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Autore Discussione: Giampaolo PANSA...  (Letto 39234 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 05, 2008, 04:32:31 pm »

Uomo forte cercasi

La litigiosità dei partiti non fa che aumentare il disprezzo degli elettori e li spinge a immaginare vie d'uscita pericolose

DI GIAMPAOLO PANSA


Può un ministro dirci qualcosa che colpisce?

E che non riguarda soltanto una questione del giorno dopo? Certamente sì.

Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, lo ha fatto in un'intervista al 'Corriere della sera', scritta da Sergio Rizzo.
Verso la fine di quel lungo colloquio, il ministro (d'ora in poi lo chiamerò con la sua sigla: Tps) ci ha messo in guardia contro un rischio 'pericolosissimo' che l'Italia sta correndo e senza rendersene conto.

Il rischio è di ripetere la tragica esperienza di Weimar.

È il nome di una città tedesca della Turingia dove venne varata la nuova Costituzione della Germania, dopo la fine della prima guerra mondiale. Nacque allora la cosiddetta repubblica di Weimar che, passando da un governo debole all'altro e da un caos a un caos successivo, spalancò la porta al regime nazista di Hitler.

Perché Tps ci rammenta Weimar? Perché, nel 1945, dopo la conclusione di una nuova guerra perduta, la Germania rifiutò l'esperienza dei governi deboli e scelse la strada dei governi forti. L'altro paese sconfitto, l'Italia, ha scelto invece la strada dei governi deboli, come stiamo constatando ancora oggi. Per di più, dice Tps, il nostro è un paese in preda a "impulsi autodistruttivi". La somma "governi deboli più impulsi suicidi" potrebbe condurci "verso il caos e la svolta autoritaria". Dunque, conclude Tps, "ora si potrebbe dire che siamo noi a correre il rischio di Weimar".

Le cose stanno davvero a questo punto? Pur essendo un ottimista istintivo, sono propenso a pensare di sì. Non ci troviamo ancora dentro il caos, ma siamo sulla strada per arrivarci. E poiché le situazioni di disordine nascono quasi sempre dalle disfunzioni della politica, se osservo quanto accade in Italia non mi sento per nulla rassicurato. Il sistema dei partiti è imballato e spappolato. E ogni giorno mette in mostra quell'ammasso di macerie che è diventato: un tritume di parrocchie politiche, ormai ingestibile da chiunque.

Voglio dirlo anche a me stesso, all'inizio del 2008: d'ora in poi bisogna rifiutare lo schema Prodi sì o Prodi no. Il Professore cerca di durare, come farebbe qualunque altro premier al suo posto. Ma neppure un Superman installato a Palazzo Chigi riuscirebbe a governare la crisi odierna. Tanto meno Silvio Berlusconi, una figura anche più logorata del Prof. Il Cavaliere sta sulla scena dalla fine del 1993 e in autunno saranno quindici anni: un tempo immenso per i ritmi della società odierna e della democrazie moderne.

Se poi andiamo a scoprire quel che c'è sotto questi due leader, lo spettacolo induce alla disperazione. Prodi è sostenuto da ben undici gruppi parlamentari, in maggioranza microscopici. Le aggregazioni stanno diventando impossibili, per l'egoismo e la faziosità di troppi capi e capetti. Lo prova il cammino difficile del Partito Democratico e della Cosa Rossa. Il centro-destra non sta meglio. Pure qui la frantumazione trionfa. Anche per questo, forse, Berlusconi ha deciso di correre da solo. Ma per vincere dovrà mangiarsi gli alleati, novello conte Ugolino. E neppure lui può sapere quale sarà l'esito del pasto in famiglia.

Entrambi i blocchi sono poi devastati da guerriglie interne ogni giorno più cattive. Mi lascia sempre stupefatto che i politici non si accorgano di quanto discredito gli procurino i litigi, le risse, gli sputi in faccia al vicino di banco. Se non sono capaci di essere generosi, tentino almeno di essere furbi. Ma questa è la stagione dei fessi. Basta sfogliare qualche giornale per avere sotto gli occhi un'assurda gabbia di matti. Veltroni ha più nemici dentro il PD che fuori. Appena Dini parla, gli sparano dalla stanza accanto. Berlusconi assalta Fini e viceversa. I forzisti odiano Casini che li ricambia.

Ma ogni scontro dentro una stessa parrocchia non fa che aumentare il disprezzo degli elettori. Li allontana. Li obbliga a disperare di questa democrazia capace soltanto di ferirsi, in preda agli impulsi suicidi che Tps ci rammenta. E infine li costringe a immaginare vie d'uscita altrettanto pericolose. Ecco, questo è il problema di oggi. Un rebus da affrontare con attenzione preoccupata.

Lo dico perché mi sta accadendo quel che non mi era mai accaduto. Ho cominciato a ricevere telefonate di amici che dicono tutti la stessa cosa: con questi partiti non possiamo più andare avanti, deve intervenire qualcuno diverso dai soliti politicanti, un uomo deciso, forte, capace di prendere in mano lo sfacelo della repubblica e di provare a metterci una pezza. Ho sentito di un sondaggio che quantifica il desiderio di un uomo forte: lo vorrebbe il sessanta per cento degli intervistati. È credibile? Non lo so. Comunque, il mio augurio ai politici italiani per l'anno che inizia recita così: meditate, gente, meditate!

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 11, 2008, 07:18:12 pm »

Ecoballe di sinistra

A Napoli anche la camorra diventa un alibi per l'impotenza della politica, un male peggiore della delinquenza 

DI GIAMPAOLO PANSA


Catastrofe e panico. Sono le sensazioni che provo quando vedo alla tivù il gigantesco immondezzaio di Napoli. Non le provo per il problema in sé. Questo verrà risolto in qualche modo. Prima o poi, la monnezza sarà raccolta e portata agli impianti dell'Italia del nord, dove la bruceranno con un buon guadagno. La catastrofe che sembra impossibile evitare è quella dei partiti di sinistra. A soffocarci sono le ecoballe rosse di una casta impotente e incapace. Per di più, ecoballe malmesse, dalla copertura lacera, che lasciano intravedere una spazzatura politica ripugnante. Qualcosa già si sapeva. Ma oggi lo spettacolo è completo. Ed è questo a destare il panico.

Qui devo fare un inciso personale. Ho sempre votato per la sinistra o per una delle tante sinistre. Ne ho scritto molto: qualche libro e migliaia di articoli. Posso dire di conoscere bene i miei polli. Come accade in tutte le parrocchie di partito, anche a sinistra ci sono politici da stimare. Ma è l'insieme a essere terrificante. Per anni e anni, la sinistra e il centro-sinistra ci hanno spiegato di essere il mago Zurlì. Nessuno meglio di loro sapeva amministrare i comuni, le province, le regioni, lo Stato. Nessuno poteva emulare le qualità che sfoggiavano: saggezza, efficienza, onestà e trasparenza. Ce lo ripetevano i dirigenti, i propagandisti e i giornali della congrega. Con una sicumera arrogante che non dovevi mai contraddire.

Poi, di crisi in crisi, nella Chiesa Rossa è comparsa qualche crepa. I custodi del tempio si sono divisi. E hanno cominciato a combattersi, pur restando insieme negli stessi governi, nelle regioni, nelle grandi città. I loro errori si sono moltiplicati. La lentezza esasperante nel decidere. L'eterno rinvio di problemi da risolvere subito. La faziosità imposta come razionalità. La superbia di ritenersi il meglio del meglio nel guidare il paese. Ma l'arroganza e la sicumera sono rimaste intatte.

Adesso tutto sta crollando nella Chiesa Rossa. Napoli è soltanto un avviso di quello che accadrà in Italia, se le sinistre non cambieranno pelle. Dava i brividi la faccia di Antonio Bassolino al 'Porta a porta' di lunedì 7 gennaio. Una maschera di pietra, stravolta, segnata dalla sconfitta. Anche il capo dei verdi, il ministro Alfonso Pecoraro Scanio, era tramortito, sotto il cerone di una vanità sprezzante. Due imputati davanti a una corte di giustizia. Poi la voce querula della Jervolino che strillava di aver avvertito il governo Prodi del terremoto in arrivo, senza ricevere risposta. E infine Enrico Letta che, da Palazzo Chigi, si diffondeva in impegni, subito smentiti da Bassolino, con cupezza sfiancata.

Sono gli stessi dirigenti della sinistra campana a metterci sotto gli occhi il loro fallimento. Vincenzo De Luca, il sindaco ulivista di Salerno ("una città pulita come la Svezia"), spiega che i Ds della regione, puntando su Bassolino, "hanno svenduto il futuro di due generazioni per le logiche di corrente". E sempre Bassolino ha finalmente sputato la verità sull'impotenza delle sinistre a fronteggiare la rabbia popolare da loro eccitata, difesa, esaltata.

Che sfilate e che cortei! Comitati civici, ultras dell'ambientalismo, sindaci schiavi dei loro elettori, vescovi che predicano contro i rifiuti, preti che dicono messa per chi presidia le discariche, disoccupati organizzati, capetti del centro-sinistra e del centro-destra uniti nella lotta. Mentre un tecnico di valore come Guido Bertolaso veniva cacciato, i soliti noti restavano al potere in Campania. E Pecoraro Scanio trovava il fegato per far eleggere senatore il fratello Marco.

In questo caos di ecoballe rosse, anche la camorra diventa un alibi per l'impotenza della politica, un male ben più pernicioso della delinquenza. In proposito ho un vecchio ricordo professionale. Fra il 1970 e il 1971, quando lavoravo per la 'Stampa' di Alberto Ronchey, rimasi sei mesi a Reggio Calabria per raccontare la rivolta della città che chiedeva di diventare la capitale della regione, al posto di Catanzaro. Anche allora si disse che la regia di quella lunga guerriglia era della 'ndrangheta. Ma non era vero. Tutto dipendeva dalla tracotanza di qualche boss politico e dall'inerzia del governo centrale che avevano aizzato migliaia di reggini.

A quel tempo, il governo era guidato dal democristiano Emilio Colombo. Oggi in prima linea c'è il governo di Romano Prodi. Il suo centro-sinistra già non sta bene di salute. Il Professore può cadere sepolto dai rifiuti di Napoli? Il centro-destra lo spera. Sbagliando, perché non ci guadagnerà niente. Tranne che il vuoto politico. Se andrà così, meglio emigrare in Svizzera. Nella Lugano bella saranno un po' razzisti, ma pazienza. E dell'uomo forte non hanno alcun bisogno. Perché forti lo sono tutti, quando è il momento di esserlo.

(11 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 25, 2008, 04:53:53 pm »

Gianpaolo Pansa

È arrivata la bufera


Sono incline ad assolvere Romano Prodi.

