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Autore Discussione: Fiorenza SARZANINI.  (Letto 170658 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 04, 2010, 11:09:59 am »

L'inchiesta - le carte

Alle società della «cricca» il lasciapassare degli 007

Balducci ad Anemone: Bertolaso dice che sei il nostro capo


PERUGIA— «Tu sei il nostro capo». Così Angelo Balducci si rivolgeva all’imprenditore Diego Anemone. E gli assicurava di parlare anche a nome di Guido Bertolaso. Gli atti giudiziari della procura di Perugia svelano ulteriori retroscena sull’aggiudicazione degli appalti per i Grandi Eventi. Aggiungono dettagli sui comportamenti del capo della Protezione Civile. E fanno emergere nuovi contatti dei componenti della cricca come quello tra lo stesso Balducci e il consulente aziendale Luigi Bisignani, con il professor Valori e con l’ex segretario di Francesco Rutelli, Vincenzo Spadafora, che assume suo figlio all’Unicef. Ma l’indagine dovrà adesso verificare anche un’altra circostanza: il rilascio del "Nos" al gruppo Anemone. Si è infatti scoperto che il Gruppo ha ottenuto il «nulla osta di sicurezza» dai servizi segreti. Un riconoscimento che viene concesso soltanto a ditte che hanno particolari requisiti e possono così svolgere lavori per alcune istituzioni come appunto le sedi che ospitano gli apparanti di intelligence, quelle del Viminale, le caserme, le carceri e altre strutture «riservate». Saranno dunque i magistrati di Perugia a dover verificare se la procedura seguita sia stata regolare e se l’impresa avesse i titoli necessari.

Il prezzo invitato

Il 12 novembre scorso il responsabile del centro benessere del Salaria Sport Village Simone Rossetti contatta Stefano Morandi, un suo collaboratore, «e gli prospetta "l’importantissima" necessità di organizzare un ciclo di riabilitazione per la figlia di Bertolaso». Il tono è sbrigativo: «Allora praticamente ha chiamato la Protezione Civile... ha chiamato la segretaria del ministro Bertolaso ... ha richiesto siccome la figlia di Bertolaso c’ha un problema al... s’è tolta un chiodo praticamente... c'ha bisogno da domani mattina di una persona che le faccia sia la riabilitazione in acqua... quindi lei viene con la mascherina un po’ di pinne ’ste cose qui... vuole che gli mandi una mail allora fai... punto gallo... chiocciola protezione civile punto it... mi raccomando pure i prezzi dentro... mettiamogli un programma che ne so 10 sedute cose così». I due si sentono ancora poco dopo. Annotano gli investigatori: «Rossetti chiede a Morandi di indicare nel programma da inviare per posta elettronica alla segretaria Marina il prezzo inventato di 80 euro a seduta: "L’importo inventatelo insomma fai... fagli 80 euro a seduta».

Tessera di platino per il cognato

Le intercettazioni svelano come il circolo di Anemone sia una meta fissa per tutta la famiglia Bertolaso. E i dipendenti appaiono ben lieti di accontentare ogni richiesta. Il 17 ottobre, Rosalba, dipendente del Salaria Sport Village, parla con Rossetti di Francesco Piermarini, il cognato del capo della protezione civile, che ha ottenuto anche alcuni incarichi nell’ambito degli eventi. Rosalba: ... eh Simone ... ti disturbo? allora una cortesia questa mattina è venuto il signor Piermarini Francesco ... lui era ... che è platino (Categoria di abbonamento, ndr?)
... Rossetti: ... sì, a posto, a posto ... Rosalba: ... lo posso rinnovare ? Rossetti: ... assolutamente va bene ... sì, sì va be’ sai ... senti una cosa quella lì ... prolungamela così poi non c’abbiamo problemi... prolungamela un paio d’anni va bene?... Rosalba: ah! va benissimo, sì perché ha portato un’ospite io ho fatto entrare... Rossetti: ... non ci sono problemi hai fatto benissimo... A confermare gli ottimi rapporti tra Bertolaso e Anemone è, secondo gli investigatori, una telefonata del 31 dicembre scorso tra l’imprenditore e Balducci. Balducci:... poi mi ha chiamato Guido e m’ha detto... sai... dice... ho avuto un bellissimo colloquio con il nostro capo... che saresti te Anemone:... (ride) Balducci: e m’ha detto senti allora ci vediamo il... magari se sei a Roma?... dico... no ... guarda ... io il primo ho detto ... be’ può darsi perché poi il primo sera e il 2 mattina... faccio 3-4 giorni alla Residance

I lavori alla Triumph

Il 12 dicembre scorso Balducci commenta la pubblicazione di un articolo sul settimanale L’Espresso «dove il riferimento alla società Triumph "è perfettamente preciso", aggiungendo che più volte ha segnalato a Guido (Bertolaso) che era "un’esagerazione affidare sempre a tale impresa le fornitura di servizi"». Annotano i carabinieri del Ros: «Si tratta della impresa Gruppo Triumph srl con sede a Roma via Lucilio 60, costituita il 23 luglio 1991 che presenta in atto un capitale sociale di euro 35.000, ripartito fra i soci: (euro 34.000) Maria Criscuolo, (euro 1.000) Francesca Accettola. La società ha come attività l'organizzazione sia nella preparazione che nello svolgimento di conferenze, congressi, tavole rotonde, riunioni, seminari ed incontri tecnici e scientifici». E poi aggiungono: «Proprio a Maria Criscuolo, il pomeriggio del giorno successivo (24 dicembre), Balducci invia un sms pr gli auguri natalizi. "Maria tanti auguri e spero a presto. Angelo Balducci". Dopo pochi minuti Maria Criscuolo, con un altro sms, risponde. "Anche io spero di vederti presto un abbraccio Maria». Balducci è critico nei confronti di Bertolaso anche in occasione del suo viaggio ad Haiti dopo il terremoto. Ne parla con Mauro della Giovampaola e afferma: «Domani lui ritorna da Haiti ... perché è andato lì per far ’sta boutade, perché insomma, mi pare andare lì un giorno e mezzo non credo che...».

I nuovi contatti

Tra gennaio e febbraio scorsi vengono rilevati contatti mai emersi in precedenza. Il 20 gennaio Balducci chiede al centralino di palazzo Chigi, dove ha sede il suo ufficio «di essere messo in contatto con il dottor Luigi Bisignani». Dopo alcuni tentativi gli viene risposto che non è rintracciabile e lui annuncia che riproverà nel pomeriggio. Scrivono i carabinieri: «È la prima volta che nel corso della presente indagine emerge il nome di Luigi Bisignani e il tentativo di contatto è concomitante alla pubblicazione sul quotidiano La Repubblica, dell’articolo dal titolo "Bertolaso spa" in cui fra gli altri, si fa cenno sia a Bisignani sia a Balducci». Non ci sono altre telefonate tra i due, mentre il 3 febbraio Balducci viene chiamato dal professor Valori che afferma: «È venuta a trovarmi Donatella e così passando è venuto il discorso su di te ... "assolutamente bisogna tutelarlo!" eh adesso a Roma è arrivato un numero uno, un grande amico preferisco parlartene a voce non da questi mezzi che ci ascoltano tutti. Ci sentiamo domattina e così ci raggiungiamo perché è importante che tu sappia... Donatella... mi raccomando perché questa ... tu sai... sono molto legato a tutti e due».

Il posto all’Unicef

Erano noti i rapporti tra Balducci e Spadafora, l’ex segretario di Rutelli poi diventato presidente dell’Unicef. E adesso si scopre che il figlio dell’alto funzionario è stato assunto come dipendente part-time presso l’organizzazione che tutela i diritti per l’infanzia «con contratto firmato nell’ottobre 2009, pochi giorni dopo un incontro tra i due». «Filippo Balducci - che svolge anche un altro lavoro come assistente del direttore artistico dell'auditorium di Roma - telefona al commercialista Stefano Gazzani, preoccupato per gli effetti fiscali dell’accumulo del doppio stipendio ma riceve assicurazioni. Gli dice il professionista: «Puoi firmare tranquillo. Quando ti farò la dichiarazione dei redditi ti dirò "Filippo c’è da pagare una integrazione perché chiaramente la somma dei due redditi fa saltare ad uno scaglione superiore, per cui ci sarà una aliquota marginale un po’ più alta e ci sta da pagare la differenza ogni anno, ma quello poi ogni volta che faccio la denuncia dei redditi te lo dico io. Per cui puoi firmare tranquillo, auguri!». Gazzani, che gestisce non soltanto il patrimonio della famiglia Balducci, ma anche quello del Gruppo Anemone, è indagato nell’inchiesta.

Fiorenza Sarzanini

04 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:06:32 am »

Le mosse Martedì è prevista la testimonianza di Santoro

Il pm punta a interdire anche il capo del governo

Scontro con il procuratore sulle misure

       
ROMA — Sono tesi i rapporti tra il capo della Procura di Trani e il pubblico ministero che indaga sulle pressioni che sarebbero state esercitate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi su Agcom per fermare alcuni programmi televisivi, in particolare Annozero. Lo scontro è esploso negli ultimi giorni e riguarda i provvedimenti da prendere nei confronti degli indagati.

Il sostituto Michele Ruggiero vuole infatti sollecitare l'emissione della misura cautelare dell'interdizione dai pubblici uffici per gli indagati. L'istanza nei confronti del componente dell'Agenzia per le comunicazioni Giancarlo Innocenzi sarebbe già stata inviata al giudice non escludendo di poter procedere ad un'analoga richiesta anche nei confronti del capo del governo. Il problema riguarda a questo punto la controfirma del procuratore Carlo Maria Capristo che avrebbe manifestato in maniera esplicita la propria contrarietà. Se vorrà utilizzare le telefonate di Berlusconi, Ruggiero dovrà sollecitare l'autorizzazione della Camera. Si tratta infatti di conversazioni intercettate in maniera indiretta (cioè sull'apparecchio di persone indagate, che per tale motivo era stato messo sotto controllo) e dunque soltanto il via libera del Parlamento consente di trasformarle in un elemento d'accusa. È l'intenzione del pubblico ministero, ma pure per intraprendere questa strada è necessario il «visto» del procuratore. E al momento non sarebbe stato raggiunto alcun accordo. La mediazione potrebbe passare proprio per l'esame della posizione di Innocenzi da parte del giudice delle indagini preliminari, anche se le perplessità non appaiono del tutto fugate.

