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Autore Discussione: Giampaolo PANSA...  (Letto 39578 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:31:01 am »

Giampaolo Pansa


L'antifascismo obbligatorio


Fini rischia il consenso dei suoi per la voglia di entrare nel Partito Popolare europeo  Gianfranco FiniAnche a me piacerebbe vivere in un paese liberale. Dove tutti sono antifascisti e dunque anticomunisti e quindi, semplicemente, democratici. Ma l'Italia non è così. E non lo diventerebbe neppure se Gianfranco Fini, il leader di An e oggi presidente della Camera, ripetesse tutti i giorni la litania che ha fatto scandalo. Quella dove Fini dice che la destra deve diventare antifascista. E fare suoi i valori-guida dell'antifascismo: libertà, uguaglianza, solidarietà sociale.

L'Italia è una nazione diversa da altri paesi europei. E risente ancora oggi di una storia cominciata all'inizio del Novecento. Dopo la fine della prima guerra mondiale, le sinistre di allora (socialisti massimalisti e comunisti) pensano sia arrivato il momento di 'fare come in Russia' e di dare inizio alla rivoluzione proletaria. È la fase che verrà chiamata del Biennio Rosso (1919-1920). In quel tempo l'Italia era un paese agricolo e devastato dalla miseria. Gli scioperi agrari, sempre più violenti, sembrarono mandare al tappeto i capitalisti del tempo. Tanto che i giornali socialisti ripetevano: "L'Italia della rivoluzione è nata!".

Fu un errore tragico. Invece della rivoluzione, emerse la reazione al Biennio Rosso: lo squadrismo di Mussolini, che nell'ottobre 1922 conquistò il potere. Nacque il regime fascista, il secondo sistema autoritario in Europa, dopo quello leninista in Russia, e con undici anni di anticipo sul nazismo di Hitler. Il regime mussoliniano finì con l'ingresso dell'Italia in guerra, al fianco della Germania. Dopo una serie terrificante di sconfitte militari, e centinaia di migliaia di morti, nel luglio 1943 i Savoia si liberarono del Duce e in settembre cambiarono campo, alleandosi con gli inglesi e gli americani.

La faccenda sembrava conclusa, ma non fu così. Liberato da Hitler, Mussolini fondò la Repubblica Sociale Italiana.
Era uno stato debole e vassallo dei tedeschi. Ma cercò di dotarsi di una forza militare. Ci riuscì perché migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze italiani si arruolarono volontari, per cancellare la vergogna dell'armistizio e difendere la patria dall'invasore anglo-americano. Cominciò una guerra civile: fascisti contro antifascisti. Durò appena venti mesi, ma germinò tanto odio da bastare sino a oggi.

Gli Alleati vinsero. Insieme a loro vinse la Resistenza, ossia i partigiani. Dopo il 25 aprile, ebbero inizio le vendette sui fascisti sconfitti, con tantissimi assassinati, chi dice ventimila e chi trentamila. A quel punto fu chiaro che il Pci e molti partigiani delle Garibaldi non intendevano conclusa la lotta. Furono loro a ingaggiare una seconda guerra civile per la conquista violenta del potere. Lo scopo era di fare dell'Italia un paese satellite dell'Unione Sovietica. Ma era un proposito folle, che lo stesso Stalin condannava. E anche questa nuova guerra interna finì con le elezioni del 18 aprile 1948, vinte dalla Dc di Alcide De Gasperi.

Nacque la Prima Repubblica, poi sepolta da Mani Pulite. Per anni gli italiani rimasti fascisti non ebbero vita facile. Erano dei vinti, obbligati a comportarsi come tali. Avevano di fronte un antifascismo autoritario che li considerava cittadini di serie B. Un antifascismo arrogante ancora oggi. Che pretende di essere l'unico sacerdote della verità storica. Che mette all'indice i libri che non gli piacciono. Che domina l'insegnamento della storia nelle scuole. Tuttavia la Destra ha cominciato a farsi sentire. È andata al governo per la terza volta. E quel che più conta ha espresso un'opinione pubblica che comincia a dire la sua nei giornali, nell'editoria libraria e nel dibattito pubblico. Insomma, il popolo della destra esiste e non si nasconde più come era costretto a fare sino a pochi anni fa.

Adesso, a questo popolo, Fini, voglioso di entrare nel Partito Popolare Europeo, ordina di fare suoi i valori dell'antifascismo. E lo dice ricordando soltanto tra parentesi che c'è anche un antifascismo comunista. Dunque è fatale che una parte di quel popolo respinga l'ordine di Fini. Anche perché comincia a essere sbeffeggiato dalle tante sinistre che gli gridano: avete visto?, anche il vostro leader ammette che avevamo ragione noi. La questione non mi riguarda perché sono antifascista da sempre. Ma riguarda centinaia di migliaia di italiani onesti che respingono l'antifascismo obbligatorio che Fini vuole imporgli. Penso che il Presidente della Camera avrà dei grossi problemi con i propri elettori. Ma, come dice il poeta, chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

(19 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Settembre 26, 2008, 06:25:43 pm »

Giampaolo Pansa,


I casalesi a Cuneo


Trentotto anni fa Sciascia mi spiegò "la teroria della palma" per indicare l'espansione della mafia al Nord  Immigrati dopo la strage
di Castel VolturnoI casalesi del titolo non siamo noi di Casale Monferrato. Sono i gangster camorristi di Casal di Principe. Mentre Cuneo è Cuneo, la città piemontese all'estremo nord-ovest italiano, sul confine con la Francia. Vi stupireste se i casalesi armati di mitragliatori fossero arrivati sin lassù? Io no. Per ora la conquista non è avvenuta, ma prima o poi avverrà. L'ultima inchiesta de 'L'espresso' ci ha spiegato che Gomorra è già partita alla conquista dell'Emilia e del Veneto. Dunque non si vede perché non dovrebbe mettere le mani su Torino, per poi arrivare ancora più a ovest.

Tanti anni fa si pensava che la mafia sarebbe rimasta confinata in Sicilia. E che la camorra e la 'ndrangheta non sarebbero uscite dalla Campania e dalla Calabria. Poi ci siamo accorti che non era così. Un italiano che aveva visto tutto per tempo è stato Leonardo Sciascia: grande scrittore e lucido pessimista, capace di guardare lontano. La prima volta che mi capitò d'intervistarlo fu per 'La Stampa' di Alberto Ronchey. Il direttore voleva pubblicare un colloquio con lo scrittore a proposito della mafia. E mi mandò in Sicilia. Era l'ottobre del 1970, trentotto anni fa. Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica.

Lo scrittore mi domandò: "Conosce la teoria della palma?". Ammisi di no. Lui proseguì: "Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all'anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono".

Gli chiesi: "Che cosa c'entrano le palme con la mafia?". Sciascia sorrise: "Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l'Italia del nord. Tra un po' di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha in Sicilia. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c'erano due Stati, adesso non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l'altro. Un sistema dentro il sistema. Ha vinto il sistema di Cosa Nostra: più rozzo, più spregiudicato, più violento. E vincerà anche al nord".

Confesso che, rilette oggi, le parole di Sciascia mi mettono più paura di quando le ascoltai. Cerco un perché e mi rispondo che nel 1970 ero un giornalista giovane, con la metà degli anni di adesso. Ma poi mi dico che l'anzianità degli essere umani non c'entra e non è mai pericolosa. Il pericolo viene dalla vecchiaia delle società e degli Stati che dovrebbero governare la senescenza di un paese.

Ogni mattina, i giornali mi portano in casa il ritratto di una repubblica coperta di rughe, impacciata nei movimenti, lenta a reagire di fronte ai rischi che la minacciano. Tra questi rischi c'è la giovinezza sanguinaria del grande crimine organizzato. Noi discutiamo, come a Bisanzio, spaccando il capello in quattro, litigando, dividendoci in fazioni contrapposte, incapaci di trovare una tregua. Loro, invece, sparano e uccidono. Con le pallottole o con la droga.

La strage di Castel Volturno rappresenta un passo in avanti dentro questa strategia. Un passo senza precedenti e molto pericoloso. Sono stati uccisi dei neri, forse innocenti o forse coinvolti nello spaccio di droga. E la strage ha prodotto un evento anch'esso senza precedenti: una furiosa marcia di protesta di altri neri, che ha preso di mira i simboli della società bianca che incontravano per strada. La stessa cosa è accaduta a Milano, dopo il corteo di protesta per il ragazzo nero ucciso da due bianchi violenti.

