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Autore Discussione: Fiorenza SARZANINI.  (Letto 194944 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Ottobre 04, 2011, 07:42:03 pm »

DOPO IL VERDETTO D'APPELLO

Le ambiguità di un processo indiziario

Ora pensiamo a Meredith Kercher

 
Adesso bisogna pensare a Meredith Kercher. Bisogna dare giustizia a questa ragazza uccisa, quando aveva soltanto 21 anni, alla fine di un gioco perverso. I giudici di appello hanno stabilito che Amanda Knox e Raffaele Sollecito non sono i complici di Rudy Guede. Ma un'altra sentenza, pronunciata in Cassazione, aveva già accertato che complici ci sono. Che quella sera di quattro anni fa, nella villetta di via della Pergola a Perugia, c'erano tre persone accanto al corpo agonizzante di Mez. E dunque vanno cercati e perseguiti.

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Il verdetto di ieri sera certamente darà spunto a nuove e aspre polemiche sul funzionamento della giustizia nel nostro Paese. Accade spesso. E questa volta, di fronte a tanti indizi e nessuna prova certa, è possibile che lo scontro diventi addirittura più ruvido. Ma c'è davvero qualcuno sinceramente convinto che Amanda e Raffaele non dovessero essere mandati a giudizio? Le campagne di stampa orchestrate in questi anni negli Stati Uniti hanno cercato di far passare la tesi che i due dovessero essere prosciolti già in istruttoria. Ma si trattava, appunto, di campagne mediatiche.

In realtà Amanda e Raffaele hanno avuto - come dimostra proprio la sentenza di appello - un dibattimento equo e alla fine, poiché non si poteva andare «oltre ogni ragionevole dubbio» sulla loro colpevolezza come invece prevede il nostro ordinamento per decretare la condanna, sono stati assolti. I processi indiziari si devono fare e questo, come tanti altri, ha avuto una svolta grazie alla nuova «lettura» delle prove scientifiche. Del resto gli stessi imputati non hanno potuto negare di aver avuto, almeno all'inizio delle indagini, un atteggiamento che li aveva posti al centro della scena del delitto. C'erano zone d'ombra causate da reticenze e bugie che non vengono completamente spazzate via da questa sentenza, anche se pronunciata con una «formula piena». Soprattutto tenendo conto che i giudici del primo grado avevano riconosciuto la loro colpevolezza, quindi bisognerà attendere la Corte di Cassazione prima di poter affermare che il caso è davvero chiuso.

Quel giorno Amanda sarà probabilmente dall'altra parte del mondo e forse anche Raffaele avrà deciso di andar via o comunque di ricostruire la propria esistenza lontano dai riflettori. In carcere resta Rudy Guede con i suoi silenzi e le sue menzogne che certamente hanno segnato negativamente l'inchiesta. Nessuno però potrà e dovrà dimenticare il volto di Mez, la sua vita spezzata, il suo omicidio rimasto almeno in parte insoluto.

Fiorenza Sarzanini

04 ottobre 2011 07:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA - http://www.corriere.it/cronache/11_ottobre_04/le-ambiguita-di-un-processo-indiziario-e-ora-pensiamo-a-meredith-kercher-fiorenza-sarzanini_1552446e-ee47-11e0-a09e-1525768cac3d.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Ottobre 19, 2011, 10:12:21 am »

Viminale - Le somme potranno essere incamerate dai Comuni in caso di danni

Due euro a manifestante e soldi per l'ordine pubblico

Le ipotesi: versamento anticipato del 50% delle spese

ROMA - I conti li aveva fatti il Comune di Roma lo scorso anno, al momento di varare il nuovo regolamento per le mobilitazioni di piazza. Aveva stimato che per un corteo di 100 mila persone, le spese ammontano a circa 215 mila euro. Vuol dire 2 euro per ogni manifestante.
Ed è proprio questa la cifra che potrebbe essere chiesta ai promotori, qualora fosse approvata la proposta del ministro Roberto Maroni di imporre una sorta di fideiussione a chi chiede l'autorizzazione a sfilare o ad organizzare un sit-in.


Il tema, già dibattuto dopo gli scontri del 14 dicembre 2010 che devastarono il centro di Roma, è controverso. Perché una norma di questo genere rischia di essere incostituzionale, ma anche un regolamento porterebbe a una grave discrasia tra chi ha i mezzi per fornire garanzie economiche come le grandi organizzazioni sindacali o le associazioni di categoria e chi invece scende in piazza proprio perché non ha nulla. Non a caso, quando si è trattato di quantificare le spese da far sostenere ai promotori, il sindaco Gianni Alemanno aveva già ipotizzato di esonerare «le manifestazioni giovanili, quelle studentesche o di fasce sociali deboli, in particolare dei disoccupati».
Le prefetture hanno studiato il problema, ma è comunque compito del Viminale fissare regole e procedure, tenendo conto dei gravi problemi di incostituzionalità che possono sorgere rispetto ai principi di eguaglianza e di dissentire liberamente. Ma anche cercando di mettere d'accordo le esigenze «politiche» che sono già state espresse. Maroni pensa al risarcimento dei danni, i sindaci chiedono invece anche un contributo per i costi sostenuti per garantire un corretto svolgimento della manifestazione. Un lungo elenco che parte dalla messa a disposizione dei bagni chimici, alle ore di straordinario dei vigili urbani, senza dimenticare i servizi aggiuntivi richiesti alle aziende municipalizzate per la pulizia delle strade. E poi ci sono le corse dei mezzi pubblici che devono essere soppresse per motivi di ordine pubblico. Il Campidoglio ha calcolato che sabato scorso c'è stata una riduzione di 27 mila chilometri «con le perdite economiche che questo comporta».

Adesso, se davvero si troverà l'accordo politico sulle nuove misure proposte da Maroni, saranno gli uffici legislativi a mettere a punto il regolamento. Ed è presumibile che lo facciano tenendo conto del percorso indicato dai promotori e dal numero di partecipanti stimato, imponendo un versamento che sia pari almeno al 50 per cento delle spese previste. Soldi che, in caso di danneggiamento, verrebbero immediatamente incamerati dalle amministrazioni comunali.
Del resto quello dei soldi non è l'unico scoglio che dovrà essere superato per raggiungere un'intesa. Gli esperti hanno già evidenziato non solo i problemi di tipo giuridico, ma anche difficoltà pratiche, come nel caso del cosidetto Daspo. Attualmente il provvedimento si applica ai tifosi che vengono coinvolti negli scontri fuori e dentro gli stadi. In occasione delle partite e di altre manifestazioni sportive queste persone hanno il divieto di entrare negli impianti, alcuni hanno l'obbligo di firma. Il controllo è reso possibile dai tornelli sistemati all'esterno delle strutture che registrano ogni passaggio delle tessere nominative. Ed ecco il punto: come si fa a controllare che un manifestante diffidato rispetti davvero il divieto a partecipare ad altre mobilitazioni?

Un altro nodo da sciogliere riguarda la richiesta di «garanzie funzionali» presentata dai poliziotti per chi effettua servizi di ordine pubblico. Il prefetto Antonio Manganelli ne ha parlato a lungo durante la riunione di ieri mattina al Viminale servita per mettere a punto le proposte portate in Senato dal ministro. E ha sottolineato la necessità che gli agenti si sentano tutelati sia dal punto di vista giuridico, sia per quanto riguarda gli equipaggiamenti. Una battaglia che il Sap, il sindacato autonomo, porta avanti da giorni con due proposte in particolare: «L'iscrizione nel registro degli indagati di chi fa servizi di polizia, deve essere "vistata" dal procuratore generale e nelle attività di polizia, quando ci sono danni, gli agenti devono rispondere solo per dolo e non per colpa grave».
Infine c'è il fermo preventivo, che riporta agli anni 70 e presenta numerosi aspetti controversi che al momento appaiono difficili da superare. Non a caso Maroni ha precisato la sua volontà di intervenire a livello legislativo per poter contrastare il comportamento di quelle persone che vengono sorprese con «strumenti atti ad offendere» in concomitanza delle manifestazioni. Il rischio, da più parti paventato, è invece che ci possano essere «retate» alla vigilia di appuntamenti ritenuti rischiosi come appunto il corteo di sabato scorso degli «Indignati» ma ancor di più la protesta prevista per domenica prossima nei boschi della Val di Susa.

Fiorenza Sarzanini
fsarzanini@corriere.it

19 ottobre 2011 07:35© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/cronache/11_ottobre_19/due-euro-manifestante-sarzanini_b2db89c6-fa12-11e0-81c3-3aee3ebb3883.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Ottobre 28, 2011, 05:28:19 pm »

L'inchiesta |

Era accusato di associazione a delinquere e favoreggiamento.

Nel processo P4 Alfonso Papa resta l'unico imputato

Bisignani patteggia ed esce di scena

Accordo per 1 anno e 8 mesi: da adesso potrà essere solo testimone

Dal nostro inviato  FIORENZA SARZANINI


NAPOLI - Va tutto come previsto e Luigi Bisignani esce dalla scena giudiziaria napoletana. Il lobbista accusato di associazione a delinquere e favoreggiamento del parlamentare del Pdl Alfonso Papa - a sua volta imputato di corruzione, concussione ed estorsione nei confronti di alcuni imprenditori - chiude l'accordo con i pubblici ministeri e concorda una pena a un anno e otto mesi. Ma soprattutto ottiene un patteggiamento «tombale», dunque fine del processo e delle indagini tuttora in fase istruttoria. In aula potrà essere chiamato soltanto come testimone.

Comincia alle 10.15 l'udienza davanti alla prima sezione del tribunale di Napoli e viene rispettato il copione stabilito da accusa e difesa: da una parte gli avvocati Fabio Lattanzi e Giampiero Pirolo, dall'altra i sostituti Henry John Woodcock e Francesco Curcio. Il patto prevedeva una richiesta di nullità per difetto di notifica che consentisse di riaprire i termini in modo da poter accedere al rito alternativo. Pirolo presenta l'istanza, Woodcock la appoggia specificando come tre giorni fa lo stesso Bisignani abbia formalizzato la richiesta di patteggiare la pena. E al presidente del tribunale non resta altra scelta che riconoscere l'effettivo errore procedurale.

Alfonso Papa, per la prima volta in tribunale dopo l'arresto autorizzato il 20 luglio scorso dalla Camera, assiste impotente. I suoi avvocati cercano di accodarsi, sottolineano la necessità di non separare il destino dei due imputati e per questo chiedono che un'eventuale riapertura dei termini possa riguardare anche il loro cliente. Ma non sortiscono l'effetto sperato. E Papa resta solo a difendersi dall'accusa di aver ricattato i titolari di alcune aziende con informazioni riservate sulle inchieste in corso. Notizie segrete carpite grazie alla sua «rete», in cambio delle quali si sarebbe fatto elargire soldi, auto di lusso, viaggi, contratti lavorativi per sua moglie e per le sue amanti.

