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« Risposta #15 inserito:: Giugno 02, 2009, 04:35:35 pm » |
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IPNOSI DEI LISTINI, PAURE CHE RESTANO
Le illusioni del dopo crisi Le notizie di Borsa non attirano più solo speculatori, operatori professionisti, risparmiatori di redditi maggiori o minori attenti alle pagine finanziarie dei giornali, ma in larga misura le masse degli spettatori televisivi. Anche se forse Rai e Mediaset non hanno avvertito il fenomeno a sufficienza, quelle poche cifre offerte dai telegiornali ormai sembrano familiari anche fra la gente comune. L’ipnosi dei listini si propaga da tempo fra chi teme di trovarsi coinvolto nella crisi finanziaria e nella correlata recessione dell’economia, sotto l’incubo dei fallimenti e dissesti aziendali.
Nei primi mesi di quest’anno, già il ricorso alla Cassa integrazione ha raggiunto cifre di massimo rilievo. Questa crisi, come le cronache ripetono, è senza precedenti da decenni. E anche se ora l’oscillazione del mercato finanziario è molto ridotta, l’inquietudine collettiva persiste con l’aumento della disoccupazione. Si prolunga l’attesa di qualche attendibile rassicurazione, dai governi o dai più accreditati studiosi dell’economia come «triste scienza». Ma insieme con le risposte compiacenti per evitare il panico, persistono quelle inclini a un rude o malcelato pessimismo. Quando avrà fine la crisi economica originata nel money game di Wall Street, con l’alternanza fra ribassi e rialzi seguiti da patologici azzardi? Alcune voci rispondono che «il peggio è passato», altre che «deve ancora venire». Anzi, ritorna in qualche caso il catastrofismo dei paragoni con la depressione dopo il «grande crollo» del 1929. L’ipotesi d’una replica di quella sciagura, tuttavia, sembra ignorare i ben più tragici fenomeni e dati d’allora, tramandati da Galbraith e altri storici dell’economia.
Oggi, sia pure fra i peggiori pronostici, è improbabile il ripetersi di quella depressione grazie all’esperienza nell’uso dei capitali pubblici come stabilizzatori della domanda aggregata, sebbene già le spese di ogni Stato siano sovraccariche. In particolare, il Fondo Monetario prevede per l’Italia che nel 2010 il debito pubblico raggiungerà il 121 per cento del prodotto interno lordo con un aumento di 15 punti rispetto al 2008, circostanza che impone riforme urgenti e adeguate. Secondo l’interrogativo che ricorre ogni giorno, l’avventurismo della «finanza spettacolo» è davvero superato? Ha già dominato a lungo la scena internazionale. All’inevitabile caduta di eccessive quotazioni seguivano, e seguiranno forse ancora, inesorabili e temerarie speculazioni.
A volte il mercato concede qualche momentanea illusione. Succede infatti che un titolo sopraquotato e necessariamente in caduta sia l’indomani protagonista del fenomeno c h i a m a t o dead-cat-bounce, il cosiddetto «rimbalzo del gatto morto» illustrato in breve dal New York Times: «Anche un gatto morto precipitato da un tetto rimbalza, ma è sempre un gatto morto». Pure le ripetute illusioni e delusioni, con simili episodi, hanno contribuito a diffondere lo smarrimento manifesto nelle nevrosi o ansie collettive. Gli oracoli tecnici avanzano generici consigli o solo ipotesi, deprecazioni e scongiuri. Contro «l’evanescenza dell’alta finanza», qualche sociologo raccomanda il ritorno alla «cultura produttiva di base» fuori dal money game. Possibile? Altri si limitano a supporre, o prevedere, che la vita economica e sociale non sarà più come prima di questa crisi. Probabile.
Alberto Ronchey
02 giugno 2009 da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 20, 2009, 07:03:02 pm » |
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LA PORTA APERTA DI GHEDDAFI
Guerra e pace con la Libia
Nella recente visita di Muhammar al-Gheddafi a Roma, fra teatralità e requisitorie antioccidentali nel suo consueto linguaggio bombastic, torbide contestazioni oltre a un incidente diplomatico, s’è discusso di tutto. Colonialismo e africanismo, imperialismo e terrorismo, crisi economica e congiuntura energetica. Ora, in particolare, è da considerare a che punto sono le relazioni tra Italia e Libia.
