronte interno che Sarkò si sta muovendo a tutto campo: dalle riforme fiscali, alle nomine nella pubblica amministrazione, alla programmazione economica, alla giustizia. Un attivismo che ha pochi precedenti. Monti e Bassanini faranno parte della commissione del governo francese, presieduta da Jacques Attali, che dal 30 agosto avrà il compito di studiare delle soluzioni «pragmatiche» per «liberare» la crescita economica. Sette gli esperti stranieri. Oltre ai due italiani ci sarà anche, fra gli altri, la spagnola Ana Palacio, ex ministro degli esteri nel governo Aznar. E anvcora: Pehr Gyllenhamar, ex presidente di Volvo, a Peter Brabeck, patron del gigante alimentare Nestlé, da economisti come Philippe Aghion (Harvard) e Jean Philippe Cotis, a editorialisti come Yves de Kerdrel (Le Figaro) ed Eric Le Boucher (Le Monde).

Il presidente francese è riuscito a varare anche una riforma fiscale che prevede di raddoppiare dal 20 al 40% le detrazioni sugli interessi dei mutui ipotecari nel primo anno. Lo sgravio fa parte del pacchetto legislativo su lavoro, occupazione e potere d'acquisto che ha defiscalizzato gli straordinari e abolito patrimoniale e diritti di succesisone. Una sferzata che dovrebbe garantire un punto di Pil in più alla crescita asfittica dell'economia francese. Sul versante della pubblica amministrazione il presidente ha anche chiesto ai suoi ministri più fantasia e innovazione nelle nomine dei dirigenti della Pubblica amministrazione, mentre in fatto di giustizia è tornato ad essere il Sarkò che abbiamo sempre conosciuto, quelle delle maniere forti durante la rivolta parigina delle banlieues, chiedendo al ministro della giustizia, Rachida Dati, di processare anche chi commette crimini in stato d'infermità mentale. (Al.An.)

da ilsole24ore.com

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« Risposta #4 inserito:: Settembre 05, 2007, 04:38:21 pm »

5/9/2007 (8:4)

"Il mio round con Gheddafi"
 
Cécilia diserta la commissione parlamentare sulla sua missione in Libia.

Ma si confessa ad un giornale: «Ho fatto solo il mio dovere»

DOMENICO QUIRICO


PARIGI
La aspettano, ansiosamente, alla commissione di indagine parlamentare sulla liberazione (o baratto) dei cinque bulgari prigionieri del colonnello Gheddafi. Niente da fare, non ci andrà. L’hanno ritrovata sul giornale: non le grandi testate nazionali, ma il regionalissimo «Est Républicain». Scelta anche questa indice di dispettosa stravaganza. Forse hanno ragione quelli che dicono che nella Francia del terzo impero, quello di suo marito, c’è una sola persona in grado di disobbedire all’assolutismo: è lei, Cécilia.

Sarkozy lo sa benissimo: «La persona che farà parlare mia moglie se lei non vuole non è ancora nata!». Figuriamoci gli sgarbatissimi e curiosi parlamentari.

Cécilia, nella sinfonia plaudente e omogeneizzatrice che avvinghia già il Paese, rischia di essere l’unica nota provvidenzialmente stonata, il capo di una imprevedibile opposizione domestica. Promessa già quando non si era scomodata a votare suo marito nel secondo turno. L’etichetta la infastidisce: c’è in programma un pomeriggio davanti al barbecue dei Bush? Resta a casa: raffreddore, è la modesta scusa ufficiale. Accontentatevi. Ai rinfreschi per le prime signore del vertice del G8 l’hanno attesa invano. Dopo un giorno era tornata a casa.

Stuzzicante il modo in cui in Francia camuffa questo andamento selvatico: signori, è la «modernità» del ruolo. Lo stesso presidente, sempre decisissimo, si scopre incerto al fianco della consorte, diviso tra tentazioni diverse: ne ha distillato goccia a goccia il propagandistico trionfo libico, «il lavoro rimarchevole e straordionario», poi però ha telefonato a Le Monde intimando di «non parlare di sua moglie».

La première dame de France, anche se non lo ammette e fa la distratta ha ambizioni, come ha provato la sua perfetta incarnazione in angelo salvatore nella missione libica. Come ha ribadito ieri nella intervista-spiegazione, con accenti di umanitarismo planetario: «Non mi impediranno mai di cercare di alleviare la miseria del mondo, in qualsiasi Paese si trovi». Lascia perfino intravede un ritorno a Tripoli «se sarà necessario».

E’ il manifesto programmatico di quel «ruolo» su cui tutta la Francia, compreso suo marito, affannosamente si interroga da tre mesi. Allora, cosa vuol fare Cécilia? Si direbbe che non le interessi tanto il modello Jackie Kennedy, icona dello stile, semmai è tentata dall’avanzare sui sentieri umanitari di Lady D. «Non ho voluto in Libia giocare un ruolo da prima donna. Per tutta la vita ho aiutato coloro che soffrono, non cambio certo adesso... Io non ho ruoli particolari, ciascuno ha il dovere di ingaggiarsi quando lo ritiene necessario, l’ho fatto con cuore e determinazione».

Poi però Cécilia ha descritto con minuzia che non era a Tripoli come crocerossina decorativa. Ascoltate: «Io e Gheddafi abbiamo parlato in inglese, faccia a faccia, senza interpreti. Penso che abbia capito che con me poteva fare un gesto umanitario capace di migliorare la sua immagine. Ma non ho discusso soltanto con lui, ho negoziato per cinquanta ore con tutti i dirigenti libici che erano coinvolti nella vicenda». La curiosità dei parlamentari sui dettagli della vicenda degli ostaggi bulgari ne è uscita sicuramente ingigantita. Peccato che non possano soddisfarla.

Cécilia esibisce un rimarchevole «mestiere» politico. Come dimostra la sottigliezza con cui si è divincolata dal sospetto che a convincere il disincantato Colonello non siano state le sue parole, ma le armi e la centrale atomica fornite dalla Francia con un successivo viaggio-business di Nicolas Sarkozy: «Al mio livello, non ci sono state contropartite se non di tipo medico». Già, «al mio livello», il che non esclude che ce ne siano altri.

Davanti alla commissione non andrà, ha ribadito: «Non è il mio posto. Peraltro voglio chiarire il mio ruolo ed è per questo che ho rilasciato questa intervista». Punto e basta. In perfetto dolce stile nuovo, dove più che il diritto costituzionale conta quello mediatico. E pensare che per giustificare questo assenteismo un po’ prepotente all’Eliseo hanno inventato incredibili teorie costituzionali; ad esempio, che il principio della separazione dei poteri che copre il presidente si estende, si potrebbe dire per ragioni di vicinanza, anche alla moglie. Tesi contro cui urta il fatto che il segretario generale dell’Eliseo, Claude Guéant, pure lui a Tripoli, in nome della proclamata trasparenza, andrà a testimoniare.

A Cécilia questi arzigoggoli da legulei certamente dispiacciono. Deve aver dettato di persona il comunicato ufficiale diffuso sulla vicenda: «Cécilia Sarkozy non ha da rendere conto a nessuno». E’ la frase che più le assomiglia.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 03, 2007, 10:42:44 pm »

La scuola corta di Sarko: lusso per soli ricchi

Marina Boscaino


La media delle ore di lezione frequentate da un alunno delle scuole primarie in Europa è di 800. Per adeguarsi a tale numero, dal prossimo anno i bambini francesi vedranno decurtato di circa 100 ore (da 958 a 864) il monte ore annuale; in Italia siamo a quota 980. La scelta del governo Sarkozy di mandare a scuola i propri bambini 4 giorni a settimana su 7 ha scatenato interventi e discussioni, spesso improntati a letture (e interessi) divergenti. Sorprende (per modo di dire) ad esempio, il giudizio di Attilio Oliva - presidente di «TreeLLLe» e gran consigliere di Confindustria per l’istruzione - che, dopo aver insistito sul precocismo dei bambini italiani (quanti danni sono stati già fatti, ahimé, proprio in nome e con la lusinga del precocismo, lusinga alla quale pochi genitori sanno resistere quando si tratta dei propri figli) plaude all’iniziativa; ma la ritiene impraticabile nel nostro paese, dove «i sindacati pensano a una scuola per gli insegnanti, non per gli studenti». Che modo di pensare ai bambini è, però, quello che li tiene lontani dalla scuola 3 giorni su 7? Ferme restando le diverse forme di assistenza a disposizione dei francesi rispetto a noi italiani, è evidente che Oliva, da par suo, pensa ai rappresentanti di quella generazione di piccoli presi in carico da pazienti baby sitter extracomunitarie o da mamme a tempo pieno (per scelta, non per mancanza di lavoro o per lavoro interinale o precariato cronico); un esercito pronto ad assecondare ogni fantasia e a organizzare proposte degne della più eccitante Valtour, tra una lezione di Taekwondo, piuttosto che di danza moderna; tra un corso di viola da gamba e un brunch (qui a Roma, nei quartieri bene, usa molto; così, per far stare insieme i bambini e fare quattro chiacchiere tra amici).