Chiunque al suo posto avrebbe fatto perggio di lui. Ma ora tocca a Veltroni tentare l'azzardo per uscire dal pantano dell'Unione  È stato sarcastico Clemente Mastella: "Veltroni vincerà le elezioni nel Duemilacinquecento dopo Cristo". Con tutti i guai che lo affliggono, il capo dell'Udeur ha trovato il tempo per farsi beffe del leader del Partito Democratico che ha deciso di andare da solo al prossimo confronto elettorale. Ma non è stato l'unico a bacchettare Superwalter. Un burbanzoso Massimo D'Alema gli ha dato dell'intempestivo. Rosy Bindi è risalita sul cavallo da sceriffa e si è messa in caccia di Walter il fuorilegge. Persino quel verdone di Paolo Cento non si è trattenuto: "Veltroni sta correndo verso una sconfitta solitaria".

Ma è davvero così sciocco e avventurista il segretario del PD? Con la decisione di puntare soltanto sul proprio partito, senza alleanze preventive, sta realizzando un'inconscia vocazione al suicidio? Penso proprio di no. Superwalter si è limitato a prendere atto di quello che è accaduto a Romano Prodi, prima e dopo le elezioni del 2006. E ha avuto la schiettezza di dire che il centro-sinistra non esiste più. Non soltanto quello di oggi, la sciagurata Unione, ma anche quello di domani, se costruito con le stesse regole pazze.

Su quali dati di fatto ha ragionato Veltroni? Immagino su quelli che i cronisti non cortigiani hanno visto nell'inferno vissuto da Prodi e dal suo sfiancato governo ormai alla fine. L'Unione, esempio tragico di iper-coalizione fra incompatibili, già prima del voto ha cominciato a sparare una raffica di no contro il proprio candidato premier. Il Prof voleva presentare una sua lista, distinta dagli altri partiti unionisti. Ma gliel'hanno impedito, nel timore di renderlo troppo forte.

Allora, Prodi ha chiesto di poter contare su un numero consistente di parlamentari suoi e glie ne hanno concessi soltanto cinque. Prodi ha domandato di presentare la lista dell'Ulivo non soltanto alla Camera, ma anche al Senato. E la risposta è stata sempre no. Il motivo? Nessuno l'ha mai capito. Poi si è constatato che la presenza dell'Ulivo a Palazzo Madama avrebbe reso meno anoressica la maggioranza in quel ramo del Parlamento.

Nel frattempo i dieci partiti del centro-sinistra si stavano dilaniando sul programma della coalizione. Nessuno ha voluto rinunciare a nulla. Con un risultato alla Fantozzi: un messale di quasi trecento pagine, un monumento cartaceo all'impotenza vorace della casta unionista. Subito riflessa nella composizione del governo: un mostro di centodue o centotre fra ministri, viceministri e sottosegretari. Con una serie di dicasteri spacchettati, una minutaglia senza compiti reali e priva di portafoglio. Inventati al momento, per soddisfare le voglie di qualche pennacchione o pennacchiona.

Infine, questa catena di errori è stata resa ferrea dall'errore più grande: la certezza arrogante di stravincere. Ce la ricordiamo la convinzione superba che l'epoca del cavalier Berlusconi fosse chiusa per sempre? Per l'intera campagna elettorale venne recitata la stessa litania: il Caimano è morto e sepolto, dopo il voto il Genio del Male dovrà fuggire da Arcore, per rifugiarsi all'estero. Un truppa giuliva di scrittori, polemisti, cineasti, comici, vignettisti si precipitò a dare l'assalto al cadavere del Berlusca.

Tutta la campagna per il voto di aprile ebbe lo stesso segno presuntuoso e incauto. Sotto le tende dell'Unione si vide troppo di tutto. La fretta di considerare l'Unipol un incidente passeggero. Le candidature dei parenti, piazzati in posizioni blindate e scaraventati in Parlamento. Gli sprechi dei tanti ras nelle regioni e nelle città rosse. L'alterigia nel dichiarare (lo fece D'Alema) che Berlusconi, mandato al tappeto per sempre, non avrebbe potuto guidare neppure l'opposizione.

La storia del dopo-voto, ossia la vita perigliosa del governo Prodi, è troppo nota per essere ripercorsa. Proprio mentre si apriva la crisi finale del sistema partitico, l'Unione ha consegnato al Prof un'automobile sfasciata in partenza, con pochissimo carburante (una maggioranza parlamentare troppo esigua) e un clima avvelenato dai contrasti feroci fra i passeggeri, i partiti unionisti. Sono stati loro i primi a tradire il patto con gli elettori. È ridicolo accusare di questo Mastella. Lui un fellone? Può darsi. Ma in coda a tutti gli altri.

E le colpe di Prodi? Confesso che sono incline ad assolverlo. Nelle condizioni che ho descritto, chiunque al suo posto avrebbe fatto assai peggio di lui. Possiamo imputargli di essere stato troppo cocciuto, una testa quadra reggiana. Ma per un premier queste sono qualità, non difetti. Nessuno può chiedergli di gettare la spugna prima del tempo, prima dei due voti di fiducia. Nel pretenderli è stato corretto. Tuttavia, suggerisco al Professore di non voler sopravvivere a se stesso. E gli rammento che, dall'aprile 2006 in poi, il famoso Fattore C, il suo portafortuna, troppe volte ha fatto cilecca.

Veltroni ha ricavato molte lezioni da quello che è accaduto a Prodi. E ha fatto una scelta saggia nel decidere che il PD andrà da solo al voto, qualunque sia la legge elettorale. Pochi hanno riflettuto su un dato importante: Veltroni aveva preso questa decisione ben prima di annunciarla. In proposito, ho un ricordo che risale al 19 novembre 2007. Ero andato a intervistarlo per 'L'espresso' e gli avevo chiesto se la 'vocazione maggioritaria' del PD non fosse un'utopia. Come mi suggeriva il bottino elettorale dell'Ulivo nel 2006: il 31,3 per cento dei voti, un dato buono, ma per niente maggioritario.

Sono andato a rileggermi la risposta di Veltroni alla mia obiezione: "Stia attento: i flussi elettorali sono molto più veloci e forti di quel che pensiamo. L'opinione pubblica ha una grande mobilità. Giudica l'offerta. Valuta il leader. L'elettorato di appartenenza va diminuendo. Quindi avere un grosso risultato elettorale è possibile. A condizione di essere quello che si è deciso di essere".

Come direbbe un politologo patentato? Gli elettori reagiscono all'offerta politica modificando le proprie convinzioni e, dunque, il proprio voto. È possibile che l'offerta di Superwalter (un partito nuovo che si muove da solo) abbia successo. Qualche segnale si sta avvertendo. Certo, è una scelta rischiosa. Ma inevitabile per un leader che voglia uscire dal pantano dell'Unione.

Davanti a Veltroni c'erano due strade. L'andare con lo schieramento di oggi, quello dei Dieci Partiti Rissosi, garantirebbe soltanto la sconfitta. L'andare da solo gli offre una speranza di vincere. Tra la certezza di perdere e la possibilità di farcela, per remota che sia, non esistono dubbi: meglio l'azzardo che la morte sicura. Non c'è leadership senza rischio. Del resto, ripetere lo sfascio dell'Unione sarebbe assurdo: meglio chiudere subito la bottega del PD.

Di qui alle prossime elezioni, vicine o lontane che siano, Veltroni dovrà scalare l'Everest con le scarpe da tennis. Avrà contro anche più di un'eccellenza democratica, come stiamo vedendo. In più, la crisi del sistema dei partiti è al culmine. Siamo nella giungla. Vicini a una guerra civile parolaia e smargiassa. Il discredito montante rende la casta sempre più aggressiva e spietata, come succede sempre quando un regime sta morendo.

La campagna elettorale sarà un salto nel caos. Chi ha visto alla tivù l'ultimo 'Ballarò' è rimasto atterrito dalla ferocia dello scontro fra Pecoraro Scanio, la Bindi e Casini. È arrivata la bufera, è arrivato il temporale: così cantava Renato Rascel, un famoso attore comico di tanti anni fa. Oggi accadrà di peggio. L'intolleranza armata, per ora soltanto di insulti, è diventata la condizione normale del dibattito politico.

Chi può fermare questa discesa nel caos ha un obbligo al quale non può sottrarsi. Un vecchio motto di Giulio Andreotti recitava: meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Ma oggi quel detto non vale più. Oggi non sono in gioco le cuoia di un premier. Oggi è in gioco la pelle di un'Italia sfortunata, che rischia di assomigliare ai suoi politici peggiori.

(24 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 02, 2008, 10:00:31 am »

Gianpaolo Pansa

Ma Silvio non è Benito


Spero che la sinistra non ripeta l'errore di gridare al ritorno dei fascisti. Ho fiducia nell'intelligenza politica di Walter Veltroni 

Negli ultimi mesi tribolati del governo Prodi, mi è capitato di ascoltare in ambienti diversi un grido d'allarme angosciato: "Il centro-sinistra non deve cadere, altrimenti ritornano i fascisti!". Chiedevo: "Quali fascisti?". Risposta: "I fascisti del centro-destra. Tutti, non soltanto quelli di Fini.
Il primo fascista è Berlusconi. Si prenderanno il potere e addio libertà in Italia!". Dopo la caduta di Romano Prodi, l'allarme si è fatto disperato: il fascismo no!, non può essere, non possiamo accettarlo, non è giusto, bisogna fermarli.

Devo mettere in tavola le mie carte?
Pazienza, lo faccio per l'ennesima volta. Non ho mai votato per Silvio Berlusconi. E non lo farò neppure domani. Quasi vent'anni fa, ho scritto uno dei primi libri su di lui e sulla sua politica di conquista. Era 'L'Intrigo', dedicato alla guerra di Segrate per la Mondadori e il Gruppo Espresso-Repubblica. In quell'epoca, qualcuno degli odierni nemici viscerali del Cavaliere lavorava per lui e lo spalleggiava, anche dentro 'Repubblica'.

Dunque penso di avere il curriculum in ordine per definire una fesseria il parallelo 'Silvio uguale a Benito'. Sostenerlo non conduce da nessuna parte.
E alla fine risulta di danno alle sinistre che hanno già ricominciato a urlarlo. È bene non scordarlo alla vigilia di una campagna elettorale che si rivelerà un corpo a corpo feroce. Nel 1994 la campagna contro il Cavaliere Nero ci portò alla sconfitta. Nel 1996 si vinse grazie al pragmatismo cattolico di Prodi. Nel 2001 una nuova batosta per il centro-sinistra, sempre al grido: 'All'armi, son fascisti!'. Idem per la mezza vittoria, o per la mezza sconfitta, dell'aprile 2006, tutta all'insegna della lotta al Caimano in camicia nera.