La domanda inevitabile riguarda quel che accadrà domani. Tutti ci auguriamo che il governo e le forze dell'ordine riescano a sgominare i killer di Castel Volturno. Ma anche dopo questo possibile successo, non sarà risolto il problema che le due marce dei neri hanno fatto emergere. Un problema assai più pesante dei clandestini stranieri presenti in Italia. Siamo di fronte a italiani nati qui, ma che hanno una pelle diversa dalla nostra. Dobbiamo convivere con loro o combatterli perché stiano al loro posto?

La mia risposta è persino banale: dobbiamo convivere, ma nel rispetto della legge che è uguale per tutti. Non sarà facile. La paura di tanti italiani non è un'invenzione, come sostengono in molti a sinistra. È una paura reale. E purtroppo, come ci insegna la storia, la paura può essere una cattiva consigliera.

(26 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Ottobre 04, 2008, 03:44:40 pm »

Giampaolo Pansa.


Quei parolai pericolosi


Messa all'angolo dal Caimano l'opposizione risfodera lo spauracchio delle velleità golpiste del centrodestra.
Non porta bene alla sinistra suonare l'allarme democratico e gridare contro la deriva autoritaria in arrivo. In proposito, ho qualche vecchio ricordo da cronista politico. Nel marzo 1972 si teneva a Milano il XIII Congresso del Pci, quello che avrebbe eletto Enrico Berlinguer segretario del partito. Mentre i lavori erano in corso, l'editore Giangiacomo Feltrinelli si uccise, maneggiando in malo modo una carica esplosiva che doveva far saltare un traliccio a Segrate. Era chiaro che si trattava dell'errore di un guerrigliero incapace. Ma il Pci, pur sapendo tutto, preferì parlare di complotto contro la democrazia.

A farlo fu Berlinguer, nel discorso conclusivo del congresso. Era un leader politico ritenuto saggio, eppure si abbandonò a dietrologie senza senso. Spiegò che il cadavere di Feltrinelli sotto il traliccio gli sembrava "una spaventosa messa in scena". Chiamò il partito a vigilare "contro le centrali di provocazione italiane e straniere". E invitò l'opinione pubblica "a una grande sollevazione per spezzare ogni tentativo di svolta autoritaria".

I suoi avversari del momento erano Arnaldo Forlani, segretario della Dc, e Giacomo Mancini, leader del Psi. Potevano essere considerati dei golpisti in potenza? Penso di no. Infatti il golpe non ci fu. Al posto dei carri armati, nel maggio 1972 arrivarono le elezioni parlamentari. Il Pci non ricavò nulla dai tanti allarmi: appena uno 0,2 per cento in più. Il Psi scese sotto il 10 per cento, ma perché ormai stava alla canna del gas. E la Dc trionfò, portando a casa quasi 13 milioni di voti, il 38,7 per cento, undici punti in più dei comunisti.

Ma le sinistre, cocciutamente, continuarono a parlare di derive autoritarie. Gli Anni Settanta furono l'epoca del Golpe Ininterrotto, figlio di quella buonadonna della Trama Nera. Mentre il terrorismo brigatista cominciava a uccidere, il Pci seguitò a strillare contro l'imminente colpo di Stato della destra, dei militari, della Cia americana. Ricordo che venne anche predisposta una rete clandestina di appartamenti, nei quali rifugiarsi se fosse scattata la maledetta Ora X. E a metà degli anni Settanta il gruppo dirigente del Bottegone visse qualche notte di terrore.

Adesso la storia si ripete, però in forme grottesche. Messe nell'angolo dal governo del Caimano, le opposizioni estraggono dagli armadi la vecchia mercanzia del pericolo autoritario: biancheria ingrigita, tarlata, che sa di muffa. Mentre il mondo trema per il gigantesco crack di Wall Street, il Partito Democratico e l'Italia dei Valori agitano lo spauracchio delle velleità golpiste del centro-destra. Si evoca la democrazia svuotata e il pericolo che l'Italia diventi come la Russia di Putin. E qualcuno si spinge ancora più in là.

Leoluca Orlando, portavoce di Tonino Di Pietro, ci spiega che rischiamo assai di peggio. Ossia di diventare come l'Argentina del generale Jorge Videla, con tutti gli orrori che ne conseguiranno. Il suo leader azzarda un altro passo e si dà alla fantapolitica. Avendo studiato la storia d'Europa sui Bignami in uso presso i liceali frettolosi, Di Pietro c'informa che siamo alla Repubblica di Weimar, quella che in Germania partorì il mostro hitleriano. Infine Tonino, l'uomo più intervistato d'Italia, se la prende con i 'grandi giornali'. E ci spiega che da noi "il pluralismo non esiste. Al suo posto c'è un oligopolio fatto di conflitti d'interesse".

Bisogna spingersi a tanto per galvanizzare una base infiacchita e mandarla in piazza nelle manifestazioni previste in ottobre? Il Bestiario ritiene che il moltiplicarsi dei parolai pericolosi sia la spia di un disagio più profondo: la sfiducia nelle proprie capacità politiche e la convinzione di non saper reggere al cospetto di un governo del Caimano che duri cinque anni.

Ma se è l'impotenza a suggerire tante assurdità, dobbiamo prepararci al peggio. Non ci sarà limite per i parolai pericolosi. E anche per quelli che, invece di dare aria ai denti, disegnano vignette. Sull'ultimo inserto comico dell''Unità', si vede un tizio che impugna una rivoltella e spara al ministro Renato Brunetta.

Posso dire che cosa mi ha ricordato quel disegno, presentato come satirico? Le vignette di 'Lotta Continua' contro il commissario Luigi Calabresi. Lui perché gettava gli anarchici dalle finestre della questura. Brunetta perché prepara i forni crematori per i fannulloni d'Italia. Coraggio, avanti così, in questo paese di santi, di navigatori e di parolai mandati in Parlamento e strapagati con le nostre tasse.

(03 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 01, 2009, 11:39:20 pm »

IL BESTIARIO

Un bel 5 in condotta? Meglio un 4 (di Giampaolo Pansa)

Volete sapere come mio nonno ha imparato a leggere e scrivere?


Giovanni Eusebio Pansa era nato nel 1863 a Pezzana, un paese della pianura vercellese. Il suo mondo stava immerso nella povertà. Risaie nebbiose, cascine come fortezze solitarie, pochi padroni, tanti braccianti. I maschi cominciavano a faticare da piccoli. Due volte l’anno, a Vercelli c’era la fiera dei servitori. I ragazzini venivano messi in mostra dai genitori. I possidenti affittavano i più robusti, i “fioroni”. E li portavano nei loro poderi.

I “fioroni” erano analfabeti. Lo era anche Giovanni Eusebio. Fino a quando nel 1882, a diciannove anni, non venne chiamato sotto le armi. La vita del soldato era meno dura di quella sui campi. In più, le reclute avevano il vantaggio di andare a scuola dai maestri militari. Al termine dei due anni di servizio, dovevano dimostrare di aver imparato a leggere e a scrivere. All’esame finale, chi risultava a metà strada si ciucciava altri sei mesi di ferma. E rischiava di farne altri sei nel caso che i maestri l’avessero bocciato di nuovo.

Anche per questo, alla fine dell’Ottocento tra gli analfabeti c’erano più femmine che maschi. Mia nonna Caterina Zaffiro, moglie di Giovanni Eusebio, non sapeva né leggere né scrivere. La ricordo china sulle pagine di “Grand Hotel”. Stupito, le chiedevo: «Come fai a capire, visto che sei analfabeta?». Lei ringhiava: «Guardo le figure e non mi scappa niente. Lasciami perdere e pensa a studiare, se non vuoi rimanere ignorante come me».

Anche negli anni Quaranta della mia infanzia la severità pagava. Era il pilastro dell’istruzione pubblica. Gli insegnanti avevano un potere assoluto. Se non mostravi di imparare o eri indisciplinato, il maestro ti picchiava sulle dita con il righello di legno. I prof delle medie ti scrivevano sul diario delle note durissime. Dovevi farle firmare dal papà o dalla mamma, perché sapessero che cattivo soggetto era il loro figliolo.
Allora le famiglie non erano per niente felici di avere in casa uno scolaro turbolento, che non studiava e in classe non stava “composto”. Che parola magica! Riassumeva in tre sillabe il rispetto che ogni ragazzo doveva mostrare per la scuola. Nessun genitore si sognava di prendersela con il maestro o il professore. E se il voto in condotta era basso, finivi in castigo anche a casa.

Oggi il mondo si è capovolto. Un insegnante delle medie mi ha detto: «I genitori sono diventati i sindacalisti dei loro figli». Ecco descritto, con un’immagine terribile, lo sfascio della scuola italiana. Il disastro rimbalza ogni giorno sulle pagine dei quotidiani. Ci sono notizie che valgono più di un’inchiesta. L’ultima, del 22 gennaio, racconta che a Milano una madre e una nonna hanno inseguito e picchiato una prof che aveva osato punire la loro bambinaccia irriverente.

