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« Risposta #165 inserito:: Luglio 02, 2013, 04:40:40 pm » |
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Le intercettazioni Scarano: case e conti all'estero «Così il prelato usava lo Ior»
Il retroscena dal clamoroso arresto del monsignore che il Vaticano aveva rimosso un mese fa dai vertici della bancaROMA - Possiede case, box per auto, partecipazioni societarie. Ma monsignor Nunzio Scarano ha soprattutto accesso a svariati conti correnti aperti presso lo Ior e altre banche. Muove centinaia di migliaia di euro attraverso operazioni immobiliari e finanziarie, gestisce i fondi provenienti dalla beneficenza facendoli confluire nelle proprie disponibilità. E adesso è in questa girandola di entrate e uscite «fuori bilancio» che si stanno districando gli specialisti del Nucleo valutario della Guardia di Finanza guidati dal generale Giuseppe Bottillo. Perché altri filoni di inchiesta potrebbero aprirsi, svelando episodi di riciclaggio. E facendo emergere le figure di alcuni religiosi che avrebbero percepito denaro proprio attraverso i flussi gestiti da Scarano, come quel «fra Elia» che viene nominato spesso nelle conversazioni tra gli indagati intercettate negli ultimi mesi. Con i soldi l'alto prelato ha sempre mostrato dimestichezza, pagava generalmente con banconote di grosso taglio, tanto da essere soprannominato «mister 500». Sono proprio i colloqui captati dagli investigatori a mostrare quanto stretto fosse il suo legame con il vicepresidente dello Ior Massimo Tulli e i contatti frequenti con il direttore Paolo Cipriani, indagato in un altro capitolo dell'inchiesta sulla gestione dell'Istituto per le Opere Religiose. Proprio con loro discute spesso del trasferimento di soldi. La notizia dell' arresto di monsignor Scarano sul sito dell'IndependentLa notizia dell' arresto di monsignor Scarano sul sito dell'Independent «Te li faccio partire dal Vaticano». Quando si tratta di far rientrare dalla Svizzera una parte del patrimonio che secondo l'accusa è riconducibile agli armatori napoletani Paolo, Maurizio e Cesare D'Amico (anche loro coinvolti nell'inchiesta), il monsignore si attiva immediatamente. Scrive il giudice: «Scarano intrattiene frequenti e stretti rapporti con i D'Amico e dalle conversazioni sembra desumersi la cointestazione di un conto corrente con Cesare. È lui a garantire le operazioni finanziarie come "sicure" grazie ai suoi rapporti con lo Ior. Particolarmente significativa appare la conversazione del 17 maggio 2012 con Giovanni Carenzio nella quale Scarano descrive lo Ior come l'unico strumento sicuro e rapido per effettuare operazioni finanziarie e bancarie in elusione - quando non in violazione - della normativa antiriciclaggio e fiscale». Annotano i finanzieri: «Carenzio dice di aver avuto un aiuto economico ma non è sicuro di riuscire ad avere subito tale cifra e chiede a Scarano se gli può anticipare il denaro. Scarano dice che domattina gli farà un bonifico di 20, 30 mila euro». Scarano: Stasera mi mandi le coordinate, l'Iban. Ti faccio il swift. Sarà intorno ai 20-30, una cosa del genere perché riguarda la mia firma Carenzio: Scusami, ma da dove? Scarano: Te li faccio partire dal Vaticano, perché è l'unico modo celere che ho. Faccio la firma, dal direttore generale, mi porta questa persona che gentilmente si presta, e basta. I 61 assegni circolari. Fino al 1983 Scarano è dipendente della Banca d'America d'Italia e tre anni dopo decide di prendere i voti. Ogni mese riceve un bonifico da 20 mila euro da Cesare D'Amico con la causale «beneficenza», che finisce sui suoi conti personali. La procedura è «anomala», adesso si sta cercando di scoprire la vera ragione di queste elargizioni fisse. È titolare di svariati depositi presso lo Ior e ha un conto presso la filiale Unicredit di via della Conciliazione con un saldo che al 2 settembre 2011 ammonta a circa 456 mila euro. Non solo. Scarano possiede «un cospicuo patrimonio immobiliare» e per acquisirlo ha impiegato molti soldi: un milione e 155 mila euro soltanto nel periodo che va da novembre 2009 a marzo 2010. I sospetti dei pubblici ministeri si concentrano in particolare su due operazioni di mutuo da 600 mila euro l'una, effettuate sul conto Unicredit e su un altro deposito aperto presso una filiale Mps. Nel dicembre 2009 il monsignore decide infatti di estinguere il primo contratto e lo fa con 61 assegni circolari di importi che oscillano tra i 2.000 e i 20.000 euro emessi da 17 banche diverse. Sono tutti intestati ad amici e parenti e hanno come causale una «donazione». Da dove provengono realmente? Secondo una testimone interrogata nella parallela inchiesta avviata a Salerno sarebbe stato proprio il monsignore a incaricarla di compilare quegli assegni fornendole la lista degli intestatari. «Mi disse - aggiunge la donna - che i soldi arrivavano dallo Ior». E i milioni diventano «libri». Nel 2006 l'alto prelato acquista alcuni box auto a Salerno pagandoli con sei assegni da 10 mila euro l'uno emessi dal conto Unicredit e addebitati allo Ior. Poi c'è un deposito presso la banca del Fucino, un'altra movimentazione che porta a Francoforte. E le società «Prima Luce srl» e «Effegi Gnm srl» finanziate con almeno 500 mila euro. Su tutto questo si sta cercando di fare luce, anche se la documentazione relativa allo Ior continua a risultare inaccessibile. Le intercettazioni telefoniche dimostrano i trucchi che il monsignore utilizzava per eludere i controlli quando parlava di soldi. Generalmente i milioni erano «i libri della Treccani». Il 15 luglio 2012, alla vigilia del trasferimento dei venti milioni dalla Svizzera all'Italia affidato allo 007 Giovanni Maria Zito, lo contatta per gli ultimi dettagli. Scarano: Io credo che più libri porti e meglio è Zito: Se riesco raddoppio Scarano: Riesci a portare 20/25 libri? Zito: Quelli sicuri Scarano: Già quello è un buon traguardo, hai capito? Perché ci consente di fare un sacco di cose per noi Zito: Quello mi ha chiesto di portarne il doppio, 40! Fiorenza Sarzanini fsarzanini@corriere.it29 giugno 2013 | 10:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_giugno_29/ior-intercettazioni-sarzanini-2221909503014.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Luglio 04, 2013, 12:00:15 am » |
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Le indagini Finiscono sotto inchiesta altre 13 operazioni fatte sui conti dell'Istituto opere religiose Il mistero dei soldi provenienti da Montecarlo: Cipriani e Tulli rischiano il processo, Gotti Tedeschi verso l'archiviazione ROMA - Operazioni sospette per oltre un milione di euro effettuate su conti Ior aperti presso altre banche. Almeno tredici trasferimenti di denaro dei quali non si conosce l'origine e soprattutto il reale destinatario e la causale. Esattamente come accaduto per i 23 milioni di euro che si cercò di spostare nel 2010 dal Credito Artigiano a Jp Morgan. Su questo si concentrano le verifiche della procura di Roma che contesta il reato di riciclaggio al direttore generale Paolo Cipriani e del suo vice Massimo Tulli, entrambi dimissionari. Entro qualche giorno sarà notificato l'avviso della chiusura dell'indagine che prelude al rinvio a giudizio. Ma è soltanto il primo capitolo di un'inchiesta ben più ampia che continua su ulteriori illeciti che sarebbero stati compiuti negli ultimi tre anni dai vertici dell'Istituto per le Opere religiose. Gli accertamenti, affidati ai pubblici ministeri Stefano Pesci e Stefano Rocco Fava e coordinati dall'aggiunto Nello Rossi, sono ormai conclusi. E consentono ai magistrati di sollecitare l'archiviazione nei confronti dell'ex presidente Ettore Gotti Tedeschi, indagato per lo stesso reato proprio in relazione al trasferimento di 23 milioni di euro. Il banchiere ha infatti dimostrato di non aver mai avuto alcuna delega ad operare sui depositi e anzi ha sempre sostenuto di essere stato tagliato fuori dall'operatività dell'Istituto di credito «per la mia volontà di cambiare le regole e rendere trasparente la procedura». Una modalità evidentemente ignorata dalla direzione generale, come emerge anche dagli atti processuali dell'indagine che ha fatto finire in carcere monsignor Nunzio Scarano, accusato di aver tentato di far rientrare dalla Svizzera 20 milioni di euro di proprietà degli armatori D'Amico, che proprio oggi saranno interrogati in Procura. Sono le intercettazioni telefoniche allegate all'informativa degli investigatori del Nucleo Valutario guidati dal generale Giuseppe Bottillo a dimostrare quanto stretti siano i suoi rapporti con Tulli. Il 21 agosto 2012 l'alto prelato parla con l'amico Massimiliano Marcianò che deve effettuare un'operazione presso lo Ior e lo rassicura sulla disponibilità del vicedirettore. Annotano i finanzieri: «Scarano ha riferito al suo interlocutore di aver già preso accordi con Tulli e suggerisce a Marcianò di contattarlo personalmente: «Mettiti d'accordo con lui, lui aspetta la tua telefonata, io l'ho sentito qualche giorno fa, hai capito? Ha detto che tu lo chiami, ti metti d'accordo, e vai li te li fai dare» . Il sacerdote ha precisato, altresì, che era necessario contattare Tulli preventivamente: «L'importante è che tu lo chiami in mattinata così te li prepara» . In tale contesto le affermazioni di Scarano hanno lasciato ragionevolmente presupporre che l'operazione bancaria che Marcianò avrebbe dovuto perfezionare allo Ior era un prelevamento di denaro contante». La dimostrazione, secondo gli inquirenti, che la dirigenza della banca vaticana avrebbe consentito accessi anche a persone esterne, soprattutto «laiche», e questo nonostante i divieti imposti. Un intero capitolo della relazione è dedicato alle attività di Scarano presso lo Ior, visto che il prelato mette i propri conti a disposizione dei suoi amici per il passaggio di denaro. E «giustifica formalmente tali accrediti come una sua rendita estera di natura personale, ponendosi quindi come un vero e proprio schermo interposto al reale beneficiario economico dell'operazione e interrompendo, in tal modo, la tracciabilità del denaro. E questo ha indotto a ritenere quanto meno sussistenti significativi dubbi circa l'origine e la liceità delle provviste estere». Su tutte queste movimentazioni si continua a indagare, ma si cerca anche di scoprire l'origine del patrimonio di Scarano che gestiva numerosi conti Ior in Italia e all'estero aveva accesso ai depositi dell'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, di cui è stato contabile fino a un mese fa. In una conversazione intercettata con l'armatore Cesare D'Amico «dalla quale si è potuto evincere che l'imprenditore aveva disposto da Montecarlo un pagamento di «primi venti» (presumibilmente 20mila euro) a favore del sacerdote preannunciando altri accrediti per l'inizio del mese prossimo». Fiorenza Sarzanini 3 luglio 2013 | 8:57© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_03/finiscono-sotto-inchiesta-altre-tredici-operazioni-fatte-sui-conti-dell-istituto-fiorenza-sarzanini_11aaabae-e39a-11e2-a86e-c1d08ee83a64.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Luglio 13, 2013, 10:33:11 am » |