Felipe, un carissimo amico di mio figlio, filippino, ha 12 anni. La mamma - una donna piena di dignità e di sorrisi - lavora a ore, alternandosi tra le ville di un quartiere alto borghese. Il padre è a Londra, con un lavoro umilissimo che raramente gli consente di raggiungere la famiglia. Felipe fa parte di quel 27% di bambini italiani che frequenta il tempo pieno. Quando finisce la scuola, la mamma lo va a prendere e lo porta con sé per concludere i suoi turni di lavoro; e così fa il sabato. Felipe fa parte, inoltre, di quell’enorme numero - crescente di anno in anno e ora straripante nelle scuole medie - di nuovi piccoli italiani, che hanno trovato nella scuola il luogo dell’accoglienza, della cittadinanza, dell’intercultura, specialmente al Nord, dove il fenomeno è più diffuso.

Ma - al di là del pur doveroso riferimento all’eterogenea realtà che ormai caratterizza il nostro Paese, nonché alla sua drammatica mancanza di luoghi alternativi alla scuola per l’intrattenimento, seppur ludico, dei bambini - l’iniziativa francese lascia perplessi perché fa ragionare sull’idea di scuola che essa configura: un luogo di costrizione che riflette una cattiva pedagogia, che - quella sì - rischia di non tenere in sufficiente conto i tempi dei bambini, la loro necessità di ritmi distesi. E, d’altro canto, ignora completamente alcune fondamentali pratiche sulle quali la moderna pedagogia e la migliore scuola si è esercitata negli ultimi anni: lì dove apprendimento cooperativo, compresenze, attività laboratoriali, pluridisciplinarità rendono la scuola - là dove funzionano - un luogo di crescita reale e di rispetto profondo delle persone che i bambini sono e saranno. Evadendo dalla trasmissione reiterata, datata e diseducativa di contenuti che in quel tipo di trasmissione perdono la loro importanza fondante (il richiamo alle tabelline e ai nomi dei fiumi, in questo senso, è sin troppo facile).

Nessuna divaricazione è più odiosa di quella portata avanti ai danni dei più piccoli, dei più giovani: il sistema alla francese suggellerebbe in maniera ancor più definitiva nel nostro Paese - nella sua immaturità sociale, nella sua ancora arretrata consapevolezza rispetto al ruolo e alla funzione della scolarizzazione di massa - la differenza tra chi può e chi non può. Chi può, ad aumentare elitariamente le possibilità (a pagamento) che il mercato fornisce copiose; chi non può ad abbrutirsi davanti alle Tv, desiderando (ma non potendo ottenere) le offerte che quel mercato stesso propina in maniera suggestiva soprattutto ai più piccoli, ai più indifesi. O alimentando velleità di cosce lunghe, successi immeritati, cialtronerie acritiche e diffuse. E sottraendo ulteriormente alla scuola un ruolo che ancora, credo, possa e debba rivendicare a pieno titolo: quello di luogo dell’accoglienza, delle pari opportunità, della crescita della capacità critica. Dove l’aumento della quantità - delle ore, degli insegnanti - con un investimento culturale oltre che economico diventi realmente crescita e rispetto verso chi ha il diritto di vivere in un ambiente in cui la propria, eventuale marginalità - così come la propria, eventuale integrazione - sociale, economica, religiosa, culturale possano trovare cura, sollecitudine, impegno da parte di personale qualificato, formato adeguatamente e pagato dignitosamente. E - mi si perdoni la malizia - al diavolo ogni tentazione di risparmio sulla scuola, sugli insegnanti e - soprattutto - sui bambini italiani.

Pubblicato il: 03.10.07
Modificato il: 03.10.07 alle ore 8.39   
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 30, 2007, 06:05:24 pm »

INTERVISTA AL PRESIDENTE

«Vado avanti, la Francia deve cambiare»

Nicolas Sarkozy: «È necessario attuare un programma coerente di riforme»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
 
 
PARIGI — Signor Presidente, con quale stato d'animo e con quali obiettivi affronta il suo primo vertice italo-francese? E quali sono i suoi sentimenti nei confronti di un paese che lei conosce molto bene?
«Amo l'Italia. Per me, è sinonimo di bellezza, cultura, dinamismo economico, una società in cui il genio creativo si esprime come in nessun altro luogo al mondo. A mio parere, l'Italia è senza dubbio il paese più vicino alla Francia. Non dimentico che è uno dei fondatori della nostra Unione Europea. L'idea che ho dell'Italia è pertanto quella di una grande potenza europea e mediterranea, di un partner essenziale per la Francia».
«Le numerose dimostrazioni di interesse nei confronti del mio operato che mi arrivano dall'Italia mi toccano in modo particolare. Sono, a mio parere, un'ulteriore testimonianza — ove ve ne fosse bisogno — della profondità e dell'intensità dei legami che uniscono i nostri paesi».
«La mia ambizione per il Vertice di Nizza è di portare le relazioni tra i nostri paesi al più alto livello di cooperazione possibile, perché è nel nostro comune interesse e perché è determinante per il futuro dell'Europa».
«È con questo atteggiamento molto costruttivo che mi preparo all'incontro con il mio amico Romano Prodi. Ci consulteremo, naturalmente, sui principali argomenti dell'attualità europea e internazionale ma vogliamo anche approfittare di questo vertice per dare un nuovo slancio alle relazioni italo-francesi adottando decisioni concrete: per lavorare congiuntamente ad un'autentica politica comune in materia di immigrazione, per spingere l'acceleratore sulla nostra cooperazione economica, in particolare nel settore dell'energia, così importante in Europa e per i nostri rispettivi paesi, ma anche in quello dei trasporti, della lotta alle contraffazioni, della cooperazione spaziale, per agire insieme a favore del rilancio dell'Europa della difesa, che costituirà uno dei punti importanti della prima riunione del Consiglio italo- francese di difesa. Ascolteremo inoltre con grande interesse la voce della società civile, espressa attraverso i due co-presidenti del Forum italo-francese della società civile, Antoine Bernheim e Pasquale Pistorio, che ci esporranno le loro riflessioni e le loro proposte riguardo al futuro del Mediterraneo».

Lei ha proposto la creazione dell'Unione del Mediterraneo. Alla vigilia del vertice italo-francese, e nella prospettiva di questo progetto, quale ruolo possono svolgere i nostri due paesi?
«Sono convinto che l'Unione del Mediterraneo si farà soltanto a condizione che ciascuno dei paesi interessati si appropri veramente di questo progetto e vi partecipi attivamente. È evidente che il ruolo del-l'Italia in questo processo è essenziale: Prodi è stato il primo a venire a Parigi ad esprimermi sostegno a quest'idea, pochissimo tempo dopo la mia elezione».
«Su questo tema, abbiamo lo stesso approccio: dobbiamo guardarci dalle costruzioni istituzionali e privilegiare i progetti concreti, a cui siano associati su un piano di parità i paesi del Nord e del Sud, poiché sono gli unici che consentiranno di creare una vera solidarietà di fatto. Ora dobbiamo lavorare insieme per elaborare dei progetti mobilitanti. Le prospettive di lavoro comune non mancano: l'ambiente, lo sviluppo economico, la sicurezza, il dialogo interculturale, etc. È per questo che Romano Prodi ed io abbiamo chiesto ai più illustri rappresentanti del mondo degli affari e della ricerca dei nostri paesi, riuniti in seno al Forum italo-francese della società civile, di esporci, a margine del vertice, le loro idee e le loro aspettative».