I dubbi del capo dell'ufficio riguarderebbero tra l'altro la «discovery» delle carte processuali che deriverebbe dall'emissione della misura interdittiva. Per sollecitare un provvedimento è infatti necessario affidare al giudice tutti gli atti necessari a sostenerne la fondatezza. Diventerebbero così pubbliche le telefonate del funzionario indagato intercettate nelle ultime settimane, comprese quelle con il premier. Non a caso le indiscrezioni filtrate ieri accreditano la tesi che eventuali ordinanze dovevano essere sollecitate dopo le elezioni del 28 marzo, per non influire sulla campagna elettorale. La fuga di notizie sull'esistenza del fascicolo avrebbe impresso quindi una svolta inattesa, convincendo il pubblico ministero sulla necessità di procedere con urgenza per non pregiudicare l'esito di eventuali nuovi accertamenti. Il calendario già fissato per il proseguimento dell'inchiesta prevedeva la convocazione di numerosi testimoni. Tra loro, lo stesso conduttore di Annozero Michele Santoro che dovrebbe essere interrogato martedì prossimo anche per ricostruire che cosa è accaduto prima della messa in onda di alcune puntate del suo programma che poi sono state oggetto di contestazione. In alcuni casi si è rischiata la cancellazione — come avvenne quando l'ufficio legale diede parere negativo all'intervista a Patrizia D'Addario — anche se poi questo provvedimento estremo è stato sempre scongiurato. Il pubblico ministero vuole comunque verificare il «dietro le quinte» e sapere direttamente da Santoro quale atteggiamento sia stato tenuto in queste occasioni dai vertici della Rai.

Fiorenza Sarzanini

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« Risposta #47 inserito:: Marzo 15, 2010, 09:26:25 am »

Politica e tv

Agli atti 18 telefonate del premier

Così è scattata l'inchiesta di Trani

La procura: nessun documento riservato agli ispettori.

I legali di Innocenzi: l'indagine sia spostata a Roma


ROMA - Il 17 dicembre scorso, davanti ai pubblici ministeri di Trani, Giancarlo Innocenzi ha negato di aver mai subito pressioni. Il componente dell’Agcom ora accusato di concussione fu convocato come testimone nell’ambito dell’indagine su tassi usurai che sarebbero stati applicati a carte di credito dell’American Express. Verso la fine dell’interrogatorio gli fu chiesto in maniera esplicita se avesse mai ricevuto richieste per bloccare la messa in onda di trasmissioni o se fosse a conoscenza di qualcuno che lo aveva fatto. Lui lo escluse.

Non sapeva che i magistrati avevano già ascoltato le sue conversazioni durante le quali Silvio Berlusconi lo sollecitava a intervenire affinché l’Autorità di cui fa parte bloccasse AnnoZero di Michele Santoro e altri programmi di approfondimento e lui si metteva a disposizione. Dopo qualche giorno finì indagato. Questa circostanza sarà utilizzata dal suo avvocato Marcello Melandri per sollecitare la trasmissione del fascicolo a Roma per competenza. L’istanza sarà presentata stamani dal difensore che spiega: «Soltanto adesso scopriamo, grazie a una fuga di notizie, che quando è stato convocato il mio cliente era di fatto già sotto inchiesta. Mentre all’epoca non riuscivamo a spiegarci quelle domande, adesso sappiamo che derivavano dall’ascolto di conversazioni intercettate. Dunque, doveva essere interrogato con l’assistenza di un legale. In ogni caso non si capisce a che titolo procedano questi magistrati. Qualora esistesse davvero un reato - e su questo ho seri dubbi - non spetterebbe a loro indagare, ma ai pm della capitale».

Allegate agli atti ci sarebbero tredici conversazioni di Innocenzi con il presidente del Consiglio, e cinque dello stesso premier con il direttore del Tg1 Augusto Minzolini. Ed è il procuratore di Trani Carlo Maria Capristo a specificare: «Tutto quello che non ha attinenza con l’indagine è già stato eliminato». Ciò vuol dire che le telefonate di Berlusconi sono ancora nel fascicolo, anche se per poterle utilizzare nei suoi confronti bisognerà chiedere l’autorizzazione alla Camera. In ogni caso si tratta di documentazione che gli ispettori ministeriali non potranno esaminare. Il capo dell’ufficio su questo è categorico: «È la legge a impedire che possano visionare atti coperti dal segreto, dunque noi non daremo alcun documento. Faccio il magistrato da trent’anni, sono sempre stato in prima linea e questa è la prima ispezione che subisco, ma conosco le regole». Il Guardasigilli Angelino Alfano ha parlato di «abuso di intercettazioni a strascico», vale a dire conversazioni captate nel corso della prima indagine e poi utilizzate nel nuovo fascicolo. Dichiara Capristo: «Sinceramente non so proprio che cosa volesse dire. Se ci sono dialoghi che necessitano approfondimenti perché fanno intravedere ipotesi di reato, noi siamo obbligati ad effettuare le verifiche. Ed è quello che stavamo facendo, quando c’è stata la fuga di notizie».

L’alto magistrato dice di essere «turbato e amareggiato per quanto accaduto, perché si è trattato di un vero e proprio siluro all’inchiesta. Basti pensare che l’informativa della Guardia di Finanza è stata consegnata il 5 marzo scorso e in questa settimana stavamo decidendo come procedere». In realtà il pubblico ministero Michele Ruggiero era intenzionato a chiedere un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici per gli indagati ed è stato proprio il procuratore a frenare. Da giorni nega però qualsiasi tipo di tensione, assicura che «qui siamo abituati a lavorare in squadra, confrontandoci e trovando insieme una soluzione ad ogni problema». Poi sottolinea la sua «determinazione a scoprire chi ha soffiato la notizia sull’esistenza dell’indagine» pubblicata da Il Fatto Quotidiano. Perché, dice, «siamo noi le prime vittime di quanto è accaduto e io posso assicurare che da questo ufficio nulla è trapelato». In realtà appena due giorni fa una non meglio specificata «fonte giudiziaria» ha smentito l’iscrizione nel registro degli indagati di Minzolini. Su questo Capristo è lapidario: «Non so di chi si tratti né chi possa aver parlato a nome della Procura. Io certamente non ho emesso alcun comunicato».

Fiorenza Sarzanini

15 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 22, 2010, 03:13:23 pm »

Dietro le quinte - Il conteggio tra 120 e 140 mila presenze arriva alle 20

Maroni e la guerra delle cifre: dal Viminale dati certi

Il ministro dell'Interno ai suoi: diciamo la verità, come al solito. Qui ci sono persone serie

Dietro le quinte - Il conteggio tra 120 e 140 mila presenze arriva alle 20

Maroni e la guerra delle cifre: dal Viminale dati certi


ROMA—L’amarezza si trasforma in rabbia quando il ministro dell’Interno capisce che a far montare la polemica contro la Questura di Roma sono soltanto gli attacchi che arrivano dagli esponenti del Pdl. E ieri pomeriggio — mentre Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto mostrano di non aver alcuna intenzione di chiudere il caso — Roberto Maroni sbotta: «Si sta alimentando uno scontro che non esiste. Questo è un autogol clamoroso, soprattutto in materia di comunicazione. Al Viminale ci sono persone serie, i dati forniti sono sempre reali».

Per ricostruire quanto è accaduto, bisogna dunque tornare a sabato pomeriggio e a quell’annuncio di Denis Verdini — «siamo un milione» — che aveva lasciato tutti stupefatti. Il dato ufficiale sui partecipanti viene generalmente fornito al termine delle manifestazioni. Sono gli addetti al gabinetto della Questura ad esaminare i filmati ripresi dagli elicotteri, il numero dei pullman arrivati in città, quello dei treni speciali organizzati per l’evento e ad incrociare queste risultanze con l’ampiezza degli spazi che si calcola tenendo conto della superficie del palco, dei gazebo montati ai lati della piazza, delle transenne posizionate per orientare i flussi di chi sfila. Ed è proprio questa la procedura seguita anche due giorni fa. Sono circa le 20 quando arriva il conteggio finale che oscilla tra le 120.000 e le 140.000 persone. Il numero viene comunicato ai vertici della polizia.

Del resto al raduno di San Giovanni c’era il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi circondato dai componenti del governo, prima di smentire la cifra fornita di fronte alle telecamere dal coordinatore del Pdl si preferisce consultarsi direttamente con il Viminale. Pochi minuti dopo viene informato il ministro dell’Interno. La differenza tra questo dato e quello di Verdini appare evidente, ma Maroni decide di non far effettuare alcuna correzione. «Procediamo come al solito—dice ai collaboratori più stretti — e diciamo la verità». Due sabati fa, quando il centrosinistra aveva organizzato a piazza del Popolo la protesta contro il decreto del governo per l’ammissione delle liste alla Regionali e aveva affermato di aver portato in piazza almeno 200 mila persone, la Questura aveva smentito questo numero parlando di 25 mila partecipanti. E in quell’occasione non c’era stata alcuna polemica, tanto meno accuse ai responsabili dell’ordine pubblico.