Qualche giorno fa la Banca Centrale Europea ci ha spiegato che i piani anti-crisi adottati dai governi dell’area euro rischiano di generare un impatto negativo sulle future generazioni. Immagino anche a causa dei risparmi obbligati nel settore dell’istruzione. Ma la verità è che i guai sono cominciati ben prima della crisi. Con la depressione morale degli insegnanti, sempre più smotivati. Con il bullismo in classe che dilaga impunito. Con l’assenteismo dalle lezioni che si fa sempre più vasto.

Leggo che il ministro francese dell’Educazione, Xavier Darcos, da marzo manderà nelle scuole cinquemila funzionari per individuare chi fa assenze ingiustificate. Non so che cosa deciderà di fare il nostro ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. Ma so che è una donna che vale tre uomini. E la incoraggio a proseguire sulla strada della severità. Senza badare alle proteste degli studenti, delle famiglie, dei sindacati e delle tante sinistre parolaie.

Del resto, è sufficiente dare un’occhiata a quel che succede in questa sfigatissima Italia per rendersi conto che l’istruzione conta quanto il due di picche. I giornali sono scritti con sciatteria: articoli interminabili senza un capoverso e gremiti di parole banali, assenza del congiuntivo, concetti esposti in modo opaco. Leo Longanesi raccomandava di “grattare” ogni pezzo, e poi di grattarlo ancora, per ripulirlo di tutte le impurità. Ma in molte redazioni non vedo più grattugie all’opera.

Nelle università si stanno aprendo corsi per insegnare ai laureandi come si scrive una tesi. I docenti si sono accorti che molti studenti non sanno mettere insieme un testo più lungo di qualche sms. L’abitudine ai messaggini inviati con i cellulari genera conseguenze grottesche. A un esame di storia del Risorgimento, una studentessa si ostina a parlare della spedizione dei Mille e di Nino Biperio. «Chi è questo Biperio?» domanda, stupito, il docente. Poi si scopre che si tratta di Nino Bixio: la ragazza era convinta che la “x” significasse “per”. E in un concorso per diventare magistrati, è emerso che molti dei futuri giudici commettono errori di sintassi e persino di ortografia. Scrivendo in modo sbagliato anche le parole più semplici.

Fra tanto disastro, in questi giorni si è aperta una polemica sui molti cinque in condotta che compaiono sulle pagelle del primo trimestre. E di nuovo si è gettata la croce addosso al ministro Gelmini. Da antico studente con nonni analfabeti, dico che sarebbe necessario scendere dal cinque al quattro. Coraggio, professori. Bocciate, bocciate, forse qualcosa cambierà.

Lunedì, 26 gennaio 2009
da ilriformista.it 

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Il Bestiario. A che serve sparare su Silvio?


Dell'intervista che Fedele Confalonieri ha dato a Stefano Feltri per il Riformista, mi ha colpito il passaggio sulla satira anti-Cavaliere. Fidèl ha rivelato che «Silvio soffre l'accanimento sarcastico».
 E come esempio ha ricordato che «sul Corriere della sera, Giannelli gli dedicava nove disegni su dieci, anche quando stava all'opposizione». Emilio Giannelli è un vignettista politico tra i più bravi in Italia. Lo conosco da anni e ho scritto la prefazione alla sua prima raccolta di disegni. Ma oggi non lo capisco più. Ha ceduto il suo humour alla battaglia contro il Caimano. Anzi contro il Maghetto, come raffigura Berlusconi. Per questo, oggi Giannelli non sorprende. Non fa ridere. Annoia. Vuole colpire il Berlusca, però distrugge la propria fantasia. Insomma, per lui la sindrome anti-Cav. si è rivelata un fantozziano boomerang. È una sindrome che conosco perché ne ho sofferto anch’io. Nel 1989 stavo a Repubblica quando il Cavaliere andò alla conquista della Mondadori e del Gruppo Espresso. Nel 1990 pubblicai “L’Intrigo”, un libro patriottico nei confronti di Scalfari e C., ma feroce contro Berlusconi. All’inizio di quell’anno, avevo chiuso il Bestiario su Panorama, insieme a Claudio Rinaldi che dirigeva il settimanale. Nel luglio 1991 andai all’Espresso affidato a Claudio. Cominciammo ad azzannare Sua Emittenza nell’estate 1993, quando scoprimmo che stava per scendere in politica. Da quel momento, la nostra guerra contro il Berlusca divenne totale, una settimana dopo l’altra. Molte delle requisitorie contro di lui le scrissi io, con una spietatezza di cui oggi non sarei capace. Però le copertine erano affare di Claudio. Rinaldi odiava Berlusconi. Lo considerava un pericolo per la democrazia. Inoltre il Cavaliere gli aveva sottratto la creatura più cara: Panorama. Le copertine erano la sua vendetta. Tutte sferzanti, accanite, crudeli. Ne cito una: un perfido montaggio fotografico mostrava Silvio vestito da gerarca fascista, il fez con la nappa, i fascetti rossi sulla camicia nera. La battaglia senza respiro contro Berlusconi non ci portò fortuna.
L’Espresso cominciò a perdere lettori che non apprezzavano il nostro furore. Ma anche il centro-sinistra iniziò a perdere voti. E nelle elezioni del 27 marzo 1994, la sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sancì il primo ingresso del Cavaliere a Palazzo Chigi. Alla vigilia del voto, le critiche contro l’Espresso s’infittirono. Rinaldi andò a trovare Umberto Eco nella sua casa di Milano. Semisepolto fra i trentamila volumi che coprivano le pareti, il guru Umberto elencò i nostri errori. Avevamo cominciato ad assalire Berlusconi troppo presto, riconoscendogli in anticipo la qualifica di capo della destra italiana. Gli avevamo dato troppo spazio: «Non avrei propinato ai lettori dieci-venti pagine a numero. Il lettore si annoia se tutte le settimane deve leggere le storie dei suoi debiti e delle sue bugie, del Caf, della Loggia P2». Terzo rimprovero di Eco: «Se l’Espresso intendeva davvero mettere in difficoltà Berlusconi, doveva essere meno prevedibile». Anche Indro Montanelli, che voleva bene a Claudio, disse: «Non posso credere che il mio amico Rinaldi abbia voluto portare delle fascine al fuoco di Forza Italia.
Ma la demonizzazione approda sempre al risultato contrario quando si esagera. Sono riusciti a fare di Berlusconi il protagonista della politica italiana». Rinaldi replicò da par suo sul numero dell’8 aprile, a elezioni avvenute. Scrisse: «Diciamoci la verità, amici: Berlusconi era forte, fortissimo, i suoi voti li avrebbe presi in ogni caso. Si poteva fermarlo solo denunciando sin dall’inizio, davanti al Paese, l’assurdità di un magnate della tv che dà la scalata al governo impugnando come clave quelle reti tv che lo Stato gli ha concesso. Peccato che per mesi l’Espresso sia stato l’unico giornale a svolgere quest’opera. E che gli avversari politici di Berlusconi non abbiano aperto gli occhi in tempo». Quattordici anni dopo siamo allo stesso punto, prigionieri del medesimo dilemma. Esistono giornali d’ informazione costruiti per intero contro Berlusconi. Tutti i satirici della tivù sbeffeggiano il Cav. Le librerie rischiano di crollare sotto il peso dei volumi che descrivono le nefandezze del Caimano. I cortei portano a spasso il suo pupazzo. E i vignettisti disegnano ogni giorno il loro sberleffo contro Silvio. Nel frattempo, Berlusconi ha vinto tre elezioni su cinque: nel 1994, nel 2001 e nel 2008.
Anche oggi le opposizioni sono alla canna del gas. Malgrado il gran strillare sul regime, sul nuovo Mussolini. E nonostante le urla dello sciagurato Di Pietro che, a Montecitorio, si rivolge al premier chiamandolo «presidente Videla». Ma il Caimano non cadrà mai sotto questi colpi esagerati e ingenui. Di qui la mia domanda: è utile sparare ad alzo zero contro il Berlusca? Non ho l’autorità per dare una risposta. Però un’opinione posso esternarla: no, non è utile, tirare a palle incatenate non servirà a nulla. Il Cavaliere può cadere soltanto sotto le mazzate della crisi economica. Ma in quel momento saranno cavoli acidi per tutti. Anche per l’opposizione. Obbligata a succedere al Caimano, per di più in uno scenario disastroso. Oggi il Partito democratico non è pronto a fronteggiare quell’emergenza. E non ha la fiducia di molti elettori. Per conquistarla, non può essere soltanto contestativo. Deve dimostrarsi ideativo, propositivo. Ma mi accorgo che sto usando troppi “ivo”. E mi fermo qui.