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Il giallo? Quel fax della Farnesina che le negò l'immunità «Shalabayeva può rientrare in Italia» L'irruzione nella villa di Casal Palocco chiesta dall'Interpol. Il capo della polizia non avvisato 13 luglio 2013 | 7:40 FIORENZA SARZANINI ROMA - Il ministero degli Esteri fu informato che la signora Alma Shalabayeva stava per essere espulsa dall'Italia. La prova è in un fax inviato il pomeriggio del 29 maggio scorso dal Cerimoniale della Farnesina all'ufficio Immigrazione della questura di Roma che chiedeva conferma del fatto che la donna godesse dell'immunità diplomatica. Quanto basta per rendere ancora più fitto il mistero su che cosa sia davvero accaduto in quei giorni e fino al 31 maggio, quando lei e la figlia Alua di 6 anni furono rimpatriate con un aereo privato della compagnia austriaca Avcon Jet messo a disposizione dalle autorità diplomatiche a Roma e non, come generalmente avviene, con un velivolo di linea. E su quali pressioni siano state esercitate dalle autorità kazake su quelle italiane affinché tutto si svolgesse con la massima urgenza. Del resto Alma Shalabayeva è la moglie di Mukhtar Ablyazov, il dissidente che il 7 luglio 2011 ha ottenuto lo status di «rifugiato» dalle autorità della Gran Bretagna. Come è possibile che questo non risulti negli archivi della Farnesina? E perché, come emerge dai primi accertamenti svolti in questi giorni, la Direzione centrale della polizia Criminale non avrebbe informato il capo della polizia del blitz compiuto nella notte tra il 28 e il 29 maggio? Ruota fondamentalmente intorno a questi due interrogativi l'indagine affidata dal governo al prefetto Alessandro Pansa che al vertice della polizia è arrivato quando la signora era stata ormai rispedita in patria. Un accertamento rapido che dovrà verificare proprio quanto accaduto. La catena di comando È l'Interpol, il 28 maggio, a segnalare la presenza di Ablyazov in Italia e sollecitarne l'arresto per una serie di truffe. Il mandato di cattura internazionale firmato dalle autorità kazake e moscovite viene trasmesso alla squadra mobile di Roma con le indicazioni sulla villetta di Casal Palocco dove l'uomo si sarebbe nascosto. Il capo della mobile Renato Cortese concorda con il questore Fulvio Della Rocca di eseguire l'irruzione appena farà buio. Nella nota viene sottolineato che Ablyazov è «armato e pericoloso», dunque si decide di chiedere rinforzi alla Digos. Il blitz si conclude con un nulla di fatto, visto che l'uomo non viene trovato. Sull'esito il questore Fulvio Della Rocca informa l'Interpol, che dipende direttamente dalla Dac guidata dal prefetto Matteo Chiusolo. Ma secondo la versione accreditata in queste ore, nessuno si preoccupa di avvisare il vertice della polizia e dunque il ministro dell'Interno Angelino Alfano. Ed ecco l'altro punto oscuro che l'indagine di Pansa dovrà chiarire: come è possibile che l'Interpol abbia sollecitato la cattura dell'uomo senza verificare che si trattava di un rifugiato politico? I due fax Gli agenti della Mobile che fanno irruzione nella villetta non trovano Ablyazov, ma sua moglie Alma. E per la donna è l'inizio dell'incubo, come ha più volte sottolineato il suo avvocato Riccardo Olivo che da settimane si batte per farla tornare in Italia e così sottrarla alla possibile vendetta del regime kazako. La signora esibisce un passaporto rilasciato dalla Repubblica del Centroafricana con il suo nome da nubile Alma Ayan. Gli agenti ritengono che il documento possa essere contraffatto e la trasferiscono nel centro di accoglienza di Ponte Galeria. È lì che la signora spiega di godere dell'immunità diplomatica. La mattina del 29 maggio il dirigente dell'ufficio Immigrazione Maurizio Improta chiede conferma al Cerimoniale della Farnesina, come prevede la prassi. La risposta arriva poche ore dopo. Il fax è firmato dall'addetto Daniele Sfregola. Attesta che la signora non gode di alcuna immunità. Precisa che era stata candidata dall'ambasciata del Burundi a diventare console onorario per le regioni del sud Italia, ma che quella candidatura era stata successivamente ritirata. Il ministero degli Esteri ha dunque svolto ricerche sul nominativo. Possibile non abbiano scoperto la circostanza più importante, cioè che si trattava della moglie di un rifugiato politico? L'iscrizione a scuola Eppure la presenza della donna in Italia ha certamente lasciato tracce, come risulta dal ricorso presentato dall'avvocato Olivo contro il decreto di espulsione. Ed è proprio questo ad alimentare i dubbi sull'operato delle autorità, soprattutto se si tiene conto che l'ambasciatore del Kazakistan in Italia, Andrian Yelemessov, avrebbe più volte sollecitato il blitz per catturare Ablyazov. E lo avrebbe fatto proprio con alcuni alti funzionari del Viminale che adesso dovranno chiarire la natura di questi contatti. Scrive il legale: «Alla signora Shalabayeva e a sua figlia Alua sono stati rilasciati dalle competenti Autorità britanniche, in data 1 agosto 2011, regolari permessi di soggiorno, con validità sino al 7 luglio 2016. A seguito di segnalazioni della Polizia Metropolitana di Londra, circa la sussistenza di un concreto ed imminente pericolo per l'incolumità sua e della famiglia e dell'impossibilità per la stessa Polizia di garantire loro un'effettiva e continua protezione onde evitare che Ablyazov venisse assassinato sul territorio Britannico, la signora Shalabayeva, pur in possesso dei permessi di soggiorno britannici, ha deciso di allontanarsi dal Regno Unito. Dopo un periodo in Lettonia, si è trasferita in Italia, facendo ingresso dalla frontiera con la Svizzera, nell'estate del 2012. A partire da tale momento dunque viveva sul territorio italiano, e più precisamente in una villa in affitto a Casal Palocco, con la figlia Alua, unitamente ad alcuni collaboratori domestici. La signora Shalabayeva ha condotto nel territorio italiano una vita assolutamente normale, non ha mai avuto alcun problema con le Autorità italiane, ed ha iscritto la propria figlia Alua ad una scuola di Roma, che ha frequentato regolarmente». Sarebbe bastato questo dettaglio per scoprire chi fosse realmente. 13 luglio 2013 | 7:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cronache/13_luglio_13/giallo-kazako-farnesina-shalabayeva_14741148-eb7b-11e2-8187-31118fc65ff2.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Luglio 14, 2013, 11:35:41 pm » |
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L'indagine di Pansa dimostra anche il coinvolgimento di funzionari di rango della Farnesina Lo staff di Alfano sapeva Così arrivò il via libera al blitz Il ruolo del capo gabinetto del Viminale e dei vertici della Polizia Fiorenza SARZANINI ROMA - Il gabinetto del ministro Angelino Alfano ha avuto un ruolo centrale nella vicenda culminata il 31 maggio scorso con l'espulsione dal nostro Paese di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua. E il resto lo hanno fatto i vertici del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, che si sono attivati su richiesta dell'ambasciatore del Kazakistan in Italia, Andrian Yelemessov. L'indagine disposta dal governo e affidata al capo della polizia Alessandro Pansa arriva dunque ai piani alti del Viminale. E dimostra che anche i funzionari di rango della Farnesina furono coinvolti nella procedura, durata appena due giorni, che si concluse con il rimpatrio della moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov a bordo di un jet privato pagato proprio dalle autorità kazake. Come è possibile che lo stesso Alfano e la titolare degli Esteri Emma Bonino non siano stati tempestivamente informati? E soprattutto, se davvero hanno saputo che cosa era accaduto soltanto il 31 maggio scorso come continuano a dichiarare, che cosa hanno fatto sino ad ora? Perché hanno ripetutamente assicurato che «le procedure sono state rispettate» salvo essere poi costretti a fare marcia indietro e revocare il provvedimento del prefetto? Proprio per rispondere a questi interrogativi bisogna tornare al 27 maggio scorso e ricostruire la catena di errori, omissioni, possibili bugie che segna questa drammatica storia. Le riunioni al Viminale Proprio quella sera, dopo aver cercato di contattare inutilmente il ministro Alfano, l'ambasciatore Yelemessov chiede e ottiene un appuntamento con il capo di gabinetto Giuseppe Procaccini. L'obiettivo appare chiaro: sollecitare l'arresto di quello che viene definito «un pericoloso latitante, che gira armato per Roma e si è stabilito in una villetta di Casal Palocco». Secondo la versione ufficiale, il prefetto spiega che non si tratta di affari di sua competenza e dunque propone al diplomatico di affrontare la questione con il Dipartimento di pubblica sicurezza. Il contatto viene attivato subito e la pratica finisce sul tavolo del capo della segreteria del capo della polizia, il prefetto Alessandro Valeri. La mattina successiva, è il 28 maggio, l'alto funzionario incontra l'ambasciatore e