Bisignani torna dunque davanti al Gip che dovrà ratificare l'accordo: un anno e due mesi di condanna per l'associazione a delinquere, sei mesi per il favoreggiamento. Tenendo conto che da quattro mesi è agli arresti domiciliari, appena sarà emesso il decreto tornerà in libertà. I suoi legali si mostrano soddisfatti del risultato, ancor più la Procura che in questo modo può rivendicare di aver condotto un'inchiesta solida e di aver ottenuto il riconoscimento di colpevolezza dell'imputato. Ma anche la possibilità di poterlo riconvocare al processo come testimone, tenendo conto che durante l'istruttoria aveva già accettato di rispondere per tre volte alle domande degli inquirenti.

L'uscita di scena di Bisignani fa calare il sipario sulle centinaia e centinaia di intercettazioni telefoniche e ambientali che documentavano i suoi incontri e le sue conversazioni nell'ufficio di piazza Mignanelli, nel cuore di Roma, dove il lobbista riceveva ministri, imprenditori, politici, giornalisti. E dove riusciva a orientare persino le scelte del governo. I magistrati potranno eventualmente utilizzare soltanto quelle relative a reati commessi da altri. Nulla potranno invece fare con i documenti custoditi nei computer di Bisignani e da lui acquisiti illegalmente grazie a un sofisticato programma che gli consentiva - semplicemente inviando una email - di copiare l'intera memoria del destinatario. Ma anche di quelli che aveva ricevuto in maniera lecita e che - secondo alcune indiscrezioni - potrebbero essere classificati come «riservati» perché provenienti da uomini dell'intelligence.

Il processo è stato rinviato all'8 novembre. Dopo alcune questioni procedurali, si comincerà ad esaminare la lista dei testimoni. Sono numerose le persone che potrebbero essere chiamate a rendere dichiarazioni in aula sui rapporti tra Papa e gli imprenditori, ma soprattutto su quelli con i politici. Del resto le intercettazioni hanno mostrato le frequentazioni del parlamentare con i vertici del Pdl e i suoi tentativi di accreditarsi presso il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per ottenere un posto da sottosegretario. Nell'elenco c'è anche l'onorevole Marco Milanese, l'ex braccio destro del ministro Giulio Tremonti, che nell'ambito dell'inchiesta sulla cosidetta P4 di cui anche Papa è accusato di far parte, è già stato interrogato diverse volte.

Fiorenza Sarzanini

27 ottobre 2011 10:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/11_ottobre_27/sarzanini_bisignani-patteggia_d4ebffb4-006b-11e1-a50b-be6aa0df10bc.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Ottobre 29, 2011, 06:28:27 pm »

Giustizia L'inchiesta

«Una rete per spiare Woodcock»

Indagato il sostituto pg Bonomi. «Dossier falso anche con i tabulati della Sciarelli»


ROMA - Un'associazione segreta composta da magistrati, agenti delle forze dell'ordine e dell' intelligence che utilizzava informazioni segrete per fare carriera e ottenere altri vantaggi. Ma anche per cercare di annientare i nemici rovinando loro la reputazione. Come il pubblico ministero Henry John Woodcock, spiato e denunciato per circostanze in realtà false quando era in servizio a Potenza, oppure il giudice che lavorava nella stessa città, Alberto Ianuzzi.

La Procura di Catanzaro riapre il fascicolo «Toghe lucane», in passato affidato a Luigi de Magistris, e mette sotto inchiesta il sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi per reati gravissimi che, oltre all'associazione, vanno dalla corruzione in atti giudiziari alla calunnia, dall'abuso d'ufficio alla rivelazione di segreto. Sarebbe lui, secondo l'accusa, il capo del sodalizio che avrebbe coinvolto anche il suo collega Modestino Roca, l'allora capo della squadra mobile di Potenza Luisa Fasano e quello della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri Pietro Gentili. Ma pure un cancelliere del Palazzo di giustizia, altri due militari dell'Arma e un finanziere.
Riparte da quanto accaduto nel 2008 l'indagine affidata al pubblico ministero di Catanzaro Giuseppe Borrelli, ma riguarda anche fatti recenti, tanto che le contestazioni per Bonomi e altri fanno riferimento a «reati in atto». Tra gli episodi più gravi viene indicato quello relativo al febbraio 2009 quando fu preparato un esposto anonimo con i tabulati telefonici di Woodcock e quelli della giornalista Federica Sciarelli per «accreditare l'ipotesi non veritiera che erano state veicolate notizie riservate alla stessa conduttrice della trasmissione Chi l'ha visto? , ma anche al conduttore di Annozero Michele Santoro». Sarebbero stati i funzionari di polizia a procurarsi i dati riservati, mentre il cancelliere avrebbe preparato la denuncia. Obiettivo: far avviare verifiche disciplinari sui colleghi, ma anche intimidirli tenendo conto che questo tipo di verifiche sono delegate proprio ai sostituti procuratori generali.

Una vera e propria guerra tra toghe che adesso rischia di avere esiti imprevedibili. Anche perché agli atti ci sono centinaia e centinaia di intercettazioni che documentano i legami di Bonomi con esponenti politici locali e nazionali, ma anche con alcuni magistrati in servizio presso l'ispettorato del ministero della Giustizia, ufficio dove lo stesso Bonomi aspirava a essere trasferito. Agli atti ci sarebbero alcune conversazioni con Gianfranco Mantelli, uno degli ispettori incaricato di occuparsi dell'indagine amministrativa disposta dal Guardasigilli Francesco Nitto Palma a Napoli e relativa ai fascicoli condotti da Woodcock insieme con i colleghi Francesco Curcio e Vincenzo Piscitelli. Inchieste relative ai pagamenti effettuati da Silvio Berlusconi all'imprenditore procacciatore di donne Gianpaolo Tarantini attraverso il faccendiere Valter Lavitola.

Indicativo delle modalità di azione del sodalizio è, secondo l'accusa, quanto accaduto tra il 2008 e il 2010 quando Bonomi avrebbe accettato di mettersi a disposizione dell'amico imprenditore Ugo Barchiesi, soprattutto per occuparsi di una denuncia che l'uomo aveva presentato e per cercare, senza però riuscirci, di non farla archiviare. Ma soprattutto per carpire notizie riservate sugli accertamenti disposti e sul pubblico ministero titolare del fascicolo. Come contropartita avrebbe ottenuto la raccomandazione di alcuni politici nazionali per essere trasferito al ministero, il posto in una commissione e un viaggio a Velden in Austria per festeggiare il Capodanno con la sua compagna.

In alternativa all'ispettorato, Bonomi mirava a diventare procuratore di Potenza. Per questo avrebbe fatto pressioni su alcuni ufficiali di polizia giudiziaria affinché gli fornissero informazioni su indagini condotte dall'allora capo di quell'ufficio, Giuseppe Galante, e poi avviava a sua volta accertamenti sul collega ipotizzando un'«incompatibilità ambientale». Un presupposto inesistente, ma la situazione che si era creata convinse comunque Galante a dimettersi dalla magistratura.
Tra le accuse c'è anche quella di aver «garantito l'impunità ad alcuni esponenti del mondo politico e imprenditoriale lucano», così come al direttore generale dell'Ospedale San Carlo di Potenza Michele Cannizzaro. Oltre a essere il marito del magistrato Felicia Genovese, il manager aveva contatti con numerosi politici che Bonomi - questa è la contestazione - aveva intenzione di sfruttare proprio per farsi favorire nella nomina.

Fiorenza Sarzanini
fsarzanini@corriere.it

29 ottobre 2011 08:21© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/cronache/11_ottobre_29/woodckock-sciarelli-spiati-sarzanini_b4c2342a-01f5-11e1-b822-152c7b3c1360.shtml
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« Risposta #124 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:30:29 am »

L'inchiesta: «rancore di magistrati verso il collega»

«Incarico al Copasir per creare il dossier contro Woodcock»

La rivelazione dello 007 in una registrazione


ROMA - Allo 007 che preparava i finti dossier contro il pubblico ministero Henry John Woodcock fu promessa una consulenza al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. È lui stesso a raccontarlo in una conversazione registrata e allegata agli atti dell'inchiesta sull'associazione segreta che sarebbe stata guidata da alti magistrati in servizio a Potenza. Nicola Cervone, 54 anni, l'ex agente del Sisde assunto come cancelliere presso il Tribunale di Melfi, è accusato di essere il «terminale» del gruppo che avrebbe fatto capo al sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi e al suo collega Modestino Roca e per questo nei mesi scorsi è stato arrestato per calunnia. Nell'elenco ci sono anche carabinieri e finanzieri, tutti indagati nel fascicolo affidato al procuratore aggiunto di Catanzaro, Giuseppe Borrelli.

Per mesi Woodcock sarebbe stato spiato insieme ad altri colleghi e alla giornalista Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l'ha visto?. I dati sui loro tabulati telefonici e contatti sono finiti in alcuni esposti anonimi spediti alla Procura locale e ai giornali con l'obiettivo di delegittimarli e di farli finire sotto procedimento disciplinare in modo che fossero trasferiti in altra sede. Denunce preparate proprio da Cervone, che per le spedizioni si affidò a un poliziotto, Leonardo Campagna. Ed è stato proprio quest'ultimo, quando ha capito di essere coinvolto in una trappola che avrebbe potuto portarlo in carcere, a decidere di collaborare con gli inquirenti consegnando loro le registrazioni delle conversazioni con Cervone, che lui stesso aveva effettuato durante alcuni appuntamenti.

In particolare agli atti dell'inchiesta è allegata una cassetta audio che dà conto di un colloquio tra i due del 30 gennaio 2010. Campagna è preoccupato perché dopo essere stato individuato come «mittente» degli anonimi grazie alle telecamere piazzate davanti all'ufficio postale teme per gli esiti dell'indagine. E dunque afferma: «Sono sottoposto a procedimento e per le vostre stronzate devo passare i guai...». Cervone cerca di rassicurarlo e così rivela i suoi obiettivi futuri: «Io a breve, molto a breve sono chiamato come consulente al Copasir e vieni pure tu», ma non fa riferimento a quale sia il suo referente nell'organismo guidato da D'Alema.

In realtà dopo poco l'ex 007 finisce sotto inchiesta e questo blocca ogni possibilità di ottenere nuovi incarichi. Ma quanto afferma subito dopo fa ben comprendere quale fosse lo scenario nel quale si muoveva ed è su questo che si continuano a concentrare gli accertamenti nei confronti dei magistrati che vengono ritenuti dall'accusa i «mandanti» dell'operazione. Dice Cervone: «Là c'era tutto un giro di magistrati che s'erano accordati fra loro per poter fare diversi casini e tutta una cosa, ti dovrei, dovremmo sederci e parlarci ore, capito! Era tutto un bordello che avevano fatto tra loro, non è che c'era accanimento ma quello sembrava il paladino senza macchia e non era così». Evidenzia il giudice nel provvedimento che ha disposto l'arresto dell'ex agente del Sisde: «In buona sostanza nella spiegazione di Cervone le motivazioni della spedizione dell'esposto risiedono nel rancore nutrito da alcuni magistrati "che s'erano accordati tra loro per poter fare diversi casini" nei confronti del dottor Woodcock che "sembrava il paladino ma non era così"».