Di Giampaolo Pansa su il Riformista
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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 01, 2009, 11:40:26 pm »

Giampaolo Pansa lascia L'Espresso "Voglio restare bastiancontrario"


Giampaolo Pansa lascia l'Espresso e passa al Riformista. Lo ha annunciato lo stesso giornalista nel giorno del suo 73esimo compleanno. "Mi sono dimesso - ha detto Pansa - dopo aver firmato un contratto importante per numero di articoli per il Riformista. Credo che mi divertirò". Pansa, nato a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, il primo ottobre 1935, lascia il gruppo Espresso, dove era entrato nel 1977, dopo dopo 31 anni.

In una intervista a Il Giornale, il giornalista che ha lavorato a La Stampa, Il Giorno, Il Messaggero e il Corriere della Sera, a 73 anni decide di accettare il corteggiamento de Il Riformista, il quotidiano diretto da Antonio Polito che sta così continuando la sua campagna acquisti per dare vita a un interessante prodotto editoriale (quando sarà aumentata anche la foliazione e ampliato il numero delle pagine).

Pansa assicura che “niente oro e oro” è stato versato nelle sue casse per il passaggio al quotidiano di Polito, e che lui invece è “un giornalista che gira ancora con la Panda”. Non è mai stato un giornalista scontato e il suo ruolo di “bastiancontrario” se lo è cucito addosso con gli anni. “E adesso cambio proprio perché voglio restarlo”. Di ognuno dei quotidiani che ha attraversato, Pansa conserva un sublime ricordo. A La Stampa dove gli fu cestinato il primo pezzo, la recensione di ‘Quell’ultimo ponte’ di Cornelius Ryan. A Il Messaggero dove fu nominato caporedattore, “ma non sapevo disegnare un menabò e meno male che c’era il vecchio Terracina che senza dir nulla mi ridisegnava le pagine”. Poi l’approdo a La Repubblica di Scalfari e quel ricordo, nitido e difficile. “La decisione più drammatica fu proprio con Scalfari – racconta Pansa -. Quando dicemmo no alla moglie di un sequestrato dalle Br che ci implorava di pubblicare i comunicati brigatisti. Solo dopo trent’anni capisci che è giusto. Se avessimo pubblicato i testi dei brigatisti, lo Stato chiudeva”.

In mezzo anche tanti reportage (storico quello del Vajont grazie a un paio di calosce, mentre “tutti gli altri erano all’Hotel Cappello di Belluno”) e un giudizio di D’Alema a Claudio Rinaldi: “Pansa si fa leggere dalla prima all’ultima riga. Ma non capisce un cazzo di politica. Peggio di lui solo Prodi”. Una dichiarazione che Giampaolo Pansa considera una medaglia, non una frecciata.

E adesso, a 73 anni suonati, è pronto per una nuova avventura. O meglio, come dice lui, “a tirare qualche sassata nelle vetrine dell’informazione”.


da www.tgcom.mediaset.it
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 07, 2009, 10:49:07 am »

7/3/2009 (8:2) - INTERVISTA

Pansa: "Anch'io temo di morire d'amianto"

Lo scrittore nato a Casale, capitale dell’Eternit: «Una Spoon River collettiva, peggio della guerra»


GIUSEPPE SALVAGGIULO

«A Casale Monferrato c’è una psicosi. Io ogni volta che vedo qualcuno che muore di amianto tocco ferro e mi chiedo: chissà se adesso tocca anche a me...». Giampaolo Pansa, giornalista e scrittore, vive nella provincia di Siena ma resta un «casalese doc: sono vissuto lì fino alla laurea». E da lontano segue la vicenda dei morti di amianto e «la lotta dei pigmei contro il gigante industriale».

Torna spesso a Casale?
«Manco da anni. Ci torno col magone. Non riconosco più le persone. In via Roma, dove mia madre aveva il negozio di moda, vedo passare ragazze bellissime che non conosco, mentre non oso cercare quelle che ho ammirato da giovane. Mia sorella e mio cognato vivono ancora lì, in campagna». Teme per loro? «Certo. A Casale ne muoiono di continuo. È una sofferenza devastante, una Spoon River collettiva».

E per sé?
«Anche. Ho letto che la malattia ha un’incubazione di 40 anni. Io ne ho compiuti 73 lo scorso ottobre...».

Che cos’era l’Eternit per Casale?
«Nei primi decenni del ‘900 era la nostra Fiat. Per un ragazzo che avesse come orizzonte quello di lavorare giovane c’erano tre possibilità: le cave di marna, la soluzione più orrenda; i cementifici - a Casale erano addirittura un centinaio alla fine dell’800 - e infine l’Eternit, che allora sembrava il lavoro più pulito».

Com’era il rapporto con l’industria?
«La grande fabbrica che oggi è nel cuore della città, vicino al Po, era un centro non solo economico ma anche sociale, con il dopolavoro e il circolo sportivo».

Conosceva qualcuno che ci lavorava?
«Mio zio Francesco Pansa, nato nel 1901, ultimo fratello di mio padre. Famiglia poverissima: erano sei figli orfani di un bracciante e cresciuti dalla nonna. A 15 anni era già operaio all’Eternit, poi esperto montatore dei grandi tubi in giro per l’Italia, soprattutto al Sud. A 25 anni emigrò in Argentina per cambiare vita, ma tornò in Italia più povero di prima e allora lo ripresero all’Eternit».

Lavorò per tutta la vita lì?
«No, perché l’alternativa la trovò sposando la tredicesima figlia di un pescatore del Po, Giuseppa, che noi chiamavamo la zia Pinota. Allora il Po non era inquinato, ci pescavano splendidi salmoni e i pescatori erano personaggi strani, che parlavano una lingua tutta loro...».

E così zio Francesco mollò la fabbrica?
«La zia Pinota portava in dote solo una licenza per aprire un negozio di alimentari. Ma si poteva trasformare in licenza di ristorazione e così lo zio aprì una trattoria sul ponte del Po. Forse per questo si è salvato. Quando poi è morto ancora non si parlava di decessi per eternit».

Che immagini evoca l’amianto, nei suoi ricordi?
«Casale è piena di amianto: veniva usato nelle campagne per tante ciuende, le delimitazioni degli orti, o per coprire i depositi degli attrezzi e delle biciclette».

In quegli anni si parlava di pericoli per l’esposizione alle fibre di amianto? «Assolutamente no. La cosa drammatica è che per tantissimi anni non c’era alcun timore».

Nemmeno nei partiti, nei sindacati, nella sinistra, sui giornali?
«Alla fine degli Anni ‘50, quando studiavo all’università, facevo il pendolare con Torino. La sera tornavo a Casale - il bar, gli amici, le ragazze - e insomma noi eravamo impegnati, di sinistra ma polemici e senza tessere di partito, un po’ di cani sciolti, leggevamo “Il Mondo”, “Il Ponte” di Calamandrei, facevamo i dibattiti al circolo Gobetti, io cominciavo a scrivere... no, nessuno si era mai preoccupato dell’Eternit».

Quando ha cominciato a interessarsi di questa storia?
«Nelle ultime settimane. Ho fatto una cartellina. Sono preciso. Ritaglio articoli, interviste agli oncologi, tutto».

Come mai dopo tanti anni?
«Qui mi arriva via posta il bisettimanale “Il Monferrato” che da un po’ di tempo pubblica tutti i nomi dei morti. Migliaia e migliaia, con età, professione, data del decesso. Impressionante. Ecco l’ultimo, il 27 gennaio: Alberto Sartor, geometra, aveva lavorato da tecnico all’Eternit. Quindici mesi fa non stava bene, gli hanno fatto le analisi: mesotelioma».

Qual è oggi il rapporto tra la sua città e l’amianto?
«Qui l’eternit ha fatto più disastri della guerra».

da lastampa.it
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 10, 2009, 05:10:41 pm »

IL BESTIARIO di Giampaolo Pansa

Un mostro chiamato Eternit


Mi sento in colpa per non aver mai scritto una riga sul pericolo dell’amianto e sull’Eternit, l’azienda che lo lavorava. Il cuore dell’Eternit, con lo stabilimento più grande e il vertice della società, stava nella mia città, Casale Monferrato.

 Chiamarla fabbrica della morte è poco. A Casale l’Eternit ha già ucciso 1.649 persone. E altre ne ucciderà, perché la gente continua a morire. Ad andarsene c’è pure chi non aveva mai lavorato all’Eternit. La malattia che li ammazza è il mesotelioma pleurico. Dicono che abbia un’incubazione lunga, può durare quarant’anni. Forse io l’ho scampata. Ma a stabilirlo sarà soltanto il Padreterno.