Non credo che il Partito Democratico voglia ripercorrere la stessa strada, foriera soltanto di disgrazie.
Ho fiducia nell'intelligenza politica e nel buonsenso di Walter Veltroni. E mi auguro che sappia guidare il suo elettorato in una battaglia molto difficile da vincere. Ma che va combattuta avendo ben chiari la forza e i limiti del Cavaliere.

Della sua forza dirò soltanto che Berlusconi è il leader che sembra fatto per l'Italia di oggi: un paese scoraggiato, disfatto, che ha in odio i partiti, ma pur sempre moderato, lontano dalle molte sinistre, e non soltanto nei ceti abbienti. In più, il Cavaliere non è un avventuriero, ma un politico di razza, come dimostra il fatto che sta sulla scena da quindici anni. Se fosse meno inchiodato agli interessi della sua azienda, avrebbe anche un successo più grande. Infine non è uno sciocco e conosce alla perfezione i limiti che s'intravvedono dietro le luci della ribalta.

Silvio sa di avere lo stesso problema che ha afflitto Prodi. Dovrà trascinare una coalizione immane: dieci partiti, con un carnevale di posizioni che vanno da Storace a Tabacci, passando per Dini. E anche nel caso di una vittoria netta al Senato, il suo governo avrà di fronte una montagna orrenda di problemi da aggredire subito. Non sarà l'abolizione dell'Ici a liberare la Campania dai rifiuti o a risolvere il problema di un fisco inefficiente e di un sistema scolastico ormai al collasso.

Il disastro italiano può franare addosso anche al nuovo governo di centro-destra, come è accaduto al governo di centro-sinistra.
L'Italia è un paese in assoluta emergenza. Siamo un malato sempre più grave che, ogni mattina, scopre di avere un guaio nuovo e non trova un medico in grado di curarlo. Questo medico non può essere Silvio da solo, ma neppure Walter da solo. E prima o poi la crisi galoppante imporrà un governo di salvezza nazionale. Un governo di guerra, si diceva un tempo. L'unico a poterci imporre una cura drastica, ammesso che ne esista una.

Con questi chiari di luna, risulta grottesco che la sinistra si rifugi nello slogan 'Berlusconi uguale Mussolini'. Se lo farà, verrà del tutto alla luce il suo vizio peggiore: la pigrizia mentale, come l'ha chiamata Luca Ricolfi sulla 'Stampa'. Vale a dire, aggiunge il Bestiario, l'avversione a cambiare il modo di vedere le cose, il rifiuto a buttare alle ortiche il consunto schema ideologico che imprigiona da anni il radicalismo sedicente progressista. La pigrizia mentale è diventata una droga maligna che isola e indebolisce i tanti partiti e partitini rossi o rosso-verdi. E li rende impotenti o capaci soltanto di gridare che chiunque sia diverso da loro è un nemico da annientare.

Ma quanto può durare la sinistra o il centro-sinistra dei pigri, dei dinosauri addormentati, dei tetri ripetitori di slogan inefficaci, dei fondamentalisti dell'antifascismo rituale? Penso poco, molto poco. Veltroni se n'è accorto e si è incamminato per la strada opposta.

Speriamo che gli isterici della sua parrocchia non gli rompano le gambe, come tentano già di fare.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 15, 2008, 09:32:17 pm »


Gianpaolo Pansa



Per un governo di tregua nazionale, dopo il voto, è necessario che il Cavaliere non vinca a mani basse. Quindi...  Massimo D'AlemaDopo il discorso di Walter Veltroni a Spello, 'Repubblica' ha titolato: 'Buono il primo ciak'. Poi ha consultato degli esperti di comunicazione. E uno di loro, Alessandro Amadori, ha detto: "Veltroni agisce in un contesto mediterraneo, come in un film di Salvatores o di Muccino". Ma purtroppo non siamo su un set cinematografico. Non lo è Veltroni. Non lo è Silvio Berlusconi, che secondo l'esperto si muoverebbe "come Terminator". E soprattutto non lo siamo noi elettori: cittadini e non comparse davanti alla macchina da presa.

A Spello, e a Milano per il Cavaliere, è cominciata una guerra spietata che verrà combattuta senza riguardo per le buone maniere. Chi parla di fair play, di disarmo verbale e di confronto sui programmi, s'illude. Le campagne elettorali possono cominciare sul velluto, ma virano subito sul ring dove tutti i colpi sono ammessi, compresi quelli proibiti. Immagino che Veltroni speri di muoversi in un contesto soft, alla maniera di Spello. Però anche lui dovrà indossare l'armatura e impugnare lo spadone, se non altro per difendersi dagli assalti brutali del Cavaliere.

Ma il peggio verrà dopo, a voto concluso. Chiunque avrà vinto, si troverà di fronte a un compito immane. È da sciocchi fingere di non vedere che l'Italia del 2008 è agli stracci. Siamo un paese alle corde. La casta dei politici è disprezzata e molti invocano un uomo forte che la spazzi via. Ci sta addosso un mostro come la stagflazione, l'incrocio fra la stagnazione economica e l'inflazione. I risparmiatori temono di veder saltare qualche banca anche da noi. Le istituzioni sono sfiancate da un bicameralismo inerte che premia la lentocrazia parlamentare. Sta di nuovo trionfando la corruzione. Per non parlare di disastri come quello dei rifiuti in Campania.

Gli italiani senza potere si domandano quale governo sarà in grado di rianimare un paese tanto malato. Lo slogan di Berlusconi, 'Rialzati, Italia!', sa di illusionismo. Lo stesso vale per il motto di Veltroni: 'È la politica che deve rialzarsi'. Ha ragione Giulio Tremonti, quando dice: "Sta arrivando un tempo di ferro, che non si sfida con l'estetica politica". Ma in un'epoca che si annuncia ferrigna non possono bastare governi convinti di farcela da soli. Ha vinto Berlusconi? Ci penserà Silvio a fermare la catastrofe. Ha vinto Veltroni? Sarà Walter il medico che salverà il nostro paese in coma. Sì, raccontala a tua nonna!

L'ho già scritto altre volte, però voglio ripeterlo. Il 15 aprile, chi avrà un voto in più, o anche un milione di voti in più, tenterà di governare. Ma in poco tempo si renderà conto di non farcela da solo. A quel punto, si porrà il problema di un governo di salvezza nazionale, l'unico in grado di non lasciarci cadere nel baratro di un declino irreversibile.

Nei due blocchi qualcuno lo sta già chiedendo. Per esempio, il saggio sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, intervistato da Marco Damilano per 'L'espresso'. E non è l'unico a pensarla così dentro il Partito Democratico. Chi non parla, lo fa soltanto per convenienza elettorale. Persino chi rifiuta con asprezza qualsiasi ipotesi di grande coalizione, come Massimo D'Alema sull''Unità', dovrà arrendersi a un necessità via via più drammatica.

Ma i governi di tregua, di salvezza o di ricostruzione nazionale, funzionano soltanto se i due provvisori alleati non hanno un peso elettorale troppo squilibrato. Oggi tutti i sondaggi dicono che sarà il centro-destra a vincere. E qualcuno sostiene che sarà un successo a mani basse, un trionfo del Cavaliere. Ecco un'eventualità da scongiurare. Lo si può fare in un solo modo: votando il Partito Democratico, per renderlo meno debole o più forte.

Non avrei voluto scriverlo, perché il Bestiario non è, e non deve essere, il consigliori elettorale di nessuno. Per di più, come cittadino, ho parecchi dubbi sul PD. E ne vedo i tanti difetti. La presenza di un'oligarchia di vecchi capi ex-Ds ed ex-Margherita che si stanno facendo la forca, e soprattutto la fanno a Veltroni. La rinascita della correnti. La cucina segreta che sfornerà i candidati. Il permanere di un'intolleranza ringhiosa verso chi non accetta i miti e i tabù di una sinistra incapace di fare i conti con la propria storia.

Il PD di oggi è anche questa robetta o robaccia. E tuttavia guai se il governo di salvezza nazionale fosse come il Pasticcio alla Viennese. Era un piatto che Bettino Craxi evocava per spiegare il suo tentativo di non sottomettere il Psi a due colossi come la Dc e il Pci. Il pasticcio descritto da lui era fatto per quattro quinti di allodola socialista e per un quinto di cavallo democristiano o comunista. Dunque avrebbe sempre avuto un pessimo sapore equino. Dopo il 13 aprile chi sarà l'allodola e chi il cavallo? Ecco una domanda che è bene porsi.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 23, 2008, 02:39:33 pm »

Gianpaolo Pansa

Dove vai voto del nord?


Il Pd deve guardarsi dai facili entusiasmi. Per vincere le elezioni Veltroni deve sfondare in Veneto e Lombardia  Walter VeltroniHo un debito verso Pier Ferdinando Casini. Quando venni aggredito per un mio libro sulla guerra civile, fu il primo dei big politici (ben pochi, per la verità) che si spese in mia difesa. In quel caso mi resi conto un'altra volta che Casini era un tipo schietto: diceva come la pensava e faceva come la diceva. Oggi lo conferma la scelta di andare al voto da solo, con la sua Udc. Un gesto che rivela coraggio e orgoglio, anche se non so dove lo condurrà. Penso che vivrà giorni difficili. Gli altri piccoli gruppi cattolici (la Rosa Bianca e l'Udeur) stentano a trovare un accordo. A riprova che il virus della divisione corrode tutta la politica italiana.

Per questo mi domando che cosa accadrà se il listone di Silvio Berlusconi farà propri i cardini elettorali enunciati da Casini nel discorso di Mestre. Gli ho sentito dire quello che milioni di italiani si dicono in privato. Il principio di autorità da ripristinare, a cominciare dalla famiglia, dove oggi i genitori fanno 'i sindacalisti dei figli'. La sicurezza da riconquistare. Il ritorno del merito. La selezione nella scuola, con il numero chiuso in tutte le università. La necessità di ricette dure per l'Italia. La scomparsa delle province con la loro inutile burocrazia. La difesa della legge Biagi. La scelta per l'energia nucleare. I servizi pubblici locali da liberalizzare, e altro ancora.

Se il Cavaliere parlerà agli elettori come parla Casini, si troverà in sintonia con gran parte del paese. E il Popolo della Libertà potrebbe diventare una macchina schiacciasassi. Ecco perché l'esito del voto di aprile non è per niente scontato, in tutti i sensi. Anche Berlusconi dovrebbe essere più cauto nel dichiarare il proprio trionfo con tanto anticipo. Ma il Partito Democratico ha l'obbligo di guardarsi dall'euforia pericolosa che sta affiorando nel suo campo.