Il quotidiano Al-Jamahiriya, come veniva segnalato il 10 giugno da Tripoli, commentava: «Per quarant’anni e fino a poco tempo fa, sarebbe stato più probabile un viaggio di Gheddafi su Saturno che in Italia». Gheddafi è al potere, precisamente, da quarant’anni. Risale al 1969 il suo colpo di Stato che depose il re Idris. E subito cominciarono le sue recriminazioni contro il colonialismo italiano, fascista e prefascista, instaurato a Tripoli dopo la guerra italo-turca del 1911-12. Molte responsabilità della dominazione italiana oggi vengono riconosciute, senza dimenticare tuttavia che la Libia era stata una conquista ottomana dal 1551. Fu per la prima volta indipendente solo dal 1951, sotto la monarchia senussita.
Dal 1970, denunciando la repressione coloniale, Gheddafi decretava l’espulsione delle comunità italiane. Oltre a rivendicare sempre più spesso risarcimenti dal governo di Roma, già dal ’70 confiscava le proprietà mobiliari e immobiliari degli espulsi, non solo italiani. Seguirono prolungate ostilità fino a tempi recenti, o persino azzardi come i missili che sfiorarono Lampedusa.
Tutte le potenze già coloniali, ricorda l’ambasciatore Biancheri, hanno conosciuto simili difficoltà, ma poche hanno avuto problemi così complessi come quelli che noi abbiamo incontrato nei rapporti con la Libia di Gheddafi da tempo indipendente. Una pausa nelle ostilità fu quella temporanea partecipazione azionaria in Fiat, che venne turbata però dalle pretese di controllo sulla Stampa di Torino.
Ora, i rapporti fra Tripoli e Roma progrediscono, avviati su basi all’apparenza ragionevoli. Nell’agosto del 2008, veniva firmato a Bengasi un «patto d’amicizia ». Quell’intesa prevedeva tra l’altro un risarcimento in dollari di 5 miliardi alla Libia per le colpe del colonialismo. A sua volta, Gheddafi sollecita oggi più investimenti, promette alle imprese italiane una «zona franca» e sgravi o esenzioni fiscali per cinque anni. Oltre i rapporti già in atto, come quelli con l’Eni, l’Enel, Telecom, Finmeccanica, vengono invitate per lo sviluppo industriale o le opere infrastrutturali numerose aziende: «La porta della Libia per tutti voi è aperta». E aggiunge che all’Italia sarà concessa, in ogni caso, la priorità nelle forniture di petrolio e gas. Impegni tutti affidabili, al riparo da umori variabili? Si vedrà.
Non sono in questione, poi, soltanto gli affari economici. Rimane da verificare l’efficacia della sorveglianza nelle acque territoriali e sulle coste libiche, secondo reiterati accordi, per arginare il traffico dei migranti clandestini dall’Africa verso l’Italia, dove i residenti legali e illegali hanno superato i 60 milioni dinanzi ai 6 milioni di abitanti della Libia. Se ne discuterà forse ancora e presto, insieme con tanti altri problemi, quando Gheddafi tornerà in Italia per il G8 come presidente di turno dell’Unione Africana.
Alberto Ronchey 20 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 19, 2009, 11:30:13 am » |
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TORNA LA CREMLINOLOGIA
Il doppio volto del potere russo
A Mosca, ora il potere presenta spesso un’immagine bifronte. Vladìmir Putin, capo del governo e già presidente, sembra manifestare concezioni diverse da quelle del neopresidente Dmitrij Medvèdev. Qualche osservatore scorge dissensi effettivi, altri suppongono un gioco delle parti. Ritorna la cremlinologia? Putin esprime l’agguerrito e a volte arrogante nazionalismo «granderusso» verso le nazioni già prigioniere dell’impero e le forze occidentali che le tutelano, in particolare gli Stati Uniti. All’interno della società che governa, tende a perpetuare la tradizione del vozhd autoritario. Medvèdev sembra incline a una diplomazia internazionale duttile, fino alla tanto discussa ipotesi d’un reset nei rapporti tra Washington e Mosca. Nella politica interna, sembra più tollerante verso i gruppi d’opposizione, ha concesso un’intervista persino alla dissidente Novaja Gazeta. E ora manifesta il massimo sdegno dinanzi all’assassinio in Cecenia di Natalja Estemirova, l’erede di Anna Politkovskaja nella difesa dei diritti umani e nell’opposizione agli abusi del potere: «Massimo castigo per i responsabili».
Solo variabili ruoli? Ciort snaet, lo sa il diavolo. Rimane insuperata la difficoltà di comprendere le complessità della Russia, europea e asiatica, ortodossa e cirillica, sovietica e postsovietica, insieme con tutte le sue contraddizioni. In simili circostanze, viene anche rievocato lo storico «enigma» del secolo passato. L’Urss, già impero zarista, fu dominata per lungo tempo da Stalin, il despota nativo della Georgia, e poi da Krushev, nativo dell’Ucraina, due nazioni subalterne a Mosca nell’ambito dell’impero e solo dal 1991 indipendenti, oggi ostili anche a ogni residua influenza politica russa. Per assurdo nel 1989-91 doveva toccare in sorte a Gorbaciòv, russo di Stavropol, l’onere di subire la dissoluzione dell’Urss. E la serie delle contraddizioni doveva continuare.