La Francia e l'Italia condividono spesso gli stessi valori e collaborano in diversi contesti internazionali. Esiste tuttavia un punto di disaccordo: l'ingresso della Turchia in Europa. Come si fa a trovare un modo di procedere comune?
«Effettivamente, come lei ha sottolineato, esiste un'ampia unità di vedute tra i nostri paesi sulle questioni internazionali. L'Italia, che attualmente siede al nostro fianco al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ha ad esempio guidato la battaglia contro la pena di morte. È in particolare grazie al suo impulso che l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha appena adottato una moratoria sulla pena di morte, di cui mi rallegro, poiché è una battaglia che abbiamo combattuto insieme. I nostri paesi sono inoltre tra i principali contributori delle operazioni di mantenimento della pace e di ricostruzione sotto mandato delle Nazioni Unite in Libano, con l'Unifil, in Afghanistan e nei Balcani».
«Sulla Turchia, la mia posizione è nota e non è cambiata. La questione che si pone è quella delle frontiere dell'Unione. È una questione complessa, il che non significa che non debba essere affrontata, anche se sono consapevole che non troverà una risposta semplice. Nell'attesa, sono pronto a dare il mio assenso all'apertura di nuovi capitoli negoziali, a condizione che rimangano compatibili con i due sbocchi possibili di questo negoziato, l'integrazione, come auspicano i nostri amici turchi, o un'associazione molto stretta tra l'Unione e la Turchia, che mi sembra la formula migliore. È così per 30 capitoli su 35, il che ci lascia del tempo per lavorare sulla sostanza. A mio parere, è questa l'unica via ragionevole».

 
Sarkozy e Prodi (Afp)
La Francia e l'Italia temono una nuova crisi nella regione dei Balcani. Quali soluzioni propone per evitare il peggio? La Francia ha intenzione di riconoscere l'indipendenza del Kosovo?
«Sul Kosovo, è essenziale che gli europei rimangano uniti. È un argomento di cui naturalmente parleremo con Romano Prodi, con l'avvicinarsi della data di consegna del rapporto della Troika composta da Stati Uniti, Russia e Unione Europea, il prossimo 10 dicembre. È prematuro sollevare la questione del riconoscimento di un'eventuale dichiarazione unilaterale d'indipendenza del Kosovo. Noi sosterremo qualsiasi soluzione accettata dalle due parti, serbi e kosovari. Se non fosse possibile trovare un accordo, l'ineluttabile indipendenza del Kosovo dovrà allora inserirsi nel quadro tracciato dall'inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, Martti Ahtisaari, per garantire in particolare il rispetto dei diritti delle minoranze. La comunità internazionale, e in particolare l'Unione Europea dovranno assumersi le loro responsabilità nell'accompagnare l'indipendenza. La Francia e l'Italia sono perfettamente consapevoli delle loro responsabilità».

Lei può contare su una vasta maggioranza, su un governo aperto alla sinistra e su una costituzione che le conferisce ampi poteri. Cosa risponde a chi la definisce un «iper Presidente»? Cosa significa essere un uomo di destra oggi? Di lei si danno tante definizioni, talvolta contraddittorie: gollista, nazionalista, pragmatico, liberale, blairiano, thatcheriano. Lei si ispira a qualche modello? Il modello francese dei servizi pubblici e sociali è generalmente apprezzato, in Francia e all'estero. Cosa cambierà?
«A coloro che mi criticano rispondo che sono stato eletto per cambiare le cose, che non ha senso rimproverarmi di esagerare, perché c'è ancora tanto da fare. Se sono stato eletto da una larga maggioranza, se ho voluto l'apertura e la diversità all'interno stesso del governo francese, se auspico la riforma della Costituzione, è perché ritengo che ciò sia necessario per adeguare il nostro paese alle sfide del mondo attuale. Ciò significa che è necessario attuare un programma coerente di riforme, quello per il quale sono stato eletto a larga maggioranza. E questo programma, conto di attuarlo, rimanendo aperto al dibattito, ma con determinazione e fermezza. Le riforme, posso assicurarvi che andranno avanti, perché sono necessarie».

Lei critica la Banca centrale europea e l'euro forte. Questa posizione non rischia di rafforzare i pregiudizi sul «protezionismo alla francese»? Lei attribuisce un significato positivo al termine «protezione». Cosa significa in un contesto europeo?
«Nella mia concezione della democrazia, si può dibattere di tutto, anche della politica monetaria. Non ho alcuna intenzione di rimettere in discussione l'indipendenza della Bce, ma non vedo alcuna ragione per non discutere delle sue scelte. Faccio notare, del resto, che il Trattato stesso affida al Consiglio il compito di definire i grandi orientamenti della politica dei cambi. Non è accettabile che i paesi europei subiscano le conseguenze di squilibri monetari a cui sono estranei. L'ho detto a proposito della sottovalutazione dello yuan, in particolare durante il mio viaggio in Cina questa settimana. L'ho anche detto con grande fermezza in occasione della crisi dei mutui subprime: non si può più consentire a poche decine di speculatori di mettere in ginocchio un intero sistema internazionale, di contrarre prestiti a qualunque condizione, di comprare a qualunque prezzo. Protezione non significa protezionismo. C'è una differenza. L'Europa deve proteggere i suoi cittadini senza cadere nel protezionismo. Per me, la preferenza comunitaria non è protezionismo. L'Europa è legittimamente attaccata al principio della concorrenza, ma la concorrenza è un mezzo, e non un fine in sé. Dobbiamo essere in grado di dotarci degli stessi mezzi d'azione degli altri. Chi potrebbe rimproverarci di volere una concorrenza leale con i nostri principali partner? Non è anche la condizione necessaria per lo sviluppo sostenibile dei paesi più deboli? Tutti hanno interesse ad avere regole del gioco eque: ecco perché ho proposto, tra l'altro, che la Presidenza francese dell'Unione Europea, nel secondo semestre del 2008, presenti delle proposte per la moralizzazione del capitalismo finanziario. Più in generale, dobbiamo discutere del futuro della nostra Europa. Ho proposto l'istituzione di un gruppo di 10-12 saggi, incaricato di riflettere su quello che potrebbe essere il sogno europeo nel 2020-2030. Per prendere le decisioni giuste è necessario riflettere molto, consultare molto e discutere molto, senza tabù. Spero che l'istituzione di questo gruppo possa essere decisa in occasione del Consiglio europeo di dicembre».


Massimo Nava
30 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:01:16 pm »

Sarkozy e Carla, Parigi s'indigna: «Più Berlusconi che de Gaulle»

DAL NOSTRO INVIATO


PARIGI — «Che l'inquilino dell'Eliseo preferisca l'Egitto alle vacanze a Forte di Brégançon non è un problema. Che una visita "privata" si trasformi in set da rotocalco è già più discutibile (soprattutto se lo stesso Sarkozy si era impegnato a non mettere più in piazza la sua vita sentimentale). Ma che il capo di Stato francese si affidi ancora una volta al miliardario Vincent Bolloré per i suoi viaggi, questo sì è malsano». Le Monde ci va pesante. Yacht e aerei privati, sentenzia l'editoriale, sono il riflesso della passione presidenziale per «jet-set e paillettes». Ogni riferimento a Carla Bruni è puramente intenzionale.