il primo consigliere Nurlan Zhalgasbayev. Di fronte a loro contatta la questura di Roma, sollecita un intervento immediato. Il caso viene affidato al capo della squadra mobile Renato Cortese che si muove sempre in accordo con il questore Fulvio Della Rocca. Insieme incontrano i due diplomatici kazaki. Le consultazioni di quelle ore coinvolgono anche l'Interpol, che dipende dalla Criminalpol e dunque dal vicecapo della polizia Francesco Cirillo. Sono proprio i funzionari di quell'ufficio a trasmettere ai colleghi il mandato di cattura internazionale contro Ablyazov. L'uomo - risulta dal provvedimento - è accusato di truffa, ricercato per ordine dei giudici kazaki e moscoviti. Le massime autorità di polizia concordano dunque sulla necessità di intervenire con un blitz nella villetta di Casal Palocco. Possibile che nessuno si sia premurato di scoprire chi fosse davvero questo Ablyazov? È credibile che nessun accertamento abbia consentito di scoprire che si trattava di un dissidente che aveva già ottenuto asilo politico dalla Gran Bretagna? I contatti con la Farnesina Il blitz scatta poco dopo la mezzanotte del 28 maggio. Sono una quarantina gli agenti coinvolti. Finisce come ormai è noto, visto che in casa non c'è Ablyazov e gli agenti trovano soltanto sua moglie e la figlioletta che dorme. Viene avviata la procedura di espulsione della donna che però fa presente di godere dell'immunità diplomatica grazie al passaporto rilasciato dalle autorità della Repubblica del Centroafricana. L'ufficio Immigrazione chiede conferma di questa circostanza al Cerimoniale della Farnesina che il 29 pomeriggio invia un fax di risposta che nega questo privilegio. «Non avevamo accesso a questi dati perché la signora aveva fornito il suo cognome da nubile», hanno fatto sapere ieri dal ministero degli Esteri. In realtà la comunicazione trasmessa dal capo della Cerimoniale Daniele Sfregola contiene altre informazioni sullo status della signora e dunque appare almeno strano che non si fosse a conoscenza della sua particolare condizione di pericolo e della necessità di accordarle protezione. In ogni caso, dopo il rimpatrio della signora e della bambina, è proprio alla Farnesina che l'avvocato Riccardo Olivo si rivolge per chiedere assistenza. Bonino viene dunque a conoscenza di ogni aspetto della vicenda. E contatta Alfano. La linea del governo La ricostruzione effettuata in queste ore certifica che quantomeno dal 31 maggio, quindi poche ore dopo il decollo del jet privato, i due ministri sono perfettamente informati di quanto accaduto. Ma è davvero così? Possibile che il prefetto Procaccini non abbia ritenuto di dover relazionare ad Alfano il motivo della visita dell'ambasciatore kazako, visto che l'istanza iniziale sollecitava un incontro proprio con il ministro? E come mai il prefetto Valeri, dopo aver attivato la questura e di fatto concesso il via libera all'intervento sollecitato a livello diplomatico, decise di non parlarne con il prefetto Alessandro Marangoni, all'epoca capo della polizia reggente? Perché non lo fece il suo vice Cirillo? Ed è credibile che non ci fu alcun contatto successivo con la Farnesina, viste le relazioni intessute con l'ambasciatore kazako a Roma? A questi interrogativi dovrà rispondere l'indagine condotta dal prefetto Pansa, anche tenendo conto che il 3 giugno fu proprio il prefetto Valeri a sollecitare una relazione per ricostruire ogni passaggio della vicenda, che gli fu trasmessa poche ore dopo dal questore Della Rocca. Il capo della polizia dovrà individuare le responsabilità dei tecnici, ma questo non sarà comunque sufficiente a chiarire i risvolti politici della vicenda. In questi 40 giorni trascorsi dopo la partenza forzata della signora Shalabayeva e di sua figlia, è infatti sempre stato assicurato che non c'era stata alcuna irregolarità. Ma nonostante ciò, due giorni fa il governo è stato costretto a revocare il provvedimento di espulsione, assicurando che avrebbe fatto ogni sforzo per far tornare la donna e la bambina in Italia. Una presa di posizione forte, arrivata però troppo tardi. 14 luglio 2013 | 9:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_14/bonino-alfano-pasticcio-kazako_c1f143ae-ec4d-11e2-b462-40c7a026889e.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Luglio 16, 2013, 06:23:34 pm » |
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Punti oscuri Caso Shalabayeva: spunta un documento con il nome da sposata della donna kazaka Alla Farnesina risultava solo quello da nubile. I documenti trasmessi dall'ambasciata kazaka alimentano i dubbi ROMA - C'è una nota trasmessa dall'ambasciata kazaka alla questura di Roma che alimenta ulteriori dubbi sulla versione ufficiale. Perché rivela nuovi punti oscuri nella procedura che ha portato all'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua. In quel documento la donna viene infatti indicata con il suo nome da sposata e non con quello da nubile che invece era sul passaporto esibito di fronte ai poliziotti. Perché non fu chiesto alla Farnesina di fare accertamenti anche su questa identità? E perché l'Interpol prese per buone le informazioni fornite dai kazaki senza fare ulteriori riscontri? La relazione della diplomazia di Astana ricostruisce la storia di Mukhtar Ablyazov e si conclude con la «richiesta di arresto». L'uomo viene indicato come «ricercato inserito nel Bollettino rosso internazionale». I kazaki scrivono che - oltre ai reati contestati dalla Federazione Russa e dell'Ucraina - «nel febbraio 2012 in Gran Bretagna, come una decisione della Corte suprema di Londra, gli è stata attribuita la detenzione in carcere per un periodo di 22 mesi per mancanza di rispetto della Corte, ma lui è fuggito dalla giustizia inglese». Perché, oltre a confermare l'esistenza di un ordine di cattura internazionale, l'Interpol non ha svolto accertamenti chiedendo conferma di queste circostanze ai colleghi britannici? L'ulteriore «punto oscuro» riguarda l'identità della signora. Nella nota, dopo aver fornito l'indirizzo di Casal Palocco «dove Ablyazov attualmente soggiorna», gli addetti dell'ambasciata scrivono: «Preghiamo identificare le persone che vivono nella villa. Non è escluso che nella villa conviva sua moglie, cittadina del Kazakistan, Alma Shalabayeva, nata il 15 agosto 1966». Sul passaporto esibito dalla donna al momento del blitz della polizia compare il suo cognome da nubile «Alya» ed è proprio questa l'identità trasmessa alla Farnesina al momento di chiedere se davvero godesse dell'immunità diplomatica come lei aveva dichiarato. Perché non si decise di fare un ulteriore controllo trasmettendo anche il nominativo completo, così come compariva nei documenti ufficiali messi a disposizione dalla diplomazia? Forse un ulteriore controllo avrebbe consentito di scoprire che si trattava della moglie di un dissidente. A meno che si fosse invece già deciso che non era necessario. 16 luglio 2013 | 8:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA F. Sar. da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_16/spunta-un-documento-con-il-nome-da-sposata-della-donna-kazaka_fec56726-edd6-11e2-98d0-98ca66d4264e.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Luglio 17, 2013, 03:58:35 pm » |
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IL CAPO DI GABINETTO LASCIA PER IL CASO KAZAKO Procaccini si dimette e rivela: «Informai il ministro. Mi sento offeso» Alfano: «Nessuno ci ha detto che si trattava di un dissidente né abbiamo saputo nulla dell'espulsione di moglie e figlia» Fiorenza SARZANINI Non ha nascosto di essere «nauseato e ingiustamente offeso» Giuseppe Procaccini, il capo di Gabinetto del Viminale che ieri si è dimesso in seguito al coinvolgimento nel caso del rimpatrio della moglie e della figlia del dissidente kazako Ablyazov. Procaccini, nonostante Angelino Alfano lo abbia negato in Parlamento, sostiene di averlo informato dell'incontro con l'ambasciatore kazako «venuto a parlare della ricerca di un latitante» e di aver passato la pratica al prefetto Alessandro Valeri. Il ministro Alfano, dopo aver accettato le dimissioni di Procaccini, ha chiesto l'avvicendamento di Valeri. Ha scelto di andarsene prima di essere cacciato, al termine di una carriera durata quarant'anni e segnata dalla fiducia massima di tutti i ministri che si sono avvicendati all'Interno. Ma non ha nascosto di essere «nauseato, per quanto è accaduto». Perché Giuseppe Procaccini è un uomo delle istituzioni e mai sarebbe rimasto al suo posto dopo il terremoto provocato dall'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, di appena 6 anni, il 31 maggio scorso a bordo di un jet privato messo a disposizione dalle autorità kazake. Ma mai avrebbe immaginato che potesse finire così. Il prefetto paga per tutti e nella lettera di dimissioni consegnata lunedì sera al titolare dell'Interno Angelino Alfano lo ha scritto esplicitamente: «Dopo tanti anni di carriera vado via, ma sono stato ingiustamente offeso». Il motivo lo ha spiegato in maniera chiara a tutti coloro che lo hanno chiamato ieri per esprimergli solidarietà: «Ho ricevuto l'ambasciatore kazako al Viminale perché me lo disse il ministro spiegandomi che era una cosa delicata. L'incontro finì tardi e quindi quella sera non ne parlai con nessuno. Ma lo feci il giorno dopo, spiegando al ministro che il diplomatico era venuto a parlare della ricerca di un latitante. Lo informai che avevo passato la pratica al prefetto Valeri». Procaccini lo dice adesso che ha già sgomberato l'ufficio, consapevole che il ministro continuerà a negarlo, come del resto ha fatto ieri di fronte al Parlamento. Eppure è proprio questa circostanza a tenere aperta la vicenda, il caso politico che continua a far fibrillare il governo. Perché riapre gli interrogativi sulla catena informativa arrivata fino al vertice del Viminale. «Ho saputo di questa storia per la prima volta quando sono stato contattato da Emma Bonino», ha sempre sostenuto Alfano. Procaccini fornisce una diversa versione. Nega di avergli parlato dell'espulsione e dell'avvenuto rimpatrio, ma