Adesso i giornali si occuperanno di questa strage. Il 6 aprile comincerà a Torino il processo all’Eternit e sarà uno scontro duro. Il pubblico ministero che ha condotto l’inchiesta è un magistrato famoso per l’abilità e il coraggio: Raffaele Guariniello. Bisognerà seguirlo con attenzione. Anche perché riporterà sulla scena una città che è stata importante nella vicenda industriale italiana.

Nel passaggio fra l’Ottocento e il Novecento, nel Monferrato casalese, i ragazzi poveri avevano tre possibilità. La prima era di lavorare nelle cave di marna. Lo facevano in condizioni bestiali. Consumavano la vita sottoterra, senza protezioni, rischiando di morire bruciati dal grisou. Le paghe erano misere. I cavatori rientravano a casa di notte, disfatti, terrei, senza altro orizzonte che ridiscendere nel buio il giorno dopo. “I sepolti vivi” li avrebbe chiamati nel 1913 “La Fiaccola”, il settimanale socialista di Casale.
L’abbondanza di ottime marne calcaree, la materia prima della calce e del cemento, regalò alla città il boom dei cementifici. Ecco la seconda occasione di lavoro. All’inizio del 1900 quelle fabbriche erano più di cento. Vista dall’alto della salita di Sant’Anna, Casale offriva un profilo infernale. Una sterminata batteria di ciminiere, affilate come missili, sparava un fumo sempre più denso e acre. I tetti delle case erano bianchi. Nella calura estiva l’aria diventava irrespirabile. Non oso immaginare quale fosse l’ambiente interno ai cementifici.

Nel 1906 spuntò una terza possibilità. Dei genovesi impiantarono a Casale una fabbrica d’avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e di amianto, secondo il brevetto di un austriaco. L’invenzione venne chiamata Eternit perché garantiva una durata eterna del prodotto. Dalle tegole si passò alle lastre, poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell’azienda fu trionfale.

L’Eternit arrivò a occupare 2.400 uomini, ma quelli che ci sono passati pare siano quasi cinquemila. Fu la nostra Fiat. Lavorare all’Eternit era un privilegio. Il posto risultava garantito. Ci lavorò anche il fratello più giovane di mio padre, Francesco Pansa, classe 1901. Operaio a quindici anni. Poi montatore dei grandi tubi, soprattutto in Bassa Italia. Stufo dell’Eternit, emigrò in Argentina, ma dopo due anni ritornò a Casale, sempre all’Eternit. La sua fortuna fu di sposare la tredicesima figlia di un pescatore del Po. Che portò in dote la licenza per aprire un’osteria. Quando lo zio Francesco morì, nessuno si pose il problema se l’avesse ucciso o no l’amianto.

Il mostro dell’Eternit chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. Si estendeva su 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con quel prodotto maledetto. Una bomba nucleare sul fianco destro del Po. Si è poi scoperto che la lavorazione dell’amianto aveva creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore bianco brillante. Un grande velo di sposa che nascondeva un numero spaventoso di morti.

Le cifre conosciute dicono che l’Eternit ha ammazzato a Casale 1.649 persone. Suddivise così: 1.020 sono operai e impiegati che avevano lavorato in quella fabbrica, 375 sono le vittime di patologie legate all’amianto e 254 sono donne e uomini che non hanno mai messo piede all’Eternit. È la terza cifra che rende la strage ancora più terribile. Il mesotelioma pleurico ha ucciso a caso gente che si riteneva al sicuro, mai vissuta vicino alla fabbrica e impegnata in altri lavori. Tra i morti c’è pure chi aveva lasciato Casale da giovane, senza più tornarci.

Se la strage è emersa lo si deve soprattutto a un sindacalista e a un giornale. Il primo è Bruno Pesce, dirigente della Cgil e già segretario della Camera del lavoro cittadina, che oggi guida il comitato dei superstiti. Il giornale è “Il Monferrato”, storico bisettimanale di Casale. Diretto da Marco Giorcelli, alla fine del gennaio 2009 ha cominciato a pubblicare gli elenchi di tutte le vittime dell’Eternit. Sono rimasto sconvolto nel leggere, numero dopo numero, quella spaventosa Spoon River. L’anagrafe del cimitero dell’amianto: cognome, nome, data di nascita, data di morte.

È un elenco che andrà aggiornato. A Casale l’Eternit continua a uccidere, al ritmo di venti, venticinque persone all’anno. L’ultima vittima è di qualche settimana fa. Si chiamava Alberto Sartor, 70 anni, un imprenditore che da geometra aveva lavorato all’Eternit. La malattia gli era stata diagnosticata quindici mesi prima. Immagino che anche lui sia morto fra molte sofferenze. Per dirla in soldoni, il mesotelioma ti soffoca. È il cappio di un boia che si stringe attorno al collo, giorno dopo giorno.

Al processo ci saranno più di cinquemila parti civili. Non vorrei essere nei panni dei due signori sul banco degli imputati. Un barone belga e un riccone svizzero. Il mostro dell’Eternit non gli costerà come il ponte di Messina, ma siamo lì.

da ilriformista.it
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« Risposta #52 inserito:: Giugno 29, 2009, 06:34:47 pm »

È meglio che il Pd muoia

di Giampaolo Pansa

Diciamoci la verità: il Partito Democratico è un giovin signore che sta morendo. Vale la pena di tenerlo in vita? Per poi vederlo di nuovo in agonia poco tempo dopo? So di dare un dolore a molti che hanno creduto in questo esperimento. Ma l’esperimento è fallito. Meglio prenderne atto e finirla qui. Cercando di immaginare un’altra strada per i riformisti italiani.

Tra quelli che hanno creduto nel Pd c’è anche il sottoscritto. Avevo poca fiducia nel suo leader, Walter Veltroni. Mi sembrava un peso piuma a confronto di un Berlusconi peso massimo. Per di più, aveva alle spalle una serie di sconfitte. Tanto che scrissi un Bestiario intitolato: “La favola del Perdente di successo”. Confesso che, lì per lì, mi sembrò un pezzo carogna. Poi mi dissi: per chi scrive sui giornali la cattiveria non è mai troppa.

Alle elezioni politiche dell’aprile 2008 ho votato Pd, pur intuendo che sarebbe stato battuto dall’armata del Cavaliere. A sconfitta avvenuta, ho pensato: pazienza, il Pd andrà avanti lo stesso, il ragazzo si farà le ossa e resterà in campo. Diamogli fiducia. Un partito nuovo non s’improvvisa in qualche mese.

Invece è accaduto il disastro. Nuove sconfitte elettorali in Abruzzo e in Sardegna. Le dimissioni di Walter. L’ingresso in scena del vice, Dario Franceschini. Una scelta presentata come obbligatoria, ma disastrosa. Il suo primo discorso mi è bastato. E senza essere un mago, ho compreso che la baracca non avrebbe retto. Non è una colpa essere sciocchi. Ma se uno sciocco prende la guida di un partito, soltanto il Padreterno può salvare lui, i suoi iscritti, i suoi elettori.

La campagna elettorale per le europee e le amministrative ha ribadito le previsioni più cupe. Una catastrofe politica e d’immagine. Inutile rievocarla, perché è robaccia dell’altro ieri. Al momento del voto, ho deciso di astenermi. Come altri elettori del Pd, non mi sono presentato al seggio. Era la prima volta che lo facevo in tanti anni. Ma non ho esitato a farlo.

Tuttavia, all’orizzonte intravedevo uno spiraglio di luce. Franceschini aveva giurato che in autunno avrebbe lasciato la sedia di segretario, cedendo il posto ad altri. Me lo vedo davanti ancora adesso, quando dichiara alla tivù: «Il mio compito si conclude in ottobre!». Aveva un tono ispirato e, al tempo stesso, tagliente. E l’ho quasi ammirato. Mi sono detto: finalmente uno della casta riconosce i propri limiti e se ne ritorna a casa.

Erano tutte balle. Il tragico Dario ci ha preso per i fondelli. Infatti eccolo di nuovo qua, a dirci: ci ho ripensato, voglio restare segretario del partito, dunque si aprano le danze! Danze di guerra, naturalmente. Contro un altro candidato, Pier Luigi Bersani. E subito dopo, ecco apparire gli schieramenti dei ras democratici. A cominciare dall’eterno Max D’Alema a fianco di Bersani. E dal redivivo Uolter Veltroni a dar man forte allo spergiuro Franceschini.