«Niente di più distante dai toni populisti» adoperati da Sarkò in campagna elettorale. Così facendo, però, «il presidente si mostra più berlusconiano che gaullista», non solo «il generale non mostrò mai una tale vicinanza con grandi industriali, ma per restare ai giorni nostri, non è immaginabile un presidente americano che parta per le vacanze a bordo del jet di un business man». Il presidente in Ray Ban che va manina manina con l'ex fotomodella sul Nilo è argomento da prima pagina per tutti i giornali francesi. I tg della sera lo mettono al massimo come secondo servizio. Ma la cronaca rosa diventa politica quando entrano in gioco coerenza ed economia. E questa volta Sarkozy farà fatica a smarcarsi come fece in maggio sostenendo che «le mie vacanze non costano un centesimo ai contribuenti ». Libération (più a sinistra di Le Monde) parla di «Circo Sarkozy nel paese dei Faraoni». Dandogli le chiavi del suo Falcon 900 l'affarista Bolloré si sarà «di nuovo travestito da Babbo Natale per il suo ventennale amico Sarkozy?». Tignoso Libération, ricorda in apparente casualità, i sei miliardi di fatturato di Bolloré, il recente auto-aumento di stipendio presidenziale, lo yacht «ancora di Bolloré» sul quale Sarkò festeggiò l'elezione al largo di Malta o la lussuosa villa di Wolfeboro (negli Usa) per le ferie di agosto.

A difendere il presidente ci prova il conservatore Le Figaroguardando in casa d'altri, ma l'argomento è debole. Scroccare le vacanze è un'abitudine per i presidenti francesi, sostiene un articolo. «Il socialista Mitterrand andava ospite sempre in Egitto del presidente Mubarak, in compagnia dell'amore clandestino Anne Pingeot e della loro figlia segreta Mazarine». Un conto sono i rapporti tra presidenti un altro quelli tra politica e finanza. Il punto lo segna il deputato socialista Arnaud De Montebourg. «Il miscuglio di interessi privati e pubblici nuoce all'imparzialità dello Stato. Qual è la contropartita che Bolloré ha il diritto di aspettarsi per il suo Falcon?».

Andrea Nicastro
27 dicembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:10:31 pm »

PERSONE

La rivoluzione di "Berlusarkò" il leader che stupisce i francesi

BERNARDO VALLI


Alla vigilia del cinquantesimo compleanno la Quinta Repubblica ha cambiato faccia? Il sesto presidente, quello in carica, ne sta scrivendo l'epitaffio? Ad ogni sorpresa di Nicolas Sarkozy, e ce ne è quasi una al giorno, sorgono da più parti questi interrogativi sullo stato delle istituzioni create nel 1958 dal generale de Gaulle.

Per la verità non si ha l'impressione che la maggioranza dei francesi si ponga, almeno per ora, queste allarmanti questioni. Forse divertita, forse incuriosita nell'attesa dei risultati concreti della imperversante politica spettacolo, essa continua infatti a dare confortevoli, sia pure oscillanti, consensi al presidente. Nicolas Sarkozy stupisce ma non dispiace ai più. E nulla ci consente di pensare che le immagini recenti, quelle di lui e di Carla Bruni mano nella mano sulle rive del Nilo, alternatesi sui teleschermi natalizi con quelle del Papa benedicente urbi et orbi, abbiano mutato molto i sentimenti dei francesi.

Ma politologi, psicologi, filosofi, storici, esponenti della (un tempo eroica ed oggi dispersa) tribù degli intellettuali parigini, loro sì, si pongono quei problemi. La loro analisi è spesso irriverente. Le Monde si chiede, ad esempio, se lo stile di Nicolas Sarkozy sia più simile a quello di Berlusconi che a quello di de Gaulle. E in Francia non è un complimento, né per la destra né per la sinistra.
La Costituzione è rimasta tale e quale. Sono previsti ritocchi ma non mutamenti sostanziali. La forma è invece stata rivoluzionata. Dalla pompa presidenziale, dalla figura ieratica di de Gaulle, poi imitata in varie versioni dai successori, si è passati, secondo Libération, al presidente bling-bling. Espressione del vocabolario hip hop per indicare il rumore della chincaglieria, catene e fronzoli dorati, indossata da certi cantanti rap. Per impietosa, insolente estensione sono bling bling, oltre agli abbigliamenti vistosi, anche i comportamenti esibizionisti. Rumorosi. E proprio quest'ultimi vengono sottolineati in Nicolas Sarkozy, il quale avrebbe trasformato la presidenza della Repubblica in una ribalta televisiva in cui vicende pubbliche e private si confondono.
Ma è meglio riassumere. Il rapido susseguirsi degli eventi può farci perdere il filo.

Tutto a' accaduto in sei mesi. Tutto pubblicizzato e intercalato da avvenimenti politici, spesso altrettanto spettacolari. Per cui l'opinione pubblica ha ricevuto tutto d'un fiato, più o meno nell'ordine: il bacio kennediano a Cécilia circondata dai figli, all'Eliseo, il giorno dell'investitura; il brunch con i Bush a Walfeboro, disertato da Cécilia; Cécilia che libera le infermiere bulgare in Libia; l'abbraccio con Putin a Mosca; lo sciopero di ferrovieri e studenti che sfidano il presidente duro ma giusto; la solenne riconciliazione con l'America davanti al Congresso di Washington; il simultaneo divorzio da Cécilia; l'incontro-scontro tra il presidente e i pescatori di Bretagna; i baci protocollari con la cancelliera tedesca Angela Merkel che si affretta a contraddire il presidente francese; l'educata spiegazione di Cécilia sull'ancora calda rottura con Nicolas; la visita a Parigi del venezuelano Chavez nemico dell'America ma possibile liberatore di Ingrid Betancourt sequestrata in Colombia; il volo del presidente - rambo nel Ciad per recuperare i giornalisti coinvolti nel "ratto umanitario" di presunti bambini del Darfur; la solitudine del presidente single nei saloni dell'Eliseo; la tenda di Gheddafi eretta nel cuore di Parigi, nell'attesa di mirabolanti contratti rimasti nel vago; l'apparizione di Carla, forse futura prima dama di Francia. Sulla quale ironizza il Nouvel Observateur: ecco un'altra italiana dopo Maria de Medici moglie di Enrico IV, il re buono e coraggioso. E Caterina, prima ancora di Maria moglie di Enrico II e reggente di Francia?
Un grande uomo di cinema, quale è il regista Claude Chabrol, dice che Nicolas Sarkozy "crea lo spettacolo in cui c'è sempre un piccolo trucco che ci sorprende". E pensa che il presidente abbia il gusto della leggerezza.

Una leggerezza che distrae le serate d'inverno. All'estero si divertono ("persino in Italia!") commenta sempre Chabrol. I giudizi sono però divergenti. Chi detesta i riti della monarchia repubblicana si rallegra. Il sesto presidente compie un'opera benemerita spolverando il protocollo, anzi smontandolo, mandandolo in frantumi. Sul trono di de Gaulle c'è adesso un presidente in maniche di camicia, con la camicia sbottonata e gli occhiali da sole come Alain Delon; che riceve i ministri con i piedi sul tavolo e dà del "tu" a (quasi) tutti. Putin, a Mosca, ha preso le distanze e gli ha risposto col "lei", e lui, tranquillo, si è adeguato. Sono immagini in sintonia col tempo; che non scandalizzano. Non ancora, nell'attesa dei risultati. politici e soprattutto economici che contano.

Incuriosisce l'ubiquità presidenziale. Piace la capacità di essere ovunque, sul posto, appena accade qualcosa. In Bretagna, durante lo sciopero dei pescatori qualcuno nella folla l'ha insultato. Un insulto duro, da teppaglia. ("Enc....!" riferisce la cronaca di Libération). E lui ha reagito: "Chi l'ha detto? Venga qui a ripeterlo se ne ha il coraggio... ". E il pescatore nella folla ha ribadito: "E' meglio di no, se vengo ti gonfio la faccia... ". Nicolas Sarkozy è un incassatore. Neppure questo dispiace, per ora. E' una novità. Non importa se i suoi ministri sono ridotti a semplici supplenti. E se il primo ministro è declassato a "collaboratore". La rapidità distingue la nostra epoca e il giovane presidente approfitta del progresso tecnologico. Speedy Sarkozy. Basta con la gerontocrazia.