Nessuno immagina dunque una reazione violenta come quella di Gasparri, che arriva a parlare di «crisi etilica» del questore Giuseppe Caruso. Anche perché nel luglio 2008 la sua nomina aveva avuto il gradimento esplicito degli esponenti di Alleanza nazionale e dunque l’attacco arriva del tutto inaspettato. Ma soprattutto nessuno può prevedere che anche altri esponenti del Pdl scelgano di cavalcare la polemica e che lo stesso Gasparri decida di tornare sull’argomento per rincarare la dose. E allora sono i sindacati a schierarsi, con il segretario dell’Associazione funzionari di polizia Enzo Letizia che sottolinea come «il calcolo dei partecipanti è problema di quinta elementare, tenuto conto che il numero massimo per metro quadro è di 4 persone, che i funzionari hanno visto le riprese effettuate dagli elicotteri per l’intera durata della manifestazione e che è nota la superficie della piazza e delle vie adiacenti».

Interviene anche Nicola Tanzi del Sap per sottolineare come «ognuno deve fare il proprio mestiere, la Questura fa bene il proprio lavoro e il dato sui manifestanti di piazza San Giovanni rappresenta la realtà dei fatti. Anzi sicuramente erano qualcosa in meno e non in più di 150 mila». Duro il commento di Claudio Giardullo del Silp Cgil, secondo il quale «il rispetto delle regole è condizione fondamentale per la democrazia e questo vale soprattutto per chi ha l’onore di governare il Paese, che non può invocare questo principio solo per gli altri e non per se stesso. Anche in questa occasione è stato utilizzato il metodo usato da anni nella Capitale, dimostrando ancora una volta che le forze di polizia sono al servizio della legge e del cittadino e non di un qualunque schieramento politico. A loro esprimiamo la nostra solidarietà e il nostro sostegno».

Fiorenza Sarzanini

22 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 25, 2010, 09:58:06 am »

OMICIDIO CAFASSO

Carabiniere del caso Marrazzo accusato di aver ucciso il pusher

Avrebbe fornito la dose di droga. La svolta dopo il racconto del trans Jennifer


La dose letale di droga che uccise il pusher del «caso Marrazzo» sarebbe stata fornita da un carabiniere. È clamorosa la svolta nelle indagini sulla banda di militari accusati di aver ricattato l’ex governatore del Lazio per i suoi incontri con i transessuali. La Procura di Roma contesta l’accusa di omicidio volontario al maresciallo della Compagnia Trionfale Nicola Testini, già indagato di complicità con i due colleghi che agli inizi di giugno 2009 fecero irruzione nell’appartamento di via Gradoli dove il politico era in compagnia del viado Natalie. Gianguerino Cafasso sarebbe stato eliminato — è il sospetto degli inquirenti — perché era diventato un testimone scomodo e pericoloso. Lo ha raccontato la sua fidanzata Jennifer, il transessuale di 29 anni Adriano Da Motta, rivelando anche il nome dell’uomo che gli avrebbe consegnato la cocaina mischiata a eroina, uno «speedball» mortale.

La confessione sul video
Non è l’unica novità. Una settimana fa, interrogato in carcere, l’altro carabiniere Luciano Simeone ha ammesso di essere stato lui a girare il video per incastrare l’allora presidente della Regione Piero Marrazzo. Un filmato di 12 minuti che lo ritraeva scarmigliato e in mutande, sul tavolino soldi e strisce di cocaina, che cercarono poi di vendere e che — quando i carabinieri furono arrestati e divenne pubblica la vicenda — lo costrinse alle dimissioni. Dopo la cattura (in cella c’è anche Carlo Tagliente) i carabinieri accusarono proprio Cafasso di essere entrato con loro nell’appartamento e aver ripreso la scena con il telefonino. «Ma era una bugia» confessa adesso Simeone che si sarebbe mostrato disponibile a collaborare con gli inquirenti pur di tornare in libertà o quantomeno ai domiciliari. Un atteggiamento che sarà comunque verificato oggi, quando i pubblici ministeri lo interrogheranno nuovamente. Si torna dunque al 12 settembre scorso, quando Cafasso viene trovato cadavere in una stanza dell’hotel Romulus, sulla via Salaria a Roma. Stroncato mentre dormiva accanto a Jennifer. Inizialmente si pensa a un infarto, dovuto alle cattive condizioni di salute dell’uomo e alla sua vita sregolata. Il caso viene archiviato. Ma due mesi dopo, quando invece si scopre che il pusher ha avuto un ruolo da protagonista nel ricatto a Marrazzo, il magistrato ordina nuovi accertamenti. Le analisi effettuate sul cadavere riesumato convincono gli esperti che a ucciderlo sia stato lo stupefacente «tagliato» male. E così viene convocato di nuovo Jennifer. «Quella sera — racconta — andammo da Testini a prendere la droga. Era già successo altre volte, lui era uno dei fornitori di Rino». I carabinieri del Ros che si occupano delle indagini lo incalzano, non credono a questa versione. Ma il viado fornisce dettagli che appaiono convincenti, si decide di effettuare nuovi riscontri. L’analisi dei tabulati telefonici mostra effettivamente i contatti tra Cafasso e Testini, una verifica sulle celle telefoniche agganciate in quelle ore dai loro cellulari sembra confermare gli spostamenti, così come li ha raccontati Jennifer. E poi ci sono le descrizioni dei luoghi dove si incontravano. «Per prendere la droga — afferma il transessuale — ci vedevamo nella zona di Saxa Rubra». Quanto basta — dice la Procura— per iscrivere il nome di Testini nel registro degli indagati per omicidio.

Il cambio nella trattativa
Ai primi di luglio era stato proprio Cafasso a contattare due giornaliste del quotidiano Libero per tentare di vendere il video. Entrambe hanno raccontato che la cifra richiesta era di circa 500.000 euro e che «Cafasso diceva che lo volevano ammazzare perché lui conosceva tutti i segreti dei transessuali». Il video era stato girato da Simeone. Se era nella mani del pusher vuol dire che erano stati proprio i carabinieri ad affidargli l’incarico di trattarlo. Ma agli inizi di agosto qualcosa di nuovo evidentemente accade. Dopo aver fatto alcuni tentativi, i tre militari chiedono ad un altro collega, Antonio Tamburrino, di aiutarli a trovare qualcuno che possa piazzare il filmato sul mercato. Attraverso il fotografo Max Scarfone si arriva così all’agenzia di Milano Photomasi che contatta Alfonso Signorini per tentare di vendere le immagini alla Mondadori. Che cosa è accaduto con Cafasso? Perché è uscito di scena? Il sospetto dei magistrati è che il pusher sia stato messo da parte quando si è capito che il guadagno non sarebbe stato poi così elevato. Del resto la cifra iniziale da lui richiesta, era stata notevolmente ridimensionata tanto che a fine settembre la Photomasi parlò a Scarfone di un possibile accordo su 60.000 euro. È dunque possibile che abbia reclamato comunque la sua parte o che abbia minacciato Testini di rivelare che cosa era accaduto. Le indagini hanno svelato come il legame tra i carabinieri e lo stesso Cafasso fosse piuttosto frequente e soprattutto come il pusher fosse a conoscenza di quale attività reale si nascondeva dietro le continue visite che i militari della Trionfale facevano negli appartamenti abitati dai viados.

Le rapine ai clienti
È quanto Simeone avrebbe adesso deciso di confessare: ricatti e rapine ad altri clienti dei transessuali sorpresi nelle case che si trovano tra via dei due Ponti e via Gradoli. Finora sono circolati diversi nomi, anche famosi, di persone che frequentavano la zona ma nessun riscontro è arrivato dalle indagini. La scelta di Simeone di rendersi disponibile potrebbe fornire nuovi elementi alle indagini. Anche perché rimane aperta l’indagine sulla morte di Brenda, l’altro transessuale che aveva rapporti con Marrazzo, trovato cadavere la mattina del 20 novembre scorso. Anche in questo caso la Procura procede per omicidio, ma al momento non sembrano esserci prove concrete sul fatto che il viado sia stato assassinato. L’autopsia ha accertato che la morte è stata causata dal fumo che aveva riempito il monolocale dove si era addormentato, stordito dall’alcol. Sul corpo nessun segno di violenza, ma secondo gli inquirenti non si può escludere che qualcuno sia entrato nell’appartamento e dopo aver accertato che Brenda non era più cosciente e dunque in grado di fuggire, abbia dato fuoco a un trolley sistemato all’ingresso. Un’ipotesi che ha comunque bisogno di ulteriori verifiche. Simeone finora ha detto di non sapere nulla di entrambi i decessi, ma è possibile che già oggi decida di fornire elementi su quanto accadde nel corso della trattativa avviata per vendere il filmato e sulle pressioni esercitate nei confronti dello stesso Marrazzo. Il carabiniere dovrà anche spiegare per quale motivo, dopo aver cercato di spillargli soldi, lui e i suoi colleghi decisero di vendere il video trasformando la vicenda in un vero e proprio ricatto politico. Ad avvisare Marrazzo che la Mondadori ne aveva una copia fu infatti il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Fiorenza Sarzanini

25 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 06, 2010, 11:27:06 am »

E sulla Giustizia: «Eliminare l'obbligatorietà dell'azione penale»

«Semipresidenzialismo alla francese e subito il taglio dei parlamentari»

Maroni: Bossi candidato sindaco a Milano. E facciamo un pensierino anche a Napoli...


ROMA— Le riforme: «Tocca alla Lega fare quella Costituzionale». I magistrati: «Aboliamo l’obbligatorietà dell’azione penale». Il sindaco di Milano: «Stiamo facendo un pensierino anche su Napoli». Il ministro Roberto Maroni elenca le priorità del Carroccio e anticipa quello che la Lega chiederà questa sera durante l’incontro a Villa San Martino con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

Presentate il conto dopo la vittoria elettorale?
«Noi non chiediamo né posti né nuovi assetti di governo».

Neanche il ministero dell’Agricoltura?
«Decide Berlusconi, se vuole assegnarlo a noi faremo bene, ma su questo non abbiamo istanze».