Di tutto questo risponderà domani Bonomi, convocato per l'interrogatorio come indagato di associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari, calunnia e rivelazione di segreto. L'alto magistrato ha sempre respinto le accuse, ma di fronte ai pubblici ministeri dovrà spiegare il contenuto di decine e decine di intercettazione telefoniche che invece mostrano la sua volontà di delegittimare i colleghi e i suoi rapporti con numerosi politici e imprenditori lucani, oltre alla sua ricerca di sponsor a livello nazionale per ottenere un incarico all'ispettorato del ministero della Giustizia oppure per diventare procuratore di Potenza.

Fiorenza Sarzanini

01 novembre 2011 08:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/cronache/11_novembre_01/Incarico-al-Copasir-per-creare-il-dossier-contro-Woodcock_314ecd3c-0458-11e1-89f9-a7d4dc298cd1.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Novembre 16, 2011, 12:09:41 pm »

Il retroscena

Maroni, addio al Viminale «A rischio l'alleanza con Silvio: ridiscutere tutto»

Il ministro si prepara a lasciare il suo ufficio: era come stare su una Ferrari

ROMA - Alle 19.30, quando esce dal Viminale per andare alla cena dei leghisti, Roberto Maroni lascia l'ufficio come se fosse un giorno qualunque. Nelle stanze dei suoi collaboratori ci sono scatoloni già riempiti, l'aria di smobilitazione è evidente. Nella sua, tutto è come prima, nonostante la consapevolezza che queste possono essere le sue ultime ore da ministro dell'Interno. Ride se si parla di scaramanzia e forse è soltanto un modo per esorcizzare la tensione. Perché la fine del mandato sembra arrivata, ma il problema adesso è un altro. E lui non lo nasconde: «Se il Pdl entra nel governo e la Lega rimane fuori, va in crisi un sodalizio iniziato nel 1994 e non è affatto scontato che si possa tornare insieme. Silvio Berlusconi lo sa bene, glielo hanno detto anche Maurizio Sacconi e Renato Brunetta, perché su questo i ministri del Nord sono d'accordo. Vedremo quello che succederà in vista delle elezioni, però è chiaro che per costruire un nuovo patto nulla sarà scontato, ogni punto dovrà essere ridiscusso».

Il primo colloquio della giornata è con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La sintonia tra i due non è mai mancata, non manca adesso che dal Quirinale si auspica un accordo totale, dunque la partecipazione del Carroccio al nuovo esecutivo. Ma su questo Maroni è categorico: «Se la maggioranza è la stessa del 2008, semmai allargata a quelli che intanto sono andati via, noi ci stiamo. Se è diversa siamo fuori. In democrazia è necessario ci sia l'opposizione e questo faremo, anche perché riteniamo pericoloso che ci sia un'opposizione fuori dal Parlamento. Di fronte ai tagli, alle riforme rigorose, sia pur necessarie, l'unica opposizione sarebbe nelle piazze, un rischio troppo alto». In serata circola il nome di Lamberto Dini come alternativa del centrodestra a quello di Mario Monti. Maroni non esprime giudizi, anche se la sua idea rimane quella di un governo guidato da Angelino Alfano «che potrebbe avere la maggioranza parlamentare e fare le riforme». In quel caso punterebbe a fare il vicepremier? «Non è nei miei piani, mi piacerebbe invece restare qui, è l'unica cosa che in quel caso potrei chiedere».

Il Viminale, diverso da come l'aveva lasciato nel 1994, «per me è stata un'esperienza stimolante, per certi versi esaltante, perché questo dicastero è come una Ferrari che devi saper guidare alla perfezione se non vuoi finire fuori strada. E per farlo devi esserci sempre, come fosse un'azienda privata». Da quando è tornato alcune regole sono saltate, «forse quelle più istituzionali e burocratiche». E adesso che si intravede la fine, c'è già chi rimpiange quella riunione fissata tutti i martedì alle 16 che pomposamente è stata chiamata «staff meeting» e in realtà «serve a confrontarsi, a scambiarsi le informazioni visto che partecipano tutti i capi dei dipartimenti, i sottosegretari, il capo di gabinetto e quello dell'ufficio legislativo». Parla bene di tutti Maroni, ma è con il capo della polizia Antonio Manganelli che ha instaurato un rapporto speciale, «tanto che, proprio facendo saltare tutte le regole, gli ho ordinato di darmi del tu, cosa mai accaduta in questo palazzo tra ministro e capo della polizia». Una sintonia che li ha portati insieme a Caserta, era l'inizio del mandato, per un esperimento di lotta alla camorra che si è rivelato vincente, anche se unico. Perché poi sono arrivati i «tagli» alla spesa e quello che doveva essere un «modello» è rimasto un caso isolato, come possono testimoniare i sindacati di polizia che da mesi si battono perché non hanno neanche i soldi per mettere la benzina nel serbatoio delle volanti.

Ne è consapevole Maroni, pur volendo rivendicare come «risultato più grande l'aggressione ai patrimoni mafiosi e la creazione dell'Agenzia che ha consentito di ottenere numeri straordinari». Ma se si parla di veri rimpianti ce n'è uno che non può celare: «Non essere riusciti in questi dieci anni a superare la situazione del G8 di Genova. E mentre lo dico penso a quanto è accaduto il 15 ottobre, durante la manifestazione degli «indignati», dove tutto era stato pianificato nei dettagli, dove ogni misura e contromisura era stata studiata, ma alla fine ha prevalso l'aspetto psicologico e il risultato è stato ben evidente. È questo il problema vero, la paura dei poliziotti di essere perseguiti per aver rispettato gli ordini, il condizionamento sul quale avevo deciso di intervenire con un provvedimento di legge che potesse proteggerli».
La riunione con i leghisti va avanti fino a tarda sera, al Viminale le luci restano accese per preparare la visita di questa mattina in un piccolo Comune in provincia di Padova. Poi, la settimana prossima, ci sarà il passaggio di consegne. «E allora - ammette Maroni - quegli scatoloni dovrò riempirli davvero».


Fiorenza Sarzanini
fsarzanini@corriere.it

12 novembre 2011 09:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_12/maroni-addio-viminale-sarzanini_84aacc32-0d05-11e1-a42a-1562b6741916.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Novembre 22, 2011, 05:35:16 pm »

I nomi di Alemanno, Follini e Matteoli. «Guarguaglini autorizzò i pagamenti»

Tangenti, i pentiti accusano i politici

I verbali Cola e Di Lernia: «Quei 200 mila euro erano per Casini» .

I manager giravano i soldi degli imprenditori ai leader dei partiti, a volte in cambio di robuste «creste»

ROMA - Tutti i partiti partecipavano alla spartizione delle nomine in Enav e Finmeccanica. Anche i Comunisti italiani sono riusciti a ottenere un consigliere. Ma quando si è trattato di distribuire affari e favori, la parte del leone l'avrebbero fatta Udc, An e Forza Italia. Gli imprenditori che volevano ottenere i lavori consegnavano i soldi ai manager e questi li giravano ai politici, talvolta riuscendo a ottenere una robusta «cresta».

I NOMI - Ma nei verbali di interrogatorio e negli altri atti processuali dell' inchiesta che ha portato agli arresti l'amministratore delegato Guido Pugliesi e due manager ci sono pure i finanziamenti non dichiarati, le società segnalate dai parlamentari e agevolate per ottenere l'assegnazione delle commesse, i ministri che avrebbero ottenuto il via libera nell'assegnare i posti di dirigenza. Sono le rivelazioni di chi, dopo essere finito in carcere, ha deciso di collaborare con la magistratura e ha coinvolto il leader udc Pier Ferdinando Casini, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, l'ex titolare dei Trasporti Altero Matteoli, il parlamentare Marco Follini, quando era vicepresidente del Consiglio. Tra loro Tommaso Di Lernia, che ha svelato di aver portato insieme a Pugliesi, 200 mila euro al tesoriere udc Giuseppe Naro il 2 febbraio 2010 e poi ha chiamato in causa molti altri parlamentari e membri di governo. Ma soprattutto il consulente del presidente Pier Francesco Guarguaglini e della moglie amministratore di Selex Marina Grossi, Lorenzo Cola. Entrambi stanno rispondendo da tempo alle domande del pubblico ministero Paolo Ielo. I manager dimostrano di esserne informati, tanto che in una intercettazione ambientale un dirigente di Enav afferma: «Ielo pensa di fare il milanese, ma a Roma le cose si fanno alla romana. O si calma o lo calmano».

BUSTE E DONAZIONI - Il 27 giugno 2011, nel carcere di Regina Coeli Di Lernia afferma: «Enav ha acquisito per una cifra spropositata un ramo di azienda di Optimatica, per un valore di circa 15 milioni di euro. Optimatica è una società vicina al ministro Matteoli, credo che eroghi finanziamenti alla fondazione a lui riconducibile ed è attraverso questi favori che Pugliesi si è garantito l'appoggio per la conferma nel ruolo di amministratore delegato. Fondamentalmente la conferma di Pugliesi alla carica di ad è dovuta a due canali: l'appoggio di Matteoli e l'appoggio di Milanese, favorito attraverso l'operazione della barca (il pagamento delle rate di leasing ndr ) e la somma di 10 mila euro mensili che l'imprenditore Proietti erogava a Milanese per pagare un affitto per il ministro Tremonti. Il manager Raffaello Rizzo era un uomo di Pugliesi e il suo ruolo era quello di favorire le imprese che erogavano finanziamenti all'Udc e alla frangia romana riconducibile all'attuale sindaco, di Alleanza nazionale. Sostanzialmente tali imprese portavano finanziamenti all'Udc alle feste del partito, a fare delle donazioni.

AN E UDC - Per contro i finanziamenti agli uomini di An, secondo quanto mi ha riferito Pugliesi, avvenivano direttamente nell'ufficio di Pugliesi, dove gli imprenditori portavano le somme di denaro che Pugliesi dava agli uomini di An».
Poi Di Lernia si concentra sull'Udc: «Ricordo anche che in un'occasione, in relazione ai lavori fatti a Venezia, vennero assegnati lavori a una società che si chiama Costruzioni e Servizi, vicina a Follini, all'epoca vicepresidente del Consiglio. Con riferimento al versamento dei 200 mila euro Pugliesi mi disse che erano destinati a Casini. Vennero consegnati al tesoriere dell'Udc perché erano assenti sia Cesa che Casini, impegnati in un'operazione di voto, secondo quanto mi disse il tesoriere medesimo». Il 6 settembre viene interrogato il commercialista Marco Iannilli che risulta in società con Di Lernia e afferma: «Consegnai a Di Lernia 300 mila euro su indicazione di Cola, parte dell'acconto dovuto a Pugliesi (complessivamente 600 mila euro) la cui quota parte, nella misura di 300 mila euro, avrebbe dovuto essere consegnata al partito di riferimento di Pugliesi, l'Udc».