Ho visto troppe volte la sinistra giurare sulla vittoria e poi tornare a casa con le pive nel sacco. Volete due esempi? Nel giugno del 1976, il Pci di Enrico Berlinguer era convinto di fare il sorpasso sulla Dc di Benigno Zaccagnini. Allora lavoravo per il 'Corriere della sera' e scrissi una lunga inchiesta sui comunisti. Tutti erano sicuri di farcela. Deciso a dare il colpo di grazia alla Balena Bianca, re Enrico mi rilasciò un'intervista per dire che si sentiva più sicuro sotto l'ombrello della Nato che sotto il Patto di Varsavia, guidato dell'Urss. A urne aperte, Bettino Craxi mi rimproverò di aver fatto guadagnare mezzo milione di voti alle Botteghe Oscure. Ma il sorpasso non ci fu. Alla Camera, la Dc conquistò il 38,7 per cento dei voti contro il 34,4 del Pci. E al Senato il distacco fu ancora più forte, di cinque punti.

Nel marzo del 1994 accadde lo stesso con la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Il popolo di sinistra era certissimo di sconfiggere quel tizio delle televisioni, un certo Berlusconi. Dappertutto sentivo ripetere: vinciamo, vinciamo! Se osavo dissentire, mi replicavano: ma che cavolo dici, Pansa!, non vedi come siamo forti? Finì come sappiamo: con l'ingresso del Cavaliere a Palazzo Chigi e le dimissioni del povero Baffo di Ferro.

Mi auguro che Walter Veltroni sia più avveduto dei suoi antenati. Quando, nel primo comizio a Pescara, ha detto che il Partito Democratico "sta risalendo a una velocità impressionante" sono rimasto dubbioso. Poi ho capito come stanno le cose leggendo il giorno dopo, sull''Unità', l'intervista a Roberto Weber, sondaggista affidabile della Swg. La risalita, o rimonta che sia, per ora ha riportato il PD soltanto al livello dell'Ulivo alla Camera nel 2006: fra il 30 e il 31 per cento.

Weber ha aggiunto quello che tutti sanno: per vincere le elezioni, il Pd deve sfondare al centro dell'elettorato. E che la battaglia si deciderà nell'Italia del nord, "la zona più difficile da aggredire". A cominciare dalla Lombardia e dal Veneto. Dove finora, dice sempre il capo della Swg, "non si sono registrati spostamenti a favore di Veltroni". Ma è proprio su questo fronte che lasciano perplessi certe candidature decise o annunciate. Molti si chiedono se un Colaninno junior non sia soltanto una rondine incapace di fare primavera. O se Martina Mondadori convinca battaglioni di incerti a correre ai seggi.

Per di più, resta il dilemma se il Pd debba fare una campagna elettorale soffice o dura. Eppure in democrazia le campagne diventano subito durissime. Del resto, Antonio Di Pietro ha già sparato il primo siluro al Cavaliere: la sua Mediaset deve avere una sola rete tivù. Max D'Alema è partito sul ringhioso. Pierluigi Bersani ci spiega che le campagne sono anche 'contro' e non solo 'per'. Tuttavia lo stesso Bersani avverte: "Qualcosa si muove, ma il centro-destra ha un insediamento mostruoso". Attenti al pesce d'aprile, gente del PD.

(22 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 08, 2008, 04:56:29 pm »

Gianpaolo Pansa.

Il miracolo dei balocchi


Voglio essere brutale: a molti ragazzi di oggi lavorare non piace. La precarietà è diventata l'alibi per fare flanella  Un discorso di Walter VeltroniDa qualche giorno, Walter Veltroni si è convinto di farcela. Domenica 2 marzo ha detto a Pisa: "C'è un'aria nuova, vincere non è più una missione impossibile'. E lo stesso giorno a Prato: "Stiamo per realizzare la rimonta più incredibile della storia elettorale italiana". Vede giusto il leader del Partito Democratico? Non lo so. Ma è inevitabile che nei comizi parli così. Se non lo facesse, potrebbe andarsene subito a casa.

Il discorso di Veltroni diventa discutibile quando va oltre la convinzione della vittoria. E dice: "Se il Partito Democratico andrà al governo, l'Italia ritroverà la sua stagione d'oro, le speranze e l'euforia del miracolo economico degli anni Sessanta". Confesso d'essere rimasto colpito da questa profezia. E mi sono domandato quanti dei giovani che Walter cerca di portare dalla sua parte, sappiano com'è nato davvero quel boom e a che prezzo gli italiani di allora l'abbiano conquistato.

Sono abbastanza anziano per aver vissuto, da giovane, i miracolosi anni Sessanta. E so che fra i tanti motori del boom il più importante, quello decisivo, è stato il lavoro. Nel senso di voglia di faticare, di darci dentro, di rimboccarsi le maniche, di agguantare un mestiere e poi di passare a un altro, sempre sperando di guadagnare di più e di migliorare la propria condizione. E insieme di non essere schizzinosi, di prendere quel che c'era, sperando di poter scovare il lavoro fatto giusto per te.

Eravamo pronti a tutto, tranne che a fare le ligere, i malviventi. A questo ci spingeva anche l'etica famigliare. Molti dei nostri genitori, nati tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, erano cresciuti nella povertà e talvolta nella miseria. Mio padre aveva cominciato a lavorare a nove anni, dopo la terza elementare, come guardiano delle vacche. E mia madre, alla stessa età, faceva la piccinina da una sarta, imparando a cucire. M
i avevano aiutato a studiare, nella speranza che la mia vita fosse meno sacrificata. Il loro incitamento era riassunto in due parole: "Impara ad arrangiarti!". Ossia, datti da fare, non credere di poter campare sulle nostre spalle e appena puoi vattene da casa.

Le paghe erano basse. Nel 1960, da super-laureato, centodieci e lode, più la dignità di stampa, lavoravo a Milano alla biblioteca dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli. Il contratto era quello dei dipendenti del commercio e lo stipendio quasi uguale al salario delle commesse della Rinascente. Alla fine dell'anno, quando venni assunto come giornalista praticante alla 'Stampa', mi sembrò d'essere diventato ricco. Ma anche lì non si doveva aver paura di darci dentro. I giovani facevano 'la lunghetta': undici ore filate, a volte dodici, dalle due del pomeriggio all'una o due di notte.

Nel boom, la fatica non aveva protezioni. Nelle banche, se un'impiegata annunciava che si sarebbe sposata, veniva subito licenziata. All'inizio di una professione eravamo tutti precari e molto flessibili. I doveri venivano sempre prima dei diritti. E gli immigrati dal Mezzogiorno di diritti non ne avevano. A Torino erano accolti da cartelli che ho visto anch'io: 'Non si affitta ai meridionali'. In confronto a loro, mi sentivo un nababbo. Anche se non ero mai andato in vacanza, non possedevo una motoretta e meno che mai un'automobile. Per di più tremavo al cospetto del mio primo direttore, Giulio De Benedetti. Quando entrava nella sala della redazione, ci alzavamo tutti. E stavamo in piedi fino a quando lui ordinava: "Signori, seduti!".

Nel frattempo, l'economia tirava. E il boom esplodeva. Malgrado l'opposizione astiosa degli antenati di Veltroni, i comunisti di Togliatti, e dei socialisti di Nenni. La mamma del miracolo economico è stata la Dc. E il primo governo di centro-sinistra, quello Moro-Nenni, nacque soltanto nel dicembre 1963, quando il boom si era già incagliato in una congiuntura sfavorevole.Ma gli italiani seguitavano a faticare, a comprare frigoriferi, lavatrici e televisori, a scoprire le ferie e i viaggi in auto, a cercare alloggi decenti, con il bagno dove fare la doccia. Ah, la doccia! Da ragazzo non avevo mai potuto farla perché avevamo soltanto il cesso sulla ringhiera.

Veltroni può raccontare queste cose ai giovani che dovrebbero votare il PD? Temo di no. Voglio essere brutale: a molti ragazzi di oggi lavorare non piace. Intasano le università, abbandonando agli immigrati tanti mestieri indispensabili: infermiere, muratore, fabbro, idraulico, piastrellista, badante, elettricista e via elencando. La precarietà è diventata l'alibi per fare flanella. Strilliamo che tanti artigiani sono diventati ricchi, eppure ben pochi s'incamminano lungo questa strada faticosa. Tuttavia, nessun miracolo è gratis. Lo è soltanto quello del Paese dei Balocchi. Ma a che cosa serve un miracolo dei balocchi?

(07 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Marzo 15, 2008, 12:26:16 pm »

Giampaolo Pansa

Quei sinistri così ingrati


Per due volte ha battuto Berlusconi e portato la sinistra al governo. Ma nel momento dell'addio Prodi è rimasto solo.

È crudele, ma vera, la vignetta di Emilio Giannelli sul 'Corriere della sera'. Il titolo dice: 'Prodi lascia: cerimonia d'addio'. Si vede il Professore che si affaccia da un sipario chiuso e saluta il pubblico di un teatro, dopo la decisione di abbandonare la politica italiana. Però il pubblico non c'è. La platea è vuota. E vuoti sono tutti i palchi. Il braccio di Prodi si leva al cospetto di un deserto.

Nessuno si è presentato a ricambiare il saluto e a dirgli grazie.

Non ci vuole una gran fantasia per immaginare chi avrebbe dovuto riempire il teatro. Le illustri chiappe che latitano sono quelle delle tante sinistre italiane: le riformiste, le democratiche, le cattoliche, le post-comuniste, le neo-comuniste, le socialiste, le ambientaliste, le radicali. Tutte si sono dimenticate di quanto devono al Prof. Senza di lui, non sarebbero mai arrivate al governo. E nessuno dei generali rossi, rosa, verdi, biancastri e tricolore, oggi potrebbe vantarsi di essere stato ministro, viceministro, sottosegretario, capo o sottocapo di un qualche staff governativo. Medaglie, non sempre al valore, da esibire nella baraonda elettorale.

I tipi sinistri non hanno memoria. E tanto meno sono capaci di gratitudine. Eppure il Prof li ha portati a Palazzo Chigi ben due volte. La prima fu nell'aprile 1996, dopo un antefatto del marzo 1995. Il 10 di quel mese, alla Sala Umberto di Roma, s'iniziò il contatto ravvicinato fra Prodi e i progressisti. Io c'ero e ricordo un teatro zeppo di reduci della Gioiosa Macchina da Guerra, sconfitta l'anno precedente da un tale di nome Berlusconi Silvio. Una platea lottizzata con cura. Una tetraggine quasi sovietica. Un cartello annunciante che lì si sarebbero sfornati temi e idee per 'il Polo democratico'.

Rammento un'arietta stizzosa, da apparati convinti di saper suonare il violino con i piedi. Per dirne una, il capo dei Verdi, Gianni Mattioli, sibilò a Prodi: "Caro professore, non dia per scontato il consenso ambientalista alla sua candidatura.". Volavano freccette al curaro, dove era facile leggere ammonimenti burbanzosi: stai attento, Prodi, non credere di far di testa tua, noi ne sappiamo più di te, noi c'eravamo quando tu ancora non c'eri! E i lanciatori di frecce si confidavano l'un l'altro: questo Prof è un male necessario, un alieno, un marziano, l'ultimo arrivato che ha la pretesa di spiegare a noi come si vincono le elezioni.