E allora che cosa volete?
«Che sia affidato a Umberto Bossi e Roberto Calderoli il compito di formulare una proposta di grande riforma della Costituzione disegnando il nuovo assetto costituzionale e federale. Credo che la Lega lo meriti, che sia il riconoscimento del nostro straordinario successo. Siamo pronti e soprattutto abbiamo la capacità per farlo».

E crede che gli altri saranno d’accordo?
«Ci saranno le resistenze di chi ci continua a dipingere come gente rozza e senza cultura».

A chi si riferisce?
«A numerosi commentatori, ai cosiddetti poteri forti che vogliono lo status quo».

E dentro il Pdl?
«Tutti sanno che chi può davvero cambiare le regole siamo noi visto che non abbiamo cambiali da pagare, siamo gente concreta che non si fa comprare. Anche Berlusconi sa che se vuole davvero fare la grande riforma non può che affidarsi alla Lega, noi siamo leali.
La nostra vittoria rafforza il governo. Se vuole passare alla storia non può che stare con noi».

La priorità?
«Senato federale e nuova riforma del titolo quinto che va cambiato perché il sistema di competenze concorrenti tra Stato e Regioni ha creato un guazzabuglio con conflitti continui davanti alla Corte Costituzionale. Poche materie esclusive allo Stato, tutto il resto alle Regioni».

E la riduzione dei parlamentari?
«Si deve fare subito. Vorrei ricordare che noi l’avevamo approvata e soltanto un atteggiamento miope dell’opposizione ha cancellato tutto con il referendum».

Il modello di presidenzialismo?
«Alla francese. Se sono chiare competenze del governo e delle Regioni, assegna il giusto potere a chi viene eletto direttamente dal popolo e deve poterlo esercitare».

Siete disposti a fare la riforma costituzionale senza l’opposizione?
«La nostra sfida è di farla approvare dai due terzi del Parlamento e riusciremo a vincerla. Noi apriremo il confronto con le opposizioni, con la società civile, con la magistratura. L’ho già detto in passato: il Pd è per noi un interlocutore indispensabile. Noi abbiamo tre anni davanti, non siamo come la sinistra che ha dovuto agire prima che cadesse il governo avendo l’ansia di tenere unita la coalizione. Abbiamo già riformato le pensioni e il Welfare, ora Bossi e Calderoli sono le persone giuste per fare il resto».

Pensa davvero che la componente di Alleanza nazionale darà il via libera?
«Il presidente Gianfranco Fini e i suoi possono dare un contributo sul presidenzialismo. Ma ci vuole qualcuno che coordini e la regia deve essere della Lega. Del resto noi siamo il vero motore e dunque il soggetto giusto». E sulla giustizia? «La riforma la studia il Guardasigilli Angelino Alfano, ma io sono convinto che si debba arrivare a una vera separazione delle carriere e— questo è un mio pallino da quindici anni — all’eliminazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, in modo da rendere davvero responsabili delle proprie scelte i magistrati».

Con il pubblico ministero dipendente dall’esecutivo?
«Assolutamente no. Io propongo di salvaguardare l’autonomia della magistratura assegnando ai procuratori il compito di stabilire la gerarchia dei reati da perseguire. Del resto, nella realtà dei fatti questo principio è già stato abolito. A Torino il procuratore Marcello Maddalena ha indicato in una circolare a quali reati bisogna dare priorità».

Lo ha fatto dopo l’approvazione della legge che dimezzava i tempi di prescrizione e l’indulto.
«Ha dimostrato comunque che si può derogare a un principio che spesso ha rappresentato un’aberrazione rispetto alle intenzioni del legislatore perché ha portato a una totale assenza di responsabilità da parte dei magistrati che sbagliano o che non fanno le cose come devono essere fatte. Noi dobbiamo eliminare la foglia di fico che alcuni magistrati usano per fare operazioni politiche».

E dunque quale sarebbe la sua proposta?
«Con la creazione dei due Csm, la pubblica accusa stabilisce la lista delle priorità. Ma se poi agisce con ritardo, se fa intercettazioni inutili o se errori e negligenze consentono ai mafiosi di uscire dal carcere, ne paga le conseguenze».

Sulle intercettazioni non ci sarà questo problema visto che appena sarà approvata la nuova legge saranno limitate al massimo.
«Questa è una falsità della campagna elettorale che, come tutte le altre è stata spazzata via dall’unico giudice che è il popolo a cui non è ammesso ricorso».

Lei davvero crede che le nuove norme non influiranno sulla possibilità di indagare?
«Io sono sicuro che per i reati che davvero provocano allarme sociale non cambierà proprio nulla. In ogni caso noi dobbiamo riformare la giustizia malata perché non riesce a dare ai cittadini risposte in tempi rapidi. L’ultimo esempio riguarda Reggio Calabria. A gennaio, dopo la bomba esplosa di fronte alla Procura generale, io e Alfano siamo andati a Reggio Calabria e il Guardasigilli si è detto pronto a mandare immediatamente sei magistrati di rinforzo. Il parere del Csm è arrivato soltanto in questi giorni».

Il candidato sindaco di Milano sarà del Carroccio?
«Bossi si è già prenotato».

Il ministro Ignazio la Russa ha detto: «C’è un patto, spetta a noi senza condizioni».
«Schermaglie. Si vota a maggio del 2011 e fino ad allora ce n’è di tempo. Si voterà anche a Napoli».

E pensate di candidare un leghista?
«Perché no, non è detto che non ci facciamo un pensierino. Almeno cominceremo a far funzionare qualcosa»

Fiorenza Sarzanini

06 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 08, 2010, 03:20:40 pm »

Criminalità - Roberto Pannunzi era il mediatore tra la 'ndrangheta e i narcos colombiani

Evasione beffa del «re della droga»

Ottiene gli arresti domiciliari e fugge da una clinica romana


ROMA — Era detenuto in regime di carcere duro, ma era riuscito a ottenere gli arresti domiciliari per motivi di salute.
E tre settimane fa è fuggito dalla clinica di Roma dove era stato trasferito per effettuare alcuni accertamenti sanitari. È di nuovo latitante Roberto Pannunzi, 64 anni, definito il «re del narcotraffico» per la sua capacità di gestire l'acquisto di eroina e cocaina per conto della 'ndrangheta. Un mediatore di alto livello, utilizzato anche da Cosa Nostra quando si doveva trattare con il cartello dei colombiani di Medellin l'acquisizione di grosse partite di stupefacenti.

Sei anni dopo essere stato catturato a Madrid dai poliziotti dello Sco, il servizio centrale operativo, è ufficialmente «irreperibile» e adesso bisognerà stabilire per quale motivo si sia deciso di attenuare le misure di detenzione nonostante fosse già stato condannato per reati gravissimi come l'associazione mafiosa e il traffico internazionale di droga. E dunque si dovrà verificare la regolarità delle procedure seguite. La decisione di applicare nei suoi confronti il 41 bis viene presa il 22 febbraio 2006. Nel curriculum criminale di Pannunzi ci sono i legami con la famiglia del boss calabrese Giuseppe Morabito, detto u tiradrittu, e con le famiglie di Bagheria.
Sono i carabinieri del Ros a ricostruire per conto dei magistrati di Perugia i viaggi che ha organizzato dal Sudamerica per trasferire la cocaina in Europa a bordo di piccoli aerei da turismo. È stato condannato in due differenti processi a venti e a sedici anni, i giudici ritengono quindi necessario limitare al massimo i suoi possibili contatti con l'esterno. Del resto anche il figlio Alessandro — che con lui era stato catturato in Spagna nell'aprile del 2004 — ha dimostrato di essere perfettamente inserito negli ambienti della malavita organizzata. Il 6 luglio scorso il boss ottiene però gli arresti domiciliari e va in una clinica a Nemi, alle porte della capitale. «Cardiopatia ischemica postinfartuale» è la diagnosi che convince i giudici del tribunale di sorveglianza di Bologna — con il parere favorevole dei collegi che lo avevano ritenuto colpevole — a concedergli di lasciare la prigione.

Una decisione poi confermata dal tribunale di sorveglianza di Roma. Verdetti che vengono adesso definiti «anomali» dagli esperti di ordinamento penitenziario. Generalmente a chi si trova in regime di carcere duro si applica infatti l'articolo 11, che prevede il ricovero nei reparti specializzati del carcere e consente il trasferimento in strutture esterne soltanto «ove siano necessari cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti». Nel dicembre scorso Pannunzi entra in un'altra casa di cura della capitale, Villa Sandra. La detenzione domiciliare non consente il piantonamento e così vengono disposti controlli saltuari delle forze dell'ordine. Il 15 marzo, durante la perlustrazione, si scopre che è scappato. La notizia viene tenuta riservata, si cerca di capire se possa aver trovato rifugio nelle vicinanze. In realtà a quasi un mese di distanza le sue tracce sembrano perse. E l'ipotesi più probabile è che sia fuggito all'estero, lì dove ha sempre goduto di appoggi e protezioni. L'ascesa criminale di Pannunzi comincia trent'anni fa quando si allea con Gaetano Badalamenti. La polizia ritiene che sia stato lui a suggellare il patto tra la cosca Alberti e i narcotrafficanti marsigliesi convincendo il chimico Renè Bousquet a trasferirsi a Palermo e impiantare la prima raffineria di eroina. Un favore ai boss prima di trasferirsi in Colombia e lì avviare la gestione del mercato in collegamento con l'Italia. Il suo primo arresto, nel 1994, avviene proprio a Medellin. In quell'occasione cerca di corrompere i poliziotti offrendo loro un milione di dollari per convincerli a lasciarlo andar via. Lo trasferiscono in Italia, ma poi viene scarcerato per decorrenza termini. Riesce a sottrarsi a un nuovo ordine di cattura fino al 2004, quando torna dietro le sbarre. Ora è di nuovo in fuga.