A proposito della recente cronaca russa, un tema che suggerisce innumerevoli studi e interrogativi è la serie di mutazioni del sistema economico. Prima il soffocante capitalismo di Stato, poi la parziale privatizzazione che anche oltre l’epoca travagliata di Eltsin malgrado il freno dispotico esercitato da Putin ha tollerato i molti «oligarchi » al controllo di colossali fortune, spesso dediti a fastose esibizioni di opulenza fra tanta residua penuria nella vita nazionale. Alcuni, fra i neocapitalisti, hanno subito processi e carceri, ma si dichiarano perseguitati solo perché apparivano potenziali e pericolosi oppositori di Putin. Da qualche anno, altra particolarità, la Russia viene definita superpotenza energetica, ma non senza dubbi e incognite gravi. Nel sottosuolo bicontinentale dispone d’un oceano di petrolio, ma è diffusa la previsione che senza un’aggiornata tecnologia quelle immense riserve non possano risultare sufficienti rispetto alle ambizioni del supernazionalismo putiniano. Qual è l’effettivo potere dell’impero energetico?
Da ultimo, rimane l’incognita dei rapporti con la Cina in pieno boom. La Russia fornisce alla superpopolata e crescente superpotenza cinese vitali risorse di petrolio, 15 miliardi o più di metri cubi l’anno. Ma lungo le frontiere asiatiche orientali è infiltrabile dall’immigrazione clandestina del «popolo gigante », che tende a tracimare oltre l’Ussuri e l’Amur. I russi già devono e dovranno ancora guardarsi dalla rischiosa prospettiva, anche se a Mosca non se ne discute in sede pubblica
Alberto Ronchey 18 luglio 2009
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« Risposta #18 inserito:: Agosto 08, 2009, 06:52:26 pm » |
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DIVARIO CON IL NORD, ASSENZA DELLO STATO
Se investire al sud è troppo rischioso
Dopo la controversia recente sull’ipotesi d’un partito del Sud, ancora s’è riproposta la tradizionale polemica meridionalista. Il divario economico tra Nord e Sud, infatti, è persistente, malgrado l’entità delle sovvenzioni statali per infrastrutture, lavori di bonifica e d’irrigazione, opere stradali e insediamenti industriali dalla metà del ’900 in poi. La questione meridionale risale al borbonico «regno senza strade», dal Garigliano fino alla Sicilia. Fu a lungo discussa da eminenti e competenti studiosi come Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Napoleone Colajanni, Guido Dorso, Manlio Rossi Doria. Poi venne affrontata con la Cassa del Mezzogiorno e con disparate iniziative speciali al di sotto d’una linea di confine che intersecava la Pontina, l’Appia, la Casilina, l’Autostrada del Sole. In verticale, il pubblico intervento si estendeva in tutto il Sud fino a Taranto, la costa calabra, Gela. Perché, ancora oggi, la questione del divario economico tra Nord e Sud è pressoché immutata? Si può rispondere con diversi argomenti, secondo un ordine di priorità variabile.
Primo impedimento. Nessun impegno di capitale pubblico può risultare abbastanza efficace quando è scarsa la mentalità imprenditoriale, fra l’altro vincolata o compromessa dai costumi del clientelismo e dalla tendenza baronale a investire il plusvalore agricolo sulle piazze di Londra o Parigi. Secondo impedimento, come avvertiva Giustino Fortunato, era la «fatalità geografica meridionale». Ossia, non soltanto l’aggrovigliata o irregolare idrografia, ma un territorio di aree montuose disboscate da secoli e colline a costituzione geologica fragile con una percentuale di pianure pari solo al 18,3 contro il 34,9 del Nord, come precisava Manlio Rossi Doria. Terzo impedimento è la storica e ancora crescente propagazione di mafie o camorre. Forse la criminalità organizzata è oggi l’ostacolo maggiore allo sviluppo del Mezzogiorno, a volte in commistione con le oligarchie politiche per interessi elettorali o affaristici, anche se in alcuni casi per l’illusione di poter ammansire i fuorilegge.
Dietro l’accolita delle «cosche» o «famiglie» con le loro «cupole» prevale un codice parapolitico tramandato da tempi lontani, che trasferisce l’antica, spietata «et espedita » ragion di Stato fuori dallo Stato. È un tragico circolo vizioso che la legge non riesce a interrompere, mentre in Sicilia chiunque anche senza saperlo può incorrere nel contatto indiretto con la mafia rischiando l’accusa di «concorso esterno». Potrebbe o saprebbe tentare l’impresa risanatrice un immaginario e virtuoso partito del Sud? Per ora, le condizioni meridionali non lasciano sperare in un simile prodigio.