Ma si scandalizza chi trova sconvenienti le maniere del presidente bling bling. Un linguista, Pierre Encrevé, giudica quello di Sarkozy un linguaggio da show-biz. Assai diverso da quello dei laureati delle Grandes Ecoles. Mitterrand prediligeva Chardonne e Proust. Giscard sognava di essere Maupassant. Pompidou era un latinista e fu l'autore di un'antologia di poesie. Chirac, mai scambiato per un intellettuale, amava e ama l'arte cinese e giapponese. Ed è stato sorpreso a nascondere la copertina di un libro di versi che stava leggendo. Nicolas Sarkozy è un superdotato. Nessuno dubita del suo altissimo quoziente di intelligenza. Ha una profonda conoscenza della storia ed a' stato un buon ministro delle Finanze, oltre che un efficace (e prepotente) ministro degli Interni. Ha un fiuto politico pari a quello di Mitterrand, anche se è meno sofisticato. E' più impetuoso. Pragmatico. Il socialista Jacques Delors ha dedicato una lezione universitaria al "fenomeno Sarkozy".

Il suo mondo non è quello solito dei presidenti della Quinta Repubblica. Alla festa del Fouquet's, luogo per petrolieri arabi sui Campi Elisi, la sera dell'elezione, l'ospite più noto di Nicolas Sarkozy era Jhonny Halliday. In fatto di cantanti, l'ingresso nella sua vita di Carla Bruni segna una svolta nei gusti presidenziali. La Bruni è il contrario di Halliday. Canta o cantava sottovoce. E viene da un mondo frequentato da filosofi di sinistra. Forse lei convertirà Nicolas, dicono gli amici di Carla. Quello della parigina italiana è definito un severo stile Saint-Germain. Cécilia veniva invece dallo show-biz ed era un autentica bling bling. Su questo terreno il salto è notevole.

Ma è sullo stesso aereo privato con il quale raggiunse Malta insieme a Cécilia, per la meritata vacanza dopo l'elezione presidenziale di primavera, che Nicolas Sarkozy è andato a Luxor con Carla Bruni, il giorno di Natale. E l'aereo, un Falcon 900, è di Vincent Bolloré, finanziere ed editore di grande successo (presente anche in Italia, in Mediobanca). Questo esibito legame del presidente con il mondo degli affari non piace a tutti. Insieme a Jonny Halliday, re francese del rock, al Fouquet's, la sera del trionfo elettorale, c'erano quasi tutti i patron di Francia: editoria, televisione, armi, banche. La spavalderia con la quale Sarkozy presenta questi suoi rapporti col denaro equivale a quella con cui mette in piazza i suoi rapporti sentimentali. Da qui viene l'accusa di "berlusconismo". A differenza tuttavia del proprietario di Fininvest, lui è un politico puro. Non ha conflitti di interesse, a parte il suo disinvolto uso dei mezzi di trasporto degli amici miliardari.

Anche Giscard, anche Mitterrand, anche Chirac avevano amici potenti nel mondo degli affari e se ne servivano; in particolare nelle campagna elettorali. Ma lo facevano con maggior discrezione.
Lo stile bling bling di Nicolas Sarkozy può in definitiva apparire, almeno per ora, una forma di trasparenza. È comunque nel 2008 che la popolarità, ancora forte, del sesto presidente della Quinta Repubblica sarà messa alla prova. Le vere riforme promesse dovranno essere realizzate in un clima sociale ed economico che non si annuncia troppo favorevole. Esse riguardano la flessibilità sul lavoro, la revisione della settimana di 35 ore, la rappresentatività e il finanziamento dei sindacati, il sistema pensionistico. Per non citare che le più importanti. È allora che i francesi, adesso abbagliati dalla politica spettacolo, valuteranno sul serio il loro presidente.

(27 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 14, 2008, 12:22:59 am »

Chavez, Sarkozy e le modelle al potere

Marina Mastroluca


Hugo Chavez ha un debole per Naomi. Lo scrive la stampa venezuelana. E se la cosa finisse qui, sai che notizia: magari non piacerà alla ex governante di Naomi che la denunciò per averle scagliato addosso un telefonino, ma agli uomini beh, a chi non piace la nera, flessuosa, elegante Naomi? Solo che le voci - ce ne sono sempre, d’accordo - qui parlano di amore, anzi Amore, quello per la vita o almeno fino alla prossima irreparabile rottura (Ruptures?), più o meno plateale. Chavez ama (amerebbe) la «Venere nera». Ecco la notizia, ammesso che sia tale, ma tant’è, il pettegolezzo vale per quello che è e all’occasione è più bello, tondo e pieno di una notizia fondata ma senza sugo.

Quindi Chavez ama (amerebbe) Noemi, ma soprattutto - soprattutto - è (sarebbe) ricambiato della stessa moneta. Amore puro, 18 carati, più prezioso dell’oro nero che sgorga generoso dalle viscere del Venezuela e che con altrettanta generosità el presidente in camicia rossa come un garibaldino usa a gloria del suo Paese e del popolo venezuelano.

Amore, dicevamo. Magari anche nozze (che emozione!). A dirlo è la stampa, che ormai - che noia - a tutte le latitudini si riconosce come almeno un tantino bugiarda. Nel caso in questione, però, a ipotizzare un «futuro in black and white» è Nelson Bocaranda Sardi, considerato assai bene informato sul presidente venezuelano. Sulle pagine del quotidiano «El Universal», Bocaranda ha cucinato insieme le voci che da giorni si intrecciano a Caracas, aggiungendo ingredienti che danno sostanza, per tirare fuori un piatto ghiotto. Hugo e Naomi si amano, grazie anche ai buoni uffici del presidente di Telesur, Andres Izzarra, che per i suoi «favori d’alcova» sarebbe stato premiato con la nomina fresca fresca a ministro delle informazioni e comunicazioni. Proprio Izzarra e quanti, per fargli posto, si sono ritrovati senza poltrona sarebbero le fonti di Bocaranda. «Gli incontri tra i due per nulla furtivi e ampliamente riportati dalla stampa sono serviti a rendere l'innamoramento reciproco - questo avrebbe riferito il neo-ministro -. Non dovrà sorprenderci che, giorni dopo il matrimonio fra il presidente francese Nicolas Sarkozy e la fotomodella Carla Bruni in febbraio, il leader venezuelano convoli a nozze con Naomi».

Matrimonio. E allora? Se può farlo Sarkozy, cinque minuti dopo aver rotto con la sua seconda moglie, spopolando sulla stampa neanche fosse un divo di Hollywood - e chi se ne frega degli anelli uguali, non sono uguali anche Carla e Cecilia? Non c’è una fila alla porta? Non è lui il presidente che non deve chiedere mai? - perché allora non Hugo e Naomi? Carla Bruni non è una modella come lei? E Sarkò non è presidente?

E poi c’è l’amore, certo. Naomi che ha intervistato Chavez nel dicembre scorso per la rivista britannica «GQ» chiamandolo «angelo ribelle», per lui ha speso parole lusinghiere. «Non è un gorilla: è un toro», ha sentenziato. Secondo la stampa la bella Naomi avrebbe detto che «l'uomo col quale un giorno di questi mi sposerò deve essere sincero con me e deve avere molta energia: mi attraggono gli uomini forti». E Chavez di energia ne ha da vendere, altro che Briatore: un paese intero che naviga sul petrolio, se non altro. Notizia? Siamo al trionfo del luogo comune.

P.S. Se il Venezuela e la Francia avessero donne alla presidenza non staremmo qui a discutere. Belle o brutte, giovani o meno, a parti inverse la stessa storia prenderebbe un’altra piega. Un modello al fianco della Merkel? Un bel ragazzo innamorato di una ipotetica Hillary Clinton? Orrore. Due tardone sul viale del tramonto, o peggio. La storia non è mai dalla parte delle donne, nemmeno delle belle cenerentole, se per arrivare ai vertici del potere la strada migliore è ancora quella di sposarsi il numero uno.