Fiorenza Sarzanini

08 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #52 inserito:: Aprile 13, 2010, 06:27:05 pm »

RETROSCENA

La procura di Roma cerca una traccia nel caso del rilascio di Mastrogiacomo

L'Ong di Gino Strada ebbe un ruolo chiave nella liberazione


ROMA — Italiani sequestrati in Afghanistan e liberati grazie alla mediazione di Emergency. Potrebbe celarsi nel retroscena delle trattative condotte durante i rapimenti del fotoreporter Gabriele Torsello e del giornalista Daniele Mastrogiacomo la chiave per ottenere il rilascio di Marco Garatti, Matteo Dell’Aira e Matteo Pagani, gli operatori sanitari arrestati sabato scorso. In entrambi i casi l’organizzazione umanitaria fu protagonista grazie al negoziato affidato a Rahmatullah Hanefi, il responsabile dell’ospedale di Lashkar Gah che trovò l’accordo con i talebani e versò la contropartita per conto del governo italiano. Una scelta osteggiata dalle autorità di Kabul perché tagliava fuori i servizi segreti e dunque anche gli 007 locali. E soprattutto perché obbligò al rilascio di almeno cinque detenuti per gravi reati, così come richiesto dalla banda che aveva in ostaggio l’inviato del quotidiano la Repubblica. Hanefi ha pagato con tre mesi di carcere l’accusa di essere complice dei terroristi, salvo essere poi completamente scagionato.

Ora la storia sembra ripetersi con i tre volontari. Nella vicenda che li coinvolge potrebbero aver giocato un ruolo anche i vertici militari del contingente britannico che hanno il controllo dell’area di Helmand, proprio quella dove opera Emergency. Tra i diplomatici c’è chi evidenzia come nel settembre scorso il Times di Londra (lo stesso giornale che due giorni fa ha rilanciato la notizia falsa che i tre volontari avevano confessato di aver partecipato a un complotto per assassinare il governatore della provincia di Helmand) aveva accusato i servizi segreti italiani di aver pagato milioni di dollari ai talebani per evitare attacchi a Sarobi e nella zona di Herat, che si trova sotto il controllo dei nostri vertici militari. Le indiscrezioni che filtrano adesso attraverso i canali dell’intelligence parlano di alcune persone che sarebbero state curate all’interno dell’ospedale nonostante fossero sospettate di aver compiuto atti terroristici. Addirittura che si sarebbero ferite dopo attacchi contro le truppe Isaf. E che sarebbe stato proprio questo ad aver convinto gli inglesi della necessità di appoggiare, sia pure restando formalmente «osservatori», l’azione della polizia locale iniziata con la perquisizione nel magazzino dell’ospedale dove sono state trovate pistole, giubbotti esplosivi e bombe a mano, e terminata con la cattura dei tre. In realtà Gino Strada ha sempre rivendicato la scelta di assistere chiunque ne abbia bisogno. Ma è stato proprio questo atteggiamento ad alimentare le ostilità nei confronti della sua organizzazione e a far aumentare le pressioni affinché lasci il Paese. Un’insofferenza che si manifestò in maniera evidente durante la detenzione di Hanefi, quando Strada accusò anche l’Italia di non fare nulla per «salvare un uomo al quale aveva affidato invece due milioni di dollari per liberare Torsello».

E adesso è proprio da lì che si riparte. Da quei due sequestri— uno avvenuto nell’ottobre 2006, l’altro nel marzo 2007 — che hanno visto Emergency in prima linea. Nel fascicolo avviato dalla procura di Roma ci sono gli articoli di stampa pubblicati in questi giorni e una prima relazione dei carabinieri del Ros che ripercorre le tappe cruciali delle due vicende con un’evidenza particolare al tragico epilogo del sequestro Mastrogiacomo. L’esecuzione di Adjmal Nashkbandi, l’interprete di 23 anni rilasciato insieme al giornalista e subito ripreso dai talebani, ha certamente segnato quella storia. Il giovane era il nipote di un alto funzionario della polizia locale e l’ordine di ucciderlo arrivato dal mullah Dadullah ha rappresentato una sfida per il governo guidato da Hamid Karzai. L’apertura di un’indagine consente l’acquisizione di eventuali atti raccolti alla Farnesina e soprattutto una sorta di collaborazione fra le autorità giudiziarie dei due Paesi. Del resto bisogna tenere conto che sono stati proprio gli uomini del Sismi— il servizio segreto militare ora diventato Aise — a collaborare con le autorità locali per la formazione del personale di polizia e di coloro che devono coadiuvare i magistrati. E dunque è anche su questi accordi di cooperazione che si cercherà di fare leva adesso per ottenere il rilascio dei tre operatori.

Fiorenza Sarzanini

13 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #53 inserito:: Aprile 14, 2010, 11:10:57 pm »

L’ex ostaggio: «In quella struttura c’è qualcosa che non va»

Il chirurgo trattò per liberare Torsello

Si fa strada l’ipotesi della ritorsione

Il caso dei tre operatori sanitari arrestati in Afghanistan

   
ROMA — Una ritorsione contro Emergency che potrebbe avere radici lontane. È l’ipotesi che prevale tra chi sta trattando per ottenere il rilascio dei tre operatori sanitari ancora detenuti in Afghanistan. Marco Garatti, il chirurgo arrestato insieme a Matteo Dell’Aira e Matteo Pagani era infatti uno dei mediatori del sequestro di Gabriele Torsello. Con il trascorrere delle ore si delinea dunque in maniera sempre più evidente il legame tra questa vicenda e quella dei due italiani tenuti in ostaggio in Afghanistan: oltre a Torsello che fu preso nell’ottobre 2006, Daniele Mastrogiacomo inviato del quotidiano La Repubblica rimasto prigioniero quindici giorni nel marzo 2007. Il ruolo di Garatti è ben delineato in una relazione allegata al fascicolo aperto due giorni fa dalla procura di Roma. Sono i tabulati delle telefonate acquisiti nel corso delle indagini effettuate all’epoca dai carabinieri del Ros a rivelare che era proprio lui a ricevere le telefonate dal mediatore Rahmatullah Hanefi — all’epoca responsabile dell’ospedale di Lashkar Gah—e girare poi le informazioni a Gino Strada e al sito internet dell’organizzazione Peacereporter. E forse è proprio per aver rivestito questo ruolo che le autorità di Kabul hanno deciso adesso di disporre il suo arresto. Fu Strada, due anni fa, a svelare che per ottenere la liberazione di Torsello furono pagati due milioni di dollari messi a disposizione dal governo italiano.

Ed ora è lo stesso reporter a lanciare velenosi sospetti: «Se veramente avessero voluto eliminare Emergency avrebbero bombardato l’ospedale, magari per sbaglio, come è successo in tanti altri casi. Il punto è che c’è qualcosa che non va a Lashkar Gah. C’è qualcosa che non va nel personale, afgano o pakistano, che lavora in Emergency. E lo ha detto anche lo stesso Strada, le armi può averle messe qualcuno che lavora lì. È necessario che si facciano delle indagini per capire chi è questa persona che ha messo le armi nell’ospedale, chi manovra lì dentro. Magari è la stessa persona che era lì quando c’era Hanefi. E su Hanefi le indagini sono state bloccate. Questo è stato un grave errore perché potevano emergere allora particolari interessanti che forse oggi potrebbero risultare utili». Dichiarazioni pesanti e inopportune, soprattutto in un momento delicato del negoziato per far rilasciare i tre operatori sanitari. Le pressioni esercitate dalla diplomazia sul ministero dell’Interno afgano si sono fatte più intense visto che finora nei loro confronti non è stata formalizzata alcuna accusa riguardo alla partecipazione al complotto per uccidere il governatore della provincia di Helmand, come invece era stato detto inizialmente.

Appare comunque difficile che i tempi possano essere brevi. Il fatto che siano stranieri potrebbe agevolare la procedura, ma i contatti di queste ore sembrano dimostrare che le autorità di Kabul possano non essere l’unico interlocutore con cui trattare. E così l’opera di mediazione si sta allargando agli inglesi, visto che l’area dove si trova l’ospedale è sotto il controllo del comando militare britannico e sono stati proprio quei soldati ad affiancare nell’operazione la polizia locale, fornendo di fatto il via libera alla cattura dei tre italiani.

Fiorenza Sarzanini

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« Risposta #54 inserito:: Aprile 19, 2010, 09:36:22 am »

Il retroscena

Le condizioni per il rilascio: non riaprire l’ospedale

Liberi i tre operatori di Emergency. La contropartita per la soluzione del caso


L’appoggio politico al presidente Hamid Karzai e i nuovi progetti di sviluppo che l’Italia si è impegnata a sostenere certamente hanno pesato sulla trattativa. Però la vera svolta per sbloccare l’impasse e ottenere la scarcerazione dei tre detenuti sembra essere arrivata con il trasferimento a Kabul di tutti gli operatori umanitari che lavoravano nell’ospedale di Lashkar Gah, determinandone così la chiusura. È questa la condizione che il governo italiano ha dovuto accettare per soddisfare gli afghani, ma anche il vertice militare britannico che di quella zona a Sud del Paese detiene il comando. E tanto basta a confermare definitivamente come la perquisizione ordinata una settimana fa nella struttura fosse soltanto un pretesto che serviva a tenere sotto pressione l’organizzazione di Gino Strada finita nel mirino per il suo ruolo pubblico e per aver mediato negli anni scorsi con i talebani ottenendo la liberazione di Gabriele Torsello e Daniele Mastrogiacomo, sequestrati mentre erano in quell’area.