conferma di averlo informato relativamente al colloquio avuto con il diplomatico. Esattamente come ha sempre fatto nel corso della sua carriera, non a caso è famoso al Viminale per i continui «appunti» che redige. Del resto, sia pur velatamente, ne lascia traccia proprio nella lettera al ministro, il suo ultimo atto ufficiale: «Le confermo che ho mantenuto una linearità istituzionale priva di ogni invasività, cercando di operare da tramite funzionale circa la presenza nel nostro Paese di un pericoloso latitante armato». È questo il nodo. Il capo di gabinetto ribadisce che nessuno gli parlò del fatto che Mukhtar Ablyazov fosse un dissidente. Lo ribadisce adesso che ha deciso di farsi da parte: «Nessuno mi parlò mai dell'espulsione di sua moglie e di sua figlia. Anzi. Al termine del blitz Valeri mi comunicò che il latitante non era stato trovato e per me la vicenda si chiuse lì. Non sapevo nulla dell'espulsione. Nessuno mi ha informato di quanto accaduto relativamente alla pratica gestita dall'ufficio Immigrazione». Lo scrive anche nella missiva consegnata ad Alfano: «Sono testimone di quanta distorsione profonda dalla realtà sia stata consumata in questi giorni da una comunicazione velenosa, offensiva, fantasiosa e stancante. Devo confessarle che ho continuamente ripercorso la vicenda e mi sono anche interrogato se qualcosa mi fosse sfuggita, ma tutto mi riporta alla obiettiva circostanza di non essere stato informato». Non sono stati facili questi ultimi giorni al Viminale. Perché via via che filtrava la ricostruzione di quanto accaduto in quei quattro giorni di fine maggio, Procaccini e il ministro si sono confrontati in continuazione. E in alcuni momenti c'è stata anche tensione forte, confronto aspro per la necessità di tenere una posizione che diventava sempre meno credibile. Tra otto mesi il prefetto va in pensione. Non avrebbe mai creduto di poter andare via prima. Lo scrive in modo forte, diretto: «Penso che per un capo di gabinetto dell'Interno ci sia un livello diverso di obblighi e responsabilità. L'essenza della mia funzione mi impedisce di replicare esplicitamente ma è poi la funzione stessa che è fondata sul rispetto, la fiducia senza condizioni, la stima e l'autorevolezza interna. Gli attacchi indecenti minano e incrinano tale delicato ruolo e influenza, o rischiano di farlo, il rapporto fiduciario con gli uomini delle forze di polizia, del soccorso e i tanti colleghi e collaboratori. Eppure fino a ieri l'ho sentita la fiducia, ne sono stato fiero nei tanti anni di servizio pubblico, soprattutto cercando di dare un esempio. È vero che è amaro e ingiusto lasciare in questo modo, ma l'Amministrazione ha ancora più bisogno dell'esponente apicale motivato». C'è un aspetto della sua vita privata che Procaccini svela nella lettera proprio per dimostrare il dolore e lo sgomento per l'esito di questa storia. E infatti, dopo aver sottolineato il suo «totale impegno personale», scrive: «Ciò mi ha sicuramente limitato nella mia dimensione familiare e ne ho sempre sofferto, soprattutto quando ho visto il mio amato figliolo Fabrizio andare pian piano via. Di lui ricordo che mi disse con un filo di voce: "Avrei voluto che tu fossi orgoglioso di me". Eppure io lo sono stato immensamente e spero che lui sappia quanto e nell'assistere al suo saluto gli ho promesso che avrei cercato di agire perché lui fosse orgoglioso di me. Anche questo è per me motivo di tormento e non posso non tenerne conto mentre vengo ingiustamente offeso. Del resto la soddisfazione di aver lavorato tanti anni in una posizione che non potevo neanche immaginare di ricoprire mi lascia senza rimpianti». Procaccini sa che la parola fine non è stata ancora scritta e conta «sulla pacata riconsiderazione delle azioni, affinché si possa riportare alla ragione i tanti preconcetti, le tante malevolenza espresse e favorite e le tante affermazioni oltraggiose e quelle avventatezze nei giudizi che sono propri di un periodo amaramente senza "rispetto"». 17 luglio 2013 | 7:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_17/informai-ministro-misento-offeso_5a633b3a-ee9a-11e2-b3f4-5da735a06505.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Luglio 23, 2013, 04:25:18 pm » |
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L'inchiesta Astana: un «buco» di 10 miliardi di dollari
Dietro il blitz a Roma la guerra delle banche
Tra i «truffati» anche 8 istituti italiani
Ci si interroga sui contatti tra l'ambasciatore e la Farnesina: chi gli «consigliò» di rivolgersi al ministero dell'Interno?FIORENZA SARZANINI ROMA - Ci sono numerosi interessi, soprattutto economici, che si muovono dietro l'affaire kazako. E potrebbe essere proprio questo il filo da seguire per individuare chi ha ordinato la «consegna» della signora Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua alle autorità di Astana. E così scoprire i retroscena dell'operazione cominciata ufficialmente il 28 maggio scorso con la visita dell'ambasciatore Andrian Yelemessov alla questura di Roma e terminata il 31 maggio alle 19 con la partenza delle due donne a bordo del jet privato della compagnia austriaca Avcon. Ma forse avviata diversi giorni prima. Si rafforza l'ipotesi che quell'espulsione servisse a far uscire allo scoperto il marito Mukhtar Ablyazov, che fosse il ricatto all'Italia dopo la fuga dell'uomo. Perché si scopre che il dissidente era in realtà scappato dalla Gran Bretagna nonostante questo gli facesse automaticamente perdere lo status di rifugiato. Braccato da chi lo accusa di aver messo in piedi una truffa da circa 10 miliardi di dollari quando era presidente della Bta, la banca più importante del Kazakistan che per questo aveva avviato contro di lui un'azione legale in Gran Bretagna, lo stesso Paese che poi decise di concedergli asilo politico. E nella lista dei creditori, si scopre adesso, ci sono anche otto istituti di credito italiani, «inseriti nell'elenco delle vittime di frodi di Ablyazov». L'ATTIVAZIONE ITALIANA DEL 16 MAGGIO - Mario Trotta, l'ex carabiniere e adesso investigatore privato titolare dell'agenzia Sira che pedinava Ablyazov, sostiene di aver ricevuto l'incarico il 16 maggio da un'agenzia di Tel Aviv. Chi aveva ricevuto l'informazione che il dissidente era giunto a Roma e poteva essere catturato? E da chi arrivava? Il team incaricato dei pedinamenti presenta numerose relazioni alle autorità kazake, aggiornate con tutti gli spostamenti dell'uomo. L'ultima si riferisce alla serata del 26 maggio quando lo seguono mentre va a cena in un ristorante nella zona dell'Infernetto e poi fino al rientro a casa. Dopo non accade più nulla. Loro sono convinti che sia rimasto nella villetta di Casal Palocco e dunque continuano gli appostamenti. Invece Ablyazov, che si è accorto di essere sotto controllo o forse ha ricevuto una «soffiata», riesce a fuggire. Il 28 maggio l'ambasciatore Andrian Yelemessov contatta per tre volte il ministro dell'Interno Angelino Alfano. Ufficialmente non sa che la preda è ormai scappata. «Non potevo rispondere e incaricai il capo di gabinetto Giuseppe Procaccini di occuparsene», assicura. In attesa di recarsi al Viminale, contatta la segreteria del questore e poi viene ricevuto dal capo della Squadra mobile Renato Cortese. Porta i documenti per dimostrare dove si nasconde Ablyazov, ne chiede l'arresto. Ebbene, 55 giorni dopo quell'incontro, non è stato ancora svelato chi «consigliò» al diplomatico di recarsi direttamente negli uffici di San Vitale. Generalmente gli ambasciatori hanno come interlocutore la Farnesina. Possibile che Yelemessov non attivò subito quel canale? Possibile che non parlò con nessuno degli Esteri, prima di bussare alle porte del ministero dell'Interno? NELLA LISTA UNICREDIT E MEDIOBANCA - Eppure Ablyazov era al centro di un vero intrigo internazionale, come dimostrano i documenti raccolti in Gran Bretagna. La scoperta di un «buco» di almeno 10 miliardi di dollari viene scoperto dalla Bta nel febbraio 2009. Si decide così «una ristrutturazione grazie al Fondo sovrano Samruk Kazyna», ma soprattutto si scopre che mentre ricopre l'incarico di presidente, Ablyazov avrebbe concesso «ingenti prestiti a enti impossibili da individuare, spesso senza garanzie». Il sospetto è che tra questi ci fossero «organizzazioni di cui lo stesso Ablyazov era proprietario e beneficiario». Sono proprio gli atti raccolti nel Regno Unito a rivelare che «tra i creditori che a livello internazionale erano stati vittime delle frodi di Ablyazov figuravano i seguenti istituti di credito italiani: Unicredito italiano, Banca popolare di Vicenza, Banca Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca, Banca agricola mantovana, Banca nazionale del lavoro, Banca Antonveneta, Banca Ubae». Tutti insieme hanno ottenuto il sequestro dei suoi beni. LE VILLE CON PISCINA E SALE DA BALLO - Sono proprio i documenti allegati al fascicolo della Corte britannica e rivelare come le proprietà di Ablyazov avessero un valore oscillante tra i 41 e i 46 milioni di sterline e nell'aprile scorso i giudici hanno autorizzato i liquidatori alla vendita delle proprietà immobiliari. Il bene di maggior pregio è «Carlton House, villa a nord di Londra, acquistata nel 2006 attraverso una società offshore per 15,5 milioni di dollari. È composta fra l'altro da una sala da ballo di circa 50 piedi, una biblioteca, 9 camere da letto, una piscina e un bagno turco da 12 persone». In vendita anche «Oaklands Park, nel Surrey, acquistata nel 2006 attraverso una società offshore per 8,15 milioni di sterline. È composta da 100 acri di terreno e otto case». E poi c'è «Alberts Court, appartamento che si trova a St.John's Wood a Londra, acquistato nel 2008 attraverso una società offshore per 965 mila sterline». Questa è la fortuna di Ablyazov. Difficile credere che dietro la vicenda che riguarda la sua famiglia non ci sia soprattutto la battaglia per mettere le mani sul suo patrimonio. 23 luglio 2013 | 7:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_23/caso-kazako-dietro-blitz-guerra-delle-banche_5ef2ad1e-f356-11e2-8b7b-cca7146f8a5e.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Luglio 27, 2013, 06:36:43 pm » |