Pubblicato il: 13.01.08
Modificato il: 13.01.08 alle ore 15.24   
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 26, 2008, 04:30:24 pm »

26/3/2008 (9:43) - LA VISITA

Londra, Sarkozy: "C'è bisogno di voi"
 
Il titolare dell'Eliseo: per lui, una due giorni londinese

Il leader francese sferza gli inglesi: «L'Europa è solo a 30 chilometri»

LONDRA


«Abbiamo bisogno di avere gli inglesi all’interno dell’Europa». È il messaggio lanciato dal presidente, Nicolas Sarkozy, dai microfoni della Bbc , a qualche ora dal suo sbarco a Londra, per la sua prima visita di Stato. «Se volete pesare in Europa, dovete avere tutti e due i piedi in Europa», ha suggerito l’inquilino dell’Eliseo agli euroscettici, numerosi Oltre Manica.

«Abbiamo bisogno di voi, abbiamo bisogno della vostra forza, abbiamo bisogno delle vostre potenzialità, abbiamo bisogno del vostro dinamismo», ha sottolineato ancora Sarkozy, invitando sia gli inglesi che amano l’Europa sia coloro che sono contrari a un’adesione completa del Regno Unito ad «aiutarci a costruire un’Europa diversa». «Chi può pensare che possiamo costruire un’Europa del domani senza la Gran Bretagna? Chi può pensare che la Gran Bretagna possa vivere isolata, ignorando l’Europa che è a soli trenta chilometri di distanza» si è domandato il capo dello Stato francese rispondendo che «gli uni hanno bisogno degli altri».

Per provare a sedurre gli inglesi, Sarkozy ha elencato le priorità della presidenza di turno francese dell’Ue che comincerà a luglio. «La prima sarà un patto europeo per l’immigrazione», ha affermato, proseguendo poi con la lotta contro il terrorismo, la protezione dell’ambiente e la «necessità di dare regole all’economia di mercato», uno dei temi cari al premier britannico, Gordon Brown. «se lavoriamo insieme, tutto sarà più facile», ha affermato Sarkozy.

Secondo il presidente francese, le relazioni particolari tra la Francia e la Gran Bretagna, da una parte e tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, dall’altra, non sono un ostacolo alla costruzione europea. «Non ho mai ridotto la politica europea della Francia alla sola amicizia con i tedeschi. L’asse Parigi-Berlino, è fondamentale ma non è sufficiente», ha ribadito prima di ricordare che anche lui «è un amico degli Stati Uniti d’America».

Infine, il presidente francese ha chiesto di proporre «una nuova fratellanza franco-britannica», «un’intesa amichevole» che superi l’intesa cordiale stabilita nel 1904. «È da tempo che non discutiamo, si può forse passare dalla cordialità all’amicizia», ha affermato, prima di proporre che questa amicizia si traduca concretamente, in una cooperazione «sull’economia, immigrazione, sicurezza, difesa». «Sulla difesa, siamo le due potenze (europee). È perché non dobbiamo lavorare insieme?», ha detto.

Nicolas Sarkozy arriva oggi a Londra per una visita di Stato di due giorni durante la quale parteciperà al summit franco britannico organizzato all’Emirates stadium di Londra. Il presidente francese incontrerà la regina Elisabetta II e il primo ministro Gordon Brown. Pronuncerà un discorso dinanzi al Parlamento.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 26, 2008, 04:31:23 pm »

26/3/2008 (7:12) - RETROSCENA, IL CAPO DELL'ELISEO SBARCA OGGI OLTRE MANICA

Il flirt nucleare di Parigi e Londra
 
Sarkozy sarà oggi ospite della regina d'Inghilterra
 
I rivali storici cercano l’alleanza su energia e difesa

VITTORIO SABADIN
CORRISPONDENTE DA LONDRA


I giornali inglesi scherzano sulla famiglia Sarkozy che prepara il viaggio a Londra: immaginano Nicolas che sta pensando a quante paia di Ray-Bans portare. Sta prendendo anche le ultime lezioni di inglese, per dire almeno una frase sensata alla regina e non sembrare più l'imitazione dell’ispettore Clouseau che si può sentire su Youtube. Carla Bruni sta meditando su quale vestito di Hermès mettere in valigia per la cena al castello di Windsor. Durante il viaggio, forse penserà a qualcosa di cui parlare con la casalinga Sarah Brown, la moglie del premier inglese, quando pranzeranno da sole insieme. «Dadu», l’ottantenne madre di Sarkozy, è la più inquieta. Accompagnerà il figlio perché teme che la sua carriera possa essere seriamente compromessa dall’ennesima gaffe e dal mancato rispetto dell’etichetta reale.

Tutti si divertono sulla brevissima visita di Stato che da oggi Sarkozy farà a Londra e persino l’autorevole «Economist» ha illustrato l’articolo con l’immagine di un altro vertice fra i due Paesi, quello della battaglia di Agincourt del 1415, nella quale Enrico V inflisse ai francesi la più umiliante sconfitta della loro storia. Basta aggiungere che Sarkozy pronuncerà il discorso al parlamento nella Royal Gallery tra due grandi quadri imbarazzanti, uno che celebra la vittoria inglese di Trafalgar, l’altro quella di Waterloo, per capire che la visita si svolgerà sul filo dell’ironia e del sospetto reciproco, con i tabloid pronti ad azzannare la minima caduta di stile.

Ma dietro alle facili battute, l'incontro tra Nicolas Sarkozy e Gordon Brown potrebbe davvero aprire una nuova fase nei rapporti tra Parigi e Londra, che sembrano disposte a mettere da parte le diffidenze e a siglare accordi vitali per il futuro dei due Paesi, lasciando ai margini il resto dell’Europa. Secondo un’anticipazione del «Guardian» non smentita da Downing Street, uno dei punti più qualificanti del vertice sarà l’accordo per la costruzione di centrali nucleari di nuova generazione in grado non solo di fornire energia a Inghilterra e Francia, ma anche di venderla ad altri Paesi europei. Quasi l’80% dell’energia consumata in Francia viene da moderni reattori nucleari, contro il 20% della Gran Bretagna. In Inghilterra inoltre i pochi impianti esistenti sono ormai obsoleti e alcuni, come Sizewell e Hinkley Point, si trovano sulla riva del mare e sono a rischio di inondazione a causa dei mutamenti climatici.

Gordon Brown aveva inserito il tema dell’energia nucleare nel suo discorso sulla sicurezza nazionale tenuto qualche giorno fa ai Comuni, sollecitando la costruzione di nuovi impianti che avessero standard di sicurezza adeguati. La preoccupazione della Gran Bretagna di assicurarsi energia anche dopo la fine del petrolio ha fatto varare altri importanti progetti, come quello grazie al quale si ricaverà elettricità dalle maree e dalle correnti con un minimo impatto ambientale.

Poiché il know-how nucleare è quasi tutto francese e Parigi riceverà grandi vantaggi economici dall’accordo, Sarkozy dovrà dare qualcosa in cambio. Per la prima volta dopo che nel 1966 Charles de Gaulle decise l’uscita dalla Nato, la Francia potrebbe riconsiderare la sua presenza nell’Alleanza. Come lettera di impegno, il presidente francese porterà l’invio immediato di mille soldati in Afghanistan, dove italiani, tedeschi e spagnoli non vogliono più andare. E chiederà che il grande ritorno sia accompagnato da una maggiore disponibilità di satelliti militari, da un incremento del budget degli Stati e da una chiara strategia europea di difesa, cose accettabilissime per Londra e per Washington.

Se tutto andrà bene, gli altri Paesi europei avranno forse di che preoccuparsi per un riavvicinamento anglo-francese che li lascia in disparte su temi vitali come l’energia e la difesa, tanto più che anche su un altro punto caldo, l’immigrazione, verrà siglato un accordo. Prevede che vengano organizzati voli comuni, in partenza da Londra e con scalo a Parigi, per rimpatriare i clandestini fermati nei due paesi. Brown e Sarkozy rivolgeranno anche un appello alle banche, perché rivelino la reale portata delle loro sofferenze e si comportino in modo più trasparente.