A quel punto ho immaginato che poteva esserci una terza via. Vale a dire un candidato nuovo: Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. Ho pensato a lui per una serie di motivi. Il Chiampa è un politico serio. Non urla. Non aggredisce l’avversario. Non sbrocca, ossia non parla a vanvera. Ha buon senso. È radicato sul territorio, come si usa dire. Se occorre, sa essere duro, ma conosce il valore della trattativa. Insomma, ecco uno in grado di far uscire il Pd dalle secche in cui si è arenato. E di riportarlo in mare aperto.

Sino a qualche giorno fa, volevo dedicare il Bestiario tutto a lui. E fare una dichiarazione di voto a suo favore. Poi ci ho riflettuto. Quel che leggo sul Riformista e sugli altri giornali, mi dice che nel Pd lo scontro sul leader si sta mutando in una guerra civile. Clan contro clan. Tutti contro tutti. Pioggia di pallottole al veleno. Vale la pena di gettare in un conflitto all’ultimo sangue un uomo come Chiamparino? O anche un altro politico per bene come lui?

La mia risposta è no. E il mio no mi suggerisce un’ipotesi diversa. Anche il Pd è un amalgama non riuscito. Ex comunisti ed ex democristiani non ce la fanno a convivere nello stesso partito. Chiunque sia il nuovo segretario, la loro guerra continuerà. Sempre più maligna e distruttiva.

Ma allora è meglio dichiarare che l’esperimento è fallito. E scrivere la parola fine. Il Pd è praticamente morto. Cercare di mantenerlo in vita sarebbe un’impresa non soltanto vana, ma dannosa. Anzi, tragicamente grottesca. Il risultato potrebbe essere uno soltanto: un cadavere che cammina. Del tutto incapace di contrastare il centrodestra. E meno che mai in grado di batterlo alle prossime elezioni.

Dunque ai democratici non resta che una scelta: dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista. Cercando un accordo con i reduci del Psi rimasti nel centrosinistra. E con le aree della sinistra radicale che non vogliono essere le frange lunatiche dell’anticapitalismo.

Lo stesso vale per i post democristiani della Margherita. Anche per loro c’è una via di uscita: trovare un accordo con l’Udc di Cesa e Casini. E dar vita a un nuovo partito centrista, sordo a tutte le sirene del berlusconismo. Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti. È bene che la truppa dei democratici, a cominciare dai capi, se ne ricordino.

Comunque, come sostiene il saggio, per prima cosa bisogna vivere e poi filosofare. Il Pd sta morendo. Salvate il salvabile. In caso contrario, rassegnatevi alla dittatura del Cavaliere. Escort comprese.

lunedì, 29 giugno 2009

da Il Riformista
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« Risposta #53 inserito:: Novembre 02, 2009, 06:07:04 pm »

Dove stanno i nuovi terroristi

di Giampaolo Pansa


Nel tragico caso di Piero Marrazzo ci sono due aspetti che impongono qualche domanda. Il primo riguarda le somme spese dal presidente della Regione Lazio nei suoi rapporti con i transessuali di via Gradoli. La questione non può essere cancellata con l’ovvia risposta che Marrazzo poteva fare dei propri redditi quel che voleva.
 
©LaPresse 26-10-2009 Cronaca: Berlusconi avverti' Marrazzo, attento c'e' un video su di te Nella foto: Piero Marrazzo foto di repertorio Sarebbe così se il protagonista della vicenda fosse un privato cittadino, un commerciante, un avvocato, un uomo d’affari. Ma non è il caso di Marrazzo. Lui era un uomo politico. Per di più elevato al rango di governatore della regione dove si trova la capitale d’Italia.

Qualche giornale, a cominciare dal Riformista, ha confrontato le somme consegnate ai trans e gli assegni firmati ai quattro carabinieri ricattatori con l’indennità percepita per l’incarico pubblico. L’indennità, così è stato scritto, ammontava a 13.600 euro al mese, al netto delle tasse. Una cifra molto alta per gli italiani che hanno stipendi normali. Ma molto bassa quando si pensa che ogni rapporto con i trans comportava una spesa consistente. In più c’erano gli aiuti in denaro concessi con regolarità al signore-signora preferito.

Può darsi che l’inchiesta della Procura di Roma scopra che Marrazzo aveva un altro reddito lecito, derivante da beni personali. Ma finora questa scoperta non è stata fatta. Anzi si è saputo che l’ex-presidente non godeva di una situazione finanziaria facile. Era gravato da mutui edilizi. E non si trovava sempre in regola con i pagamenti.

Ma allora è inevitabile chiedersi dove Marrazzo trovasse i soldi per soddisfare il lato debole del suo privato. Anche qui finora non c’è una risposta chiara. Nell’incertezza è dunque fatale che emerga il sospetto di introiti illegali, connessi all’incarico di governatore. Per dirla chiara, pur se in tono sommesso e aperto a ogni smentita, il numero uno del Lazio incassava tangenti? Questo interrogativo conduce a un altro: se così fosse, nella giunta regionale s’era insinuato il virus della corruzione?

La seconda domanda riguarda il comportamento di Marrazzo con i trans. Certo, non li frequentava allo scoperto. Ma andava spesso in via Gradoli con l’auto presidenziale, immagino con l’autista. E si faceva lasciare a poca distanza dal posto, con il pretesto di fare una passeggiata. Allora mi chiedo: è possibile che nessuno dei suoi collaboratori più stretti fosse all’oscuro di quelle frequentazioni? Se non erano occasionali, ma abituali, come facevano a non sapere? E come è possibile che i vertici politici della regione ignorassero il passatempo del presidente?

Chi ha vissuto in un collettivo professionale, la redazione di un giornale, uno studio legale importante, una giunta regionale, sa bene che tutti conoscono tutto del capo: vita, morte e miracoli, come dicevano le nostre nonne. Al nucleo di comando della Regione Lazio poteva sfuggire un aspetto così importante del privato di Marrazzo? Ma se qualcuno sapeva, perché non l’ha messo sull’avviso? Non tanto a proposito del rischio di essere scoperto. Bensì del pericolo di vivere in un modo inaccettabile per chi ha doveri pubblici molto stringenti, anche d’immagine. E della necessità di preservare il proprio onore.

Se la prima domanda ci porta a ipotizzare un sistema di corruzione fondato sulle tangenti, la seconda conduce a una certezza: nei piani alti della politica oggi domina un cinismo brutale. Lo stile di vita non conta più nulla. Puoi tenere di continuo comportamenti che non si addicono al tuo rango, ma nessuno ti richiama, né ti invita a correggerti. L’espressione “dare scandalo” è stata abolita. Sei ricattabile perché frequenti gente abituata a ricattare? E chi se ne importa.

Si sta affermando nella casta politica una nuova immoralità. Esistono molte eccezioni. Ma i due virus della corruzione tangentara e dell’indifferenza per gli stili di vita pericolosi dilagano. Non credo di esagerare. I cittadini considerano i politici dei ras incontrollabili. In più sanno bene che non ottieni nulla dal sistema pubblico se non paghi. E masticano amaro quando sentono parlare di lotta all’evasione fiscale. Chi dovrebbe imporla e condurla? Proprio i partiti, tutti, che poi chiudono gli occhi davanti ai loro errori e ai loro orrori. E ingrassano grazie ai milioni incassati in nero con le mazzette.

In queste settimane si è parlato più volte del clima di violenza che sta emergendo in Italia. Sono stato uno dei primi ad avvertire questo rischio nei miei Bestiari sul Riformista. Ogni giorno, purtroppo, la cronaca mi dà ragione. Ma oggi mi chiedo dove stiano i nuovi terroristi che possono aggredire la nostra repubblica. E ho paura della risposta che mi sento obbligato a dare. Non stanno in qualche rete clandestina, bensì alla luce del sole. Hanno prebende, onori e auto blu. È il partitismo cialtrone e mazzettaro il vero nemico della fragile democrazia italiana.

Vi ricordate che cosa avvenne a partire dal 1992? La Prima Repubblica cadde nel fango di Tangentopoli. E sotto i colpi dei magistrati di Mani Pulite. Ci furono degli eccessi, questo è vero. Ma il palazzo della politica era già minato nelle fondamenta dagli errori compiuti dai partiti.

Vogliamo rifare quell’esperienza? Mi auguro di no. Oggi le conseguenze potrebbero essere ben più drammatiche. Non c’è alle viste nessun nuovo Berlusconi, né a destra né a sinistra. Avremmo soltanto un grande vuoto. Che chiunque potrebbe riempire. Usando sistemi brutali. Imponendo un ordine di ferro. Un ordine, come si diceva un tempo, sorretto dalle baionette.

lunedì, 2 novembre 2009
da ilriformista.it
« Ultima modifica: Novembre 12, 2009, 05:19:48 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #54 inserito:: Novembre 12, 2009, 05:20:26 pm »

Troppi fans per chi può sparare

di Giampaolo Pansa


A volte sui giornali compaiono notizie che ti riportano all’indietro nel tempo. Rivelando un mondo sotterraneo che i media ignorano o indagano molto poco.
Uno di questi casi riguarda un gruppo che si definisce “Comitato Anna Maria Mantini del nuovo Partito comunista italiano”.
 