L'anno dopo, il 21 aprile 1996, grazie a Prodi il centro-sinistra le vinse. Maggioranza assoluta al Senato. Margine risicato alla Camera, un filo appeso agli umori di Rifondazione Comunista. Andò come s'era già capito alla Sala Umberto. Una prima crisi di governo nell'ottobre 1997. Una seconda, fatale, nell'ottobre 1998. Messo fuori gioco il Prof, la sinistra combinò soltanto disastri. Due governi D'Alema. Un governo Amato. E infine, nel 2001, un nuovo trionfo del Berlusca.

Passarono cinque anni e il Prof venne richiamato in servizio. Per la seconda volta, le sinistre lo pregarono di essere riportate al potere. E nell'aprile 2006 fece un altro miracolo. Ci riuscì per Santa Scarabola e malgrado il masochismo dei supplicanti. L'Unione, esempio fantozziano di coalizione fra incompatibili, cominciò a sgambettarlo subito, quando la campagna elettorale doveva ancora cominciare. Niente lista del Prof, per timore di renderlo troppo forte. Appena cinque parlamentari prodiani. L'Ulivo soltanto alla Camera, ma niente di simile al Senato. Un programma di 290 pagine, il maxi-progetto del nulla. Infine un'alleanza fra dieci partiti rissosi, capaci soltanto di dilaniarsi. E di far svanire i dieci punti di vantaggio sul Berlusca.

Il Prof provò a tenere in strada l'automobile dell'Unione: una vettura sfasciata, con pochissimo carburante (la maggioranza troppo esigua) e sempre al limite del collasso per i contrasti feroci fra i passeggeri. Anche questa volta andò come doveva andare. Adesso diciamo che è stato Clemente Mastella, il fellone, a far cadere il governo. Ma prima di lui, a tradire il patto con gli elettori sono stati gli altri partiti unionisti. Ecco i felloni al cubo, quelli che oggi lasciano vuoto il teatro dell'addio.

Certo, anche il Prof ha commesso qualche errore. Proprio lui, uomo di centro, ha pensato di poter tenere insieme le due sinistre, quella ragionevole e quella ultrà, divise dalla storia e dai rancori. E si è fidato troppo della propria capacità di mediare. Ma chiunque altro, al suo posto, sarebbe durato venti giorni e non venti mesi. Poi se n'è andato come gli suggeriva il Fattore D e non C: la dignità. Per questo nel teatro disegnato da Giannelli io c'ero, in ultima fila. Mi sono spellato le mani ad applaudire il Prof. E gli ho gridato: grazie!, manda tutti a quel paese e, prima dei nipoti, goditi la vita.

(14 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Marzo 21, 2008, 07:45:11 pm »

Giampaolo Pansa

Paura di governare


La crisi fa 'tremare i polsi' a Berlusconi. E per il dopo voto l'unica strada è la Grande Coalizione. Altro che inciucio  Silvio BerlusconiNon l'avevo mai vista la pizza con lo sconto del 50 per cento. Mi è capitato di scoprirla nei manifesti di un ristorante in Toscana. Un avviso identico a quello dei saldi nei negozi. Solo che stavolta t'invitava a mangiare la pizza a prezzo dimezzato. Se non avessi già aperto gli occhi sull'Italia d'oggi, quel manifesto me li avrebbe spalancati. La crisi economica sta cominciando a mordere la vita di molti italiani. Lo vedo dalle trattorie vuote. Dai negozi poveri di clienti. Dai mercati rionali più affollati. E dalle rinunce sempre più pesanti di chi ha stipendi o pensioni ridotti all'osso.

Siamo un paese più povero di due o tre anni fa. Ecco la verità che finalmente entra con forza nella campagna elettorale. Stiamo discutendo all'infinito sul caso Ciarrapico o sulle figlie messe in lista al posto del padre. Ma nel frattempo si rovescia anche sull'Italia il disastro americano, con tante pessime sorprese in arrivo. Per la prima volta dal 1945, chi vincerà le elezioni si troverà alle prese con la paura di governare. Proprio così: i politici vittoriosi si sentiranno dei condannati a cinque anni di lavori forzati. E la poltronissima di Palazzo Chigi si rivelerà foderata di chiodi roventi.

Silvio Berlusconi mostra di averlo già capito. E l'ha confessato in pubblico, al forum di Cernobbio della Confcommercio. Ho visto su Sky la diretta tivù del suo intervento: il Cavaliere mi è sembrato molto diverso dal ganassa ridanciano di tante vignette. I satirici di sinistra possono pure continuare a sfotterlo. Ma intanto lui sorprende tutti dicendosi "angosciato" per gli obblighi che lo attendono, se vincerà. Bastano i rifiuti di Napoli per fargli ammettere che gli "tremano le vene dei polsi", nel pensare che se li vedrà scaricare sulla scrivania, come roba sua.

Lo stesso accadrà a Walter Veltroni, se toccherà a lui il peso del governo
. Il leader del Partito Democratico non dichiara la stessa angoscia di Berlusconi. Ma forse dipende dal fatto che lui crede di perdere. E sta affrontando una fatica immane per lanciare il PD più che per vincere la corsa alle urne. Il Cavaliere, invece, considera la possibile vittoria un mezzo disastro. In quel momento avrà finito le vacanze da oppositore. Certo, sarà riuscito a soddisfare la voglia di rivincita. Ma poi, a settantun anni suonati, si ritroverà alle prese con un mestiere che ha già fatto due volte, nel 1994 e nel 2001. Pesante, noioso, gonfio di stress e di grane irrisolvibili. Con l'eterna difficoltà di decidere, in un palazzo dove non esiste nessuna stanza dei bottoni.

C'è una pena del contrappasso per i potenti della politica italiana. I cittadini qualunque sono in allarme per quel che potrà accadere. Temono per il proprio lavoro, per i risparmi, per il treno di vita ancorché modesto. Ma il loro timore è una goccia che cade da tempo sull'ottimismo sfoggiato dalle classi dirigente e lo incrina ogni giorno di più. Tanto che i big dei partiti cominciano ad avere un terrore mai provato: quello di non saper fronteggiare la paura del paese e di non riuscire a tenerlo in piedi.

Per questo, la sera del 14 aprile non ci porterà nessuna sorpresa. Una volta accertato chi sia il vincitore, molti si diranno: Silvio o Walter non fa differenza. Il bello, o il brutto, verrà dopo. Quando entrambi i contendenti dovranno guardarsi in faccia e domandarsi: riusciremo a farcela da soli, uno al governo e l'altro all'opposizione? I lettori del Bestiario conoscono come la penso: dopo il voto, qualunque sia il risultato, sarà indispensabile e urgente un governo di salvezza nazionale, quello che siamo soliti chiamare una Grande Coalizione.

Ma oggi voglio dire una cosa in più.Se uno dei due blocchi rifiuterà di fare un accordo con l'altro, si renderà colpevole di tradire l'interesse dell'Italia. Non so se esista ancora il reato di alto tradimento, ma sarà questa l'accusa da rivolgere a chi pretenderà di non accordarsi con nessuno. Che cosa potrà fare un governo del Popolo della Libertà o del Partito Democratico quando la bufera della recessione americana calerà prepotente su Roma? Non voglio immaginare la sorte di Berlusconi e di Veltroni se anche in Italia salterà qualche banca. E migliaia di persone scopriranno di non poter riavere il denaro depositato.

In quel frangente terribile, risulterà grottesco il politico capace soltanto di gridare all'inciucio fra Silvio e Walter. Se è vero che i programmi dei due blocchi si assomigliano, tanto meglio. Sarà più facile trovare un'intesa. Dopo quel primo passo, si risolverà in fretta l'enigma di chi dovrà guidare il governo di salute pubblica. Sono convinto che il nome giusto uscirà. C'è solo da sperare che questo premier mai visto non venga azzoppato prima di metter piede dentro il cortile di Palazzo Chigi.

(21 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Marzo 31, 2008, 07:15:37 pm »

Giampaolo Pansa

Contrordine compagni


Torte in faccia. Accuse maligne. Comizi interrotti. Lanci di uova. Attacchi alle sedi. È la sinistra nevrotica  Francesco CarusoUna torta di panna no-global tirata in faccia a un capo no-global? Impossibile, dirà qualcuno. Invece è accaduto sabato 22 marzo a Venezia. Il colpito è Francesco Caruso, già deputato di Rifondazione e oggi ricandidato dalla Cosa Rossa in Veneto 2, ossia a Treviso, Belluno e Venezia. Il Caruso stava tenendo una conferenza stampa in un ristorante veneziano e spiegava perché i capi della Sinistra Arcobaleno l'avessero deportato tanto lontano dal suo Mezzogiorno. Aveva accanto il chiarissimo professor Nicola Tranfaglia, storico, comunista del partitino di Diliberto, anche lui rimesso in lista.

All'improvviso, è comparso un ragazzo in cappuccio nero che ha fatto partire il missile di panna montata. Un razzo di un chilo, forse uscito dall'arsenale di Luca Casarini, il capo-no global del Veneto che apprezza poco quel compagno del Sud. Risultato: colpito Caruso. E con lui la sacra barba di Tranfaglia.

Messo così, l'assalto pannoso sarebbe cosa da nulla, roba da tardo film comico. Ma vista nel famoso contesto che tanto piace ai pensatori della sinistra regressista, la faccenda acquista un valore ben più pregnante. E svela la paura di perdere che serpeggia nelle file dell'Arcobaleno Rosso, in braghe di tela per la polemica sul voto utile. La paura ha generato una nevrosi isterica. Rivolta non al blocco del famigerato Caimano Berlusca, bensì al Pidì del pacifico Veltroni.

Lo si è visto fin dall'inizio della campagna elettorale. E il primo a farne le spese è stato il giuslavorista Pietro Ichino: candidato di Walter e bestia nera dei regressisti per le sue opinioni sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sulla legge Biagi, uno che vive da sei anni sotto scorta. Già alla fine di febbraio, i capi della Cosa rossa tiravano su di lui. Marco Rizzo è stato lapidario: "È un servo dei padroni". E Diliberto: "È uguale a Berlusconi". E madama Manuela Palermi: "È un vero talebano, un pazzo". E Franco Giordano, un tantino meno rozzo: "La candidatura di Ichino mostra la volontà di favorire una politica economica liberista".