PATTO TREMONTI-MATTEOLI - Il 24 agosto 2011 Lorenzo Cola conferma lo schema già acquisito dai pubblici ministeri ma aggiunge dettagli e nomi. Afferma a verbale: «Sul piano strettamente formale il potere di nomina del cda di Enav apparteneva al ministero dell'Economia, sul piano sostanziale era frutto di una precisa spartizione politica. In concreto, nella prima fase ossia tra il 2001 e il 2002 vi era un tavolo delle nomine o laboratorio interno alla maggioranza composto da Brancher, Cesa, Gasparri o La Russa e un uomo della Lega. Quanto ai riferimenti politici dei soggetti che si sono succeduti nel tempo, posso dire che Pugliesi è sempre stato in quota udc originariamente riferibile a Baccini. Devo aggiungere che dentro Finmeccanica il riferimento è Bonferroni, deputato ancora ora confermato nel ruolo di cda della holding. A quanto mi risulta Nieddu venne nominato direttamente dal Tesoro, Martini aveva come riferimento An e il ministro Matteoli».
E poi rivela: «Nell'ultima tornata di nomine io fui messo a conoscenza che Matteoli aveva ottenuto un accordo con Tremonti per il quale avrebbe potuto decidere le presidenze delle società... Ed è proprio per ingraziarsi Matteoli che Pugliesi, tre giorni prima dell'ultima nomina del Cda di Enav fa l'operazione Optimatica chiudendo un contratto poco inferiore alla soglia oltre la quale sarebbe scattata la necessità di una delibera del Cda. Nieddu mi ha riferito di un incontro avvenuto all'Harry's bar di Roma tra Matteoli, un suo parente e un apicale di Optimatica nei giorni precedenti la delibera di Pugliesi. Poco dopo Optimatica ha assunto quel parente di Matteoli». Cola racconta di «buste» piene di soldi - anche 300 mila euro - che l'ex direttore generale di Alenia Paolo Prudente gli consegnava da portare a Lorenzo Borgogni «per le necessità di pagamento di entità istituzionali». E poi racconta come «agli inizi del 2008 è avvenuta la consegna di somme di denaro a Bonferroni quando portai a Borgogni 300,350 mila euro in contanti».

CODICE CON GUARGUAGLINI: «FARE I COMPITI» Per mesi Cola ha negato che i vertici di Finmeccanica fossero a conoscenza delle tangenti versate ai politici e invece il 24 agosto scorso rivela: «Nelle nostre discussioni (con Guarguaglini, ndr ) l'attività di sovrafatturazione e di pagamento di tangenti veniva definita "fare i compiti". Locuzione che serviva per definire anche l'attività di mettere a posto le carte, la contabilità e tutto il resto, per evitare si scoprissero i fatti illeciti che intervenivano. Quando qualcuno incappava in qualche vicenda giudiziaria, e a ciò veniva dato risalto mediatico, dicevamo che avevano fatto male i compiti». Anche l'amministratore di Selex era «consapevole», secondo Cola. Afferma il consulente nell'interrogatorio del 9 dicembre 2010: «Si parlava con l'ad Marina Grossi del fatto che per lavorare in Enav occorreva pagare tangenti. È un sistema che lei ha ereditato e che ha continuato a realizzare».
Di fronte ai magistrati di Napoli, con i quali ha cominciato a collaborare da qualche settimana, il responsabile delle relazioni istituzionali di Finmeccanica Lorenzo Borgogni si è definito «collettore dei rapporti con i politici». Cola gli assegna un ruolo diverso: «Borgogni gestiva il livello di pagamenti destinati ai politici». Lo stesso manager ammette di aver fatto «assumere la figlia di Floresta (Ilario, ex deputato di Forza Italia, ndr ), che ne aveva fatto richiesta a Martini, in una delle società del gruppo Finmeccanica». Agli atti è allegata un'intercettazione telefonica dello stesso Borgogni con tale «Marco».
Marco: senti mi ha chiamato Filippo eh, che dice su, su quel discorso che facciamo ogni anno della loro offerta di partito a Milano eccetera...
Borgogni: di partito? del ministero!
Marco : parti ...eh del Pd, credo sia una cosa del Pdl, no? dice che te ne ha parlato a te pure
Borgogni: no
Marco: su Milano, lui mi ha anche detto che gli hai indicato che non volevi comparire come Finmeccanica ma con una società esterna
Borgogni: Vabbè, ma se ne parla quando torni dai
Marco: e no, questo si ok! no perché lui dice scusami sto all'ultimo con l'acqua alla gola eccetera, perché lui deve parlare con qualcuno dei nostri... tra oggi e domani.
Borgogni impreca e poi, via sms, spiega che di questa cosa non bisognava parlare al telefono. Scrive Ielo nella sua richiesta di arresto poi negata dal giudice: «Il tenore della telefonata appare essere inequivoco. Si tratta di una contribuzione al Pdl che rischia di essere confusa con una contribuzione al Pd, palesemente illecita, in ragione del fatto che deve essere effettuata con una società esterna. Carattere di illiceità emerge anche dalla reticenza e dal fastidio manifestati da Borgogni il quale evidentemente sa o presume di essere intercettato».

Fiorenza Sarzanini

22 novembre 2011 | 9:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/11_novembre_22/sarzanini-tangenti-pentiti-accusano-politici_4d30ca7e-14d8-11e1-9140-38f81e7faa5e.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Dicembre 18, 2011, 05:56:53 pm »

IL RAPPORTO SUGLI SPRECHI

Quei quattromila finti poveri che non pagano asili e atenei

Una famiglia controllata su tre imbroglia e ottiene sconti

ROMA - Ricchi nella realtà, poveri per lo Stato. E proprio grazie a questa finta indigenza migliaia di italiani sono riusciti a ottenere benefici per i figli - dagli asili nido gratuiti alle agevolazioni sulle tasse universitarie - per i parenti anziani con i servizi sanitari a domicilio. Ma anche riduzioni sulle bollette di luce e gas. Su circa 14.000 famiglie controllate nei primi 10 mesi di quest'anno, quasi 4.000 avevano illecitamente dichiarato di essere sotto la soglia minima fissata dalla legge. Vuol dire, una su tre. È uno dei dati più eclatanti che emerge dal rapporto annuale della Guardia di Finanza sugli sprechi della spesa pubblica. Si tratta del bilancio di un'attività diventata strategica nel momento in cui si cerca di risanare i conti dello Stato. A leggere i resoconti appare evidente come tra i settori in sofferenza nei quali si deve intervenire con urgenza effettuando un monitoraggio costante anche da parte delle stesse autorità di controllo, c'è quello della Sanità. Ma la cifra più eclatante continua a rimanere quella legata al danno erariale provocato dai dipendenti statali che commettono abusi, falsi o accettano mazzette: da gennaio a ottobre 2011 ha abbondantemente superato un miliardo e 700mila, sono ben 3.736 persone denunciate alla Corte dei Conti.

Nel complesso, le azioni illecite e le verifiche inesistenti nella spesa pubblica causano ogni anno un mancato introito di circa tre miliardi di euro. In totale negli ultimi tre anni gli sprechi hanno superato la cifra record di dieci miliardi di euro. E infatti nella relazione si evidenzia come «il contrasto alle frodi, che da un punto di vista ragionieristico pesa quanto e forse più di quello delle entrate fiscali, oggi traspare in maniera ancor più evidente in ragione del perdurante momento di crisi e degli impegni politici assunti dall'Italia nei confronti della comunità internazionale, i quali impongono che le risorse disponibili siano spese sino all'ultimo euro per sostenere l'economia e le classi più deboli, eliminando sprechi, inefficienze e, nei casi più gravi, distrazioni di fondi pubblici che rappresentano un ostacolo alla crescita del Paese». Una considerazione che trova fondamento anche nelle sempre più frequenti frodi comunitarie che hanno causato, soltanto nel 2011, una perdita di oltre 120 milioni di euro che sale fino a 700 milioni di euro calcolando gli «aiuti indebitamente percepiti da privati e imprese» negli ultimi tre anni.

Finti ricoveri e pazienti deceduti: «Il controllo della spesa sanitaria - sottolineano gli analisti delle Fiamme Gialle - stante la sua particolare importanza nell'ambito del bilancio pubblico e le sue dinamiche di crescita rappresenta una delle priorità inderogabili per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica». La realtà appare però ben lontana dal raggiungimento di questo obiettivo se si calcola che nei primi dieci mesi di quest'anno sono stati effettuati 1.507 controlli e sono finite sotto inchiesta 1.866 persone. La perdita calcolata per lo Stato è pari a 274 milioni di euro, addirittura il triplo di quanto era stato accertato nel 2009. E proprio in questo settore si sbizzarrisce la fantasia dei pazienti, ma soprattutto quella degli operatori: medici, infermieri e responsabili delle strutture.

La violazione più frequente riguarda l'autocertificazione di cittadini che attestano un falso Isee (l'indicatore della situazione economica equivalente) e ottengono prestazioni mediche totalmente esenti da ticket. Ma la «voce» che provoca il maggior danno al bilancio dello Stato riguarda i ricoveri: perché ci sono alcuni medici e paramedici che certificano di aver effettuato prestazioni in day hospital anziché in ambulatorio e altri - in servizio presso le cliniche convenzionate - che attestano di essere arrivati attraverso il pronto soccorso in modo da ottenere il rimborso delle spese dal servizio sanitario nazionale che altrimenti non sarebbe previsto. E poi ci sono i dottori «di base» che fanno risultare in cura pazienti che in realtà sono morti o si sono trasferiti all'estero e in questo modo continuano a percepire il compenso. Per avere un'idea dell'incidenza basta calcolare che le ispezioni condotte nel 2008 e nel 2009 hanno consentito di scoprire 67.000 «fantasmi» e denunciare 347 medici che avevano percepito illegalmente 22 milioni e mezzo di euro. «La necessità di pervenire al risanamento dei conti pubblici - evidenziano gli analisti delle Fiamme Gialle - impone un'oculata attività di contenimento e razionalizzazione della spesa, accompagnata da una mirata azione di controllo finalizzata all'individuazione delle condotte negligenti o illecite che, consentendo sprechi, diseconomie o inefficienze possono rappresentare una variabile sensibile nelle funzioni di crescita delle uscite di bilancio».

Asili nido e assegni sociali: assegno per chi ha almeno tre figli minori, assegno di maternità, asilo nido, mensa scolastica, libri, borse di studio, sconti sulle tasse universitarie e una serie di servizi di assistenza agli anziani o ai malati come le cure a domicilio: sono le agevolazioni previste per i nuclei familiari a basso reddito. Peccato che ad usufruirne siano spesso ricchi professionisti che presentano dichiarazioni poco superiori allo zero. I numeri contenuti nel dossier della Finanza forniscono il quadro della situazione. Si scopre così che «nel triennio 2007/2009 ci sono stati 41.000 interventi che hanno portato alla denuncia di 12.256 soggetti per falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche». L'esborso per lo Stato è stato di ben quattro milioni di euro. Boom di richieste anche per gli ultimi due anni con un totale di circa 9.000 persone scoperte e un danno che supera i tre milioni di euro. Il record di denunce è stato in Toscana con 683 segnalazioni alla magistratura, poi il Lazio con 567 illeciti accertati.

