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Autore Discussione: Gabriel Bertinetto - Kerry Kennedy: «È Hillary la vera svolta»  (Letto 3640 volte)
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« inserito:: Gennaio 10, 2008, 07:20:28 pm »

Kerry Kennedy: «È Hillary la vera svolta»

Gabriel Bertinetto


«Questa volta gli elettori hanno percepito la sua grande passione politica, hanno capito che ha le doti per esercitare le funzioni di presidente sin dal primo giorno». Kerry Kennedy commenta con soddisfazione, in un’intervista a l’Unità, il successo di Hillary Clinton nelle primarie del New Hampshire. La figlia di Robert Kennedy è impegnatissima nella campagna della candidata: «Il sostegno delle donne è stato massiccio, così come quello degli anziani. Ora punteremo maggiormente - spiega Kerry Kennedy - all’elettorato giovanile, parlando di scuola, di sicurezza sociale, ma anche di ritiro dei soldati dall’Iraq. Dobbiamo recuperare la reputazione dell’America nel mondo e Hillary è la persona giusta».

Hillary ha vinto perché la gente ha capito quanta passione porti nel lavoro che vuole fare per il suo Paese. Così spiega la formidabile rimonta in New Hampshire, una delle persone più impegnate nella campagna per portare l’ex-First Lady alla nomination Democratica: Kerry Kennedy, figlia di Robert.

Dalla sorprendente sconfitta in Iowa alla non meno sorprendente rivincita in New Hampshire. Cos’é accaduto
«In Iowa c’è stata una combinazione di fattori avversi. Un’inattesa elevata affluenza ai seggi di elettori indipendenti, e condizioni metereologiche avverse che hanno costretto a casa molti anziani, in genere favorevoli a Hillary. Ma in New Hampshire si è assistito a qualcosa di molto interessante, perché la gente ha potuto vederla davvero nelle vesti di colei che si batte per un cambiamento reale, qualcuno che ha le doti per esercitare le funzioni di presidente sin dal primo giorno in cui sarà in carica. Forse è davvero stato decisivo quell’episodio in cui, parlando a un gruppo di concittadini, si è commossa, e lì tutti hanno potuto vederla per l’individuo che è, con la sua tremenda passione per il lavoro che vuole svolgere al servizio del Paese».

Son tornate a votare per lei le donne, che parevano averla abbandonata in Iowa. Un evento rassicurante, non è vero, visto che l’elettorato femminile è sempre stato considerato un serbatoio di consensi per la Clinton?
«Certo. Il sostegno delle donne è stato massiccio, e anche quello degli anziani. Ora però sarà opportuno nel prossimo futuro rivolgersi anche all’elettorato giovanile. Ed io credo che nelle prossime settimane assisteremo alla proposizione di molti messaggi su temi riguardante le nuove generazioni».

Quali ad esempio?
«Sicuramente parlerà dei problemi che riguardano le scuole, ma anche la sicurezza sociale, e tranquillizzerà i giovani sul ritiro dei soldati dall’Iraq, un tema che tocca tutta la nazione ma in particolare coloro che per ragioni anagrafiche hanno più probabilità di essere coinvolti in missioni militari».

Essendo impegnata nella campagna per Hillary, quali argomenti ha verificato interessino di più attualmente i suoi connazionali?
«Prima di tutto proprio la guerra in Iraq, che ha intaccato su scala globale la reputazione del nostro Paese. Sono cresciuta in un ambiente in cui mi si insegnava l’orgoglio di essere americana. Perché essere americano significava dedizione alla libertà, alla giustizia, ai diritti fondamentali. Oggi troppi giovani hanno perso quell’orgoglio, ed è uno sviluppo molto negativo. Dobbiamo recuperare la nostra reputazione nel mondo. Abbiamo bisogno di qualcuno che sin dal primo giorno in cui sarà alla guida del Paese possa contribuire a quello scopo. Ai tempi in cui era la First Lady, Hillary ha visitato molti Paesi, ne ha conosciuto i dirigenti. Ha una conoscenza ed una comprensione dei problemi internazionali che nessun altro candidato alla Casa Bianca può eguagliare. Anche questa è una ragione per cui tanti americani sono entusiasti di lei».