Qualche giorno dopo, il ringhio dei Cosarossi & Affini è diventato bipartisan. Il 29 febbraio, a Torino, una squadraccia di antagonisti ha devastato la sede di Forza Italia, inondandola di liquame. Il 1 marzo a Livorno sono andati distrutti due gazebo della Lega, più le botte a un leghista. E prima ancora, sempre a Livorno, erano state devastate le sedi dei comitati elettorali di Altero Matteoli e di Guido Guastalla. Il 7 marzo a Genova i centri sociali hanno interrotto un comizio del leghista Mario Borghezio. Lo stesso giorno a Roma ha fatto la medesima fine un convegno di An sulla festa dell'Otto marzo all'Università della Sapienza. Qui è stato aggredito il direttore del 'Secolo d'Italia', Luciano Lanna. Il 12 marzo, sempre a Roma, i Centri sociali hanno invaso la sede nazionale del Pidì, il famoso loft di Veltroni, pretendendo la verità sui pestaggi della polizia durante il G8 del 2001 a Genova. Hanno lanciato fumogeni ed esposto uno striscione di scherno per Walter: 'Tortura al G8? Yes, we can!'.

Ve lo immaginate che cosa sarebbe successo se una squadra di anarchici o di trotzkisti avesse occupato le mitiche Botteghe Oscure del Pci, ai tempi di Berlinguer, ma anche a quelli di Occhetto? Io sì che me lo immagino. Ma oggi siamo diventati tutti dei fighetti pacifisti in guanti bianchi ed è fuori moda reagire. E così, sotto la pelle di una campagna in apparenza soft, si lasciano correre umori maligni, come se fossero innocue barzellette della vecchia 'Domenica del Corriere'. Dappertutto sprizzano rancori vecchi e nuovi, a inquinare un'aria già fetida.

Diliberto cede il proprio posto in lista a un operaio della Thyssen e il suo vecchio compagno Cossutta lo accusa: "Demagogia e plebeismo. O plebeismo demagogico, il che fa lo stesso". Sul 'manifesto', Vauro pubblica una vignetta infame contro Fiamma Nirenstein, candidata con Berlusconi. Fiamma è dipinta come un Frankenstein che inalbera la stella di Davide e il fascio littorio, ma pochi protestano.

Idem per le aggressioni a Giuliano Ferrara, in tour elettorale per la sua lista 'Pro Life', inseguito da torme di donne su di giri. E lo stesso accade per i lanci di uova contro gli uffici romani di 'Famiglia Cristiana' e di 'Avvenire', accusati nientemeno che di 'clericofascismo'.

Mi domando che cosa verrà lanciato, al posto delle uova, dai nevrotici del regressismo nel caso di una vittoria del Caimano. Ci vorrebbe, a sinistra, qualcuno capace di fermarli con il grido famoso di Giovannino Guareschi: 'Contrordine compagni!'. Ma, ahimè, oggi non vedo nessuno che ne abbia l'autorità. Se esiste, vorrei proprio conoscerlo. Per stringergli la mano. E dirgli: coraggio, pensaci tu, prima che sia troppo tardi.

(28 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 05, 2008, 11:12:46 am »

Gianpaolo Pansa

E se a Vincere fosse Walter?


Il leader del Pd ci crede. Ecco allora cosa lo attende dopo lo sbarco a Palazzo Chigi. Con un però...  Ne avevo sentito parlare, ma pensavo a una bufala. Poi ho dovuto ricredermi quando ho visto che era una promessa elettorale con tanto di certificato d'origine. Stava stampata sulla prima pagina dell''Unità'. E accanto a un Walter Veltroni sorridente, versione allegra del buon Garrone di 'Cuore', c'era scritto: "Costruiremo 700.000 case da affittare da 300 a 500 euro al mese. Con noi vince la famiglia".

Lì per lì sono rimasto perplesso. E subito dopo ho scoperto di essere un elettore infastidito dalla grancassa di questa campagna elettorale. So bene che, per vincere, si arriva a promettere di tutto. Ma adesso, a pochi giorni dal voto, il troppo sta stroppiando. I due primari candidati si rincorrono sul terreno delle sparate sensazionali. Il più fantasmagorico, un vero mago degli effetti speciali, rimane Silvio Berlusconi. La sua ultima trovata è di promettere una drastica riduzione dell'aliquota fiscale massima che verrà portata (dice S. B.) al 33 per cento. E come riuscirà in questo miracolo? Nel modo più banale: facendo pagare le tasse agli evasori.

Come tanti elettori, anch'io mi sento preso per i fondelli. E ogni giorno mi cresce la voglia di non andare a votare. Che cosa farò il 13 aprile non lo so, ho ancora qualche giorno per rifletterci. La verità è che sono incuriosito dal finale della gara. Una gara sempre più aperta. Tanto che Veltroni comincia a dire che a vincere può essere lui con il suo PD. Dieci giorni fa non lo diceva, oggi sì. Per di più, chi l'ha incontrato di recente racconta di averlo visto convintissimo di battere il Cavaliere.

Ma allora proviamo a immaginare Superwalter a Palazzo Chigi. Che cosa può succedere? Prima di tutto dovrà vincere subito un'altra guerra, persino più difficile di quella contro il Cavaliere. Parlo del braccio di ferro interno al Pd sulla composizione del governo. Veltroni ha promesso una squadra snella: appena dodici ministri e un numero ridotto di sottosegretari. Per un totale di eccellenze che non superi quota sessanta, vale a dire quasi la metà dello squadrone di Romano Prodi. Per di più, alcuni dei dodici ministri verranno dalla società civile (seconda promessa di Walter). Con una conseguenza fatale: una notte dei lunghi coltelli dentro il partito, dal momento che molte eminenze democratiche non si faranno tagliar fuori senza combattere sino all'ultima goccia di sangue.

Comunque, a vincere questo round sarà di sicuro Veltroni, perché il trionfo sull'odiato Caimano lo avrà reso più forte di Superman. Il bello, o il brutto, verrà dopo. Quando il nuovo premier dovrà aprire la pila di dossier che troverà sul tavolo, per decidere le prime mosse del governo. Come si usa dire, avrà soltanto l'imbarazzo della scelta. Proviamo a elencare, un po' a caso, ricordando gli impegni presi da lui in campagna elettorale.

Prima di tutto, la sconfitta della precarietà. Poi l'adeguamento all'inflazione di stipendi, salari e pensioni. Una lotta sempre più decisa all'evasione fiscale e alla corruzione ritornata dilagante. I rifiuti di Napoli. Il rebus di Alitalia e di Malpensa. Quello delle grandi infrastrutture, a cominciare dalla rogna suprema della Tav in val di Susa. Il rilancio dell'economia e dei consumi. Lo snellimento di Camera e Senato. La riduzione dei privilegi ai parlamentari. La riforma elettorale. La riforma della Rai. Le cinquemila leggi da abrogare. La guerra alla criminalità, per garantire un minimo di sicurezza ai cittadini. E a proposito di sicurezza, metterei nel conto anche un decisivo contenimento della violenza dentro e attorno i campi di calcio. Da attuare non con la sociologia, ma con le manette e il pugno duro sulle bande di ultrà e sui loro siti Internet, dove si incita alla guerriglia permanente.

Ecco una lista molto incompleta delle cose da fare. Che di proposito non cita quisquilie come le settecento mila case da costruire e poi affittare a poco prezzo. Se fossi Veltroni, ne sarei terrorizzato. Ma sono soltanto un giornalista e non un aspirante premier. Superwalter potrebbe rispondermi che la vittoria secca gli consentirà di governare per cinque anni. Un tempo sufficiente per realizzare la Grande Svolta che ha promesso all'Italia. Gli auguro di avere ragione. Però.

Già, c'è un però. Di che cosa si tratti lo vado spiegando da tempo nel Bestiario. Continuo a pensare che nessuno dei due blocchi oggi in gara sia in grado di farcela da solo. Perché la crisi italiana è ormai troppo grave per essere risolta senza un governo di salvezza nazionale, da far nascere con un accordo fra gli eserciti che per ora si combattono. Vedo che adesso lo stanno dicendo anche i giornali americani. Devo commentare? Non ci penso neppure. Fate il vostro gioco, Veltroni e Berlusconi. Ne riparleremo la sera del 14 aprile, giorno di santa Luidina Vergine.

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:19:57 am »

Gianpaolo Pansa

Attenti alle pistole


La caccia a Ferrara dei teppisti che vogliono tappargli la bocca è un brutto segnale. Anche per il dopo voto  Giuliano FerraraÈ diventata una maniacale caccia all'uomo la contestazione a Giuliano Ferrara. L'assalto di Bologna è stato appena una tappa nel percorso di guerra imposto al direttore del 'Foglio' e alla sua lista Aborto? No grazie. A Crema, fra rulli di tamburi e salve di fischietti, hanno bruciato in piazza un fantoccio che lo raffigurava. Le foto del rogo danno i brividi. Per l'odio che trasmettono. E per la ripugnanza che ispira il tizio con la torcia in mano, intento ad appiccare il fuoco. Un giovane aspirante boia che, se diventerà adulto, nel rivedersi in quelle immagini forse proverà vergogna di se stesso.

La caccia a Ferrara resterà il simbolo di questa campagna elettorale. E attesta che l'Italia è una democrazia dimezzata. Quando un cittadino che guida una lista non può parlare in piazza, o può farlo soltanto rischiando il pestaggio e se è protetto dalla polizia, non ci possono essere dubbi. La Repubblica nata nel 1946 non esiste più. Al suo posto si è insediata una repubblica falsa, senza più legge, senza autorità, senza dignità, che si regge su una Costituzione ridotta a carta straccia. Un mostro istituzionale dove chiunque può essere vittima di bande violente che decidano di tappargli la bocca. Per confiscargli il diritto numero uno: la libertà di opinione e di parola.

La posizione di Ferrara non mi piace. E non voterò la sua lista. Ma mi piacciono ancora meno i teppisti che lo aggrediscono. Anche perché sono tanti e per di più si muovono in un'area politica, la sinistra, che ci ha già regalato la stagione terribile del terrorismo. Ve lo ricordate il motto delle Brigate Rosse? Diceva: colpirne uno per educarne cento. Oggi si dà la caccia a Ferrara, ma domani si darà la caccia a qualcun altro. È già avvenuto e avverrà, stiamone certi.

Mi ha molto colpito un articolo di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato dal 'Corriere della sera' e intitolato 'L'invenzione dei mostri'. Galli della Loggia spiega che, demonizzando Ferrara, si è seguito "il copione abituale che in Italia caratterizza la discussione pubblica, sia che si parli di aborto o della Costituzione, di immigrazione o di storia del fascismo". Rendere mostruose la figura e le idee dell'avversario, mistificarle, proibirle, punirle con la violenza. È l'esperienza che ho fatto anch'io, per i miei libri sulla guerra civile. E non mi rallegra l'essere in buona compagnia. In questa campagna elettorale è toccato pure al giurista Pietro Ichino. Non appena il Partito Democratico lo ha candidato, ecco la replica folle della sinistra regressista: 'Servo dei padroni', 'Talebano pazzo'. E insieme agli insulti scagliati da membri del Parlamento, sono arrivate puntuali le minacce delle nuove Brigate Rosse.