Gli uomini dell’intelligence e della diplomazia si sono mossi in parallelo nel negoziato con gli 007 locali, riuscendo a dimostrare come Marco Garatti, Matteo Pagani e Matteo Dell’Aira fossero del tutto estranei a qualsiasi progetto di complotto o di attività terroristica, come invece era stato veicolato inizialmente pur senza alcuna contestazione ufficiale. La realtà è che tutte le notizie false di questi giorni — comprese quelle su un coinvolgimento di Garatti nel sequestro Mastrogiacomo e addirittura l’esistenza di telefonate registrate — servivano soltanto ad alzare il prezzo. Alla fine il conto è stato saldato assicurando che l’eventuale riapertura dell’ospedale avverrà soltanto con il consenso unanime delle autorità di Kabul. E forse anche con il via libera dei britannici. Una sorta di ricatto che Emergency è stata costretta ad accettare, almeno per adesso, pur di riportare a casa i tre operatori. Troppo alto era il rischio di tenerli un mese nelle prigioni afghane fino alle eventuali contestazioni definitive. Troppo forte il pericolo di ritorsioni, tenendo conto che dell’atteggiamento di ostilità nei loro confronti dopo la gestione della trattativa per Mastrogiacomo.

A Emergency i servizi segreti locali contestano soprattutto di non essere riusciti a ottenere anche la liberazione dell’interprete Adjmal Nashkbandi, il nipote di un alto funzionario della polizia, che fu giustiziato venti giorni dopo. Ora invece ci sarebbe l’impegno dell’Italia a versare un indennizzo alla sua famiglia. Adesso il fascicolo passa alla magistratura italiana e dunque ai carabinieri del Ros che dovranno verificare quanto accaduto, collaborando con gli inquirenti di Kabul anche a smascherare eventuali complotti a danno degli italiani. Per questo — dopo l’interrogatorio dei tre che sarà effettuato martedì al loro arrivo in Italia — una squadra di specialisti guidata dal colonnello Massimiliano Macilenti potrebbe trasferirsi in Afghanistan. E verificare come e perché siano finiti in quel magazzino dell’ospedale pistole, bombe a mano e giubbotti esplosivi.

Fiorenza Sarzanini

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« Risposta #55 inserito:: Aprile 29, 2010, 11:59:00 pm »

I pm: fondi del costruttore Anemone nell’interesse del ministro

«Soldi in nero con 80 assegni per l’immobile di Scajola»

Tracce dei conti esteri intestati ai funzionari pubblici, ricostruito il percorso del denaro


ROMA - I pubblici ministeri di Perugia rilanciano e svelano le nuove carte. Il ricorso contro l’ordinanza del giudice che ha respinto la richiesta di arresto del commercialista Stefano Gazzani, dell’architetto Angelo Zampolini e del commissario dei Mondiali di nuoto Claudio Rinaldi — indagati per aver partecipato alle attività di corruzione e riciclaggio nella gestione degli appalti per i Grandi eventi — elenca i riscontri alle accuse. Individua la traccia dei conti esteri intestati ai funzionari pubblici. Ricostruisce il percorso dei soldi utilizzati dal costruttore Diego Anemone per acquistare, tra il 2004 e il 2006, gli appartamenti poi intestati all’attuale ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola e al generale della Guardia di finanza Francesco Pittorru, al quale l’imprenditore chiedeva di tenerlo aggiornato sullo sviluppo delle inchieste avviate sul suo conto.

E così contesta la decisione secondo cui non è competente la Procura di Perugia: «Tutti i reati di cui si discute appaiono di competenza di questa autorità giudiziaria per la loro connessione con il reato associativo del quale è concorrente esterno anche il magistrato Achille Toro», il cui coinvolgimento aveva determinato il trasferimento in Umbria dell’inchiesta avviata due anni fa a Firenze. In particolare i magistrati ritengono che i tre siano inseriti in quella «cricca » di cui fanno parte l’ex provveditore alle Opere pubbliche Angelo Balducci, il suo successore Fabio De Santis, il funzionario delegato alla gestione del G8 a La Maddalena Mauro Della Giovampaola e lo stesso Anemone, che sarebbe riuscito ad accaparrarsi la fetta più grossa dei lavori. E per questo chiedono ai giudici del Riesame, che decideranno l’11 maggio, di riconoscere la loro titolarità a proseguire le indagini e disporre la cattura degli indagati.

Le ammissioni dell’architetto
Zampolini, interrogato la scorsa settimana, ha confermato il passaggio dei soldi transitati sul suo conto che era già stato ricostruito nei dettagli dalla Guardia di finanza, specificando di aver ricevuto da Anemone il denaro. Ma ha detto di non conoscere per quale motivo fossero stati acquistati immobili poi intestati al politico di Forza Italia e all’ufficiale delle Fiamme gialle in servizio presso l’Aisi, il servizio segreto civile. Del trasferimento delle somme all’estero destinate ad Angelo Balducci e Rinaldi si sarebbe invece occupato Gazzani. I pubblici ministeri Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi accusano i due funzionari di aver «autorizzato i lavori di implementazione del Salaria Sport Village di proprietà dello stesso Anemone e di Filippo Balducci (figlio del funzionario, ndr) abusando dei poteri connessi alla loro carica, in violazione della legge che gli stessi poteri prevedeva e a favore della società che ne traeva un indebito risparmio quantificato in 9 milioni di euro. Atto in relazione al quale ricevevano dalla parte privata la corresponsione di denaro per una somma allo stato non determinata che veniva girata in conti esteri intestati ai pubblici ufficiali». In particolare Rinaldi avrebbe ricevuto soldi su un conto aperto a San Marino, ma il suo avvocato Titta Madia spiega di aver «già depositato una memoria che dimostra come quei soldi, depositati da sua madre, non fossero affatto destinati a lui».

Le case regalate
La prima operazione per l’acquisto di un immobile risale al 6 luglio 2004. I magistrati l’hanno ricostruita nei dettagli. Quel giorno «Zampolini versa 900 mila euro in contanti su un conto dell’agenzia 582 della Deutsche Bank di Roma». Subito dopo «ottiene l’emissione di 80 assegni circolari all’ordine di Barbara e Beatrice Papa per valuta corrispondente, per l’acquisto nell’interesse di Claudio Scajola di un immobile intestato al suddetto». Accusano i pubblici ministeri: «In questo modo trasferiva denaro e compiva operazioni tali da ostacolare l’identificazione della loro provenienza da delitti contro la pubblica amministrazione». Secondo le verifiche compiute dalla Guardia di finanza la casa sarebbe costata circa un milione e mezzo di euro e la somma gestita dall’architetto sarebbe stata versata «in nero». L’indagine mira adesso a verificare per quale motivo Anemone abbia deciso di comprare un appartamento di prestigio per Scajola, all’epoca ministro dell’Attuazione del programma, dopo essere stato ministro dell’Interno fino al 2 luglio 2002 quando si era dimesso dopo la pubblicazione di sue frasi offensive nei confronti di Marco Biagi, il giuslavorista assassinato a Bologna dalle Brigate rosse.

Ma Guardia di Finanza e Carabinieri del Ros devono verificare se il passaggio dei soldi possa essere legato proprio agli appalti che lo stesso Anemone aveva ottenuto dal Viminale. Il ministro Scajola si dice «disgustato per la violazione del segreto istruttorio». Lo stesso meccanismo per il trasferimento del denaro Zampolini lo aveva già utilizzato il 2 aprile 2004. In quel caso l’architetto aveva «versato 285 mila euro in contanti presso la stesso istituto di credito e ottenuto l’emissione di 29 assegni circolari all’ordine di Monica Urbani per valuta corrispondente, per l’acquisto nell’interesse di Francesco Pittorru da destinare a Claudia Pittorru, figlia del suddetto». Anche due anni dopo, esattamente l’8 giugno 2006, Zampolini si occupa di un acquisto per conto del generale. Infatti «versa 520 mila euro sul conto corrente e ottiene assegni circolari all’ordine di Rosa e Daniela Arcangeletti, Rosa Anna e Nello Ruspicioni per l’acquisto di un immobile intestato allo stesso Pittorru e alla moglie Anna Maria Zisi».

Il finanziamento dei film
Nel registro degli indagati di Perugia è finito anche Lorenzo Balducci, il figlio attore del provveditore alle Opere pubbliche, per alcuni affari gestiti con Gazzani. Reato contestato: riciclaggio. In particolare il commercialista è accusato di aver «fatto versare denaro in contanti pari a un milione e duecentomila euro dal cognato Achille Silvagni intestato alla società "Stefano Gazzani Communications srl" di cui Silvagni è amministratore unico e facendo poi emettere assegni per un totale di un milione e centomila euro intestati alla Blu International. Compiva operazioni tali da ostacolare l’identificazione della loro provenienza da delitti contro la pubblica amministrazione poiché destinatario finale della somma appare essere stato Lorenzo Balducci che la Blu International aveva contrattualizzato per il film Uccidimi, opera mai realizzata». Proprio al giovane, l’architetto Zampolini avrebbe provveduto a intestare un appartamento acquistato nel 2004. Si legge nel capo di imputazione: «Versava sul proprio conto corrente della Deutsche Bank agenzia 582 denaro contante per 435 mila euro che nei giorni successivi permetteva l’emissione di assegni all’ordine di Manfredi Geraldini per valuta corrispondente, per l’acquisto nell’interesse di Angelo Balducci di un immobile intestato a Lorenzo Balducci».

Le false fatture
Tra i destinatari di soldi gestiti dal commercialista ci sono altri pubblici ufficiali, tra cui Della Giovampaola. I magistrati contestano al professionista «di aver emesso nel corso dell’anno 2009, in concorso con Michele D’Amelio legale rappresentante della società "Mi.Da", fatture relative a operazioni inesistenti in favore di Della Giovampaola, Caterina Pofi, Valerio Sant’Andrea per un importo complessivo di 1 milione e 120 mila euro». Le fatture avevano come oggetto collaborazione professionale prestata con riferimento ai lavori realizzati nell’ambito delle opere realizzate per il G8 a La Maddalena, emesse al solo fine di documentare costi inesistenti per abbattere il reddito imponibile degli utilizzatori. Di fatto tutti hanno agito su consiglio e istigazione di Gazzani in qualità di commercialista, che procacciava la società nel cui nome emettere le fatture false e che provvedeva alla gestione del fittizio pagamento degli importi fatturati, che in realtà venivano restituiti ai soggetti utilizzatori, decurtati dall’Iva ». Di questi soldi le fatture per Della Giovampaola sono tre, ognuna per un imponibile di 250 mila euro e dunque per un totale di 750 mila euro.