Il gruppo si è fatto vivo a Firenze domenica 18 ottobre. E ne abbiamo saputo qualcosa grazie a una cronaca di Laura Montanari, pubblicata martedì 20 ottobre sull’edizione fiorentina di Repubblica. Chi era Anna Maria Mantini? Una militante delle Brigate Rosse uccisa a metà degli anni Settanta durante un’irruzione dell’antiterrorismo nel suo appartamento a Roma. Poi celebrata nei volantini brigatisti insieme a Mara Cagol e alla tedesca Ulrike Meinhof.

La Mantini, fiorentina, aveva scelto di diventare clandestina quando il fratello Luca era stato ucciso nel corso di una rapina in banca.
Luca apparteneva ai Nap, i Nuclei armati proletari. Nel conflitto con i carabinieri aveva perso la vita anche un altro terrorista della banda.

Questa è la vecchia storia.
Quella di oggi emerge da una e-mail spedita a vari indirizzi il 18 ottobre. Il messaggio annunciava tre cose. La prima era la costituzione del gruppo intitolato alla Mantini. La seconda che il nucleo avrebbe operato nella clandestinità. La terza era la solidarietà al leader toscano dei Carc, arrestato a Pistoia.

La sigla Carc significa Comitato di appoggio alla resistenza per il comunismo. Ecco un altro gruppo, esistente in più di una città. Il leader di quello toscano era finito in cella l’11 ottobre. Dopo un assalto alla sede di un circolo di destra a Pistoia, Casa Pound.

Non conosco il testo integrale del messaggio inviato a Repubblica. Ma il quotidiano ne pubblica qualche stralcio.
Sono le solite accuse rivolte al governo Berlusconi di «proteggere i fascisti». Con un ritratto allucinato della realtà italiana: «La borghesia imperialista non può permettere ai comunisti di discutere, di agire e di organizzarsi liberamente. Perciò il nuovo Pci ha deciso di operare nella clandestinità. Siamo a fianco delle masse popolari che si stanno sollevando, che si organizzano, che costituiscono il nuovo potere».

Venerdì, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha fatto bene a rammentarci il rischio di attentati che il terrorismo islamico potrebbe attuare in Italia.
Ma immagino che il Viminale segua con attenzione anche il proliferare di gruppi e gruppetti nostrani, ormai ben al di là dell’antagonismo.

Alcune settimane fa, m’era capitato di dire che sentivo puzza di anni Settanta.
La mia era una sensazione istintiva, da vecchio cane da caccia che aveva visto nascere il terrorismo brigatista. Qualcuno mi diede ragione e qualcuno torto.

Una mattina, guardando “Omnibus” sulla 7, ho scoperto che a darmi torto c’era una signora molto sicura di sé, la segretaria nazionale della Cgil Susanna Camusso.
Sosteneva che sbagliavo perché il rischio vero da temere era il disagio sociale, dilagante in Italia per la crisi economica. 

Se avessi partecipato a quel dibattito, le avrei consigliato di non mostrarsi incauta. Era già accaduto a molti sindacalisti negli anni Settanta, tanto della Cgil che della Cisl. Stavano aggrappati allo slogan dei “compagni che sbagliano”. E non si resero conto di quanto avveniva sotto i loro occhi.

So bene che la crisi economica può essere uno degli incubatoi del nuovo terrorismo. Proprio per questo bisogna evitare passi falsi.
Ad esempio, è sbagliato dipingere come un’eroina la brigatista Diana Blefari che si è impiccata in carcere. Ed è rischioso definire quel suicidio «un omicidio di Stato». È quel che abbiamo sentito dire da politici di sinistra e da qualche giornale.

Adesso sta nascendo il caso di un film in procinto di uscire: “La prima linea”. È tratto da un libro di memorie scritto da Sergio Segio, uno dei capi di quella banda e pure lui un killer senza scrupoli. Il ministro della Cultura, Sandro Bondi, si sta domandando se la pellicola meriti il contributo dello Stato: un milione e mezzo di euro.
La decisione verrà presa entro la metà di novembre.

Non azzardo nessun giudizio perché quel film non l’ho visto. Non voglio comportarmi come fa di solito il culturame di sinistra. Sì, avete letto bene.
C’è la cultura di sinistra e c’è il culturame di sinistra, la versione dozzinale e trinariciuta della cultura vera. Sono quelli che mettono all’indice film, libri e autori senza averli mai visti né letti. È gente che oggi non conta più nulla nell’opinione pubblica. Ma spesso occupa posti che le consentono di salire in cattedra e di pronunciare sentenze: questo sì, quello no.

Il libro di Segio, all’origine del film, mi suggerisce una constatazione che non ho mai fatto. Gli sconfitti del terrorismo rosso, responsabili di una vera guerra civile con moltissimi assassinati, una volta ritornati in libertà hanno scritto a ruota libera. Pubblicando quasi sempre con editori importanti. Agli sconfitti della prima guerra civile, quella del 1943-1945, non venne mai concesso niente di simile. Erano fascisti, dovevano tacere. E se stampavano qualcosa, potevano farlo soltanto a loro spese e presso editori di nicchia.

Ecco un esempio di trucido doppiopesismo. Ma adesso una parte della sinistra sembra propensa a cambiare musica.
Qualche giorno fa, Walter Veltroni ha sentenziato: «C’è troppo odio, siamo a un passo dalla violenza». Penso che l’ex leader del Pd dovesse svegliarsi prima. E riconoscere una verità: quando i fans di chi spara sono troppi, va a finire che ci scappa il morto.

da ilriformista.it
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« Risposta #55 inserito:: Marzo 29, 2010, 06:34:34 pm »

Da lunedì smetteremo di odiarci?

di Giampaolo Pansa

Non parlo degli altri. Parlo soltanto di me. Ho seguito molte campagne elettorali della Prima e della Seconda Repubblica. Ma non ne ho mai vista una tanto perversa e, insieme, grottesca come quella che si è conclusa ieri. Per questo mi dichiaro stufo, nauseato, schifato della lotta politica italiana. Dalle facce dei suoi leader. Dalle loro sparate su giornali e tivù. Dalla banalità velenosa che schizzava da ogni comizio o intervista. Dalla loro voglia di distruggersi. E infine dall’odio che seminavano in un paese già troppo nemico di se stesso.

La memoria mi suggerisce una sola pronuncia corretta e sensata. L’ha fatta non so dove il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini. Attenzione, non sto suggerendo ai lettori del “Riformista” di votare per lui. Né tanto meno lo farò io. Dal momento che, come ho già detto in uno dei Bestiari, non andrò al seggio. Schierandomi con il partito più numeroso: quello dell’astensione.

Ma qualche giorno fa, ho letto sul Televideo della Rai una dichiarazione di Casini che mi ha trovato d’accordo. Nella sostanza diceva: attenzione, l’Italia è ormai un paese dove tutti sono contro tutti.

Gli italiani contro gli extracomunitari. I laici contro i cattolici. Gli antagonisti contro i moderati. Gli eterosessuali contro gli omosessuali. I governativi contro gli oppositori del governo. I fanatici del rosso contro quelli dell’azzurro. Insomma, aggiungo io, abbiamo adottato lo schema del peggior tifo calcistico: un blocco di ultrà contro l’altro. Per il momento a parole, ma in futuro con armi assai più pesanti.

Casini ha ragione. E come lui hanno ragione tutti gli analisti che affermano: la prima riforma da attuare dopo le elezioni è la riconciliazione nazionale. Lo penso anch’io, sia pure con molto scetticismo. Sono scettico perché conosco l’Italia e non soltanto, come ha sentenziato un lettore del “Riformista”, perché leggo molti giornali e guardo i telegiornali di Sky. La conosco perché ci vivo da settant’anni e ne ho studiato la storia, quella vecchia e quella nuova. Siamo sempre stati un paese di fazioni, di scontri fra una città e l’altra, di bande rivali, di guerre civili combattute con il gusto sadico di straziare l’avversario.