Truffe e raggiri sono stati scoperti in tutta Italia pure per il cosiddetto «assegno sociale» destinato a chi ha più di 65 anni e un reddito inferiore ai 6.000 euro annui. «È stato riscontrato - sottolineano i finanzieri - che molti cittadini extracomunitari hanno perfezionato la pratica di erogazione e poi sono rientrati nel Paese di origine facendo così venir meno il requisito della residenza nello Stato italiano necessario per continuare a ottenere il sostegno che, in tal modo, si tramutava in una "pensione d'oro" considerato il differente costo della vita rispetto all'Italia». Anche molti nostri connazionali hanno il sussidio: «Emigrati in Argentina che hanno fatto rientro in Italia e vi hanno soggiornato il tempo necessario a vedersi riconoscere l'assegno, poi sono nuovamente espatriati. I controlli sono appena iniziati, il risultato è sorprendente: 571 illeciti scoperti con un esborso di ben 11 milioni di euro, vuol dire un guadagno illecito che per ogni abusivo è stato di 20mila euro.

Fiorenza Sarzanini
fsarzanini@corriere.it


18 dicembre 2011 | 11:08© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_18/sarzanini_quei-quattromila-finti-poveri_4b1e9d9e-2958-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:37:18 am »

DISMISSIONI CONTESTATE

Palazzi Siae venduti in perdita

Nuovo caso legato a Balducci

Stimati 463 milioni, il presidente Blandini si è 'accontentato' di 260


ROMA - Dismissione del patrimonio immobiliare per un valore che potrebbe essere addirittura la metà di quello reale. C'è un'altra vicenda che rischia di mettere in imbarazzo le istituzioni. Perché riguarda la gestione della Siae, l'Ente pubblico che si occupa dei diritti d'autore, affidata a Gaetano Blandini, ex direttore del settore «Cinema» del ministero dei Beni culturali. Anche lui, come Carlo Malinconico, era molto legato al Provveditore Angelo Balducci e ai suoi amici, in particolare Diego Anemone. Sono le intercettazioni dell'inchiesta che nel febbraio 2009 portò in carcere molti componenti della «cricca» dei Grandi Eventi a raccontare questi rapporti, con Blandini che segnala una persona da assumere e in cambio si adopera per le società di produzione gestite dalle mogli di Balducci e Anemone. Ma finanzia anche un film dove recita Lorenzo Balducci. Nove mesi dopo Blandini viene nominato direttore generale della Siae. E adesso la sue scelte amministrative rischiano di finire all'attenzione della magistratura.

La «perdita» di 203 milioni di euro
Accade tutto il 28 dicembre scorso, periodo di festività natalizie. Quel giorno viene firmato un atto notarile che dispone la cessione dei palazzi del Fondo Pensioni della Siae a un misterioso «Fondo Aida». Si tratta di sei immobili che si trovano a Roma. Il prezzo viene fissato in 80 milioni di euro. Ed ecco la prima stranezza. Il valore di mercato è in realtà ben più alto e potrebbe crescere ulteriormente tenendo conto che il decreto del governo prevede la rivalutazione degli estimi catastali. In ogni caso nel bilancio 2010 il valore era già stato indicato in 103 milioni di euro e dunque la perdita secca già equivale a 23 milioni di euro. Non basta. Anche gli immobili della Siae vengono ceduti e confluiscono nel «Fondo Norma». Prezzo concordato: 180 milioni di euro, ma il valore dei palazzi è già stato stimato in 360 milioni di euro, esattamente il doppio. L'intera operazione finanziaria è affidata alla «Sorgente Group» e prevede che entro il prossimo 31 gennaio il 100 per cento di «Aida» venga acquisito dal «Norma».

I conti sono presto fatti: a fronte di stabili stimati complessivamente 463 milioni di euro, gli introiti risultano pari a 260 milioni. Perché questa differenza? E soprattutto qual è il vantaggio di questa dismissione totale? Sono le domande rivolte dai sindacati che rappresentano i 1.200 dipendenti e i pensionati proprio a Blandini, ma al momento nessuna risposta è arrivata. Anzi, con una lettera firmata il 3 gennaio scorso, il direttore generale specifica che «le scelte amministrative, tutte improntate al più rigoroso rispetto della legalità e alla ricerca della massima efficienza gestionale, non sono oggetto di confronto o di informativa». Eppure già in passato la gestione Blandini aveva generato perplessità negli organi di vigilanza. Basti pensare che nel bilancio 2010 del Fondo Pensioni era stata messa in consuntivo una perdita pari a 18 milioni di euro, ma il collegio dei revisori non l'aveva certificata ritenendo di non «poter condividere» le motivazioni che avevano causato il «buco» nei conti.

«Sorgente Group» e l'affitto stellare
Sono diversi i misteri che ancora avvolgono questa vicenda. La prima riguarda l'affitto che la Siae dovrà versare per gli uffici della Direzione Generale dell'Eur. Si tratta di ben 600 mila euro annui e - facendo le debite proporzioni - i sindacati vogliono adesso sapere quanto si dovrà sborsare per tutti gli altri uffici sparsi in tutta Italia. La seconda, altrettanto seria, attiene al pagamento di stipendi e Tfr. Secondo l'accordo del 28 dicembre entro il prossimo 31 gennaio sarà stipulata una polizza assicurativa con la Società Allianz Ras di 86 milioni di euro per il pagamento delle pensioni. Ma il resto? Secondo lo statuto sono proprio gli immobili a garantire il pagamento dei salari e delle liquidazioni. Dunque, che cosa accadrà adesso?

L'ulteriore enigma da chiarire riguarda il ruolo di «Sorgente Group» che secondo il sito Internet ufficiale «è una società di diritto italiano al vertice di un gruppo che opera nel settore della finanza immobiliare con quattro società di gestione del risparmio (in Italia, Svizzera, Lussemburgo e Stati Uniti) e con 25 società immobiliari». Perché si è scelto di affidarsi a questa azienda e poi far confluire gli immobili nei fondi «Aida» e «Norma»? E soprattutto, perché si è scelto di procedere a trattativa privata, nonostante già in passato ci fossero offerte di acquisto ben più alte per gli immobili? Silvano Conti, coordinatore nazionale della Cgil per i lavoratori del settore, non va per il sottile: «Attendiamo le risposte di Blandini, altrimenti siamo pronti a presentare un esposto alla magistratura. Noi siamo qui per garantire i lavoratori, i pensionati e dunque l'Azienda, ma abbiamo il timore forte che queste alienazioni abbiano uno scopo preciso: creare in maniera artificiosa condizioni di crisi che poi portano alla privatizzazione. Un percorso inaccettabile perché soltanto la certezza che rimanga Ente pubblico consentirà di garantire una distribuzione equa dei diritti tra grandi Major e piccoli autori, come è sempre stato fatto fino ad ora».

Fiorenza Sarzanini

fsarzanini@corriere.it

11 gennaio 2012 | 8:33© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_11/sarzanini_66bf62ac-3c1f-11e1-9394-8a7170c83e07.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Gennaio 14, 2012, 03:12:30 pm »

Le indagini I punti da chiarire per capire il movente del delitto

Di chi sono i soldi che Zhou aveva con sé?

La pista di una «talpa» e il mistero del casolare


ROMA - La borsa piena di soldi buttata in un casolare diroccato apre nuovi interrogativi sull'agguato mortale contro il commerciante cinese Zhou Zeng e la sua figlioletta Joy di appena nove mesi. Perché né sua moglie, né i suoi parenti più stretti avevano rivelato come l'uomo quella sera avesse con sé 16 mila euro, o forse addirittura di più, oltre ai tremila che nascondeva in una tasca. Ma soprattutto perché difficilmente due rapinatori occasionali abbandonano un simile bottino, soprattutto dopo aver ucciso. E dunque a questo punto i carabinieri battono la pista che gli aggressori siano stranieri o addirittura di un regolamento di conti, senza escludere la possibilità che chi ha agito sia stato avvisato che Zeng stesse andando a consegnare il denaro. Una «talpa» che lavorava con lui, comunque qualcuno che conosceva bene la coppia e le sue abitudini.

LA RICOSTRUZIONE - Il film della tragedia viene rivisto in continuazione e messo a punto nei dettagli alla ricerca di una versione finale, visto che al momento la ricostruzione delle fasi dell'omicidio appare ancora confusa. Non è facile, anche perché l'unica vera testimone è la moglie della vittima, Liyan, che è ancora sotto choc e non conosce perfettamente l'italiano. Alcuni punti fermi sono stati comunque messi e da qui si riparte per cercare la verità e rintracciare gli assassini.

I SOLDI - Si torna dunque a mercoledì sera quando marito e moglie chiudono il bar e con la figlioletta vanno via. «Tornavamo a casa», assicura lei. La donna racconta che due uomini con il casco li avvicinano e cercano di prenderle la borsa. Aggiunge che il marito tenta di difenderla, ma non ci riesce e nella colluttazione parte un colpo. Ed ecco il primo dubbio: se quella borsa era vuota, che motivo aveva l'uomo di mettere a rischio la loro incolumità e quella della bambina? In realtà la borsa che si vuole difendere è evidentemente quella che contiene il denaro, ma Liyan non ne fa cenno. Pensa forse di poter recuperare le migliaia di euro che le sono stati sottratti quando l'attenzione su questa vicenda sarà inevitabilmente calata? Oppure non sa che il marito ha tutti quei soldi con sé? Eppure è proprio lei a raccontare di aver inseguito i malviventi, prima di accorgersi che la sua bimba era stata colpita a morte e questo fa presumere che fosse a conoscenza del prezioso contenuto di quel borsello.

I RAPINATORI - Liyan parla di due italiani che avevano un casco in testa e spiega che li ha sentiti parlare. In realtà lei non conosce perfettamente la nostra lingua e dunque potrebbe non essere stata in grado di comprendere se si trattasse effettivamente di italiani o semplicemente di stranieri perfettamente integrati, forse immigrati di seconda generazione. Un'ipotesi che gli investigatori non hanno affatto scartato, perché le testimonianze di chi era in strada in quel momento non sono convergenti. Ma pure tenendo conto che nessuno ha visto uno scooter o una moto, dunque non si può escludere che nei paraggi avessero uno o due complici che li attendevano.

LA REAZIONE DI ZENG - «Mio marito ha cercato di reagire», racconta Liyan. Se questa circostanza è vera, avvalora l'ipotesi che l'uomo non fosse troppo spaventato da chi lo stava minacciando, che non avesse paura di esporre a un pericolo grave la sua bimba. Conosceva gli aggressori? O invece il suo vero timore riguarda il proprietario di quella cifra? I tremila euro che potrebbero essere l'incasso del bar Zeng li custodiva addosso. I 16 mila li teneva in un borsello. Stava andando a consegnarli a qualcuno? Si sa che l'uomo raccoglieva denaro da portare a un money transfer che si trova poco distante. Ma era davvero quella la destinazione finale delle migliaia di euro?