Da metà del ’900 in poi, mafie o camorre con la loro manovalanza si diffondevano a causa della disoccupazione imputabile al mancato sviluppo industriale, oltreché a causa della crescente popolazione. Ora tuttavia l’investimento di capitali anche stranieri nel Mezzogiorno italiano è ostacolato dalla criminalità che minaccia, ricatta, taglieggia l’imprenditoria minore o maggiore. Un imprenditore o un manager, come ripete chi preferisce investire nell’Andalusia o altrove, può rischiare il denaro, ma non la vita per un appalto.
Alberto Ronchey 07 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #19 inserito:: Agosto 29, 2009, 11:18:34 am » |
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OBAMA E LA CADUTA DEL CONSENSO
La dura realtà di una presidenza
E allora, davvero Yes we can ? L’elezione alla Casa Bianca di Barack Hussein Obama fu accolta con favorevoli aspettative, ma insieme con diffuse apprensioni. La presidenza degli Stati Uniti, per la prima volta, toccava in sorte a un afroamericano tra vicende senza precedenti paragonabili nella storia della macrosocietà multietnica, da tempo anche superpotenza definita «gendarme internazionale». Obama appariva non meno abile che duttile, ma destinato a prove impervie, ora oggetto di riflessione durante la vacanza di Martha’s Vineyard. Nell’agenda presidenziale, da gennaio il primo compito è stato fronteggiare la crisi drammatica del sistema finanziario e la correlata recessione. Si discute ancora sull’entità dei fondi che il bilancio federale ha investito già, o dovrebbe investire, per il riassetto dell’economia e contro la disoccupazione di massa, considerando anche i costi della controversa riforma sanitaria. Suscitano qualche inquietudine i dichiarati malumori del gruppo Bric — Brasile, Russia, India, Cina — contro il dollaro come valuta di riserva mondiale. Fra numerose incognite, restano le mutevoli quotazioni del petrolio, mentre il tentativo di conciliare l’economia e l’ecologia sfida complicazioni gravose. Potrà Obama superare la crisi, o sarà la crisi a sopraffare Obama?
Sulla scena politica internazionale, un’estate di sangue ha preceduto nell’Afghanistan dei talebani e di Al Qaeda l’elezione presidenziale, mentre comporta non pochi rischi l’annunciato ritiro delle truppe americane dalle città irachene, benché graduale. Nell’Estremo Oriente, continua il paranoico ricatto nucleare di Pyongyang. Nel Medio Oriente, persiste il non meno paranoico nazionalismo nucleare degli ayatollah fra le turbolenze dell’Iran panislamista, mentre la guerra tra israeliani e arabi palestinesi rimane cronicizzata. La diplomazia di Obama vorrebbe almeno attenuare le vertenze con la Russia, sperando in una realistica semistabilità internazionale: impresa complessa, malgrado il patto firmato da Medvedev e Obama per la riduzione dei loro arsenali atomici nei prossimi sette anni o più. Non è ancora valutabile, intanto, la prospettiva del G2 Usa-Cina.
All’interno della macrosocietà, Obama deve salvaguardare la coesione o convivenza multietnica e multireligiosa fra 305 milioni di cittadini censiti, «bianchi» o afroamericani, ispanici, asiatici, amerindi, mentre variano le stime sulle masse d’immigrati clandestini. All’origine degli Stati Uniti, come si ricorda spesso, i governati erano appena 4 milioni, primaria comunità senza il minimo possibile paragone con la società imponente, complessa e tumultuosa nelle megalopoli dei nostri giorni.
Obama, talento pragmatico e versatile, si professa ispirato nel suo fresco americanismo dalla storica figura di Thomas Jefferson, non solo redattore della Dichiarazione d’Indipendenza, ma dotato di straordinarie versatilità persino extrapolitiche. Fra l’altro: «Sapeva calcolare un’eclisse, misurare un campo, progettare un edificio, domare un cavallo, suonare il violino, danzare il minuetto». Ma di fronte alle sfide innumerevoli del nostro tempo, sarebbe necessario manifestare ben altre versatilità, su misura delle crisi e conflittualità su scala globale. Per ora, l’ultimo sondaggio Gallup sulla popolarità del neostatista segnala un modesto 50 per cento. E poi? Tutto può ancora accadere.