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Il tribunale: Shalabayeva, la polizia commise errori La relazione-denuncia del giudice: anomalie ed omissioni FIORENZA SARZANINI ROMA - Il giudice di pace «è stata tratta in inganno dalla polizia che non le ha trasmesso atti fondamentali per identificare la signora Alma Shalabayeva. In questa vicenda ci sono state anomalie e omissioni nell'attività dei funzionari che ho già segnalato al procuratore». È un atto di accusa grave e pesantissimo quello del presidente del tribunale di Roma Mario Bresciano. Al termine dell'ispezione sollecitata dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, l'alto magistrato «assolve» il giudice che convalidò il trattenimento della signora nel Centro di espulsione di Ponte Galeria, fornendo così il via libera alla sua espulsione. Ma decide di trasmettere il fascicolo al capo dei pubblici ministeri evidenziando «il fumus di possibili reati di chi gestì la procedura». E dunque sollecitando l'apertura di un'indagine. Non usa mezzi termini Bresciano per ricostruire quanto accaduto. E spiega: «Nel lavoro della dottoressa Stefania Lavore non ho riscontrato alcuna irregolarità, anzi. Non posso negare che un togato con maggiore esperienza avrebbe potuto accorgersi delle tante stranezze, ma questo non inficia assolutamente quanto è stato fatto. Il comportamento della giudice è stato ineccepibile. L'ho scritto nella relazione che ho trasmesso al ministro. Non altrettanto si può dire della polizia che certamente ha agito con una fretta insolita e anomala. Ma soprattutto ha tenuto per sé delle informazioni preziose». Il problema è noto. Durante l'irruzione nella villetta di Casal Palocco la signora consegnò agli agenti della squadra mobile un passaporto rilasciato dalla Repubblica Centroafricana intestato ad Alma Ayan che attestava anche il riconoscimento dell'immunità diplomatica. Fu ritenuto falso, tanto che la donna fu denunciata proprio per aver presentato un documento di identità contraffatto. Il dirigente dell'Uffico immigrazione Maurizio Improta chiese notizie al cerimoniale della Farnesina e la risposta del responsabile Daniele Sfregola escluse che la signora potesse avere questa prerogativa: «Si comunica che la nominata non gode dello status diplomatico-consolare nella Repubblica italiana». Nulla fu invece richiesto riguardo alla vera identità della donna, nonostante le sue generalità fossero state comunicate con una nota ufficiale del 28 maggio trasmessa dall'ambasciata kazaka alla questura di Roma al momento di sollecitare l'arresto del marito: «Preghiamo identificare le persone che vivono nella villa. Non è escluso che nella villa conviva sua moglie, cittadina del Kazakistan, Alma Shalabayeva, nata il 15 agosto 1966». Non solo. Due giorni dopo, un ulteriore appunto della diplomazia, indirizzato agli stessi uffici di San Vitale, specificava: «Si conferma che la signora Alma Shalabayeva è cittadina della Repubblica del Kazakhistan. Possiede il passaporto nazionale numero N0816235 rilasciato il 3 agosto 2012 e l'altro passaporto nazionale numero N5347890 rilasciato il 23 aprile 2007. In base ai dati dell'Interpol la signora Alma Shalabayeva può usare i documenti di identità falsi per il nome di Alma Ayan, nata il 15 agosto 1966 con passaporto nazionale della Repubblica dell'Africa Centrale N06FB04081 rilasciato il 1 aprile 2010». Ed ecco l'atto di accusa del presidente Bresciano: «Di tutto questo non è stata data comunicazione. C'è stata una mancata trasmissione di atti che ha avuto gravissime conseguenze. La polizia avrebbe dovuto fornire tutti i documenti riguardanti l'identità Alma Shalabayeva e invece non l'ha fatto». La polizia sostiene che quegli atti erano stati inseriti nel fascicolo inviato al Cie in vista dell'udienza di convalida. La giudice di pace ha verbalizzato il contrario: «Il nome Shalabayeva non risultava in nessuna relazione ufficiale depositata al mio ufficio. Gli unici a pronunciare il nome Shalabayeva furono gli avvocati». Adesso sarà il procuratore Giuseppe Pignatone a dover decidere come procedere. Il giallo sulla «consegna» della moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov non è affatto risolto. 27 luglio 2013 | 7:31 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cronache/13_luglio_27/tribunale-shalabayeva-polizia-commise-errori-sarzanini_db718f18-f67b-11e2-9839-a8732bb379b1.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Settembre 08, 2013, 05:05:52 pm » |
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IL GIALLO KAZAKO Ablyazov, il ricatto dietro la fuga L'espulsione della moglie forse una «contropartita» pagata da Roma. Decisa in fretta la "consegna" della donna e della figlia Fiorenza SARZANINI Il documento di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako espulso dall'Italia insieme alla figlia di 6 anni (Ansa) Il documento di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako espulso dall'Italia insieme alla figlia di 6 anni (Ansa) ROMA - Chi ha avvisato Mukhtar Ablyazov di essere stato individuato? E perché, prima di essere ricevuto al Viminale, l'ambasciatore kazako Andrian Yelemessov ha deciso di recarsi direttamente in questura? Sono questi i due interrogativi chiave per comprendere quanto accaduto tra il 28 e il 31 maggio scorsi, fino alla «consegna» di sua moglie Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua. Perché l'incrocio delle testimonianze e dei dati emersi dai documenti depositati in Parlamento sembra confermare l'ipotesi che l'espulsione delle due donne sia in realtà la contropartita pagata dall'Italia al governo di Astana per essersi fatti sfuggire il loro ricercato. Il tentativo estremo per obbligare l'uomo ad uscire allo scoperto. Un ricatto al quale non si è stati in grado di sottrarsi . La pista svizzera. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio, quando gli agenti della squadra mobile entrano nella villetta di Casal Palocco, sequestrano 50 mila euro in contanti e una macchinetta fotografica. Nella memory card ci sono immagini di Ablyazov a Roma con i suoi familiari. La data dell'ultima istantanea è quella del 25 maggio. Mario Trotta, l'investigatore incaricato da un'agenzia israeliana di rintracciare l'uomo, assicura di averlo seguito il 26 maggio mentre si recava in un ristorante nella zona dell'Infernetto. Poi più nulla. La notte dell'irruzione della polizia gli uomini di Trotta sono ancora appostati davanti alla villa, convinti che sia all'interno. E invece niente, il blitz va a vuoto. Ablyazov potrebbe essersi accorto di essere pedinato, oppure ha ricevuto la giusta soffiata. Di certo è riuscito a fuggire dal nostro Paese beffando chi era pagato per tenerlo sotto controllo. La convinzione di chi sta cercando di ricostruire i suoi spostamenti è che sia andato in Svizzera, lì dove ha il proprio quartier generale, dove vive la figlia Madina e dove si sono adesso rifugiati anche gli altri parenti. Proprio a Ginevra risiede il notaio che il 3 giugno ha autenticato i documenti della signora Shalabayeva che il suo avvocato Riccardo Olivo ha poi presentato alle autorità del nostro Paese per dimostrare che non era stato compiuto alcun falso . L'identità di copertura. Certamente ha potuto godere di una rete di protezione con collegamenti internazionali, come del resto era già accaduto in passato. La lista delle persone che ha incontrato è nelle mani degli inquirenti e da quella si riparte per cercare di scoprire dove si trovi adesso. Altri elementi possono arrivare dagli atti prodotti dai legali di sua moglie. L'identità sul passaporto rilasciato dalle Repubblica Centroafricana è una «copertura». Alma Alya infatti non esiste, non è il suo cognome da nubile come era stato detto inizialmente. Il cognome familiare è Shalabayeva, mentre dopo il matrimonio è diventata Ablyazova, come risulta proprio da tutti i documenti autenticati e trasmessi ai giudici italiani. Come è possibile che tutto questo non risultasse alla Farnesina? Eppure proprio con l'identità «Alya» era nota all'ufficio del Cerimoniale. Risulta dal fax trasmesso dal capo vicario di quell'ufficio alla questura di Roma il 29 maggio che chiede conferma dell'immunità diplomatica concessa alla signora. Scrive il funzionario Daniele Sfregola: «Si comunica che l'ambasciata della Repubblica del Burundi ha proposto il 17 aprile scorso la candidatura della signora Ayan a console onorario per le regioni del Sud Italia». L'istanza fu poi ritirata, ma è presumibile che siano stati effettuati accertamenti sulla presenza della donna nel nostro Paese. Nonostante questo, in poche ore è stato fornito il via libera alla procedura attivata per l'espulsione . La caccia dei kazaki. Una fretta che emerge in maniera forte anche nei rapporti tra le autorità kazake e la polizia italiana. La mattina del 28 maggio l'ambasciatore Yelemessov cerca più volte il ministro dell'Interno Angelino Alfano che però dice di non averci parlato. Poco dopo contatta la segreteria del questore, che non può riceverlo perché è fuori ufficio, e dunque si presenta alla Squadra Mobile. Chi gli ha dato le indicazioni di rivolgersi alla questura, visto che soltanto in serata viene ricevuto dal capo di Gabinetto del Viminale Giuseppe Procaccini? Chi gli ha fornito le credenziali che gli hanno aperto tutte le porte? Gli stessi vertici della polizia hanno ammesso «l'attivismo e l'invasività» del diplomatico. Ma soprattutto hanno accolto ogni sua richiesta in appena 75 ore. Tre giorni dopo il primo contatto ufficiale tra i due Paesi, le due donne erano in volo sul jet privato, messo a disposizione dai kazaki, che le riportava in patria. «Consegnate» per costringere il marito a consegnarsi a sua volta . 22 luglio 2013 | 9:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cronache/13_luglio_22/ablyazov-ricatto-dietro-fuga_3ae9954c-f291-11e2-8506-64ec07f27631.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Settembre 22, 2013, 04:43:51 pm » |