Nel vertice che si terrà allo stadio dell’Arsenal nel Nord di Londra (niente di strano: il manager della squadra, Arséne Wenger, è il francese più popolare d’Inghilterra) Sarkozy si gioca buona parte del suo prestigio e ha l’occasione per risalire la china dell’impopolarità con un comportamento da vero statista. Ma non dipenderà solo da lui: gli occhi di tutti sono puntati anche su Carla Bruni. La regina la ricorderà forse benevolmente per essere stata la compagna di un suo baronetto, Sir Mick Jagger dei Rolling Stones, ma battute come quella indirizzata al presidente israeliano Shimon Peres durante la visita all’Eliseo («Quando mi fanno le foto io dico seeex, non cheese») a Buckingham Palace non fanno ridere.

da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:24:09 pm »

22/6/2008
 
Israele, la svolta possibile
 
AVRAHAM YEHOSHUA

 
E’ giunto il momento di una tregua tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. Eppure per più di sei mesi persone sagge e responsabili avevano esortato Israele a aderire a questa iniziativa e accettare un cessate il fuoco. Ma il governo israeliano aveva opposto un rifiuto irremovibile. I pretesti che adduceva erano di tipo vario e disparato: «Una tregua indebolirebbe Abu Mazen».

Come se non fossero l’ampliamento delle colonie e di Gerusalemme Est e il mancato smantellamento degli insediamenti illegali a farlo. Oppure: «Hamas non riconosce lo Stato di Israele» (come se tutte le tregue degli ultimi sessant’anni con gli Stati arabi e con l’Olp fossero basate sul riconoscimento di Israele e non sul semplice principio etico - che ci guida da molti anni - di concedere a noi e ai nostri nemici una pausa negli scontri). Ma ecco che alla fine la logica ha prevalso sulle titubanze e sulle scappatoie, una tregua è stata firmata e ci si può solo rammaricare del tempo perduto, costato sofferenze e distruzioni a entrambe le parti.

In questa guerra che va avanti da quasi un secolo è importante tenere presente un principio: i palestinesi sono nostri vicini e vivranno al nostro fianco per sempre. Le considerazioni militari non possono essere dunque analoghe a quelle di Paesi che combattono lontano da casa. Il ricordo del sangue versato, sia del nostro sia del loro, rimane vicino, filtra nella memoria e nei cuori di entrambi i popoli. Un'interruzione immediata degli scontri è quindi più vitale di una chimerica «capitolazione» totale a lungo termine. Ma la tregua resisterà? I suoi oppositori le pronosticano, e le augurano, breve vita, e neppure gli scettici nutrono molte speranze. Naturalmente se la tregua sarà puramente tecnica, se non saranno investiti sforzi per stabilizzarla e rinsaldarla, potrebbe rimanere un episodio amaro. Perciò, tutti coloro che temevano una «grande offensiva» di Israele nella Striscia di Gaza devono fare il possibile per potenziarla e creare un clima di distensione che possa, col tempo, sfociare in un accordo di pace con l'Autorità palestinese.

Che fare dunque? Innanzi tutto aprire i valichi di frontiera a malati, studenti o membri di famiglie rimaste separate a causa del blocco. In secondo luogo fissare una generosa quota di lavoratori palestinesi (destinata ad aumentare col tempo) autorizzati a lavorare in Israele, magari anche nei centri agricoli colpiti intorno alla Striscia di Gaza. Il lavoro palestinese in Israele è importante per entrambe le parti ed è preferibile a quello di stranieri che provengono da lontano e vivono qui isolati, soli e sotto la costante minaccia di un'espulsione. Gli operai palestinesi la sera tornano alle loro case e non si alienano da un contesto di vita normale. I futuri operai di Gaza, che hanno moralmente diritto a guadagnarsi il pane in Israele, si trasformeranno nei naturali sostenitori di un proseguimento della tregua.

Occorre poi ripristinare progetti industriali che già esistevano in passato ma sono andati distrutti durante le ostilità, e legittimarli agli occhi di Hamas mediante la partecipazione di uno Stato arabo. Occorre interrompere o limitare il più possibile l'uccisione di esponenti di Hamas in Cisgiordania e permettere all'Autorità palestinese di occuparsene a modo suo. Ma soprattutto bisogna credere che l'armistizio abbia una dinamica propria. Quando ci si trova in uno stato di guerra la gente si abitua a questa realtà al punto da non poterne immaginare una diversa. Ma nel momento in cui sopravviene la distensione, l'idea di riprendere le armi si fa dolorosa e insopportabile poiché questo significherebbe il ritorno a un'esperienza di sofferenza conosciuta e terribile. Si deve quindi guardare a questa tregua non come a un pezzo di carta con un qualsiasi valore legale ma come a un giovane arbusto che va curato, bagnato, accudito e protetto perché si irrobustisca e diventi un albero forte, impossibile da sradicare con uno sporadico razzo Qassam o una granata.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 01, 2008, 03:56:52 pm »

1/7/2008 (7:14) - MEDIO ORIENTE - DIALOGO E TERRORISMO

Khaled Meshal: "Israele non è pronto per la pace"
 
Khaled Meshal a Beirut, durante una conferenza stampa, con alle spalle un manifesto con i leader storici di Hamas
 
Il capo di Hamas: «Shalit è vivo e Gerusalemme lo sa. Ma per liberarlo ci deve ridare i nostri prigionieri»


FRANCESCA PACI
DAMASCO

«Il cessate-il-fuoco concordato la settimana scorsa reggerà. Hamas l’ha accettato e lo rispetta». Il leader di Hamas Khaled Meshal lo chiama cessate-il-fuoco, periodo di calma, tahadya. La sospensione della guerra a bassa intensità combattuta da israeliani e palestinesi nella Striscia di Gaza da oltre un anno è «una pausa utile a entrambi». Ma niente di più. Lo scambio dei prigionieri è «un capitolo completamente separato», soprattutto oggi che la linea dura di Hezbollah appare vincente. Nessuno si faccia illusioni: «Israele non è pronto a negoziare. E noi in queste condizioni non prendiamo in considerazione neppure la hudna, la tregua decennale di cui ho parlato con Carter». Figurarsi la pace. Esiliato in Siria dal 2001, ci riceve per un’intervista esclusiva al primo piano di una palazzina blindata in un quartiere residenziale di Damasco, dopo mesi di contatti riservati via sms. Una Nissan Patrol nera con i vetri fumé pattuglia la strada. All’entrata, due giovani con la barba e il completo blu prendono il cellulare e smontano la batteria. Meshal, classe 1956, professore di fisica ed erede politico-spirituale dello sceicco Yassin, il più potente e ricercato dei leader palestinesi, considerato dai servizi israeliani la mente del terrorismo kamikaze, è sopravvissuto ad almeno tre attentati. Camicia bianca, sguardo tagliente, sorriso affabile, siede su uno dei sofà del diwan, il salone arabo adorno di tappeti persiani. Sul tavolo basso sciai, té, e dolci al pistacchio. Alle pareti, foto della Cupola della moschea della Roccia di Gerusalemme e di venti «martiri» palestinesi.

I valichi di Gaza sono stati parzialmente riaperti, ma al confine si spara ancora. Che «pausa» è?
«Hamas e gli altri gruppi della resistenza sono molto seri nel rispetto del cessate-il-fuoco. Ma ci aspettavamo un’altra risposta dagli israeliani: la riapertura totale dei valichi, la fine dell’assedio a Gaza, la sospensione di tutti gli attacchi. I primi due procedono a rilento. Il terzo è fermo: Israele ha acconsentito al cessate-il-fuoco a Gaza, ma ha incrementato le operazioni in Cisgiordania. Così è difficile negoziare. Israele deve cessare tutti gli attacchi a Gaza e in Cisgiordania, i palestinesi sono lo stesso popolo. Hamas rispetta i patti, la palla è nel campo israeliano».

Il premier israeliano Olmert pendola con il Cairo per rafforzare la mediazione egiziana. Gli 007 dello Shin Bet appoggiano il rilascio di detenuti palestinesi con «sangue sulle mani». La Knesset approva la liberazione di Kuntar e altri 4 combattenti in cambio dei due soldati rapiti in Libano. Il cerchio si stringe intorno a Gilat Shalit, nelle vostre mani dal 2006. È vivo?
«Israele sa benissimo che Shalit è vivo, ma è davvero intenzionato a liberare i nostri detenuti? Pensiamo di no. La sua sola preoccupazione è per l’unico prigioniero catturato da Hamas in battaglia. Ci sono 11.600 palestinesi nelle galere israeliane, molti civili. Oltre la metà non è accusata di nulla».