Alberto Ronchey 29 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:05:11 am » |
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LA SFIDA ELETTORALE IN GERMANIA
Stile e grinta di un cancelliere
Nel settembre 1989 avevano inizio lungo il confine tra le due Germanie quei moti dei tedeschi orientali soggetti all’Urss che il 9 novembre dovevano provocare la caduta del Muro di Berlino e più inoltre indurre alla riunificazione. Ora il grande Konzern federativo celebra il ventennale da quegli eventi con una contesa elettorale turbata non poco dall’avversa congiuntura economica, sebbene qualche osservatore l’abbia definita undramatic rispetto alla gravità della crisi globale.
Sul dopo voto, lo scenario presenta varie ipotesi di coalizione governativa. Primeggiano due antagonisti, Angela Dorothea Merkel per i democristiani (Cdu-Csu) aspirante a conservare il Cancellierato e Frank-Walter Steinmeier, finora ministro degli Esteri ma candidato alla successione sia pure nell’ambito d’una replica della Grosse Koalition tra i due maggiori partiti. Seguono, fra i partiti minori, Westerwelle per i liberali (Fdp) e Lafontaine per l’ultrasinistra (Linke).
Pacata e tenace, Frau Merkel ha dimostrato notevoli capacità di governo. Cresciuta in Germania orientale sotto il pieno dominio dell’Urss, nel 1989 e dopo ha dovuto affrontare lunghe traversie. Sebbene all’inizio priva d’esperienza nei processi politici della Repubblica federale, ha saputo emergere per gradi fino al governo degli 82 milioni di tedeschi riunificati. Ha raggiunto il Cancellierato nel 2005, dopo insigni statisti come Adenauer, Erhard, Brandt, Kohl. Ma da un anno ha dovuto fronteggiare il collasso internazionale del sistema finanziario e la conseguente recessione dell’economia nazionale, compito specialmente gravoso per la Bundesrepublik, dopo il travagliato superamento della «doppia vita» germanica dal profondo divario tra due sistemi economici e sociali.
Durante la campagna elettorale, sul tema della crisi economica gli oppositori hanno accusato il governo di non aver voluto affrontare alcuni rilevanti problemi per evitare scelte sgradite agli elettori prima del voto, 27 settembre. Ma l’entità della disoccupazione, sul momento, è minore del previsto. Alcuni economisti, come Christian Dreger, prevedono che la Germania per prima in Europa uscirà dalla crisi.
Un altro tema della campagna è stato il diffuso malumore contro la partecipazione alla guerra d’Afghanistan. In larga misura, l’opinione chiede il ritiro da quel conflitto, malgrado l’obiezione che non si può abbandonare il campo al terrorismo di Al Qaeda. Il governo accenna, piuttosto, a un «ripensamento della missione». Affiora una Germania pacifista, fino all’eventuale rifiuto d’ogni responsabilità in politica estera? Non proprio. Appare discorde o incerta, come diverse nazioni occidentali, segnata inoltre dalle guerre dell’altro secolo.
Si ricorda che nel 2002 Gerhard Schröder vinse le elezioni contestando l’interventismo di George W. Bush in Iraq, ma quella guerra non fu giustificata neanche dall’Onu. Rimane vero, tuttavia, che dal 1945 la nazione tedesca non è più la genia bellicosa d’Europa, dopo l’«anno zero» di Adenauer e la riunificazione del «placido Kohl». Come avvertiva già Madame de Staël nel suo De l’Allemagne — si legge anche nei manuali scolastici di storia — i così detti caratteri nazionali cambiano attraverso i secoli e le generazioni.
Alberto Ronchey
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 28, 2009, 08:16:00 am » |
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SOCIALDEMOCRAZIA, RAGIONI DI UNA CRISI
Il fattore nostalgia
Mentre Frau Merkel definisce i nuovi programmi di governo con i liberali di Westerwelle, a pochi giorni dall’anniversario dei vent’anni dalla caduta del Muro, l’opposizione discute le ardue prospettive della sinistra in Germania. Se anche altre socialdemocrazie arretrano in Europa, il caso dei tedeschi presenta qualche aspetto in più. Per ora, il tema più controverso è il complesso di cause della sconfitta subita il 27 settembre.
Il collasso elettorale della Spd era prevedibile, almeno in qualche misura, dopo l’esperienza travagliata di Franz-Walter Steinmeier nel governo della Grosse Koalition con la Cdu-Csu, anche a causa della crisi finanziaria e del vincolo imposto alla spesa pubblica nella politica sociale della Bundesrepublik, che per altro ha tormentato anche le trattative per il nuovo governo. Fra le conseguenze, non solo gli osservatori segnalano un diffuso astensionismo a danno della socialdemocrazia, ma una considerevole perdita di voti a favore dell’estrema sinistra. Maggiore del previsto è stata l’entità dei consensi raccolti dal massimalismo di Oskar Lafontaine e del postcomunista Gregor Gysi, associati alla Linke. Fra i loro elettori e militanti, come notano cronisti e analisti, è affiorato ancora il fenomeno della Ostalgie , o nostalgia della Germania orientale dai tempi di Ulbricht a quelli di Honecker e al crollo del Muro. È un fenomeno particolare, variamente interpretabile.