IL CASOLARE - La borsa con i soldi è stata ritrovata in un casolare a circa due chilometri dall'agguato. È possibile che i banditi l'abbiano buttata durante la fuga, presi dal panico dopo lo sparo mortale. Ma questa ipotesi non convince del tutto. Se davvero hanno compreso la gravità del loro gesto avrebbero potuto lasciarla subito. Invece hanno fatto un pezzo di strada e hanno scelto un luogo non facile da individuare. Pensavano di tornare a prenderla? Oppure hanno preso una parte dei soldi lasciando il resto in un posto dove abitano stranieri per far ricadere la colpa su di loro? Non è facile trovare risposta a queste domande, ma soltanto quando tutti i tasselli saranno andati a posto si potrà comprendere davvero il movente di questa drammatica storia. E un aiuto concreto può arrivare dalle analisi già avviate dai carabinieri del Ris. Un dettaglio che consenta di ricostruire un'impronta, un codice Dna. E così fare giustizia per la morte di un uomo e di una bimba di appena nove mesi.

Fiorenza Sarzanini

fsarzanini@corriere.it7 gennaio 2012 | 13:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #130 inserito:: Gennaio 17, 2012, 10:53:38 am »

La «macchina» pubblica

Sei miliardi di euro sottratti all'Erario

La Finanza e gli accertamenti sugli statali.

Il settore della sanità rimane in cima alla lista degli sprechi e delle ruberie


ROMA - In tre anni hanno provocato un «buco» nel bilancio dello Stato pari a 6 miliardi e 250 milioni di euro, quasi un terzo della manovra da 20 miliardi già varata dal governo di Mario Monti per il 2012. Sono i dipendenti pubblici accusati di danno erariale, dopo essere finiti sotto inchiesta per reati che vanno dalla corruzione alla truffa, dall'omissione in atti d'ufficio all'abuso. Ma anche per semplici «negligenze» nello svolgimento delle proprie mansioni. Funzionari e impiegati che sfruttano il lavoro dei propri colleghi e nella maggior parte dei casi riescono ad arricchirsi. Complessivamente, 14.327 persone che tra il 2009 e il 2011 sono state «segnalate» dalla Guardia di Finanza alla Corte dei Conti e per molte di loro è scattata anche la denuncia penale.

Si tratta di una minoranza, ma capace di mandare in crisi il bilancio. Soltanto nell'ultimo anno sono state 883 le «ispezioni» effettuate dai finanzieri, 4.148 le «segnalazioni» per una «perdita» quantificata in un miliardo e 841 milioni di euro. Il settore della spesa sanitaria rimane in cima alla lista degli sprechi e delle ruberie, ma molti altri sono i campi dove la «cattiva gestione» si mescola all'illecito. Uno è certamente quello delle case popolari, amministrate spesso con l'obiettivo di favorire parenti, amici e potenti. E poi c'è il mercato delle consulenze, con amministrazioni locali che addirittura sostituiscono i dipendenti con «esperti» ingaggiati all'esterno e pagati con parcelle da capogiro. E proprio sull'attività di controllo nel settore della spesa pubblica che - al pari dell'evasione fiscale - si concentrerà l'attenzione investigativa della Finanza anche nel 2012 come ha ribadito nella sua direttiva il comandante generale Nino Di Paolo, proprio alla luce dei risultati ottenuti.

Le case vuote e i «senzacontratto»

A Catania il direttore dell'Ente Case Popolari aveva assegnato un negozio a suo figlio - che non ne aveva diritto - e non si è preoccupato di allegare neanche la richiesta, tantomeno di riscuotere il canone. Del resto sono moltissimi gli alloggi che aveva concesso a parenti e amici e alla fine ha provocato un danno di 42 milioni di euro. Grave è anche il «buco» causato da 21 tra amministratori comunali e responsabili di un altro Istituto case popolari che hanno consentito a numerosi inquilini di prendere possesso degli immobili, ma non hanno mai stipulato con loro un contratto di locazione e alla fine non hanno potuto pretendere neanche un euro. C'è anche il caso di un ente con 83 milioni di affitti non riscossi e lì per cercare, inutilmente, di recuperarli è stata autorizzata una consulenza legale che ha provocato un ulteriore esborso di tre milioni di euro. Altri problemi sono stati riscontrati dai finanzieri al momento di censire gli appartamenti lasciati vuoti. In un caso si è scoperto che c'erano 50 alloggi popolari pronti da anni e mai utilizzati: il mancato introito verificato è stato di due milioni di euro, da sommare alle spese di ristrutturazione per renderli nuovamente abitabili dopo anni di abbandono. Numerose indagini sono state avviate pure sulla «cartolarizzazione» degli stabili perché al momento della cessione è stato determinato un prezzo molto inferiore al valore di mercato. Fatti i conti, l'ammanco complessivo per il 2010 e il 2011 è stato di 170 milioni di euro con 70 persone denunciate alla Corte dei Conti e 34 alla magistratura ordinaria.

Il record del primario e le Tac private

I casi più frequenti di «danno» sono quelli dei medici che lavorano per il Servizio sanitario nazionale e senza autorizzazione svolgono anche attività privata. Negli ultimi due anni, denunciano i finanzieri, «le verifiche per le prestazioni mediche "intramoenia" hanno consentito di scoprire un danno pari a 172 milioni di euro e di deferire ai giudici contabili 190 dipendenti, mentre nei confronti di 71 è scattata anche la denuncia penale». Il record di quest'anno spetta a un primario che ha svolto oltre 3.500 visite presso il proprio studio privato senza naturalmente dichiarare i relativi ricavi. Alcuni suoi colleghi di una Asl che percepivano le indennità di esclusiva, uscivano per andare a visitare i pazienti, ma per giustificare le assenze presentavano falsi contratti per attestare che andavano a insegnare.
Il «sistema» è stato sfruttato in maniera costante in Calabria: i finanzieri hanno denunciato alla Corte dei Conti 115 medici e 25 impiegati della Asp di Catanzaro contestando loro un danno complessivo di 12 milioni di euro. Il meccanismo di illecito riguarda la «Alpi», vale a dire l'attività libero professionale intramuraria. Chi l'accetta può svolgere lavori esterni soltanto in casi particolari e con il «visto» del dirigente. E invece si è scoperto che nessuno effettuava i controlli e questo ha consentito al personale ora finito sotto inchiesta di lavorare fuori e di svolgere l'attività privata addirittura all'interno di una clinica che non aveva le autorizzazioni per alcune prestazioni che invece venivano effettuate. Altrettanto grave è il caso di tre medici che dichiaravano sul foglio presenza di essere al lavoro, mentre facevano visite nei propri studi privati dall'altra parte della città o addirittura in un'altra provincia. La «segnalazione» delle Fiamme Gialle ai giudici contabili riguarda incassi «in nero» per 200 mila euro, ma è stata presentata anche una denuncia penale per truffa. Stesso reato è stato contestato ad alcuni specialisti che utilizzavano Tac e risonanze magnetiche delle strutture pubbliche per i propri pazienti privati.

I medici del lavoro e le «ispezioni»

Truffa, falso e concussione sono gli illeciti addebitati ad alcuni dottori che lavoravano in una struttura ispettiva sull'igiene e la sicurezza negli ambienti di lavoro e avevano accettato consulenze da quelle stesse aziende che dovevano tenere sotto controllo. Onorario concordato: mezzo milione di euro, oltre a docenze e corsi di formazioni pagati a parte.
Al momento appare inspiegabile il comportamento del direttore sanitario di un ospedale che, come viene sottolineato nella relazione della Guardia di Finanza «ha autorizzato personale sanitario dipendente all'esercizio dell'attività libero professionale intramuraria ambulatoriale presso strutture private non accreditate, pur avendo a disposizione spazi realizzati ad hoc utilizzando un finanziamento pubblico di quasi 700 mila euro».

I consulenti legali
Il caso più eclatante è certamente quello di un Comune che - nonostante potesse contare su un ufficio legale interno - aveva affidato incarichi esterni per un'attività che, come hanno riscontrato le Fiamme Gialle, era «seriale, superflua e svolta soltanto formalmente». Questo non ha comunque impedito un esborso di ben 21 milioni di euro. Nel dossier si evidenzia come quello dei lavori affidati a personale non dipendente sia ormai un vero e proprio «sistema» che consente agli alti funzionari di gratificare amici e parenti con un danno per il bilancio da centinaia di milioni di euro e soprattutto a discapito di quegli «esperti» interni che potrebbero svolgere perfettamente le stesse mansioni.

Fiorenza Sarzanini

17 gennaio 2012 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_17/sarzanini-controlli-frodi-6-miliardi-sottratti-erario_ea65412e-40d1-11e1-b71c-2a80ccba9858.shtml?fr=box_primopiano
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« Risposta #131 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:47:11 pm »

LA DONNA FORSE CLANDESTINA

Indagini anche sulla Costa Il giallo della moldava in plancia

La compagnia di navigazione avvisata un'ora prima dell'«abbandonate la nave»: esitò per evitare i rimborsi?


GROSSETO — I misteri che segnano le fasi del naufragio della nave Concordia coinvolgono direttamente i vertici della Costa. Perché l’azienda fu avvisata ben 68 minuti prima della dichiarazione di evacuazione che c’era un problema a bordo, ma non risulta che il comandante Francesco Schettino sia stato sollecitato a dichiarare immediatamente lo stato di emergenza. Ci fu soltanto una sottovalutazione del problema causata dalle omissioni dello stesso Schettino a rivelare la gravità di quanto stava effettivamente accadendo? Oppure i responsabili della compagnia pensavano di poter evitare gravi conseguenze economiche e in questo modo si sono resi complici del comandante nel causare il disastro? Su questi interrogativi si concentrano le verifiche disposte dalla Procura di Grosseto, tenendo conto di un dettaglio emerso nelle ultime ore: ai crocieristi che hanno subito un trauma durante il viaggio, per esempio lo sbarco notturno su un’isola a bordo di scialuppe, la procedura marittima assegna un risarcimento di 10.000 euro a testa. Tenendo conto che a bordo c’erano circa 3.000 persone, vuol dire che l’indennizzo complessivo avrebbe potuto sfiorare i 30 milioni di euro.

Sono numerose le circostanze che appaiono tuttora inspiegabili. L’ultima riguarda la presenza in plancia di una ragazza moldava di 25 anni che non risulta inserita in alcuna lista. Era ospite del comandante? E perché non era stata registrata? Lavorava senza contratto? Di lei hanno parlato alcuni testimoni sostenendo che si chiama Domnika e il procuratore Francesco Verusio ha chiesto ai carabinieri di rintracciarla visto che compare anche in una fotografia scattata poco dopo la partenza da Civitavecchia. Bisogna verificare perché fosse a bordo e dove si trovasse al momento dell’impatto, visto che secondo alcuni si era sistemata nel salottino attiguo alla sala comandi. Ha visto o sentito dettagli utili a ricostruire quanto è accaduto? Possibile che sia rimasta lì anche nelle fasi concitate che sono seguite all’impatto con lo scoglio? Che la situazione fosse grave, Schettino lo aveva certamente intuito. Però le decisioni che prende in seguito appaiono inspiegabili e si rafforza il sospetto che non fossero completamente autonome ma concordate con la compagnia. E che anche adesso, nonostante le prese di distanza del presidente e amministratore delegato Pier Luigi Foschi, ci si muova di pari passo, prova ne sia che non risulta cambiata la decisione di «garantire assistenza legale a Schettino» come lo stesso Foschi ha confermato tre giorni fa quando ha denunciato «l’errore umano commesso dal comandante». Del resto venerdì sera c’erano le condizioni per riparare a quello sbaglio, ma i responsabili di Costa non diedero alcuna disposizione immediata di evacuazione che avrebbe consentito di salvare tutti i passeggeri visto che per quasi un’ora la nave è rimasta «in asse» e l’impiego delle imbarcazioni di salvataggio avrebbe scongiurato ogni rischio.