Shalit è vivo: quando lo rilascerete?
«Sempre questa domanda. I negoziati riguardano lo scambio di prigionieri di ambo le parti, non solo Shalit. Ed è un capitolo completamente separato dalla tahadya».

Ha detto all’ex presidente americano Carter d’essere disposto a 10 anni di tregua, la hudna. E dopo?
«Oggi non ci sono le condizioni per la hudna. Quella proposta prevedeva che Israele si ritirasse dai territori occupati nel ‘67, inclusa Gerusalemme, distruggesse tutte le colonie, acconsentisse al diritto al ritorno dei rifugiati. Israele non è pronto».

Fosse Israele, si fiderebbe di un’organizzazione come Hamas, con ancora parte dello statuto dedicato a distruggerla?
«Chi è tra noi a dover temere d’essere distrutto dall'altro? I palestinesi, minacciati dal comportamento e dalle sofisticate armi israeliane. Israele occupa la terra, assedia, attacca, uccide. I palestinesi hanno diritto a uno Stato indipendente».

Hamas si è opposto a tutti i tentativi di pace degli ultimi anni: Oslo, Madrid, Ginevra, il documento Tenet, la Road Map, Annapolis. Perché oggi avete deciso di cessare il fuoco?
«Non rifiutiamo la pace, ma i progetti di pace nati morti. Come può aver successo un negoziato che non si basi sulla fine dell’occupazione, sullo smantellamento delle colonie, sul riconoscimento al diritto di cittadinanza dei palestinesi? La tahadya non ha alcuna relazione con Oslo, Madrid, Annapolis. E non è basata sulla fiducia. Non ci fidiamo degli israeliani. Alcune specifiche circostanze hanno convinto loro, Hamas e altri gruppi della resistenza a provare. Israele sa di non poter sconfiggere il popolo palestinese. Abbiamo accettato per la nostra gente».

Per la prima volta dalla guerra civile di Gaza il presidente palestinese Abu Mazen ha aperto ad Hamas. Collaborerete?
«Nonostante i veti americano, israeliano e l’opinione di pochi consiglieri dell’Autorità Nazionale abbiamo sempre ripetuto che non c’è soluzione senza unità dei palestinesi. Siamo pronti».

Si può dire che l’Anp riceve soldi dall’Europa e Hamas dall’Iran?
«I finanziamenti dei donatori europei, compresi i 242 milioni di dollari stanziati a Berlino, non coinvolgono tutti palestinesi. Sono condizionati a certi criteri, sono politici. Hamas non dipende da un donatore o da un Paese, ha il supporto dei palestinesi, dei musulmani, della gente anziché dei governi».

L’influenza iraniana a Gaza però, sembra in aumento. Si parla anche di famiglie convertite alla dottrina sciita...
«I palestinesi prendono decisioni indipendenti, non si vendono».

Pare che Israele e Siria si accingano a un terzo round di colloqui indiretti. Alcune settimane fa si disse scettico sulle possibilità di Olmert, troppo debole per sedersi al tavolo con Damasco. Un leader forte come Netanyahu farebbe di meglio?
«Il leader, potente o meno, cambia poco. Olmert ha guai domestici, la corruzione, il fallimento della guerra in Libano e a Gaza. Ma il nodo è a monte: Israele non è pronto a ritirarsi dal Golan né dalla Cisgiordania. Non è pronto per la pace».

Scommetta sul futuro: Khaled Meshal presidente del futuro Stato palestinese o il leader di Fatah Marwan Barghouti?
«Le persone non contano. Vogliamo che i palestinesi abbiano democrazia e libere elezioni presidenziali e parlamentari. Qualsiasi loro scelta la rispetteremo al cento per cento».

E’ sopravvissuto a tre attentati: ha paura di morire?
«Come palestinesi, arabi e musulmani non abbiamo paura di morire perché crediamo in Dio. Per quanto riguarda me, il primo attentato, nel ‘97, ad Amman, mi ha dato più coraggio».

Se votasse negli Usa voterebbe Obama o McCain?
«Sono palestinese, voterò in Palestina. E non commento le elezioni americane: sulla questione palestinese le differenze tra i due candidati sono minime. Non ci fidiamo. Pensiamo solo a resistere».
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 13, 2008, 12:09:37 pm »

ESTERI

Oggi il vertice con 43 Stati.

Assad da Sarkozy: "E' presto per dialogare con Israele"

Scambio di ambasciatori fra Damasco e Beirut.

Nuove minacce dall'Iran

Al "Club Med" di Sarkozy promesse di pace e crisi petrolifera

dal nostro corrispondente GIAMPIERO MARTINOTTI

 

PARIGI - E' ancora troppo presto per parlare di un negoziato diretto tra Siria e Libano, ma Bachar al Assad è pronto ad andare avanti: accetta uno scambio di ambasciatori con il Libano e riconosce così, per la prima volta, l'indipendenza di Beirut, dando un pegno della sua volontà di continuare sulla strada del dialogo. Il vertice dell'Unione per il Mediterraneo, che si svolge oggi pomeriggio al Grand Palais, avrà almeno permesso di riportare in primo piano il processo di pace in Medio Oriente. Con una sola nota dissonante: Assad dice che l'Iran non ha nessuna intenzione di avere l'arma atomica, Nicolas Sarkozy gli ha chiesto di convincere Teheran a dare una prova concreta di questa supposta volontà. E questo proprio mentre ieri l'Iran ha minacciato di colpire Israele e 32 basi americane in caso di un attacco contro il suo territorio.

Il vertice di oggi non darà risultati clamorosi per la collaborazione fra le due rive del Mediterraneo - i temi sono generici si va dall'acqua alla crisi petrolifera, dall'ambiente alla sicurezza alimentare - il documento finale sarà probabilmente generico. Ma la riunione permette di mettere attorno allo stesso tavolo il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, e i capi di numerosi Stati arabi, fra cui, appunto, la Siria e il Libano. I diplomatici hanno dato fondo alla loro inesauribile fantasia per riuscire a collocare tutti secondo un ordine alfabeticamente corretto e politicamente accettabile. E in fondo la riunione di oggi sarà seguita soprattutto per scrutare Olmert e Assad, per i quali una stretta di mano è forse prematura, ma che potrebbero lanciarsi un segnale, anche se nessuno sa dire quale potrebbe essere.

Riunire 43 paesi è il maggiore successo raccolto da Sarkozy, cui il presidente libanese, Michel Suleiman, e quello siriano hanno lasciato l'onore di annunciare lo scambio di ambasciatori tra i due paesi per la prima volta dalla loro indipendenza. Un gesto che apre un nuovo capitolo nella tragica e tumultuosa storia mediorientale. Assad ha anche fatto il punto sui negoziati indiretti aperti con Israele grazie alla mediazione turca: secondo il presidente siriano, i tempi non sono ancora maturi per una trattativa diretta, alla quale ha detto di voler associare, oltre agli Stati Uniti, la Francia, ringraziando così Sarkozy per averlo aiutato a uscire dal suo isolamento. Ma non passeranno meno di sei mesi prima di vedere israeliani e siriani parlarsi direttamente, dato che l'attuale amministrazione statunitense, ha detto Assad, non è interessata al processo di pace in Medio Oriente.

Infine, la questione iraniana. Il leader siriano ha ripetuto di non credere che Teheran voglia la bomba atomica e ha chiesto che le armi di distruzione di massa scompaiano da tutta la regione. Sarkozy gli ha chiesto di far pressione sul regime iraniano perché porti le prove per dimostrare che non lavora per avere l'arma atomica. Oggi, ci saranno altri incontri, compreso quello fra Olmert e Mahmoud Abbas. Nel pomeriggio, sotto la grande volta in vetro del Grand Palais, Sarkozy e l'egiziano Mubarak presiederanno la "grande messa" mediterranea. Tutti sperano che Olmert e Assad si scambino un segnale, sia pur timido.

(13 luglio 2008)

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