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I verbali del Cavaliere e i rapporti con l'ex direttore dell'Avanti
Spese e casa di Montecarlo: i contatti tra Lavitola e Berlusconi
L'ex premier: «Tarantini? Una comodità. Mai pagato una donna»ROMA - Gianpy Tarantini? «Una comodità». I soldi versati ogni mese? «Guadagnavo un milione e mezzo al giorno, avevo una ricchezza di 12 miliardi di euro, faccia il calcolo di cosa siano tremila, quattromila euro». In settanta pagine di verbale, oltre tre ore davanti ai pubblici ministeri di Bari, Silvio Berlusconi tenta di respingere così l'accusa di aver pagato il silenzio dell'imprenditore barese sulle feste nelle sue residenze. L'inchiesta è ormai terminata, i magistrati sarebbero in procinto di chiedere il rinvio a giudizio dell'ex premier per il reato di induzione del testimone a mentire. Intanto gli atti istruttori sono stati messi a disposizione delle parti. La scelta di Berlusconi di presentarsi a Bari risale al 17 maggio scorso ed era stata interpretata come un gesto collaborativo nella speranza di poter così ottenere l'archiviazione del fascicolo. Ma nuovi dettagli sono emersi, compresa la prova dei contatti con Lavitola poco prima della campagna di stampa contro l'allora presidente della Camera Gianfranco Fini. Le «pressioni intense» L'interrogatorio di fronte al procuratore aggiunto Pasquale Drago riguarda naturalmente i 500 mila euro messi a disposizione di Tarantini attraverso il faccendiere Valter Lavitola, ma anche le dazioni mensili e il pagamento dei difensori. Berlusconi, come del resto aveva già fatto pubblicamente, nega di essere stato sotto ricatto e anzi sostiene di essere un benefattore. «Non avevo nessun motivo per dover mandare messaggi a Tarantini di essere attento a quello che diceva, era già stato detto tutto quanto. L'unica cosa per cui dopo io ho ceduto alle pressioni di Lavitola, intense devo dire, è stato proprio per il fatto che avevo conosciuto Tarantini in una situazione di benessere forte. Aveva affittato ville in Sardegna, viaggiava su aerei privati e francamente sentirlo precipitato...». Il magistrato si mostra stupito della «amicizia con questo signore», Berlusconi risponde: «Non è che ho stretto una profonda amicizia, non è che ci parlavo di fatti miei. Devo dire che era piacevole avere, in mezzo a tante persone che ero costretto a invitare a cena, una persona che si faceva accompagnare da due belle ragazze... Era un fatto di comodità, nel senso che quando c'era una cena io non le invitavo neppure, era lui che ogni tanto telefonava per sapere "quando c'è una cena dal presidente?"». E ancora: «Su cento veline a cui rivolgi la domanda: andresti volentieri a cena da Berlusconi? 76 avevano risposto "subito" e le altre 24 erano già venute prima». La nota spese Il procuratore gli chiede se c'era bisogno di tanti soldi e Berlusconi è costretto ad ammettere che «sul conto non c'era soltanto la famiglia stretta, lui, moglie e due figlie, ma anche la madre e la famiglia del fratello. Mi ricordo che pagava un affitto esagerato, seimila euro al mese, e io dissi a Lavitola: "Ma che cambi residenza!"». In uno stralcio pubblicato dalla Gazzetta del Mezzogiorno rimarca quanti soldi extra fosse stato costretto a versare. Poi ricorda l'incontro avvenuto ad Arcore nella primavera 2011 e il patto sui 500 mila euro. Dichiara Berlusconi: «Durante l'incontro ad Arcore con Tarantini e la moglie, Lavitola confermò a Tarantini che io avevo provveduto al versamento a lui dei 500 mila euro e che lui aveva i 500 mila euro a disposizione di Tarantini. Successivamente a questo incontro cominciò a fare dei versamenti a Tarantini imputandoli ai 500 mila euro che aveva ricevuto da noi. Quando scoppiò la situazione giudiziaria di Tarantini lui mi disse che aveva dato a Tarantini più di 200 mila euro e mi portò una specie di contabilità su un foglio in cui praticamente la metà di quei 500 mila euro era stata versata». Le chiamate e Montecarlo Il magistrato gli chiede conto di alcune telefonate con Lavitola arrivate sull'utenza di Arcore delle quali aveva parlato nel suo interrogatorio proprio il faccendiere. Berlusconi precisa di non ricordare perché riceve moltissime telefonate «l'altro ieri 72, non ho risposto a tutte naturalmente». In realtà, come viene contestato dal pubblico ministero durante l'interrogatorio, «si tratta dei contatti avvenuti mentre il faccendiere è in Argentina, nasce con la storia di Montecarlo» facendo evidente riferimento ai documenti sulla casa affittata nel Principato dal cognato dell'allora presidente Gianfranco Fini pubblicati da Il Giornale . Berlusconi nega di aver parlato, sostiene che «evidentemente non mi è stato passato nessuno», invece gli viene contestato quanto emerge dai tabulati rintracciati dai carabinieri di Bari. Si tratta di tre contatti che risalgono al 17 luglio 2011. Spiega il pubblico ministero: «La prima telefonata dura 2 minuti, la seconda dura un minuto e la terza 9 minuti. Quindi questa sarebbe una conversazione. Nelle intercettazioni della polizia di Napoli di questa cosa non c'è traccia, la ricerca l'ha fatta anche Roma e i risultati sono sempre questi». 22 settembre 2013 | 8:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA FIORENZA SARZANINI da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_22/spese-casa-montecarlo-lavitola-berlusconi_23e6cbea-2341-11e3-8194-da2bd4f2ffa4.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Settembre 27, 2013, 07:42:49 pm » |
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Il verbale Il Cavaliere ai pm: le carte di Lavitola? C'è del vero e del falso Mostrata al Cavaliere una lettera in cui Lavitola dice di aver ricevuto soldi per carte sulla casa di Montecarlo Sono le 16 del 14 maggio scorso. Silvio Berlusconi viene interrogato nell'ambito dell'inchiesta della magistratura di Roma sui soldi versati al faccendiere Valter Lavitola e ai coniugi Gianpaolo e Nicla Tarantini. È ritenuto parte lesa, ma poiché a Bari lo accusano di induzione del testimone a mentire proprio per aver comprato il silenzio dell'imprenditore pugliese sulle feste organizzate nelle sue residenze, sono presenti i suoi difensori. L'ex premier risponde alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone, dell'aggiunto Francesco Caporale e del sostituto Simona Marazza. Berlusconi ammette di aver versato denaro «tramite Lavitola che mi rappresentava lo stato di difficoltà di Tarantini e della sua famiglia. Peraltro Lavitola era diventato buon amico della moglie di Tarantini». Pm: Lei è a conoscenza di alcune telefonate intercorse tra Lavitola e Tarantini che fanno intendere che pretendessero denaro e in particolare somme sempre più alte da lei con utilizzo di toni accesi? Toni che si fanno più accesi in concomitanza con la conclusione delle indagini di Bari sul «caso escort«? Lei vede una connessione? Perché Tarantini pretendeva questo soldi? Berlusconi: «A me le richieste sono pervenute tramite Lavitola sempre in termini di venire incontro alle esigenze familiari di Tarantini e io le ho accettate per i motivi esplicitati nella memoria che deposito oggi. Preciso che non ho mai ricevuto in tal senso alcuna minaccia, nemmeno in modo velato». Pm: Nella sua memoria di settembre 2011 si fa riferimento a una somma che lei avrebbe messo a disposizione dei coniugi Tarantini per avviare un'attività all'estero. A chi? Berlusconi: «Mi riporto a quanto detto nella memoria e preciso che ho consegnato 500 mila euro a Lavitola. Del resto quando l'avvocato Peroni - che avevo informato dell'avvenuta consegna - ne informò Tarantini (suo cliente), Tarantini chiese un incontro a me e Lavitola per chiarire la situazione. L'incontro avvenne a Roma e Lavitola confermò davanti a me di aver ricevuto quella somma e che la stessa era a disposizione di Tarantini presso la propria banca in Uruguay. Gli accordi erano stati presi durante un incontro ad Arcore con i coniugi Tarantini e Lavitola». Pm: Ha mai sentito parlare di un imprenditore pugliese di nome Settanni? Si tratta di un imprenditore che aveva interesse ad aggiudicarsi un appalto con Eni e al quale si fa riferimento nelle intercettazioni telefoniche. Berlusconi: «Non mi pare di ricordare una persona di nome Settanni o comunque l'imprenditore cui viene fatto riferimento». A questo punto i magistrati mostrano a Berlusconi la lettera ritrovata in un computer di Lavitola e datata 13 settembre 2011. Nella missiva Lavitola sostiene di aver ricevuto soldi in cambio dei documenti originali sulla casa di Montecarlo utilizzati contro l'allora presidente della Camera Gianfranco Fini «portati direttamente da Santa Lucia». Ma soprattutto dichiara che Berlusconi deve soldi all'imprenditore Angelo Capriotti, arrestato dalla magistratura di Napoli per le tangenti che sarebbero state pagate per la costruzione di carceri a Panama. Pm: Le poniamo in visione la lettera del 13 dicembre 2011. L'ha mai ricevuta? Berlusconi: «No, non l'ho mai ricevuta. Ne prendo visione e posso rilevare che è un insieme di cose vere e di cosa totalmente false. Dico subito che non è vero che io abbia promesso a Lavitola di dargli un incarico governativo, né di candidarlo alle elezioni europee in modo tale da garantire la sua elezione, né di farlo nominare nel Cda della Rai. Non è vero nemmeno che io abbia parlato con Lavitola di far nominare la senatrice Ioannucci nel Cda dell'Eni. Peraltro io conosco la senatrice che è del Pdl e ho con lei rapporti diretti. Non è vero neanche quanto asserito da Lavitola sulla promessa da parte mia di far nominare Pozzessere "almeno direttore generale di Finmeccanica". Tengo a dire che io non ho mai nominato nessuno in Finmeccanica nel senso che non mi sono mai interessato a questo tipo di nomine. Non ricordo che la senatrice Ioannucci abbia avuto un incarico presso Poste italiane, ma certo non ne ho parlato con Lavitola, non capisco neanche il riferimento al "commissario delle dighe"». Pm: E riguardo alle altre circostanze? Berlusconi: « Non è vero che io abbia rimborsato una somma di circa 500 mila euro a Lavitola per la sua attività a proposito della vicenda "Casa di Montecarlo". Non ho mai ricevuto le richieste, di cui pure in questa lettera si parla, di presunte restituzioni di denaro a Angelo Capriotti, agli avvocati panamensi di Lavitola e a una società cinese. È vero invece che mi fu chiesto da Pintabona (il senatore eletto all'estero esponente del Mpa di Lombardo ndr) per conto di Lavitola di far assumere i 19 dipendenti de L'Avanti che erano stati licenziati. Non fu possibile assumere i suddetti dipendenti anche se io ero disponibile a impegnarmi perché si trattava di lavoratori che avevano perduto il posto di lavoro». 25 settembre 2013 | 10:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA FIORENZA SARZANINI http://www.corriere.it/cronache/13_settembre_25/il-cavaliere-ai-pm-le-carte-di-lavitola-c-e-del-vero-e-del-falso-fiorenza-sarzanini_c49e8350-25b9-11e3-baac-128ffcce9856.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:10:00 pm » |