Nostalgia di che? L’unificazione tedesca, di fatto l’annessione della Ddr alla Bundesrepublik per opera di Helmut Kohl, venne definita «un’Opa interstatale ». Per la prima volta, nella storia, uno Stato ne rilevava un altro come si rileva un’industria dissestata. Certo, non s’ignora che un regime durato mezzo secolo, benché imposto da un dispotismo straniero, può lasciare come seguaci gli orfani o pretesi eredi politici dell’oligarchia già sovrana. Ma quanto a lungo, dopo vent’anni?
Qualcuno rimpiange i severi costumi e l’austerità della Ddr, i miti e le immaginarie virtù della sua ideologia. Anche la povertà, malgrado l’assistenzialismo di regime? Anche la pervasiva tirannia poliziesca? Fra l’altro Berlino d’oltre muro, per chi l’abbia conosciuta prima dell’89, non rivelava minimamente il carattere d’una orgogliosa Sparta socializzata.
Oltre il Checkpoint Charlie, appariva una zelante riproduzione della scenografia tardostaliniana dominante in Russia. Sulla Karl Marx-Allee, già Stalinallee, teatro della rivolta operaia nel ’53, sembrava di ritrovarsi a Mosca, Leninskij Prospekt. In ogni quartiere, conformi fino all’inverosimile apparivano i palazzi con la pietra rossa dei basamenti, con i monumentali colonnati «neoclassico-proletari » e le celebrative composizioni statuarie. Gli stessi soldati russi nella loro libera uscita, papiroski fra i denti, apparivano sconcertati e imbarazzati dal falso scenario. Troppo assurdo, troppa enfasi tutta sovietica. Secondo Erich Kuby, era «un olimpo d’idoli d’argilla». Prima o poi la finzione sarebbe inevitabilmente crollata. Ma ora, fra i cultori della Ostalgie, gli anziani sembrano immemori. E forse di quella storia non sanno abbastanza i più inquieti esponenti delle ultime generazioni, concentrati sulle urgenti questioni del nostro tempo.
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:11:58 am » |
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LA GUERRA AFGHANA E LA STRATEGIA USA
L'inferno del presidente
Potrà mai reggersi con forze proprie il governo di Kabul, con quale Jirga o sistema legislativo? Alle recenti elezioni ha partecipato una frazione minima di votanti, mentre in larga maggioranza l’elettorato ha subito la virulenta pressione astensionista dei talebani. E dopo gli scrutini contestati a causa delle troppe frodi, è mancato un secondo ricorso alle urne. Ora sulla torbida politica di Kabul, intorno al controverso presidente Hamid Karzai, rimane incombente la prospettiva d’una vulnerabilità favorevole all’offensiva dei talebani tagliagola e delle autobomba di Al Qaeda.
Non bastano a fronteggiare la diffusa guerriglia le truppe degli Stati Uniti e degli alleati sul campo, mentre il potere aereo non riesce a evitare sciagurati errori come nel caso di Kunduz. Il generale McChrystal chiede ingenti rinforzi, malgrado la «stanchezza della guerra» manifesta nell’opinione pubblica. Forse un più esteso presidio sul territorio potrebbe reggere, ma durare fino a quando? Per ora, nell’Afghanistan, regge la guerriglia.
Eppure, sono trascorsi otto anni da quando gli Stati Uniti occuparono l’Afghanistan dei talebani e di Osama bin Laden, il 7 ottobre 2001, dovendo reagire al terrorismo islamista dopo le stragi dell’11 settembre a New York e Washington. Quell’intervento, legittimato dall’Onu e assecondato da una coalizione internazionale, poté presto eliminare il governo che aveva concesso a Osama le basi strategiche per Al Qaeda. Ma caduto il regime dei talebani e conclusa la guerra, seguì la guerriglia non domata finora. Com’è potuto succedere?
Una risposta è che dal 20 marzo 2003 gli Stati Uniti cominciarono a disperdere le loro forze, armi e truppe, nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. A quell’impresa, condotta per volontà di George W. Bush senza legittimazione dell’Onu e sufficienti motivazioni, è seguito un costoso e lungo dopoguerra guerreggiato, parallelo a quello afghano. Sui due fronti, s’è propagato il ricorso agli stragisti suicidi. Secondo il rito che ancora genera «guerrieri di Allah» dediti all’estremo sacrificio, spesso inarrestabili perché imprevedibili.