Fiorenza Sarzanini

29 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:29:33 pm »

Il commento

Da Scajola chiarimenti necessari

Dopo sospetti e nuove accuse

Spesso politici e funzionari coinvolti in indagini gridano al complotto senza indicare i burattinai di trame oscure


Una settimana fa, quando si è parlato per la prima volta della somma di 900.000 euro che l'imprenditore Diego Anemone gli avrebbe messo a disposizione nel 2004 per comprare un appartamento a Roma, il ministro Claudio Scajola ha affermato che la notizia «è destituita di ogni fondamento». Ora che l’architetto Angelo Zampolini, accusato di aver fatto da mediatore nell’operazione immobiliare, ha confermato di fronte ai pubblici ministeri di Perugia il passaggio del denaro svelandone i dettagli, lo stesso ministro parla di «attacco senza precedenti a me e alla mia famiglia».

Poi avverte: «Non mi lascerò intimidire». Capita spesso che i politici e i funzionari dello Stato coinvolti in indagini giudiziarie gridino al complotto senza però indicare chi sarebbero i burattinai che tessono oscure trame. «Non sono indagato», sottolinea Scajola. È vero, almeno per quanto risulta sino ad ora. Le carte processuali rivelano che la Guardia di Finanza era stata delegata ad esplorare i conti correnti di alcuni professionisti sospettati di aver gestito, e in qualche caso riciclato, i soldi di Anemone. Nell'ambito di questo accertamento è saltato fuori il documento di acquisto di quella casa. E si è deciso di saperne di più acquisendo gli atti notarili e interrogando le persone che avevano preso parte alla compravendita. Comprese le due sorelle, benestanti signore romane, che avevano venduto l'immobile. Sono state proprio loro a ricordare di aver ricevuto direttamente dal ministro ottanta assegni circolari per un totale di 900 mila euro che servivano a perfezionare l'accordo. E in questo modo hanno confermato come il ministro fosse consapevole di utilizzare una cifra messa a disposizione dal costruttore. Scajola afferma di aver «troppo rispetto per la magistratura per entrare nel merito della vicenda».

In realtà una spiegazione sembrerebbe a questo punto opportuna, viste le nubi che rischiano di addensarsi sul passato incarico di ministro dell'Interno e sull’attuale carica di responsabile del governo per lo Sviluppo Economico. Soprattutto tenendo conto che nel corso degli anni Anemone ha gestito per conto del Viminale, e non solo, svariati lavori. Pur con le dovute cautele di fronte a un'indagine ancora in corso, gli elementi che stanno emergendo richiederebbero un chiarimento su quanto è davvero accaduto. Anche perché il solo sospetto di aver ricevuto soldi da un imprenditore che ha ottenuto appalti milionari, spesso a trattativa privata, è un’ombra che un uomo pubblico dovrebbe rimuovere al più presto.

Fiorenza Sarzanini

30 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da lastampa.it
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« Risposta #57 inserito:: Aprile 30, 2010, 11:06:20 pm »

L'inchiesta

Scajola, le nuove accuse

L'appartamento e 4 testimoni contro

«Diede lui gli 80 assegni». Trovati 240 conti dell’architetto

   
ROMA — Quattro testimoni smentiscono la versione fornita dal ministro Claudio Scajola sull’appartamento acquistato a Roma, zona Colosseo, nel 2004. «Fu lui — dicono — a consegnare gli ottanta assegni circolari per un totale di 900.000 euro». Soldi che sarebbero stati messi a sua disposizione dal costruttore Diego Anemone. Si allarga l’indagine della magistratura di Perugia. E si concentra su 240 conti correnti gestiti dall’architetto Angelo Zampolini, al quale il costruttore si era affidato per alcune operazioni riservate. «Trasferimenti di denaro - dice l’accusa - effettuati nell’ambito di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al riciclaggio ». Un percorso che li avrebbe già fatti approdare in alcune finanziarie di San Marino e in altri istituti all’estero. Gli investigatori della Guardia di Finanza hanno acquisito l’elenco degli appalti pubblici affidati al Gruppo Anemone, ma anche quello dei lavori effettuati privatamente per personaggi inseriti nelle amministrazioni dello Stato. Vogliono verificare se siano stati pagati da chi ne ha beneficiato o se invece siano la contropartita per favori ricevuti. Capitolo a parte riguarda alcune commesse che il giovane imprenditore — tuttora in carcere insieme ai funzionari delegati ai Grandi Eventi Angelo Balducci, Fabio De Santis e Mauro Della Giovampaola— avrebbe ottenuto dalla Santa Sede. Proprio come avvenuto con la cassaforte del sacerdote missionario don Evaldo, il sospetto è che in alcuni casi fosse riuscito a crearsi provviste di soldi contanti da distribuire in caso di urgenza.

Il doppio sopralluogo Il 6 luglio 2004 l’appuntamento tra Scajola e le due sorelle Papa proprietarie dell’appartamento per la stipula del rogito, venne fissato al ministero delle Attività produttive. «Avevo prelevato i circolari presso la Deutsche Bank e li portai al ministro», racconta ora Zampolini. Il resto lo aggiungono le venditrici: «Fu proprio Scajola a prendere i titoli e a consegnarceli. Ma nell’atto non figura questo passaggio perché ci eravamo accordati per denunciare soltanto 600.000 euro». La conferma arriva dal notaio Napoleone, interrogato qualche giorno dopo. Ma i controlli rivelano pure l’esistenza di un altro passaggio di soldi in contanti, ammesso dalle due donne: «Al momento di stipulare il preliminare, Scajola ci consegnò 200.000 euro, che noi ci dividemmo in parti uguali». Denaro di cui al momento i finanzieri ignorano la provenienza e del quale si chiederà conto proprio al ministro. A conti fatti, c’è dunque la dimostrazione che la casa costò un milione e 700 mila euro e non 600.000 come Scajola aveva invece pubblicamente dichiarato la scorsa settimana. È stato proprio Zampolini a rivelare di fronte ai pubblici ministeri i dettagli della trattativa. «Diego Anemone — ha messo a verbale —mi incaricò di trovare un appartamento per Scajola. Di questa vicenda era informato anche Angelo Balducci. Inizialmente visionammo un altro immobile nella zona del Gianicolo, ma il ministro mi spiegò che non gli piaceva e così gli proposi quello al Colosseo che poi effettivamente venne acquistato. La procedura fu quella seguita solitamente: versai sul mio conto corrente i soldi messi a disposizione da Anemone e poi provvidi a prelevarli sotto forma di assegni circolari».

Le provviste segrete I 240 conti che l’architetto utilizzava per «mascherare» le operazioni, potrebbero adesso rivelare se ci siano altri politici e uomini pubblici beneficiati da Anemone. Messo di fronte alle evidenze che emergono dai tabulati acquisiti presso le banche, Zampolini ha accettato di collaborare con gli inquirenti e questo potrebbe anche convincere i pubblici ministeri Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi a sollecitare davanti al Riesame una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere, come invece era stato inizialmente richiesto. Il giudice ha respinto l’istanza — che riguardava pure il commercialista Stefano Gazzani e il commissario dei Mondiali di nuoto Claudio Rinaldi—ritenendo che questa parte dell’inchiesta debba essere trasmessa a Roma per competenza e il 13 maggio si pronuncerà il collegio del tribunale. Al momento è stato scoperto l’acquisto di quattro appartamenti: oltre a quello di Scajola, due sono stati intestati al generale delle Fiamme gialle in servizio all’Aisi Francesco Pittorru, e uno a Lorenzo Balducci, il figlio del Provveditore che di professione fa l’attore. Il sospetto è che quelle centinaia di depositi intestati all’architetto siano stati in realtà utilizzati da Anemone per altri acquisiti immobiliari o comunque per versare tangenti in cambio degli appalti ottenuti. L’imprenditore ha ottenuto negli anni passati il Nos, il certificato di "nulla osta di segretezza" che gli ha consentito di aggiudicarsi lavori cosiddetti "sensibili", vale a dire la ristrutturazione o la costruzione di edifici per il ministero dell’Interno, per quello della Giustizia comprese alcune carceri, e per i servizi segreti. Ora si stanno riesaminando le procedure di affidamento dei lavori pubblici. Ma si sta anche analizzando l’elenco degli incarichi "privati" portati a termine dal gruppo per stabilire se possano rappresentare una contropartita.

Gli immobili del Vaticano Con alcuni prelati, così come confermato nelle scorse settimane anche da Don Evaldo - economo della Congregazione del preziosissimo sangue - Anemone aveva certamente buoni rapporti. Conoscenze ereditate da suo padre e probabilmente agevolate anche da Balducci — fino all’arresto gentiluomo di Sua Santità—che gli hanno consentito di ottenere l’incarico di ristrutturare interi stabili e anche di costruire alcuni palazzi. I magistrati vogliono accertare se — proprio come accaduto con don Evaldo — anche in altri casi Anemone abbia preferito non farsi pagare subito riuscendo così a crearsi una provvista di soldi contanti da utilizzare per eventuali emergenze. Con il sacerdote sono state registrate numerose conversazioni telefoniche e durante uno di questi colloqui, che precedeva di poco un appuntamento con il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, l’imprenditore disse che aveva bisogno urgente di 20.000 euro.