Invece si sono persi 68 minuti preziosi: esattamente il tempo trascorso dall’allarme dato alle 21.50 dall’ex comandante Mario Palombo proprio a uno dei manager della Costa alle 22.58 quando i sette fischi di emergenza decretano l’abbandono della nave. Finora è stato accertato che Schettino parla per tre volte al telefono con il responsabile dell’unità di crisi della compagnia Roberto Ferrarini. Ma gli elementi raccolti accreditano adesso l’ipotesi che le consultazioni di quei momenti abbiano coinvolto anche altre persone della compagnia. E soprattutto che ci siano stati contatti con altre persone che erano a bordo della Concordia. Non a caso i controlli delegati a carabinieri e Guardia di Finanza riguardano pure la divisione dei compiti assegnati a ufficiali e sottufficiali perché al momento risulta che alcuni possano aver svolto mansioni non adeguate al proprio ruolo. L’obiettivo è evidente: ricostruire la catena di comando e così scoprire quali «consigli» furono dati a Schettino, ma anche a chi ne aveva preso il posto dopo che lui aveva abbandonato la nave, dai responsabili di Costa. Soltanto quando il quadro delle verifiche sarà completato si chiederà conto a Ferrarini e agli altri responsabili della sicurezza di una serie di eventi che alla fine si sono rivelati scellerati e che — ormai questa appare la convinzione degli inquirenti— non possono essere addebitati soltanto al comandante di bordo.

Fiorenza Sarzanini

19 gennaio 2012 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_19/indagini-anche-sulla-Costa-fiorenza-sarzanini_6a2c389a-426c-11e1-8207-8bde7a1445db.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Gennaio 22, 2012, 09:58:06 pm »

Le carte

Schettino ammette: ho ritardato l'allarme

Il giallo della strumentazione fuori uso

Gli «inchini» li pianifica la Compagnia, un modo per farsi pubblicità.

Ora dovrò convivere con questi morti


GROSSETO - Ci sono stati altri inchini a «Capri, a Sorrento, in tutto il mondo». Le «pianificava la Compagnia, ad agosto per le feste patronali» e in questo modo «ci facciamo pubblicità». Così, durante il lungo interrogatorio di martedì scorso davanti al giudice, il comandante Francesco Schettino ha smentito l'amministratore delegato di Costa Pier Luigi Foschi che aveva detto di aver autorizzato una simile manovra «soltanto una volta». Poi il «capitano» della Concordia è stato costretto a riconoscere di aver ritardato l'allarme, un errore che ha avuto conseguenze tragiche provocando la morte di numerosi passeggeri e membri dell'equipaggio. E così ha provato a giustificarsi: «Prima di dare l'emergenza dobbiamo essere sicuri, perché non voglio rimanere con i passeggeri in acqua, né creare panico che la gente mi muore per nulla». Possibile che quanto stava accadendo non fosse sufficiente per ordinare l'evacuazione? Schettino assicura di no e subito dopo fa un'altra clamorosa ammissione che potrebbe segnare l'esito dell'inchiesta: «Il sistema di registro dei dati era rotto».

«Dovrò convivere con i morti». I magistrati lo incalzano per avere una ricostruzione degli orari, per sapere come mai ordinò l'abbandono della nave più di un'ora dopo l'urto. E così Schettino tenta di difendersi: «Le operazioni sono avvenute dopo che io ho avuto le informazioni che la nave non avesse più ossequiato la caratteristica nautica che è la galleggiabilità. Perché non è che io posso avere un blackout e dico andiamocene tutti. Dove li mando questi qua? Un comandante deve stabilire i tempi. Perché se c'è un comandante che mette tutti i passeggeri in mare e la nave poi rimane a galla che facciamo?». Gli contestano come in realtà i suoi sottufficiali lo avessero informato che «i sei generatori erano allagati». Lui spiega di aver chiesto «di vedere sul piano di ordinate quanto è questo benedetto squarcio», ma evidentemente neanche questo è stato sufficiente per ordinare l'evacuazione. «Ho dato l'allarme di emergenza quando ero convinto di non dovere più tornare indietro e che lo dovevo dare per forza. Perché questa è la verità».

In quel momento alcuni passeggeri avevano già indossato i giubbotti salvagente, «l'ufficiale in seconda mi aveva detto che alcuni stavano già andando sulle lance». Schettino continuava a minimizzare la portata di quanto stava accadendo con la Capitaneria di porto, che nel frattempo era stata allertata dai carabinieri contattati da alcuni clienti che erano a bordo. La difesa di Schettino su questo appare a tratti inverosimile: «Io ho detto abbiamo un blackout, ma ho anche avvisato che avevamo avuto un contatto col fondo». Il pubblico ministero lo smentisce. Lui prova a insistere: «Nel momento in cui ho il blackout la nave non è più governabile, la cosa va da sé. Il fatto del discorso del contatto col fondo io l'ho detto! Non so, se non risulta per favore ditemelo!». Non risulta e alla fine è costretto ad ammettere di non aver neanche avvisato la Capitaneria «perché nel momento in cui succede qualcosa e una persona sta lavorando...».
Era troppo impegnato, dunque. Ma poi in un altro passaggio dell'interrogatorio capisce che la sua posizione si può aggravare ulteriormente e afferma: «Dovrò convivere tutta la vita con questi morti, come si fa?».

Al Giglio accostati fino a 0,28. Sul «saluto» alle isole i magistrati si soffermano a lungo, visto che in questo caso la manovra di accostamento si è rivelata fatale. Racconta Schettino: «La dovevamo fare pure la settimana prima e non la feci perché c'era cattivo tempo. L'insistenza... "perché facciamo navigazione turistica, ci facciamo vedere, facciamo pubblicità e salutiamo l'isola". "Ok", dissi. All'Isola del Giglio, questo percorso qua, l'ho fatto per tutti e quattro i mesi: io sono imbarcato da quattro mesi, dovevo sbarcare questa settimana. L'ho sempre fatto, ma non navigazione turistica. L'ho fatto anche in passato con la Costa Europa e con altre navi. Non è la prima volta che faccio questo tratto. Non ricordo quante volte, ma lo avevo fatto anche negli imbarchi precedenti. E anche quando lavoravo con la Tirrenia di navigazione quindici anni fa». Il magistrato vuole sapere la distanza, il comandante non si sottrae: «Allora le dico: io per esempio la navigazione turistica quando la svolgevo a Sorrento, dalle mie parti, ci andavo proprio vicino, sui 400-500 metri; rallentavo e andavo a fare la navigazione turistica. Adesso io volevo fare solamente un passaggio consapevole del fatto che il Giglio, come infatti poi ho avuto modo di vederlo anche praticamente che ci sta il fondale fino a sotto, ho detto: "Vado giù e mi porto su parallelo e me ne vado". Era pianificata a 0,5 (mezzo miglio) poi l'abbiamo portata a 0,28».

Schettino afferma che il «saluto» era dedicato al maître e all'ex comandante Mario Palombo. Sostiene che fu proprio lui a «dirmi di passare fino a 10 metri dalla costa». I pubblici ministeri gli contestano che lo stesso Palombo, interrogato il giorno precedente, «ha definito l'accostamento privo di senso, nel senso che non era navigazione turistica a gennaio con il Giglio praticamente semideserto anche da un punto di vista delle luminarie, mentre tutte le altre accostate erano state fatte ad agosto, in occasione delle feste patronali e quando era fatto con fini schiettamente turistici era addirittura stampato e inserito nel programma». A questo punto Schettino non può negare «che non c'è un senso commerciale nel farlo di notte» e poi aggiunge: «Sul programma, sì sì. Ma noi lo facciamo anche quando facciamo la penisola sorrentina, Capri, in tutto il mondo lo facciamo. Questo sì».

Le telefonate al manager. Durante l'interrogatorio Schettino spiega di aver informato Costa di quanto stava avvenendo e di aver avuto sempre via libera rispetto alle proprie scelte. E rivela che, mentre era sullo scoglio, fu proprio il responsabile dell'Unità di crisi Roberto Ferrarini a contattare il capitano Gregorio De Falco che gli aveva intimato di risalire a bordo. «Quando gli dissi che avevo fatto un guaio e che lo avrei informato di tutto, Ferrarini mi rispose: "Sì, fai così". Poi dopo gli ho detto "mandami gli elicotteri" e lui ha risposto. "Sì, ok, mo' ti mando gli elicotteri"». Dunque Costa era consapevole della gravità della situazione e della necessità di evacuare la nave. Però l'ordine non arrivò. I magistrati insistono per sapere che cosa diceva Ferrarini. «Nel primo colloquio mi disse che da me non se lo aspettava... Ci siamo sentiti più volte e anche quando stavo sullo scoglio l'ho richiamato. Dico: "Guarda, vedi così e così, mandami gli elicotteri". "Ma quante persone hai?". Gli ho detto: "Guarda, c'ho circa 100, 150 persone, ora non ti so quantificare, mi servono gli elicotteri. Poi gli ho anche detto del comandante della Capitaneria. Ho detto: "Guarda, digli che io non è che non ci voglio tornare sulla nave perché a questo signore credo che non sono stato chiaro a spiegargli la situazione. Chiamalo tu per favore e diglielo che non è che mi sto rifiutando di eseguire un ordine della Capitaneria, che non voglio salire sulla nave". Ha detto: "Ok Francesco, non ti preoccupare, lo chiamo io"».

In tilt il sistema di backup dati. Quando viene affrontato il problema delle apparecchiature di bordo, Schettino appare confuso e la premessa alimenta il sospetto degli inquirenti: «Io mi auguro che voi, non ci conosciamo, però io sono una persona fondamentalmente onesta, cioè voglio avere la massima onestà». E poi dichiara: «Avevo chiesto al comandante in seconda di scaricare i Vdr (Voice data recorder, ndr). Quando c'è un incidente, è un bottone e scarica. È manuale, noi abbiamo un sistema di registro dati. Cioè se io voglio andare a vedere cosa è successo prima, anche se la legge non lo prevede, a trenta giorni prima, ho la possibilità di vedere... Dato che questo computer di backup si era rotto e avevamo fatto la richiesta all'ispettore di aggiustarlo, per far analizzare la cause dell'incidente, la legge dice che devi avere il bottone, che schiaccia il bottone e lo scarico dei dati va fatto in automatico per le 24 ore. Dal momento in cui è successo più bastano dodici ore prima, in modo che lei c'ha chiaro... Per dare tutti i dati scarica quel bottone lì. E lui (il comandante in seconda, ndr ) mi ha detto: "Sono andato sulla consolle e l'ho trovato tutto spento sto coso qui. Poi non so se con il blackout si era spento pure questo qua". Questo però me l'ha detto quando eravamo in banchina e io mi sono sincerato: "Hai schiacciato il bottone?". Dice: "Comandante l'ho schiacciato, però il pannello del Vdr era tutto spento". Ho detto: "Va bene"».