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Prima che succeda ancora Due giorni fa il Parlamento europeo ha approvato l’entrata in vigore del sistema di coordinamento per sorvegliare il Mediterraneo. Si chiama Eurosur: serve a controllare costantemente la frontiera marittima attraverso un sistema satellitare collegato con alcune centrali operative che si trovano in diversi Stati e può rivelarsi utile ed efficace per tenere sotto controllo i flussi di migrazione clandestina. Ma comincerà a funzionare il prossimo 2 dicembre e fino a quella data potrebbero essere ancora tanti i morti in mare, vittime del mercato criminale di esseri umani gestito dalle bande che agiscono in Libia e contano su una «rete» che arriva sino alla Tunisia, all’Egitto e al Marocco. La tragedia avvenuta nove giorni fa a Lampedusa ha mostrato in maniera drammatica e brutale quali siano le conseguenze di una politica che non rimane sempre vigile di fronte a un’emergenza ormai strutturale. Il governo italiano ha così deciso di mettere la questione in cima alle priorità inviando due navi nel Canale di Sicilia, schierando sull’isola un contingente molto più consistente di mezzi e uomini. Sollecitate anche dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sono già state varate nuove regole per accelerare le procedure di assistenza per chi richiede asilo politico e per garantire migliore accoglienza a queste persone che continuano a fuggire dalla miseria e dalla guerra. Molto altro bisogna ancora fare. È importante, ad esempio, che il ministero della Difesa, già impegnato con alcune navi in quel tratto di mare, impieghi tutte le risorse disponibili per contribuire all’attività di prevenzione potenziando i controlli e soprattutto aumentando la possibilità di soccorrere chi è in difficoltà. Però il vero sforzo deve farlo l’Unione Europea. Non per aiutare l’Italia, ma per affrontare questa crisi dai contorni epocali in maniera complessiva e organica. Per far sì che i flussi migratori possano essere davvero governati e non subiti. E quindi è in nord Africa che si deve intervenire, lì dove migliaia e migliaia di disperati si ammassano in attesa di partire. Per l’Europa, non per l’Italia. Bisogna farlo subito, con la missione internazionale di un pool di esperti che incontri le autorità di quegli Stati e pianifichi la presenza in quei luoghi di personale dell’Alto Commissariato per i rifugiati e della Ue in modo da effettuare un primo screening delle richieste di asilo e di assistenza. Bisogna agire come di fronte a un terremoto, quando per salvare le persone non si deve perdere neanche un minuto. Perché quanto accaduto ieri sera, con un altro naufragio e altri morti, dimostra che proprio davanti a una catastrofe ci troviamo. Per questo è desolante vedere che il dibattito sulle eventuali modifiche alla legge Bossi-Fini porta i politici, parlamentari e non, ad accapigliarsi come in una lite condominiale. Evidentemente senza capire che questa volta la sfida è molto più seria, e non può essere ridotta a una bassa polemica da campagna elettorale. 12 ottobre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA FIORENZA SARZANINI da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_12/prima-che-succeda-ancora-82bce81e-3301-11e3-b13e-20d7e17127ae.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Novembre 28, 2013, 11:51:21 am » |
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«Ecco i manager e i politici corrotti con i fondi neri» Gli appalti truccati legati a Finmeccanica Sabatino Stornelli, ex ad di Selex service managmentSabatino Stornelli, ex ad di Selex service managmentROMA - Soldi «in nero» ricavati con le sovrafatturazioni che servivano a finanziare la politica. Milioni di euro elargiti a parlamentari e manager grazie ai costi gonfiati degli appalti. Imprese «amiche» che dovevano vincere le gare, segnalate dagli stessi manager, ma anche dagli alti dirigenti dei ministeri coinvolti nei progetti. Sono soltanto alcune delle rivelazioni messe a verbale da Sabatino Stornelli, l’ex amministratore della «Selex service management» controllata da Finmeccanica, arrestato la primavera scorsa nell’ambito dell’inchiesta sul sistema di monitoraggio dei rifiuti, e di suo fratello Maurizio. E adesso le verifiche dei magistrati di Napoli e Roma si concentrano sui nomi e sulle circostanze contenute nei verbali che entrambi hanno riempito in questi mesi. Un lavoro effettuato in piena collaborazione tra i due ufficiali giudiziari, che avrebbe già consentito di trovare riscontro rispetto ad alcuni fatti narrati. E nei prossimi giorni potrebbe portare a nuovi e clamorosi sviluppi. È il 18 aprile quando i due fratelli finiscono in carcere con l’accusa di corruzione, sospettati di aver gestito il giro di tangenti pagate per il Sistri, sistema satellitare di tracciabilità dei rifiuti costato oltre 400 milioni di euro e mai entrato in funzione. Gli uomini della Guardia di Finanza di Napoli guidati dal colonnello Nicola Altieri ricostruiscono il percorso dei soldi, individuano le aziende beneficiate da lavori in subappalto dal valore di milioni di euro che in realtà non hanno mai rispettato i contratti, identificano la «rete» dei funzionari di Stato che avrebbe consentito di snellire le procedure aggirando i controlli. Qualche settimana dopo Sabatino e Maurizio Stornelli accettano di rispondere alle domande dei pubblici ministeri. Rivelano quali ditte abbiano accettato la sovrafatturazione per creare le provviste illecite e tra gli altri indicano «le società che fanno capo a Nicola Lobriglio». Indicano i nomi dei politici destinatari delle tangenti e forniscono elementi e dettagli per consentire agli inquirenti di far scattare gli accertamenti sull’effettivo passaggio di denaro. E svelano come «per l’affare Sistri c’era l’interesse della “Gsp Holding” gestita da Giovanni Sabetti che in realtà è un uomo legato al senatore Sergio De Gregorio». Una delle aziende maggiormente tenute in considerazione in questo sistema di assegnazione delle commesse è, secondo gli Stornelli, la Italgo di Anselmo Galbusera. «La videosorveglianza delle discariche - si legge in uno dei nuovi verbali - è stata subappaltata ad una società di Elsag Datamat gestita da Francesco Subbioni che a sua volta l’ha affidata ad Anselmo Galbusera con la Italgo. Italgo mi venne imposta da Lorenzo Borgogni e Luigi Bisignani. La società è gestita da Galbusera che fa capo a Bisignani». Esattamente lo stesso schema utilizzato, secondo l’accusa, nel 2010 per l’assegnazione dell’appalto sulla sicurezza delle comunicazioni di palazzo Chigi: la Italgo associata alla Selex service Management, grazie alla mediazione di Bisignani, se lo sarebbe aggiudicato illecitamente in cambio di favori al capo dipartimento della Presidenza del Consiglio, il generale Antonio Ragusa. In particolare «l’assunzione del figlio in Finmeccanica e la concessione di alcuni subappalti a ditte che a lui facevano capo». Tra le società che compaiono nell’indagine c’è anche la Micheli Associati spa che fa capo al finanziere Francesco Micheli, attuale vicepresidente dell’Abi. L’azienda figura infatti tra i soci della Italgo e secondo l’ex presidente del Poligrafico Roberto Mazzei, che di Bisignani è stato socio e amico, «Micheli è molto legato a Bisignani ed è socio di maggioranza di Italgo». Altro capitolo che i magistrati stanno esplorando riguarda la gestione degli appalti da parte del Ministero dell’Ambiente. Secondo Stornelli alcune ditte da far lavorare «mi furono imposte dal direttore generale Luigi Pelaggi», già comparso anche nell’inchiesta sull’Ilva per i suoi rapporti con la famiglia. Anche su questo il manager ha fornito nomi e circostanze che vengono adesso esaminate, soprattutto tenendo conto che il dicastero doveva essere il supervisore del progetto Sistri, assicurandone il funzionamento. Nel 2009 si decise che il sistema dovesse essere protetto apponendo il segreto di Stato. Ufficialmente il provvedimento doveva servire ad agevolare le procedure. In realtà il sospetto è che quel vincolo sia stato utilizzato per aggirare i controlli. I fratelli Stornelli sono anche accusati di aver ottenuto a prezzi stracciati numerose case di Propaganda Fide. Affitti che in alcuni casi non raggiungevano gli 80 euro mensili per dimore da sogno nei quartieri più esclusivi di Roma che erano stati assegnati a loro oppure a alle loro amanti. Ma su questo non hanno voluto fornire alcun elemento avvalendosi della facoltà di non rispondere. 27 novembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA FIORENZA SARZANINI Da - http://www.corriere.it/cronache/13_novembre_27/ecco-manager-politici-corrotti-fondi-neri-a43e5264-572f-11e3-a452-4c48221dc3be.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:37:49 pm » |