Quali altri temi appassionano i connazionali oltre alla guerra in Iraq e al ruolo degli Usa nel mondo?
C’è molta sensibilità verso l’assistenza sanitaria. Hillary ha già provato ad affrontare quelle problematiche negli anni in cui il marito era presidente. Non ebbe molto successo ma trasse insegnamento da quegli errori. Successivamente come senatrice ha promosso leggi per garantire le cure ai bambini, e oggi pensa ad un sistema in cui ogni cittadino abbia accesso alla sanità pubblica. Altro tema importante è l’economia. Gli americani ricordano gli anni in cui Bill Clinton era alla Casa Bianca come uno dei periodi migliori nella storia nazionale, e fanno il raffronto con i cattivi risultati ottenuti dalle presidenze Bush».

Mi dica una ragione per cui un Democratico non dovrebbe votare per Obama.
«Vorrei premettere questo. Come Democratici abbiamo la fortuna di avere presentato un gruppo di candidati incredibilmente validi, e questo riguarda anche Obama, Edwards, etc. Detto ciò, il punto principale per me è, lo ripeto, avere qualcuno che sin dal primo giorno in cui metterà piede alla Casa Bianca sia in grado di lavorare. La domanda allora è: chi mi dà questa garanzia? Io rispondo che la più adatta è Hillary, che ha una grande esperienza di azione amministrativa per i tanti anni trascorsi al Senato, e sa quali siano i meccanismi di funzionamento di una burocrazia estremamente complessa. Poi, come madre di famiglia, desidero avere alla presidenza qualcuno che sia sensibile a problemi che vanno dai diritti umani sino al surriscaldamento del pianeta. Hillary lo è e può occuparsene meglio degli altri».

Viene però dipinta, e questa è l’altra faccia della medaglia, come parte dell’establishment, e quindi meno adatta a produrre i cambiamenti radicali che altri, come Obama, propongono.
«Siamo in una fase della nostra storia in cui abbiamo bisogno di cambiare, ma anche di qualcuno che sappia come produrre il cambiamento».

Pubblicato il: 10.01.08
Modificato il: 10.01.08 alle ore 13.12   
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 14, 2008, 02:40:54 pm »

Mario Marazziti: «Brutte notizie dall'Iran ma il fronte anti-forca si allarga»

Gabriel Bertinetto



Mario Marazziti traccia un primo bilancio degli effetti prodotti dalla moratoria delle esecuzioni capitali, varata dall’Onu a dicembre, cui la Comunità di S. Egidio di cui è portavoce ha contribuito fortemente. Per Marazziti il boia è sempre attivo, in Iran e altrove, ma ora mantenere la pena di morte significa sempre di più rimanere isolati a livello internazionale.

Meno di un mese fa l’Onu ha approvato la risoluzione sulla moratoria. Si può far un bilancio provvisorio dell’efficacia di quella iniziativa?

«Il primo risultato è che negli Usa è avvenuto l’esatto contrario di quello che è stato scritto in Italia. L’opinione pubblica di quel Paese non è affatto indifferente al tema. Anzi, il New York Times vi ha dedicato articoli ed editoriali, ponendolo come tema importante dell’agenda politica nazionale. Aumentano le frizioni interne al modello americano, con il Texas che da solo concentra ormai il 62% di tutte le esecuzioni a livello federale, e la California che al contrario uccide poco (un condannato all’anno in media) ma ha il braccio della morte più affollato (600 persone). Fatto quest’ultimo che espone alla pubblica attenzione la contraddizione fra il permanere della liceità della pena capitale e i suoi costi di applicazione. Sempre per restare agli Usa, dopo il New Jersey anche il Maryland si appresta ad abolirla. Così come ha fatto il primo gennaio, e cambiamo continente, l’Uzbekistan, uno Stato certo non dei più teneri, in cui le esecuzioni avvenivano tenendo segreta la data e nascosto il cadavere. In Kazakhstan, dove è in vigore una moratoria di fatto, il presidente del Senato ci ha assicurato di lavorare ad una legge abolizionista. Così come dovrebbero fare presto in Africa Gabon e Burundi. Tanto che nel corso del 2008 il numero dei Paesi in cui sono previsti omicidi legali scenderà sotto 50. Certo sono percorsi iniziati prima del voto all’Onu e continuati dopo, ma nell’insieme possiamo dire che si assiste ad una positiva accelerazione».