Vuol dire che i dati sono andati persi? È possibile che dai tracciati della «scatola nera» manchino informazioni preziose? Schettino sostiene che «nella parte più alta della nave ci sta il Voyage date recorder che comunque registra a prescindere», ma la conferma potrà arrivare soltanto quando i periti esamineranno i nastri e verificheranno che le strumentazioni siano davvero integre.

Fiorenza Sarzanini

fsarzanini@corriere.it

22 gennaio 2012 | 10:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_22/sarzanini-verbali-schettino_3bcfca5a-44cb-11e1-b12c-223272f476c4.shtml
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« Risposta #133 inserito:: Febbraio 20, 2012, 11:05:37 am »

Il rapporto /

Chi ha deciso di obbedire ai militari indiani dirigendo la nave in porto?

Le raffiche, gli orari, la rotta I punti oscuri della vicenda

La conferma del satellite: erano in acque internazionali.

La Marina aveva ordinato di non assecondare le richieste delle autorità locali e di non far scendere a terra i militari


ROMA - La terza raffica di avvertimento «è stata sparata in acqua, a prua del peschereccio che non è stato colpito, tanto che ha invertito la rotta e si è allontanato». Così, nella relazione trasmessa due giorni fa ai carabinieri del Ros e alla Procura di Roma, Massimiliano Latorre ricostruisce i momenti cruciali del conflitto a fuoco avvenuto al largo delle coste indiane, relazione che indica gli autori della sparatoria. E nega che l'azione abbia potuto provocare feriti, tanto meno vittime. Era lui il capo del «nucleo di protezione» imbarcato sulla petroliera Enrica Lexie per contrastare gli atti di pirateria. E proprio lui - adesso accusato insieme con Salvatore Girone dell'omicidio di due pescatori che erano a bordo del St. Antony - firma il rapporto con foto allegate, che servirà al pubblico ministero Francesco Scavo Lombardo a verificare quanto accaduto. Nel fascicolo sono contenute le testimonianze degli altri cinque soldati presenti a bordo e le conclusioni del responsabile del team. Sono ancora numerosi i dubbi che avvolgono la vicenda, le incongruenze tra la versione fornita dai militari italiani e quella delle autorità di New Delhi. E ruotano attorno a tre misteri: l'orario dell'azione, il luogo esatto dove è avvenuta, l'imbarcazione che ha attaccato la petroliera. Ma c'è pure un altro interrogativo: perché, nonostante gli italiani abbiano comunicato di essere in acque internazionali, sono poi entrati nell'area controllata dagli indiani così consentendo il fermo dei due marò. E lo hanno fatto dopo il parere contrario espresso dalla Marina Militare.

Gli orari diversi
Secondo il report trasmesso a Roma l'allarme scatta alle 11.30 del 15 febbraio mentre la Enrica Lexie si trova a «33 miglia dalla costa sudovest dell'India». La posizione della nave è confermata dai dati forniti dal satellite, attivato da chi era a bordo ma viene contestato dalle autorità locali. Anche gli orari non coincidono, visto che la polizia indiana colloca gli spari almeno due ore dopo. E questo ha fatto nascere l'ipotesi che i due pescatori siano stati uccisi in un diverso conflitto, anche tenendo conto che quella stessa sera risulta avvenuto un altro attacco di pirateria in un tratto di mare poco distante.
Alla relazione Latorre allega tre fotografie che dovrebbero servire a dimostrare proprio questa divergenza: il peschereccio sarebbe infatti diverso dal St. Antony dei marittimi uccisi. Le immagini risultano però sfuocate, poco chiare e dunque non possono bastare a chiarire il dubbio. Né a confermare il fatto - sottolineato dal marò - che a bordo di quel natante non ci fossero pescatori, ma cinque uomini armati.

Le tre raffiche
Per cercare di accertare la verità si torna dunque ai momenti dell'avvicinamento. Secondo quanto riferisce il rapporto «è il radar a segnalare la barca che viaggia in rotta di collisione e i militari presenti a bordo si dispongono per reagire. Vengono messe in atto le procedure previste in questi casi. Quando il natante è a 500 metri di distanza vengono sparati i primi «warning shots», ripetuti quando si trova a 300 metri e infine a cento». Latorre specifica che gli ultimi vengono rivolti verso lo specchio d'acqua «senza colpire l'imbarcazione». Completamente diversa la ricostruzione fatta dalle autorità indiane secondo le quali «sul peschereccio ci sono i segni di 16 proiettili, mentre quattro sono andati a segno e hanno ucciso i due marittimi». Una tesi ritenuta incredibile dalle autorità diplomatiche e investigative italiane perché significherebbe che tutti i colpi a disposizione sono stati sparati ad altezza d'uomo.

L'ordine non rispettato
In queste ore la magistratura sta valutando l'ipotesi di inviare una squadra investigativa in India, che lavori in stretto contatto con la diplomazia italiana. Le indagini sono affidate al colonnello del Ros Massimiliano Macilenti che sta già acquisendo la documentazione presso i comandi militari e presso la società armatrice anche per verificare se siano stati loro a decidere di far entrare nel porto di Kochi la Enrica Lexie . La Marina aveva espresso parere contrario, così come aveva raccomandato di non far scendere a terra i militari. E invece si è deciso di assecondare le richieste indiane. La procedura prevede che le decisioni a bordo siano prese dal comandante d'accordo con la Compagnia, ma generalmente in situazioni di emergenza ci si muove in accordo con le autorità militari e con il governo italiano. Adesso bisognerà dunque verificare se davvero sia stato l'armatore a ordinare di abbandonare le acque internazionali e con chi sia stata condotta la trattativa. Un negoziato che, al momento, si è concluso nel peggiore dei modi.

Fiorenza Sarzanini

fsarzanini@corriere.it20 febbraio 2012 | 9:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/12_febbraio_20/sarzanini-raffiche-gli-orari-la-rotta-I-punti-oscuri-della-vicenda_1b9b8508-5b8c-11e1-9554-12046180c4ab.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Marzo 03, 2012, 03:40:12 pm »

Il retroscena

La strategia del Viminale per la manifestazione di Roma

Mini pattuglie mobili su ferrovie e strade

La manifestazione di oggi nella capitale rischia di trasformarsi in una «vetrina» per i violenti


ROMA - Tre cortei nella capitale, ma a fare paura è proprio quello dei No Tav. La protesta si svolgerà alle 15 contemporaneamente alla manifestazione organizzata dalla Destra di Francesco Storace, qualche ora dopo quella degli edili. E il timore dei responsabili della sicurezza è che possa trasformarsi nell'ennesima «vetrina» per sfogare la rabbia in maniera violenta. Soprattutto dopo l'annuncio di venerdì sera del presidente del Consiglio Mario Monti che ha definitivamente escluso un possibile ripensamento sulla costruzione della linea di alta velocità.

La linea decisa dal Viminale prevede la rimozione dei blocchi stradali, pur cercando di non arrivare a scontri diretti con i dimostranti che in questo clima acceso rischiano di degenerare. E dunque ci sarà un impiego straordinario di uomini e mezzi a Roma e in tutte le altre città dove sono state annunciate le mobilitazioni, con un dispositivo mobile che possa impedire ai facinorosi di avvicinarsi alle sedi istituzionali e soprattutto alle linee ferroviarie e alle tangenziali.

Quanto è accaduto nelle ultime ore dimostra la grande capacità di mobilitazione in punti diversi del Paese anche in tempi brevi. È il potere di Internet che - così come era già accaduto il 15 ottobre durante la guerriglia scatenata durante la «sfilata» degli «Indignati» - consente a chi organizza e fomenta le azioni dei teppisti di coordinare le aggressioni e segnalare le vie di fuga per tentare di sfuggire alle forze dell'ordine. Oppure, come è successo nelle ultime ore, di scagliarsi contro giornalisti, carabinieri e poliziotti.

Sono questi i bersagli delle frange più estreme che proprio attraverso il web avvertono chi andrà in piazza: niente telecamere. Le nuove norme introdotte un paio di mesi fa equiparano i manifestanti agli ultras e consentono di fermare chi viene identificato attraverso i filmati fino a 48 ore dopo la fine del corteo e questo è dunque ufficialmente il motivo per cui non vogliono essere ripresi. In realtà il tam tam va avanti ormai da giorni e appare soprattutto un pretesto che ha come unico scopo quello di indicare gli obiettivi da colpire.

La linea del capo della polizia Antonio Manganelli prevede autorizzazioni a chi chiede di manifestare, ma i questori dovranno effettuare un controllo severo sui percorsi indicati dai promotori eliminando tutti gli snodi che potrebbero rivelarsi difficili da presidiare. E soprattutto impedire eventuali occupazioni di luoghi pubblici. A questo si riferisce il comunicato del ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri quando - al termine della riunione a Palazzo Chigi - ribadisce che «sarà contrastata ogni forma di violenza».

La scelta di non proporre al Parlamento alcuna nuova norma - ad esempio l'introduzione del reato di blocco stradale, che pure era stato ipotizzato - è un tentativo per non alzare ulteriormente la tensione, ma non sembra definitiva. Anche perché con il trascorrere delle ore la resistenza dei reparti mobili - impegnati anche in altri servizi di ordine pubblico, primo fra tutti quello negli stadi - potrebbe risultare fiaccata E dunque - se le mobilitazioni andranno ulteriormente avanti - non viene esclusa la possibilità di varare un decreto che fornisca strumenti nuovi alle forze dell'ordine, ad esempio quello che consenta di far scattare il fermo per chi impedisce la circolazione. Non a caso i sindacati di polizia, in testa il Sap, parlano di «turni massacranti e situazioni di servizio difficilissime per chi - evidenzia Massimo Montebove - guadagna 1.300 euro al mese e rischia la vita ogni giorno». E il Siulp con Claudio Giardullo sottolinea la necessità di «potenziare il personale e gli equipaggiamenti con una strategia politica che metta gli agenti nelle condizioni di fronteggiare in maniera adeguata i violenti».

Adesso l'obiettivo è cercare di spaccare il fronte della protesta, portando dalla parte del governo i sindaci della valle. Lo stanziamento di venti milioni potrebbe però non essere sufficiente perché oltre al denaro, gli amministratori locali chiedono misure che possano convincere i cittadini a sfruttare l'occasione della Tav. E in cima alla lista delle priorità, subito dopo gli sgravi fiscali, continuano a mettere la possibilità di trasformare il proprio territorio in «zona franca». Un privilegio che però potrà essere concesso soltanto a pochissimi comuni.

Fiorenza Sarzanini

3 marzo 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_03/mini-pattuglie-mobili-su-ferrovie-strade-sarzanini_64755040-64f8-11e1-8a59-8bc3a463cee3.shtml
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