Un’altra risposta esplicativa sulle condizioni di tutta quell’area deriva dalla difficoltà di convertire istituzioni e popolazioni ai principi e alle pratiche delle democrazie occidentali, ancorché a volte non esemplari. Di fatto, appare pressoché impossibile conciliare il pluralismo politico moderno e l’arcaico tribalismo. L’Afghanistan presenta non solo un’antropologia multietnica, divisa tra comunità di pashtun, tagiki, uzbeki, hazara, kirghizi o beluci. Anche all’interno d’ogni etnia competono, e confliggono, tribù agguerrite. Lo spazio dei partiti politici è occupato dalle tribù, concorrenti fra l’altro nelle coltivazioni degli oppiacei come nei traffici di droga, e dalle loro invasate rivalità di potere.
La questione afghana, dunque, presenta due aspetti. Un controllo militare diretto benché limitato su quei territori, mentre non basta il potere aereo, sarà necessario per impedire al terrorismo di Al Qaeda il recupero di basi strategiche decisive, anzitutto nelle aree tribali esplosive sui confini del Pakistan. D’altra parte, (e Obama, che non è andato alle celebrazioni del Muro ma parte oggi per il suo viaggio in Oriente, ne sembra convinto) rimane illusoria e vana la politica di chi vorrebbe convertire l’Afghanistan, malgrado quelle condizioni sociali o radicate tradizioni, a costumi e istituzioni occidentali.
Alberto Ronchey
11 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Febbraio 03, 2010, 09:19:35 am » |
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I SEGNALI (DA COGLIERE) DI MEDVÈDEV
Trattando con il cremlino
In Russia, mentre la piazza malgrado le repressioni appare spesso agitata, il presidente Medvèdev continua da qualche tempo a manifestare concezioni diverse o distinguibili da quelle di Putin, oggi capo del governo dopo aver esercitato per un decennio i poteri presidenziali. Non è da escludere l’ipotesi d’una mera distinzione di ruoli e immagini, ma si ripetono episodi non solo riconducibili a un calcolato gioco delle parti. Trattando con Mosca, sarà opportuno tenerne conto.
Nel messaggio alla nazione russa, letto dinanzi alla Duma, Dmìtrij Medvèdev ha denunciato la persistente arretratezza economica: «La Russia esporta pressoché solo materie prime, all’ 86 per cento gas e petrolio, mentre importa prodotti finiti all’80 per cento». E sull’arretratezza politica: «Invece che una società nella quale alcuni pensano e decidono per tutti, dovremmo diventare una società di persone responsabili ». Polemica palese con chi? Pochi giorni dopo, al congresso del partito maggiore, aggiungeva una serrata critica del sistema elettorale. Quando Putin ha dichiarato che nel 2012 potrebbe ricandidarsi alla presidenza, Medvèdev il 3 dicembre ha replicato: «Anch’io ».
Affiora qualche sgranatura, più o meno appariscente, anche in politica estera. Medvèdev s’è pronunciato in termini quanto mai severi sulla questione del nucleare iraniano. Poiché Teheran respinge finora le proposte d’intesa o compromesso che interessano e coinvolgono anche la Russia, non ha esitato a esprimersi come Barack Obama: «Il tempo sta scadendo ». È un preavviso di sanzioni drastiche, senza più riserve del Cremlino?
Putin preferisce insistere sulle controversie che imputano agli Stati Uniti una sottovalutazione irrispettosa della Russia, dopo la sventurata dissoluzione dell’Urss come superpotenza sottosviluppata. Forse, nelle sfide contro George W. Bush per le sue iniziative geopolitiche o geostrategiche reputate sprezzanti della dignità «granderussa », non aveva sempre torto. E oggi, sebbene Barack Obama si presenti più cauto di Bush, anche Medvèdev chiede rispetto per la Russia, estesa pur sempre su due continenti, potenza energetica e spaziale dopo una storia complessa di relazioni politiche internazionali.
La diarchia, d’altra parte, sembra condividere qualche apprensione sull’incognita dei prossimi rapporti con la Cina in pieno boom. Per favorire i buoni rapporti, Mosca offre a Pechino ingenti forniture di petrolio e gas a prezzi scontati. Tuttavia, rimane inquietante la tendenza delle masse cinesi a travalicare la frontiera orientale dell’Asia russa. Non saranno più ripetibili vertenze territoriali e incidenti come la battaglia dell’Ussuri nel ’69, ma oggi si temono, invece, «annessioni pacifiche » della pressione migratoria clandestina oltreché legale da Vladivostok in su.