Che dire allora di quelle realtà in controtendenza, come l’Iran, con 23 impiccagioni nei primi dieci giorni di gennaio?

«Dall’Iran arrivano brutte notizie, che sono però in qualche modo purtroppo fisiologiche. In questa fase quel Paese si sente attaccato dalla comunità internazionale. Se si troverà il modo di costruire un processo di pace in Medio oriente che disinneschi il senso di esclusione di Teheran e riduca il tasso di destabilizzazione che quel regime esercita a livello internazionale, è verosimile che anche la pena di morte da loro cambi aspetto e non sia più rivendicata in modo simbolico come riaffermazione della propria identità nazionale. Del resto il mondo punta gli occhi sull’Iran perché ovvie ragioni di ordine geostrategico lo mettono al centro dell’attenzione, ma esistono tanti Paesi non meno tenaci nel difendere la pena capitale, spesso facendone una questione di prerogative sovrane da tutelare. Da Singapore ad alcuni Stati caraibici, dall’Egitto al Kuwait all’Arabia Saudita».

C’è un altro grande Paese asiatico, la Cina, che può vantare tristi primati in materia di esecuzioni. Vedi qualche sviluppo positivo anche lì?

«Nell’arco di un anno abbiamo già constatato quattro interventi importanti da parte delle autorità cinesi. Per due volte la Corte suprema ha sottolineato la necessità di ridurre ai casi più gravi l’applicazione delle sentenze capitali. Inoltre è stata limitata la facoltà di infliggere la pena di morte, prima riconosciuta anche ai tribunali locali. Anche se non abbiamo cifre precise, questo dovrebbe avere ridotto le esecuzioni del trenta per cento. Infine registro la risposta di un viceministro degli Esteri di Pechino al governo svedese che contestava l’opportunità che le Olimpiadi del 2008 si svolgano in un Paese in cui esiste la pena di morte. Dopo avere prevedibilmente respinto le critiche come un’ingerenza nei propri affari interni, il dirigente cinese ha aggiunto di augurarsi comunque che arrivi presto il giorno in cui anche nel proprio Paese quel tipo di condanna non esista più. Tante cose che messe insieme rivelano un cambiamento di clima. Inoltre in Cina oggi si discute se passare dalla fucilazione all’iniezione letale. So che ciò può sembrare strano nel momento in cui la Corte suprema degli Stati Uniti valuta al contrario se l’iniezione è un metodo compatibile con la Costituzione americana. Ma nel contesto locale potrebbe almeno impedire il traffico di organi espianti dai cadaveri dei condannati, tante volte denunciato. Se poi passiamo dalla Cina al Giappone, la triste notizia di tre recenti esecuzioni capitali ha come risvolto meno negativo il fatto che per la prima volta Tokyo le abbia rese pubbliche. Questo è conseguenza, io credo, dell’iniziativa dell’Onu, che strappa il problema della pena di morte dalla sfera degli affari privati di ogni singolo Stato e ne fa una questione internazionale».

Forse è questo allora il senso dell’appello dell’iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, che rivolgendosi alle autorità del suo Paese le esorta a rispettare la moratoria nel nome del diritto internazionale?».

«Sì, oggi disponiamo di un‘arma in più. La difesa della vita non è più solo l’obiettivo di associazioni sensibili ai diritti umani, ma uno standard verso cui tende la comunità internazionale nel suo complesso. Benché non sia vincolante, il suo mancato rispetto tende a lasciare sempre più isolati i Paesi che continuano ad applicare la pena di morte».

Pubblicato il: 14.01.08
Modificato il: 14.01.08 alle ore 8.34   
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 13, 2008, 05:00:17 pm »

In Cina via alla riforma agraria.