Qualcuno dice: quando la competizione elettorale finirà, le acque si calmeranno. Ma io temo che non andrà così. La campana dei violenti continuerà a suonare, sempre più cupa e più forte. Se a vincere sarà Walter Veltroni, la sinistra regressista, messa nell'angolo, dovrà lasciare spazio all'antagonismo più ottuso, già oggi capace di vere e proprie campagne d'intimidazione, come s'è visto con Ferrara. Se vincerà Silvio Berlusconi, entrando per la terza volta a Palazzo Chigi, le stesse bande avranno un motivo in più per occupare le piazze contro il governo fascista del Caimano.

E se i risultati elettorali renderanno inevitabile una Grande Coalizione, preferisco non immaginare come le frange lunatiche delle tante sinistre reagiranno al Grande Inciucio dei Poteri Forti: versione moderna dello Stato Imperialista delle Multinazionali, il nemico numero uno per il brigatismo rosso. Le condizioni per innescare un incendio ci sono tutte. A cominciare dall'indifferenza che tanti media importanti mostrano di fronte ai segnali di pericolo che oggi si avvertono.

Per questo, non mi sembra azzardato lanciare un grido di allarme: attenti alle pistole! Che vuol dire: non chiudiamo gli occhi dinanzi al rischio di veder emergere un nuovo terrorismo. Se accadrà, non sarà un terrorismo nero, di destra, bensì rosso, di sinistra. Quest'ultimo ha una sua struttura ombra molto resistente, che si nasconde nelle anse buie dell'antagonismo. Non penso affatto che tutti i contestatori dei tanti e diversi centri sociali siano pronti a impugnare le armi. Ma è da quell'area che può arrivare il pericolo.

Del resto, è una storia che conosciamo. E che io ho visto e raccontato negli anni Settanta e Ottanta. Allora, dal grembo dei movimenti e dei partitini ultrà, uscirono delle minoranze che dapprima cominciarono a fabbricare mostri e poi passarono a ucciderli. E anche allora molti politici, molti opinionisti e molti giornali decisero di non vedere e di non capire. Vogliamo ripetere quell'esperienza? E regalarci una nuova stagione di paura e di sangue?

(11 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Aprile 26, 2008, 10:00:50 am »

Giampaolo Pansa

Il complesso dei peggiori


L'Italia sta diventando la terra promessa di molti criminali stranieri che arrivano qui perché non pagano dazio  Roma può diventare la Caporetto del Pidì. Se Francesco Rutelli perde e Gianni Alemanno vince, la faccenda si farà spessa per tutto lo stato maggiore del Partito Democratico, e in primis per Walter Veltroni. Una sconfitta anche nella capitale provocherà un disagio sempre più profondo nella base elettorale del Pidì. E spingerà il vertice del partito a una brutale resa dei conti interna.

Se accadrà, bisogna augurarsi che l'eventuale seconda batosta costringa tutto il Pidì a riflettere su come è fatta l'Italia di oggi. Dopo la prima legnata del 13 aprile questa riflessione ha stentato ad avviarsi. Me ne sono reso conto da un piccolo fatto. La sera di martedì 15 aprile, a scrutinio dei voti già completo, mi sono trovato a 'Porta a Porta', seduto accanto a due eccellenze democratiche, Rosy Bindi e Livia Turco. Avevano di fronte due dei vincitori, Franco Frattini e Ignazio La Russa. Si parlava di sicurezza, uno dei terreni della sconfitta per il Pidì. Eppure Bindi e Turco si ostinavano a cadere nell'errore di sempre. Accusando il centro-destra di speculare sulla paura della gente, quasi che l'insicurezza di molti elettori fosse un'invenzione della propaganda avversaria. Ho cercato di spiegare alle due signore che stavano perdendo le elezioni per la seconda volta. Ma ho avuto l'impressione che fossero parole al vento.

A quel punto mi è tornato alla mente un bel libro di Luca Ricolfi, uscito qualche anno fa e dedicato alla sinistra italiana. Ricolfi spiegava l'antipatia che suscitano le tante sinistre con il 'complesso dei migliori' che le affligge. Ossia con la loro convinzione di essere il meglio fico del bigoncio. E di aver sempre ragione, anche a costo di cantonate fenomenali. A 'Porta a Porta', invece, ho visto in azione il complesso dei peggiori. Ovvero la maledetta abitudine di non far tesoro di nessuna lezione e di cadere di continuo negli stessi errori.


Nella battaglia per il Campidoglio il complesso dei peggiori si è manifestato di nuovo. In tutti i dibattiti, il centro-sinistra ha dato mostra di non aver compreso una verità: il problema della sicurezza è soltanto uno degli aspetti di una questione assai più vasta. È quella del ripristino di un'autorità democratica, fondata sul rispetto della legge e sulla punizione certa di chi la infrange.

Se questa autorità non viene affermata con forza, nessun provvedimento per la sicurezza avrà effetto. L'Italia resterà un paese dove chiunque, italiano o straniero che sia, può farla franca. Continuando a delinquere con la certezza quasi assoluta di non essere punito. Vengono arrestati clandestini già espulsi quattro o cinque volte, ma che sono rimasti qui a far danni. Quei pochi che finiscono in manette spesso sono rimessi in libertà, senza che nessuno ci spieghi il perché.

Nella mia città d'origine, Casale Monferrato, la polizia ha catturato una banda di quattro zingare slave, fornite di arnesi per scassinare. Ebbene, l'esame delle impronte digitali ha rivelato che erano già state fermate in diverse parti dell'Italia del nord. Una per ben ottantotto volte, un'altra per settantasette, una terza per quarantotto, mentre la quarta, una principiante, era incappata nella polizia già in sette casi.

Abbiamo bisogno di diventare un paese severo con tutti, e per primi con noi stessi. Ecco una verità che la politica deve imporre. E che i magistrati debbono affermare con un rigore che oggi si vede poco. In caso contrario, il complesso dei peggiori ci contagerà sino al midollo. Già oggi siamo su questa china pericolosa. L'Italia sta diventando la terra promessa di molti criminali stranieri, sia comunitari che extra. Arrivano da noi perché siamo una società di pastafrolla, dove tutto è lecito e il dazio non si paga.
E visto che i romeni sono di moda, ormai anche le pietre sanno come mai sono diventati i protagonisti della cronaca nera. In Romania, il governo ha stretto i freni con una durezza prima sconosciuta. E così i delinquenti di quel paese si stanno trasferendo in Italia, sicuri di potersi muovere con tranquillità, visto che le manette vengono sempre promesse, ma scattano poche volte e per poco tempo.

Adesso abbiamo eletto un governo di centro-destra che garantisce rigore, severità, leggi dure, forze dell'ordine più numerose e sempre in campo. Se il cavalier Berlusconi farà per davvero quello che va promettendo, come si muoverà l'opposizione di centro-sinistra? Insisterà nel dire che i berluscones speculano sulla paura della gente? Voglio proprio vederli all'opera, Veltroni & C. Nella speranza che non siano tanto sciocchi da scavarsi la fossa da soli, come ha già fatto la sinistra regressista. Una compagnia di suicidi, quella guidata dal Parolaio Rosso, che i riformisti dovrebbero smettere di rimpiangere.

(24 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Maggio 03, 2008, 03:59:43 pm »

Giampaolo Pansa.

Suicidio numero 2


Troppa arroganza, troppa disinvoltura, troppa fiducia nella faccia da bel ragazzo stagionato. E il tutto al limite della trombonaggine  La marea nera. La marcia su Roma. Il marcio su Roma. La notte su Roma. All'armi, son fascisti! Tornano quelli di Salò. La democrazia è a rischio. Ci vogliono togliere la libertà. Hanno inventato lo stupro della ragazza del Lesotho. Alemanno? No, Lupomanno. Il genero di Pino Rauti, il capo di Ordine Nuovo. Il nero con la croce celtica. L'ex picchiatore. Salviamo la capitale antifascista. Salviamo il 25 aprile. E avanti così, fino al contorto grido di dolore dell''Unità', la domenica del ballottaggio: "Se vince Alemanno, passa con lui un vento furioso di destra che abbatte limiti e moderazioni e qualunque incentivo a trattenere impeti, eccessi, smottamenti pericolosi del pezzo di terreno democratico su cui siamo accampati tutti".

Così il centro-sinistra urlava e scriveva, nell'illusione di sottrarre il Campidoglio a Gianni Alemanno. Il guaio è che, proprio su quel pezzo di terreno democratico, gli accampati del Pidì hanno reso più fosco il dramma elettorale sparandosi un secondo colpo alla nuca. È possibile suicidarsi due volte, per di più nel giro di quindici giorni? Per il Pidì sembra di sì. Il suicidio numero 1 ha la data della sconfitta nelle elezioni per il Parlamento, subita da Silvio il Caimano che a sinistra davano per morto e sepolto. Il suicidio numero 2 sta nei titoli dei giornali sulla battaglia di Roma. E ci vorrà qualche anno prima che questo colpo di pistola sia assorbito e dimenticato.

Nel frattempo, il caso romano verrà sezionato e studiato nei primari laboratori di politologia. Ma l'italiano medio ha già capito tutto. La prima cosa che ha compreso è l'antefatto del dramma: Francesco Rutelli non aveva nessuna voglia di fare il candidato sindaco. Era già stato in Campidoglio per due mandati e, visto il rango di vice premier, sperava in un avvenire radioso. Ma i capi del Pidì, a cominciare da Walter Veltroni e da Massimo D'Alema, hanno deciso di fargli portare di nuovo la croce. E Rutelli non è riuscito a scansarla.


Ecco la causa principale della sconfitta romana. Ricordiamo la successione dei sindaci dal 1993: Rutelli, poi Rutelli, poi Veltroni, poi Veltroni, poi ancora Rutelli da candidato. Come non pensare: ecco i soliti noti al potere? Se qualche anima malvagia, annidata nel loft veltroniano, avesse deciso di ottenere un tragico Effetto Casta, non avrebbe potuto fare di meglio. Chi è stato il Maligno, il Corvo, la Quinta Colonna della Marea Nera? Ai posteri l'ardua sentenza.

Dopo la legnata romana, Rutelli ha strillato: "I compagni del Pidì mi hanno lasciato solo!". È possibile, ma anche lui ci ha messo del suo. Troppa arroganza, troppa disinvoltura, troppa fiducia nella faccia da bel ragazzo stagionato. E il tutto al limite della trombonaggine. Nel dibattito tivù a 'Ballarò', ha commesso una smarronata fatale: quella di rivolgersi ad Alemanno appellandolo "Tesoro, tesoro mio!". Per di più con il tono del capufficio che striglia una segretaria restia a capire che cosa pretenda il principale.