Con l’Ue, sia pure turbata spesso da vertenze tra la Nato e la Russia come quella per l’influenza sull’Ucraina, i rapporti politici tendono alla collaborazione migliore, mentre gli affari procedono con elevati valori di scambio. Medvèdev, nella sua missione a Roma con un largo seguito di ministri, ha potuto concludere una ventina di notevoli accordi economici. Ma per tutti gli europei, proprio tutti, rimane il rischio della dipendenza energetica dai giacimenti nel Caspio, sotto parziale controllo russo, e dalla Siberia.
Alberto Ronchey
03 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Marzo 08, 2010, 07:03:58 pm » |
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L' editorialista della stampa era nato nel 1926
È morto Alberto Ronchey
Ricoprì anche la carica di ministro per i Beni culturali e ambientali nei governi Amato e Ciampi
MILANO - Precisione e inventiva erano le due armi principali di Alberto Ronchey, maestro di giornalismo scomparso all’età di 83 anni. Precisione nell’analisi dei dati statistici, nei riferimenti storici, nella grafia dei vocaboli stranieri. Inventiva nel coniare neologismi di grande efficacia, entrati subito nell’uso comune.
I SUOI NEOLOGISMI - A lui si deve il termine “lottizzazione”, adottato per definire l’abitudine dei partiti di spartirsi le nomine negli enti pubblici, in primo luogo alla Rai. A lui si deve la formula “fattore K”, con la quale indicava nella presenza del Partito comunista più forte dell’Occidente l’handicap che impediva alla sinistra italiana di presentarsi unita come una credibile alternativa di governo al predominio democristiano. Tutte vicende da lui ricostruite nel libro “Il fattore R” del 2004, una vivace autobiografia in forma d’intervista con Pierluigi Battista. Nato a Roma il 27 settembre 1926, Ronchey era di lontana origine scozzese. E in effetti il suo spirito laico e illuminista ricordava da vicino la filosofia empirica di grandi pensatori della Scozia settecentesca, come Adam Smith e David Hume, mentre nutriva una forte diffidenza per le religioni rivelate e i sistemi ideologici, a cominciare dal marxismo. Aveva fatto il suo apprendistato giornalistico da ragazzo, lavorando durante l’occupazione tedesca all’edizione clandestina della “Voce Repubblicana”, che più tardi avrebbe diretto.
TRADIZIONE REPUBBLICANA - Proveniva dalla tradizione del repubblicanesimo storico, ma approvò lo sforzo modernizzatore compiuto nel Pri da Ugo La Malfa. Era poi passato al “Corriere d’Informazione” e quindi alla “Stampa” di Torino, dalla quale era stato inviato a Mosca nel 1959 per seguire il tentativo riformatore di Nikita Krusciov. Qui aveva maturato un giudizio estremamente severo sul sistema sovietico e fra i primi si era occupato degli esuli antifascisti italiani rimasti vittime del terrore staliniano. Poi aveva viaggiato a lungo anche negli Stati Uniti: molti suoi libri, da “La Russia del disgelo” (1963) a “L’ultima America” (1967), fino a “Usa-Urss: i giganti malati” (1981) sono dedicati alle superpotenze della guerra fredda. Con i suoi reportage dall’estero, che lo avevano portato da un estremo all’altro del mondo, si era conquistato il prestigio che gli fruttò la direzione della “Stampa”, dal 1968 al 1973.
EDITORIALISTA E MINISTRO - Poi era approdato al “Corriere della Sera”, come editorialista. E per lunghi anni era stato uno dei critici più esigenti della classe politica, come si può constatare nei suoi libri “Accadde in Italia” (1977), “Chi vincerà in Italia?” (1982), “Atlante italiano” (1997). Alla Dc rimproverava lassismo e non governo, al Pci i pregiudizi ideologici: non gli dispiacquero alcuni tratti del decisionismo di Bettino Craxi. Non era però un uomo che si limitasse a giudicare dall’esterno. Era disposto a mettersi in gioco, ad assumersi responsabilità anche gravose. Per questo accettò l’incarico di ministro dei Beni culturali nel primo governo Amato e nel governo Ciampi, dal 1992 al 1994. E in seguito fu presidente della Rcs, in un periodo non facile, tra il 1994 e il 1998. Al tempo stesso, sapeva mettere in discussione le sue stesse idee. Fu sempre ostile alle utopie egualitarie, ai populismi e ai pauperismi. Difese sempre l’Occidente e le conquiste della modernità industriale. Ma a lui si deve anche un breve saggio intitolato “I limiti del capitalismo” (1991), in cui certe difficoltà oggi evidenti a tutti, in materia di ambiente e di finanza globale, sono prefigurate con una lucidità davvero ammirevole.
Antonio Carioti
08 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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