Contadini quasi proprietari

Gabriel Bertinetto


La terra ai contadini! Quasi sessant’anni dopo la nascita della Repubblica popolare, lo slogan con cui Mao Zedong convinse milioni di connazionali a seguirlo nella lotta rivoluzionaria, diventa realtà. Quasi. Un progetto di legge elaborato dal Comitato centrale (Cc) comunista fissa dei meccanismi attraverso cui il coltivatore, pur non acquisendo la proprietà dell’appezzamento in cui lavora, viene finalmente messo al riparo dagli abusi delle autorità e dei leader di partito locali. A questo infatti si era ridotto molto spesso in Cina il sistema della proprietà collettiva: a mettere nelle mani delle élite burocratiche la facoltà di disporre dei terreni agricoli a proprio piacimento. La terra ai funzionari, più che ai contadini.

Avviene infatti -ma ora le cose dovrebbero cambiare se le misure approvate dal Cc verranno effettivamente applicate- che i dirigenti politici distrettuali, come rappresentanti dello Stato proprietario della terra, diano in uso i lotti da coltivare alle singole famiglie. Sempre trincerandosi dietro il loro ruolo istituzionale però, quegli stessi amministratori locali non si fanno scrupolo di ritirare arbitrariamente la concessione, ogni qualvolta lo ritengano necessario per le esigenze di sviluppo locali. Per lo più senza indennizzare adeguatamente chi viene privato della propria fonte di sostentamento. E spesso rimpinguando invece adeguatamente il proprio portafogli, grazie alle mazzette che ricevono dagli speculatori edilizi beneficiari di quei trasferimenti d’uso del terreno.

Insomma, liberati dall'oppressione latifondiaria, i contadini cinesi erano finiti negli ingranaggi di un sistema che nominalmente attribuiva la proprietà alla collettività, ma di fatto toglieva loro ogni tutela di fronte alla prepotenza di chi in nome della collettività disponeva di loro.

Le cose cambieranno. O almeno così prevede un piano approvato dal Comitato centrale dopo una sessione di lavoro durata quattro giorni e riservata specificamente alle questioni rurali. Il piano, dice l’agenzia «Nuova Cina» riguarda «problemi di fondamentale importanza relativi allo sviluppo e alle riforme del settore agricolo», ed è destinato ad aumentare il reddito dei contadini. Formule vaghe. Fortunatamente altri media semi-ufficiali fanno capire qualcosa di più. In particolare un articolo del quotidiano China Daily firmato da Dang Guoyin, membro dell’Accademia delle scienze sociali», spiega che verrà messa in piedi una struttura legale che permetterà agli agricoltori di disporre della terra, pur non essendone proprietari. Potranno trasferire o affittare ad altri l’uso dell’appezzamento affidato loro. Sinora quella facoltà era prerogativa del sindaco o del governatore o del segretario di partito locale.

Lo stesso presidente Hu Jintao, ha dichiarato che i contadini potranno «trasferire con vari strumenti i contratti di gestione della terra». Insomma si comporteranno come se fossero proprietari anche se non lo sono. Hu ha pronunciato quelle parole durante una visita a Xiaogang, un villaggio della provincia dell’Anhui. Non casuale la scelta di reclamizzare il nuovo corso proprio nel luogo in cui per la prima volta nel 1978 fu introdotta la coltivazione individuale dei terreni. Primo passo di una serie di riforme che sono proseguite in altri settori della società cinese, soprattutto nelle città, ma si sono rapidamente bloccate nelle campagne.

Paradossalmente il riconoscimento del diritto all’uso individuale dei terreni, trent’anni fa, anziché favorire i singoli contadini, li aveva messi in balia dell’arbitrio burocratico. Tanto che i protagonisti di molte proteste nelle campagne cinesi, ancora l’anno scorso, non chiedevano che fosse legalizzata la proprietà privata, ma piuttosto venisse ammessa la proprietà comunitaria dei produttori a livello di villaggio. Quella proposta, non infrangendo il tabù della proprietà collettiva, sottraeva i promotori al rischio di pesanti conseguenze penali. Allo stesso tempo, se accolta, avrebbe messo i contadini al riparo dalle interessate ingerenze dei boss locali. Il progetto varato dal Cc va in quella direzione, nel senso che consentirà ai singoli contadini di accordarsi per consegnare i loro appezzamenti ad un unico gestore, anche esterno, e porre le basi per la creazione di imprese agro-industriali moderne.

Pubblicato il: 13.10.08
Modificato il: 13.10.08 alle ore 13.17   
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