Può cambiare un paese fatto così? Per poter nutrire qualche speranza, sarebbe indispensabile che i leader politici cambiassero spartito e iniziassero a suonare una musica diversa. Ma non riesco neppure a immaginare che ne siano capaci. Il primo buon esempio dovrebbe darlo il capo partito più forte, Silvio Berlusconi. In questa campagna elettorale ha di certo invaso tutti i media, però non so quanto gli sia giovato. Troppo collerico, iroso, ringhiante, indemoniato, con l’urlo di rabbia continuo. Insomma tutto il contrario della calma forza tranquilla che dovrebbe esprimere un leader liberale, come il Cavaliere dichiara di essere.

Di Berlusconi mi ha colpito un dettaglio per niente irrilevante: la sua ossessione per la forma fisica, che poi nasconde il terrore di morire. Ha iniziato la campagna spiegando che si sentiva tanto forte da poter sfidare a braccio di ferro il mitico Carnera e batterlo.
E dopo aver rivelato che si ritirerà tra cinquant’anni, ha concluso una delle ultime interviste, quella a Ugo Magri della “Stampa”, dicendo: «Stanco io? No, sono in piena forma. Mi sfidi sui cento metri e se ne accorgerà».

Qualcuno dei suoi dovrebbe ricordare al Cavaliere che una buona salute è certo augurabile a un premier. Ma da sola non basta.
Il grande Roosevelt guidò gli Stati Uniti alla vittoria in guerra da una sedia a rotelle. In più, sempre i suoi generali avrebbero potuto suggerirgli di non chiedere il voto insultando i nemici. Non è il sistema più adatto per vincere le elezioni: i nemici gongolano e si moltiplicano. Questo iracondo Cavaliere darà il buon esempio? Ne dubito molto.

L’altro che dovrebbe dare il buon esempio è il leader del Partito democratico, Pierluigi Bersani. In questa campagna lui ha mostrato il difetto opposto al Cavaliere. Mi è sembrato spento, grigio, esausto, incapace di offrire una scossa al proprio elettorato. E soprattutto ha trasmesso la sensazione di aver abdicato a favore di poteri esterni, ben più forti di lui. Penso a Tonino Di Pietro, a un giornale-partito del peso di “Repubblica”, a una star della tivù come Michele Santoro e il suo “Annozero”.

Per rimanere nel campo dove è cresciuto Bersani, ve lo immaginate un Togliatti, un Longo, un Berlinguer cedere spazio e potere a un direttore di giornale, a un televisionista, a un magistrato che si è messo in politica? Il segretario del Pd ha lasciato la guida della campagna elettorale a gruppi di pressione estranei al partito. Dopo il voto gli presenteranno il conto. Se il centro-sinistra vincerà, si prenderanno il merito. Se perderà, la colpa sarà del debole Bersani. Accusato di non aver aggredito come doveva il Caimano. Lo stanno già dicendo.

Ho descritto anomalie micidiali per qualunque democrazia. I due partiti maggiori dovrebbero rimettere le cose a posto. E chiudere l’epoca infernale delle urla e dell’odio. Da lunedì dobbiamo finirla di odiarci. È questo l’imperativo esistenziale per tutti. Quanto può durare un paese obbligato a restare di continuo sull’orlo di un abisso? L’abisso è la guerra civile, oggi a parole, domani con altri mezzi.
L’Italia ha bisogno di concordia, tranquillità, riforme condivise, solidarietà fra i diversi e di un rapporto corretto tra maggioranza e opposizione. Riuscirà ad ottenerli? Se volete una risposta schietta, eccola: temo proprio di no.

Lunedì, 29 marzo 2010

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« Risposta #56 inserito:: Maggio 22, 2010, 05:51:57 pm »

Un'aula sorda e grigia

di Giampaolo Pansa


Vi ricordate che cosa disse Benito Mussolini, una ottantina di anni fa? Scrutando con occhi a biglia l’emiciclo di Montecitorio, ruggì: “Di quest’aula sorda e grigia farò il bivacco dei miei manipoli!”. Andò così. La Camera dei deputati smise di essere sorda e grigia per diventare un’assemblea in camicia nera. E con le orecchie ben aperte agli ordini dell’Uomo di Predappio.

Tremonti parlava con la solita fredda perizia. Ma di fronte al deserto. Dei 630 deputati ne erano presenti meno del dieci per cento, ossia 60. Il gruppo più numeroso era quello democratico, una quarantina di parlamentari. Poi c’erano dieci dell’Udc. Due dell’Italia dei valori. Uno della Svp. La maggioranza era tutta assente, tranne cinque del Pdl e due della Lega.

Devo commentare? Assolutamente no. Se un ramo del Parlamento si sputtana da solo, che cosa può aggiungere il Bestiario? Può soltanto assistere, con grande melanconia, alla morte definitiva di una figura. Che per la mia generazione cresciuta nel primo dopoguerra era intoccabile e santa: l’Onorevole Deputato, il simbolo della democrazia repubblicana. Un’icona distrutta dagli stessi che oggi la incarnano. Gente che non ha vergogna di passare per fannullona e fancazzista.

Sono nato in una famiglia che ammirava il Deputato. Mio padre, operaio del telegrafo, desiderava che dopo la laurea diventassi funzionario della Camera, per vedermi lavorare al fianco di tante eccellenze. Quando riuscii a fare il giornalista, mi disse: va bene lo stesso, scriverai di loro e li vedrai da vicino. Infatti li conobbi bene e ne scrissi molto. All’inizio con rispetto. Perché nei primi trent’anni repubblicani, i parlamentari ne meritavano davvero tanto.

Per cominciare, erano vestiti modestamente. Gli elegantoni non mancavano nei palazzi della politica. Come i liberali di sinistra, dei quali si cantava: “Se non ci conoscete – guardateci i calzini – noi siamo i liberali del conte Carandini”. Il conte Niccolò Carandini, poi tra i fondatori del Partito radicale, era un signore splendido nel suo doppiopetto di sartoria. Lui portava il calzino lungo. Tutto l’opposto della massa parlamentare.

Per la massa valeva una regola: calzino corto, cravatta larga. Quasi tutti vestivano malissimo. Persino il doppiopetto di Palmiro Togliatti, reso celebre da Vittorio Gorresio, paragonato all’eleganza sfacciata dei peones 2010 era un abito sformato, che cadeva male da tutte le parti. E conferiva al leader del Pci l’aspetto strafugnato di un console sovietico, appena sbarcato da un viaggio in treno Mosca-Roma.
Qualche personaggio davvero elegante esisteva anche nella Dc. Per esempio Alcide De Gasperi, di una distinzione austera. O il giovane Emilio Colombo, che sembrava appena uscito dal sarto, dal barbiere e dalla manicure. Ma di solito i dicì non si curavano dell’estetica. Pantaloni abbondanti e corti. Calzette nere o grigiastre. Giacche che tiravano sulla pancia. Cravatte color topo che fugge. Però la cravatta i parlamentari maschi ce l’avevano tutti. Mica come succede oggi. E così Camera e Senato mostravano una bell’aria di mediocrità dignitosa, segno di rispetto per la funzione e per il luogo.

E le signore parlamentari? Alcune erano di una bellezza irraggiungibile. Ma di solito ricordavano le nostre madri nell’età adulta. Sempre affannate, inciccionite, in un perenne bagno di sudore, la permanente ormai svanita. Tuttavia nel loro povero look si leggeva lo scontro con il bigottismo maschilista delle rispettive parrocchie. La lotta per emergere in una politica dove gli uomini imperavano. Il puntiglio nel lavoro alla Camera o al Senato che le costringeva a trascurare la cura del corpo e l’eleganza. Alle signore del Parlamento non importava di sembrare la serva di Pilato: erano lì per rendersi utili al paese e agli elettori, non per farsi riprendere dai fotoreporter.

Anche le case dei politici di rango non differivano molto da quelle degli italiani di reddito medio. Al Nord odoravano spesso di minestrone, al Sud di spaghetti aglio, olio e peperoncino. M’imbattevo quasi sempre in alloggi vecchio stile. Dove non erano passati architetti, arredatori, antiquari. In più si trattava di case comprate con soldi onesti o con il mutuo. Allora non esistevano i grandi costruttori pronti a regalare nove o dieci vani al ministro birbone o al politico influente.

Pure le vacanze erano all’insegna della sobrietà. De Gasperi ritornava nel suo Trentino. Amintore Fanfani era aspettato nel borgo natio, a Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. Carlo Donat Cattin villeggiava a Finale Ligure dov’era venuto al mondo: la casa era di una semplicità austera, non si vedeva neanche il mare. Francesco De Martino affittava una villetta a Capo Miseno, davanti a Procida, e andava a far la spesa in bicicletta. Lo stesso faceva Pietro Nenni a Formia, senza scorta, in canottiera e su una bici da donna, con la moglie Carmen.

Ma allora è vero quanto pensano in molti: che andava meglio quando si stava peggio? Credo di sì. E m’incavolo.

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