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Il passaggio delle quote dai grandi soci Telco a Telefonica e sulla cessione argentina I pm su Telecom: ostacolo alla Vigilanza L’inchiesta della Procura di Roma. Bernabè sentito come testimone: aveva già esposto i suoi dubbi nella lettera di dimissioni L’ex amministratore delegato di Telecom Italia, Franco Bernabè (Ansa)L’ex amministratore delegato di Telecom Italia, Franco Bernabè (Ansa) ROMA - L’interrogatorio come testimone di Franco Bernabè è il primo atto ufficiale di un’inchiesta che può avere sviluppi clamorosi. Perché le verifiche ordinate dai magistrati romani ipotizzano che per il passaggio delle quote in Telco relative al controllo di Telecom Italia e la cessione di Telecom Argentina, possa essere contestato il reato di ostacolo agli organi di Vigilanza. Esplorano la possibilità che ci sia stata un’intesa occulta tra i maggiori azionisti per favorire l’ascesa degli spagnoli di Telefonica e sfuggire ai controlli di chi ha invece il compito di esaminare la regolarità di ogni passaggio, prima fra tutte la Consob. La versione fornita ieri al procuratore aggiunto Nello Rossi e al pubblico ministero Maria Francesca Loy dall’ex presidente, che si è dimesso proprio per esprimere la propria contrarietà all’operazione, diventa dunque snodo fondamentale dei nuovi accertamenti disposti dopo l’acquisizione avvenuta circa un mese fa della documentazione presso le sedi societarie e la stessa Consob. Sono almeno tre le «criticità» rilevate dagli inquirenti e dagli specialisti del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza riguardo a quell’accordo stipulato il 24 settembre scorso tra i soci di Telco (Assicurazioni Generali, Intesa San Paolo e Mediobanca) e Telefonica. La prima riguarda l’aumento di capitale sottoscritto da Telefonica per 324 milioni di euro e destinato a ripianare i debiti bancari. E infatti ci si concentra sull’opzione di acquisto delle azioni al prezzo di 1,09 euro che rappresentava quasi il doppio del prezzo di mercato pari a 0,57. Ma anche sulla scelta di emettere azioni ordinarie di Telco di categoria C senza diritto di voto fino al 31 dicembre 2013 che Telefonica si è impegnata ad acquistare dai soci. La seconda punta invece alle modalità di emissione dell’ormai famoso prestito convertendo da un miliardo e trecento milioni di euro sottoscritto dal fondo americano BlackRock. In particolare vengono ritenute «anomale» le modalità di collocamento, soprattutto nella parte delle informazioni ai sottoscrittori. I primi ad avanzare dubbi sono stati i piccoli azionisti di Asati che hanno evidenziato nel loro esposto alla Consob «un trattamento iniquo verso tutte le minorities a cui è stato strappato un diritto in anticipo, chiedendo a posteriori una approvazione in una assemblea straordinaria nella quale occorreranno i due terzi per arrivare al rigetto». I controlli effettuati dal Nucleo Valutario hanno fatto il resto, evidenziando il ruolo ancora non chiaro avuto da Telecom Finance Sa e la sottoscrizione del bond per 100 milioni dalla stessa Telefonica e per altri 200 milioni da BlackRock, nonostante inizialmente si fosse deciso di escludere gli Stati Uniti dal collocamento. Il sospetto degli inquirenti, già espresso in due esposti presentati alla Consob dalla Findim di Marco Fossati e dall’Asati che rappresenta una parte dei piccoli azionisti, è che il patto abbia favorito l’ascesa di Telefonica in Telco, provocando un danno a Telecom e al mercato. Grazie a questi accordi la società spagnola avrebbe infatti ottenuto la maggioranza in Telco arrivando al 66% e riuscendo così a garantirsi la governance dell’azienda. Il terzo capitolo che si sta approfondendo riguarda la vendita di Telecom Argentina a Fintech per 960 milioni di dollari con 860 milioni per la cessione delle azioni e altri 100 per affari collegati. Al centro delle verifiche c’è la congruità del prezzo per stabilire se sia vero quanto sostenuto dalle parti che hanno concluso l’affare circa il vantaggio economico per Telco. Il dubbio è che in realtà la vendita sia stata decisa soprattutto per favorire le richieste degli spagnoli di Telefonica che hanno numerosi interessi nello Stato sudamericano e rischiavano di avere problemi di antitrust se non avessero «alleggerito» la propria partecipazione azionaria in alcune società. Era stato proprio Bernabè a sottolineare gli aspetti negativi dell’operazione prima nella sua lettera di dimissioni, poi durante un’audizione in Parlamento. Una posizione critica ribadita ieri di fronte ai magistrati e al colonnello del Nucleo Valutario Pietro Bianchi nel corso dell’interrogatorio durato oltre tre ore. Perché, come aveva evidenziato nella sua missiva, il presidente era favorevole ad avviare un percorso dell’aumento di capitale «ma non ho trovato il supporto dei soci riuniti in Telco», quindi «ho deciso di fare un passo indietro, non senza avere rappresentato al board la necessità di dotare la società dei mezzi finanziari necessari a sostenere una strategia di rilancio». fsarzanini@corriere.it20 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA FIORENZA SARZANINI 108 Da - http://www.corriere.it/economia/13_dicembre_20/i-pm-telecom-ostacolo-vigilanza-eab6694a-693e-11e3-95c3-b5f040bb6318.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Gennaio 11, 2014, 04:06:46 pm » |
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L’INCHIESTA della procura di Roma Il fiscalista dei Camilliani lavorava per i servizi segreti Avrebbe controllato la Began per conto degli 007. L’ipotesi è che abbia ottenuto informazioni segrete utili per i suoi affari Paolo Oliverio era un collaboratore dei servizi segreti. Il fiscalista arrestato per gli affari illeciti compiuti con l’ordine religioso dei Camilliani, ha collaborato per due anni con l’Aisi, l’agenzia per la sicurezza interna, all’epoca diretta dal generale Giorgio Piccirillo. È stato ingaggiato nel settembre 2009 per svolgere attività «coperta» senza retribuzione. Ed è stato aggregato alla sezione di intelligence economica. Ha dunque risvolti clamorosi e inquietanti la scoperta del suo archivio informatico che contiene dossier su politici, manager, 007, militari della Guardia di Finanza, personaggi dello spettacolo. Perché adesso bisognerà scoprire chi lo ha assoldato e soprattutto quale fosse la contropartita visto che non risulta aver ricevuto compensi in denaro. Alle verifiche della magistratura, si aggiungono quelle del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo, che ha avviato un’indagine e ha già sollecitato chiarimenti ai vertici della struttura. GLI EVASORI DI SAN MARINO - Il contatto tra il professionista (l’Ordine nazionale dei commercialisti smentisce che sia iscritto all’albo) e gli 007 avviene attraverso un funzionario di vertice nell’estate del 2009. Per accreditarsi e mostrare la propria affidabilità Oliverio consegna all’Aisi l’elenco degli italiani che hanno trasferito soldi a San Marino. L’informazione si rivela preziosa per l’intelligence , dunque si decide di portare avanti il rapporto. Ma qui sorgono i primi interrogativi. Perché Oliverio accetta di non guadagnare nulla? Che cosa riceve in cambio? È possibile che per questa collaborazione possa aver ottenuto una sorta di impunità, visto che al momento di essere «arruolato» aveva infatti alcune pendenze giudiziarie. Oppure - ed è questa l’altra ipotesi che dovrà essere esplorata - che anche lui abbia ottenuto informazioni riservate da utilizzare per i propri affari e interessi personali. Quanto emerso finora nell’inchiesta condotta dal pubblico ministero Giuseppe Cascini e delegata agli investigatori della Guardia di Finanza guidati dal colonnello Cosimo De Gesù, accredita la possibilità che Oliverio abbia ricattato numerose persone. Non si può escludere che lo abbia fatto utilizzando anche notizie ricevute dagli 007. Del resto lui stesso si era accreditato come un agente segreto con numerosi interlocutori. I RAPPORTI CON I PRELATI - È il superiore generale dei Camilliani Renato Salvatore - ancora in carcere per il finto sequestro dei suoi «oppositori» interni all’ordine religioso - a raccontarlo in una nota firmata dai suoi legali Massimiliano Di Parla e Annarita Colaiuda con la quale assicura di non aver avuto «alcuna consapevolezza dell’intreccio di relazioni con personaggi della politica, della criminalità, della finanza e dello spettacolo intessute da Oliverio». Aggiungono gli avvocati: «Oliverio era conosciuto in ambito ecclesiale, tanto da essere presentato all’Ordine dei Camilliani proprio nel corso di una cerimonia di intitolazione cardinalizia di una Basilica minore del centro storico di Roma. Venne accreditato non solo come titolare di un importante studio tributario di Roma, ma anche come alto ufficiale della Guardia di Finanza sotto copertura per il suo ruolo nell’ambito dei Servizi Segreti. Ruolo che lo stesso Oliviero si è preoccupato di avvalorare nel tempo presso l’Ordine dei Religiosi Camilliani, attraverso dichiarazioni, comportamenti e abitudini». I VIAGGI DELLA BEGAN - Numerosi dossier trovati nell’archivio segreto custodito in una pen drive e nel computer sequestrati a Oliverio al momento della cattura sarebbero stati preparati proprio per essere consegnati agli 007. Nell’elenco c’è anche la pratica relativa a Sabina Began, l’«Ape Regina» di Silvio Berlusconi. Nell’informativa allegata agli atti si parla del «file 000488 denominato “visto Sabina Beganovic”, documento che riporta un apparente visto turistico rilasciato alla stessa Beganovic». Secondo alcune indiscrezioni si tratterebbe di appunti relativi a un’attività che sarebbe stata commissionata al fiscalista dai suoi referenti all’interno dell’Aisi. Chi decise di mettere sotto controllo la «preferita» del presidente del Consiglio? Il Copasir ha chiesto di sapere chi abbia proposto Oliverio al vertice dell’intelligence e chi fossero i suoi referenti, la natura degli incarichi a lui affidati e soprattutto la portata delle informazioni date e ricevute. Domande che nei prossimi giorni potrebbero porgli anche gli inquirenti. 10 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA FIORENZA SARZANINI Da - http://www.corriere.it/cronache/14_gennaio_10/fiscalista-camilliani-lavorava-servizi-segreti-2940e81a-79d0-11e3-b957-bdf8e5fd9e96.shtml
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