In quel momento ho pensato: "Cicciobello è destinato a perdere". Come succede quasi sempre a quelli arcisicuri di sé e che cercano di trafiggere gli avversari con il ridicolo. Ma oggi, insieme a Rutelli, affoga sotto le risate tanta altra gente. Ad annaspare tra i marosi del grottesco vedo per prima la sinistra regressista, quella dell'ex-Parolaio Rosso. Era convinta di trovare in Campidoglio una rivincita immediata. Invece si è scoperta di nuovo al tappeto. Adesso cercherà di aggrapparsi alla vittoria di Vicenza o di Massa Carrara. Già, proprio a Roma dicono: "Consolati con l'aglietto!".

Sconfitti insieme a Rutelli sono anche i media troppo schierati con la Casta rossa. Pure loro hanno preso un abbaglio fenomenale. Avevano già mostrato di non conoscere l'Italia del 2008. E hanno subito toppato di nuovo su Roma. Oggi piangono, strillando al fascismo che ritorna. Ma farebbero meglio a rivedere certe trasmissioni della Rai e a rileggersi il diluvio di titoli e di articoli sullo scontro per il Campidoglio: una vana barriera cartacea che, prima di tutto, è stata un pessimo servizio ai loro lettori. Come succede sempre quando l'informazione si degrada a propaganda.

Adesso non resta che aspettare il possibile contraccolpo dentro il vertice del Pidì. Il Bestiario si augura che non ci sia. Sarebbe il suicidio numero 3. Ma anche un inizio di disordine metterebbe nei guai grossi un partito appena nato. Mi viene in mente l'urlo rabbioso di mia nonna Caterina Zaffiro, classe 1869, quando scopriva che noi ragazzi stavamo mettendo a soqquadro l'alloggio: "Basta con questa Balcania!". La Balcania erano i Balcani, sempre nel caos prima dell'arrivo del maresciallo Tito. Sì, attenti alla Balcania, amici del Pidì. Anche perché nessun maresciallo provvederà a salvarvi.

(02 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Maggio 19, 2008, 03:03:06 pm »

Quando Togliatti disse basta

di Giampaolo Pansa


Esce 'I tre inverni della paura', il nuovo romanzo storico di Giampaolo Pansa. Ambientato nel 'triangolo della morte'. Una storia d'amore e centinaia di delitti. Ne pubblichiamo un capitolo  Palmiro TogliattiTogliatti si preparò con cura alla missione reggiana. Mise nella cartella due documenti pericolosi per i compagni di Reggio. Il primo era un rapporto del 20 agosto 1946, inviato dal prefetto Potito Chieffo al ministero dell'Interno. Il secondo, del 7 settembre, era la relazione stesa da un ispettore dello stesso ministero, inviato a Reggio Emilia da De Gasperi, subito dopo l'uccisione del sindaco di Casalgrande.

Quest'ultima informativa rivelava una serie di circostanze che si riscontravano in quasi tutti i delitti del dopoguerra nel Reggiano. Erano stati sempre compiuti di sera, quando il buio copriva agguati, sparatorie, sequestri e omicidi. Gli assassini agivano in gruppi di tre o quattro persone. Le armi usate erano rivoltelle e mitra, mai fucili. La vittima veniva raggiunta e colpita in casa o nelle immediate vicinanze dell'abitazione. Ogni volta, gli assassini si presentavano mascherati, con fazzoletti rossi o neri. Era una descrizione perfetta degli Squadroni della morte. Infine, a proposito del delitto Farri, il fascicolo puntava il dito contro una banda di partigiani rossi, ormai identificata.

A rendere più inquieto il Migliore c'erano infine le conseguenze dell'omicidio di don Pessina. La ronda comunista a San Martino in Piccolo aveva ucciso il prete alle ore 22 del 18 giugno 1946. E l'amnistia varata da Togliatti quattro giorni dopo comprendeva tutti i delitti politici compiuti sino alle ore 24 del 18 giugno. A Reggio qualcuno aveva subito osservato che i termini di quel provvedimento di clemenza erano stati studiati apposta per mettere al sicuro gli assassini del parroco.

Tutto questo avrebbe già dovuto bastare. Ma agli occhi di Togliatti, l'effetto più pernicioso di quel delitto era un altro. La morte di don Pessina aveva scatenato l'ira del nuovo vescovo di Reggio. E il partito si era accorto subito di avere in monsignor Socche l'avversario più deciso. L'avevano capito per primi i compagni di Cesena, la diocesi di provenienza del prelato. (...)


Togliatti arrivò a Reggio Emilia nella tarda mattinata di lunedì 23 settembre 1946. E si recò a casa del sindaco Campioli che si era offerto di ospitarlo. Qui gli portarono i giornali emiliani e lui cominciò subito a sfogliarli.

Il leader del Pci considerava molto importante la carta stampata, l'unico media efficace allora esistente. Si occupava dell''Unità', il quotidiano del partito, con una cura costante, quasi maniacale. Però leggeva con altrettanta attenzione i fogli avversari. La propaganda comunista li considerava cartaccia. Ma non era questa l'opinione del Migliore.

Tra i giornali che gli portarono a casa di Campioli, trovò di certo gli ultimi numeri della 'Nuova Penna'. Quello di luglio e i due di agosto. Togliatti si rese conto che non era per niente 'un libello sedicente indipendente'. A bollarlo così era stato il prefetto Chieffo, spesso attaccato dal giornale di Eugenio e di Giorgio che lo ritenevano troppo tenero verso i comunisti.

Togliatti considerò accigliato le prime notizie sulle fosse clandestine scoperte in provincia. E gli ci volle poco per fare due più due. L'omicidio di don Pessina, il delitto Farri, l'emergere delle sepolture segrete, la guerra scatenata dal vescovo Socche, le velleità rivoluzionarie del vertice comunista reggiano e l'esistenza di incontrollabili nuclei di killer rossi: ecco un ginepraio di quelli rognosi. Zeppo di faccende molto pericolose. E foriere di guai anche più pesanti. Dunque s'imponeva un repulisti duro, molto duro.

La purga venne annunciata nell'incontro più importante delle tre giornate reggiane di Togliatti. Si tenne la sera dello stesso lunedì, sempre nell'abitazione di Campioli. Il peso di quel vertice era testimoniato dall'elenco dei dirigenti che il leader del Pci aveva deciso di convocare e di strigliare.

Venivano dalle tre province dove la seconda guerra civile era la più sanguinosa. Oltre a Campioli, c'era il sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza. E quello di Modena, Alfeo Corassori. Insieme a loro tre dirigenti della federazione reggiana. Il primo era Nizzoli, il segretario fuori di testa. Insieme a lui, il Migliore aveva voluto incontrare Osvaldo Salvarani e Riccardo Cocconi. Quest'ultimo era un comandante partigiano garibaldino che aveva inutilmente tentato di far accettare da Nizzoli un documento di condanna del delitto Mirotti.

Qualcuno si aspettava di veder arrivare anche l'altro padrone di Reggio: il compagno Didimo Ferrari. Ma per il leader comunista, Eros era soltanto il presidente dell'Anpi, dunque un signor Nessuno o quasi. E non si curò di convocarlo.

Togliatti aveva sotto gli occhi il bilancio sanguinoso del dopoguerra in quelle tre province. Si trattava di un conto ancora parziale, per due motivi. Il primo era che l'epoca dei killer trionfanti non poteva dirsi conclusa. Il secondo era che nemmeno il vertice del Pci conosceva con esattezza le dimensioni delle mattanze compiute dopo la liberazione.

Tuttavia, anche i rendiconti incompleti apparivano terrificanti. A Bologna e nella sua provincia risultavano uccise almeno 770 persone. A Modena e nel suo territorio gli assassinati erano 890. A Reggio, infine, le vittime della seconda guerra civile erano 560, e forse di più. In totale i cristiani accoppati risultavano 2.220, secondo un calcolo prudente e parziale.

Nel settembre 1946 Togliatti aveva cinquantatré anni, sempre vissuti perigliosamente, soprattutto nella fase dei grandi processi staliniani. In quell'epoca di terrore, Togliatti viveva a Mosca, all'Hotel Lux. E non aveva battuto ciglio neppure quando la polizia segreta sovietica si era portata via suo cognato, Paolo Robotti, e tanti altri comunisti italiani. Tutti compagni poi fatti uccidere da Stalin o mandati a morire nei gulag. Robotti era uno dei pochi a essersi salvato.

Sotto la sferza staliniana, il Migliore aveva apprezzato l'importanza del cinismo e della durezza d'animo. Due doti che non gli facevano difetto. E che lo avevano aiutato a superare prove assai più aspre di quella riunione in provincia. Un incontro che lui risolse alla sua maniera: con rapidità e freddezza.

Del vertice a casa Campioli non si seppe quasi nulla. Nessun verbale venne steso. O se ci fu, è sempre stato tenuto segreto. Come segrete rimasero le testimonianze dei presenti nell'alloggio del sindaco di Reggio. Ma è facile immaginare che cosa disse Togliatti, con la sua voce chioccia e il tono gelido del professore che annuncia agli allievi una bocciatura in blocco.

Il primo ordine che impartì fu di smetterla di uccidere. Nessuno dei delitti commessi nelle tre province emiliane era utile al partito. E meno che mai alla rivoluzione, per chi ci credeva. Poi censurò in modo pesante l'operato della federazione di Reggio e della sua struttura periferica. Nell'ipotesi meno grave, non avevano saputo impedire i delitti. In quella più grave, li avevano ordinati e coperti.

Dunque, il Pci reggiano si era macchiato di due colpe pesanti: un'insufficienza assoluta nella vigilanza e una stupidità politica che non ammetteva scuse. Le conseguenze erano inevitabili. Il vertice del partito reggiano doveva essere rimosso. A cominciare dal segretario della federazione. Il repulisti avrebbe avuto una cadenza lenta, per non offrire pretesti alla polemica degli avversari. Ma ci sarebbe stato, entro la fine di quell'anno o al più tardi all'inizio del 1947.

Nizzoli capì che la sua sedia aveva iniziato a scricchiolare. Però accettò le critiche di Togliatti senza reagire. Mantenne la stessa espressione impassibile, quando il segretario del Pci lo censurò in modo aspro, sia pure senza nominarlo. Accadde due giorni dopo, alla Conferenza di organizzazione del partito reggiano.

Il Migliore accusò Nizzoli e compagni di aver creato una condizione di disordine insostenibile. I risultati elettorali e del tesseramento attenuavano soltanto di poco il danno politico e d'immagine per il partito. Poi concluse, gelido: "È più facile dirigere un'unità partigiana in combattimento che non una grande federazione di quaranta o cinquantamila iscritti".

Gli effetti della visita reggiana di Togliatti si fecero subito vedere. Gli Squadroni della morte smisero di sparare. E di delitti eccellenti non ne vennero più commessi. Eppure anche questa tregua improvvisa andò a discredito del partito. Infatti apparve a molti un'ammissione di colpa.

(16 maggio 2008)

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