Fiorenza Sarzanini

30 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 03, 2010, 02:55:32 pm »

Idee
L'appartamento di Scajola e le falle nella tesi del ministro

«Le sue risposte continuano a sembrare deboli, soprattutto alla luce di quanto raccontato dai testimoni»

   
«Ho pagato la casa con un mutuo di 610 mila euro. Chi dice altre cose mente». Così il ministro Claudio Scajola rimane arroccato sulla propria posizione. Sono trascorsi ormai dieci giorni da quando si è saputo che nel 2004 avrebbe ricevuto 900 mila euro in assegni circolari dall’imprenditore Diego Anemone per comprare un appartamento di 180 metri quadrati vista Colosseo. Ma nessuna spiegazione anche solo apparentemente credibile è stata fornita. Nessun nuovo elemento è stato offerto, rispetto alla versione iniziale. Anzi. Le sue risposte continuano a sembrare deboli, soprattutto alla luce di quanto raccontato dai testimoni e delle verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza.

«Al momento del rogito il ministro ci diede gli 80 assegni», hanno dichiarato di fronte agli investigatori le proprietarie dell’immobile. E il riscontro è arrivato dall’analisi dei loro conti correnti, dove quei titoli risultano subito depositati. «Presi gli assegni, e li consegnai al ministro nel suo ufficio dove sapevo che si sarebbe stipulato l’atto», ha raccontato ai pubblici ministeri l’architetto Zampolini, che proprio Anemone avrebbe incaricato di gestire l’operazione. E il riscontro è arrivato dall’ex autista di Angelo Balducci che oltre un mese fa, dunque ben prima della divulgazione della notizia, aveva svelato di avergli consegnato i contanti. Accusare le due signore di mentire sembra un azzardo, visto che quanto hanno messo a verbale le espone anche al rischio di concorrere nel reato di evasione fiscale non essendo stati mai dichiarati all’erario quei 900 mila euro. Ma soprattutto Scajola non spiega per quale motivo i testimoni direbbero il falso. Nutrono risentimento nei suoi confronti? Esistono retroscena di questa vicenda che potrebbero averli spinti a incastrarlo? Nulla risulta. Ma se così fosse, dovrebbe immediatamente denunciarlo. «Andrò dai magistrati quando i miei impegni me lo consentiranno», ripete il ministro.

La sua versione ha preferito consegnarla ai giornali, pur sottolineando di essere «contrario ai processi mediatici» che, invece, ha contribuito ad alimentare con una difesa altrettanto «mediatica». E ha scandito: «Non mi dimetto». Prima di pensare all’eventuale abbandono dell’incarico, basterebbe rendere pubblici i documenti che, a suo dire, servono a scagionarlo. E così fugare ogni sospetto sui suoi rapporti con Anemone, imprenditore che s’è già dimostrato privilegiato nell’aggiudicazione degli appalti pubblici.

Fiorenza Sarzanini

03 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_maggio_03/appartamento-scajola-sarzanini_6e658120-5685-11df-ae23-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 04, 2010, 10:19:38 pm »

LE CARTE

Le sorelle che hanno venduto la casa

«Ecco le prove di quegli 80 assegni»

Accertamenti su 30 conti intestati alla segretaria di Anemone. I pm: schermo per altre operazioni


ROMA — Nuovi documenti bancari smentiscono la versione del ministro Claudio Scajola. Li hanno consegnati alla Guardia di Finanza le sorelle Beatrice e Barbara Papa, proprietarie dell'appartamento con vista sul Colosseo venduto il 6 luglio 2004. Estratti conto e altri attestati finanziari per dimostrare che non sono loro ad aver mentito sul prezzo, nè sulle modalità di consegna del denaro. Le testimonianze si incrociano con quelle dell'architetto Angelo Zampolini, l'uomo di fiducia del costruttore Diego Anemone che dopo aver rivelato di aver consegnato personalmente a Scajola gli 80 assegni circolari per un totale di 900.000 euro ha aggiunto: «Ero presente alla stipula e ho assistito alla consegna dei titoli alle venditrici». Adesso bisogna scoprire come mai il notaio decise di non registrare il rogito a Roma, ma di portarlo all'Anagrafe tributaria di Civitavecchia. Gli investigatori si concentrano sulle verifichenegli istituti di credito e su nuovi conti che Anemone, imprenditore beneficiato da appalti pubblici milionari compresi quelli dei Grandi Eventi, avrebbe intestato a una sua collaboratrice. Sono trenta depositi, 23 tuttora aperti, che — dice l'accusa — sarebbero serviti ad Anemone per veicolare tangenti a politici e funzionari in grado di assicurargli un ruolo privilegiato nella spartizione dei lavori.

Le ricevute dei versamenti

Il 25 aprile scorso, Beatrice Papa viene convocata al comando delle Fiamme Gialle. Conferma di aver venduto una casa di 180 metri quadri con vista sul Colosseo al ministro Claudio Scajola e consegna una copia dell'atto. La cifra indicata è di 610.000 euro, ma la signora subito ammette che non si tratta del costo reale. E si riserva di fornire i documenti per dimostrarlo. Non sa che una «Segnalazione di operazione sospetta» inviata dalla Banca d'Italia ha già rilevato una strana movimentazione su uno dei depositi intestati a Zampolini presso l'agenzia 582 della Deutsche Bank. Il 6 luglio l'architetto ha infatti richiesto l'emissione di 80 assegni circolari «di cui 40 intestati a Beatrice Papa e 40 a Barbara Papa per rispettivi 450.000 euro cadauna», ma — come sottolineano i pubblici ministeri — «da visure effettuate presso le banche dati finanziarie, non è emerso alcun rapporto giuridico tra lui e le beneficiarie dei titoli». Tocca dunque alla signora Papa raccontare che cosa si celi dietro quell'operazione e lei non si sottrae. Anzi, una settimana dopo, è il 30 marzo, porta la documentazione bancaria che serve da controprova sia per il versamento dei titoli, sia per quello di 100.000 euro in contanti avvenuto tempo prima. «Mia sorella — sottolinea — ne ha avuti altri 100.000. Si tratta dell'acconto che il ministro ci ha consegnato». Una versione che Scajola ha negato con decisione affermando che «non ci fu alcun preliminare».

L'atto a Civitavecchia

A confermarla ci pensa invece Barbara Papa, la sorella. E pure lei fornisce i documenti bancari che la riguardano, aggiungendo poi un particolare prezioso per effettuare i riscontri: «Al momento del rogito erano presenti varie persone, compreso un funzionario della Deutsche Bank». I dettagli li racconta Zampolini: «Sono rimasto per tutto il tempo all'interno di quella stanza del ministero in via della Mercede e con me c'era effettivamente il funzionario Luca Trentini. Diedi gli assegni al ministro che a sua volta li consegnò alle venditrici, come era stato pattuito». A stipulare l'atto fu il notaio Gianluca Napoleone che decise di non registrarlo nella capitale. La prova è in un'annotazione inviata dalle Fiamme Gialle ai pubblici ministeri Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi: «Da visure effettuate all'Anagrafe tributaria, il contratto di compravendita è stato registrato in data 13 luglio 2004 presso l'ufficio delle Entrate di Civitavecchia per un valore dichiarato di 610 mila euro». Una scelta che il ministro probabilmente chiarirà la prossima settimana, quando sarà interrogato dai pubblici ministeri come persona informata sui fatti. L'11 maggio sarà invece il tribunale del Riesame a dover stabilire se la competenza su questo filone di indagine sia di Perugia, come ritengono i magistrati dell'accusa. O se invece il fascicolo debba essere trasferito a Roma, come ha ritenuto il giudice delle indagini preliminari che si è dichiarato incompetente e per questo ha respinto la richiesta di arresto presentata nei confronti dello stesso Zampolini, dell'ex commissario per i Mondiali di nuoto Claudio Rinaldi e per il commercialista di fiducia di Anemone Stefano Gazzani. Il ruolo di quest'ultimo viene considerato strategico nella ricostruzione delle movimentazioni di denaro dell'imprenditore, soprattutto alla luce di quanto è stato scoperto nelle ultime settimane dalla Guardia di Finanza.

I conti della segretaria

Nell'informativa trasmessa il primo aprile scorso si dà conto degli accertamenti bancari avviati nei confronti di tutti i familiari di Anemone e di coloro che si ritiene possano essere diventati i suoi «prestanome». Persone di massima fiducia alle quali il costruttore avrebbe intestato alcuni conti sui quali far transitare il denaro delle operazioni che non dovevano lasciare tracce, proprio come quelle per l'acquisto di appartamenti che sarebbero state affidate a Zampolini. In questo quadro si inserisce la segnalazione nei confronti di Alida Lucci che — come dimostrano le intercettazioni telefoniche — di Anemone era una delle collaboratrici più fedeli. «La donna — evidenziano gli investigatori della Finanza — risulta aver intestati 30 conti correnti bancari, di cui 23 attualmente accesi. Tale dato non appare coerente con i redditi dalla stessa dichiarati al fisco e con la sua posizione di dipendente della "Impresa Anemone Costruzioni srl". Risulta infatti che nel 2006 ha dichiarato 33.150 euro di imponibile, nel 2007 è salita a 56.353 euro e nel 2008 è arrivata a 58.825 euro». Un po' poco per aprire decine di depositi bancari. Proprio come Zampolini, che certamente guadagna più della Lucci ma ha già ammesso — di fronte alle precise contestazioni dei pubblici ministeri — che le decine di conti a lui intestati erano in realtà alimentati da Anemone. Finora si è scoperto che li ha utilizzati per acquistare quattro appartamenti (oltre a quello di Scajola gliene vengono contestati due per il generale Francesco Pittorru e uno per il figlio di Angelo Balducci). Il sospetto è che molte altre compravendite di immobili saranno scoperte quando tutte le banche avranno fornito la documentazione richiesta.

Fiorenza Sarzanini

04 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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