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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 141103 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 24, 2008, 10:19:27 pm »

Bocca: «È la fine della nostra storia, se dici che sei antifascista ti ridono in faccia»

Rinaldo Gianola


«Roba da pazzi. Il sindaco Alemanno vuole dedicare una strada ad Almirante, uno che fucilava i partigiani. Anzi no, mi sbaglio: non sono matti.
È una provocazione, la provocazione di chi si sente vincitore e può fare quello che vuole». Giorgio Bocca, partigiano e giornalista, è uno dei pochi intellettuali in giro che si oppone alla revisione fai-da-te della storia e che, nonostante l’aria che tira, ha ancora il coraggio di difendere la Resistenza, la Costituzione repubblicana basata sull’antifascismo. Purtroppo non si fa illusioni, «l’Italia e gli italiani sono così...».

Bocca, ci tocca vedere pure questa: una strada intitolata ad Almirante.

«Non c’è niente di strano. I fascisti sono al governo, hanno vinto e vogliono far vedere quello che sanno fare. L’altra sera, dopo il consiglio dei ministri a Napoli, ho letto che Berlusconi è andato a far festa con Gasparri. Capito? I fascisti si sono riciclati, adesso fanno i ministri, hanno il potere, sono tornati in forze e, come hanno detto, non si sentono più figli di un dio minore».

Ma Almirante...

«Almirante è sempre stato un fascista: un difensore della razza, un repubblichino di Salò che partecipava ai rastrellamenti di partigiani in val Sesia. Adesso lo celebrano, andiamo bene... Siamo a un’altra svolta. L’Italia è sempre la stessa: trionfano il conformismo e il trasformismo. Oggi c’è un altro cambio di stagione».

È la fine di una storia?

«Lo ha detto Fini, diventato presidente della Camera: “Con me finisce il dopoguerra”. Voleva dire che finisce anche l’antifascismo. E quindi possono dedicare le strade a chi vogliono»

Possibile che una notizia del genere non desti qualche reazione, magari una protesta della sinistra...

«La sinistra? Perchè, c’è ancora la sinistra? Ho l’impressione che pur di campare la sinistra, o quel che rimane, sia disposta a tutto. Bisogna mangiare nella greppia del potere per tirare avanti».

E l’antifascismo della Costituzione?

«Se oggi dici che sei antifascista rischi di trovare qualcuno che ti ride in faccia, i valori sono andati a farsi benedire. Ma con chi te la prendi? I fascisti sono diventati tutti filoisraeliani, parlano pure del 25 aprile come se fosse la loro festa. E tutto fila liscio, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Allora ci sta anche la strada per un fucilatore di partigiani».

Deluso?

«Molto di più. Sono appiattito, sotterrato, sono quasi morto. Dal punto di vista politico uno con la mia storia è finito. Non mi riconosco in questo paese, nei “valori” che esprime questa classe dirigente. La mia storia è scomparsa. Io sono uno di quelli che si è battuto per il ritorno dell’Italia alla democrazia, per la sconfitta della dittatura fascista, difendo la memoria della stagione partigiana che riscattò questo Paese. Ma oggi sono uno sconfitto, hanno vinto loro. Basta guardarli. Ormai si è stabilito che la democrazia è una parvenza, un’illusione. E, forse, è vero».

E quest’Italia assorbe tutto, senza mai destarsi?

«Gli italiani sono trasformisti, sempre gli stessi, stanno con chi vince. Magari una volta c’era qualche speranza, qualche principio per cui battersi. Forse anche noi partigiani ci eravamo illusi di cambiare il Paese. L’altro ieri Berlusconi ha detto alla Marcegaglia che le proposte di Confindustria sono il programma del suo governo. Ma ci rendiamo conto? Come fa il capo del governo a dire una cosa del genere? Quando mai nella nostra storia abbiamo pensato che la Confindustria fosse il Paese? E la Marcegaglia, la raccomando... Ha fatto un intervento per accusare tutti, senza un cenno autocritico, senza un rimorso su quanto sta accadendo. Questi capitalisti pensano di essere sempre nel giusto, di non aver nessun difetto».

E invece?

«Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo, ma non è scevro di gravi difetti. È un sistema in crisi, ci sta togliendo l’acqua, l’aria per vivere. Stiamo sulla stessa barca e stiamo affondando, tutti felici in questo globalismo catastrofico. Noi italiani facciamo finta di niente, ma stiamo precipitando. E ora è comparso il segno del precizio».

Quale?

«La scelta di tornare al nucleare. Una follia. Ricadiamo nello stesso errore che avevamo evitato, per un colpo di fortuna, vent’anni fa. E il bello è che torniamo al nucleare con le stesse motivazioni di allora, “perchè ci serve”. Ci siamo dimenticati tutto. A questo punto ci meritiamo le centrali nucleari e anche la strada per Almirante».

Pubblicato il: 24.05.08
Modificato il: 24.05.08 alle ore 8.00   
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« Risposta #46 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:33:46 pm »

Il duce modernizzatore

Giorgio Bocca



Il sindaco di Roma Gianni Alemanno dice che il Fascismo ebbe il merito di modernizzare l'Italia. Come autore della 'Storia della guerra fascista', pubblicata da Laterza nel 1969, vorrei ricordare ad Alemanno che certamente l'Italia del ventennio si modernizzò, come tutti i paesi industriali di questo mondo, ma con gravi ritardi nell'industria pesante, nell'aviazione, nei mezzi corazzati, nell'artiglieria, cioè proprio nelle industrie decisive per un regime che aveva come fine la guerra di conquista.

Il ritardo non fu imputabile solo al Fascismo, ma al sistema finanziario che il Fascismo aveva ereditato dall'Italia liberale, che già dalla Prima guerra mondiale aveva anteposto all'innovazione tecnologica la crescita dei profitti. Un ceto di produttori spesso freddo, se non ostile al Fascismo, si era però rifiutato di costruire una tecnostruttura moderna, e mentre negli Stati Uniti un manager come Alfred P. Sloan, della General Motors, pubblicava le sue memorie sulla tecnica manageriale, da noi silenzio e indifferenza, e Adriano Olivetti, che era stato il primo ad adottare metodi avanzati, veniva criticato dai dirigenti della Fiat che chiamavano la Olivetti 'cavalleria leggera'.

Nell'agosto del '38 si riunisce la commissione degli Armamenti, presieduta da Mussolini. Il duce chiede come si possa impostare il rinnovamento delle artiglierie. Gli risponde il generale Favagrossa. Il ministero dei Cambi e Valute ha fatto sapere che mancano le divise pregiate per importare gli impianti, e Giordani, presidente dell'Iri, aggiunge: "Bisognava pensarci dieci anni fa". "Già", conclude il duce, "avete ragione Giordani, bisognava pensarci". Il maresciallo Badoglio, capo dello Stato maggiore e del comitato per l'Indipendenza economica non ha nulla da aggiungere, conosce bene il pensiero del duce che rende inutile ogni discussione: "Mi bastano qualche migliaio di morti per sedermi da vincitore al tavolo della pace".


Nella convinzione che la guerra comunque la vinceranno i tedeschi si fanno affari assurdi, come la vendita alla Francia, nostro prossimo nemico, di materiale bellico per 400 milioni, e per altri 2 miliardi alla Romania e all'Ungheria. Persino la Russia dei soviet acquista da noi motori di aviazione Caproni. Mussolini, che ha l'arte di superare le contraddizioni, sentenzia: "Ognuno, anche il cervello più opaco, può constatare che la divisione fra economia di guerra e di pace è semplicemente assurda". E un giorno che è in visita all'aeroporto di Forlì, dice al generale Pricolo, comandante dell'Aviazione: "Miracolo quel caccia che abbiamo visto in prova.

Lo chiameremo CaPreCa, caccia Predappio-Caproni". Pricolo assente, non dice che il caccia miracolo è uno degli aerei da turismo che serve agli addestramenti dei riservisti, non dice che in mancanza di aerei molti riservisti si addestrano su modelli da laboratorio. La guerra contro la Francia e l'Inghilterra, come previsto, la vincono i tedeschi, e un Hitler generoso concederà l'armistizio solo se sarà firmato anche dall'Italia. Il 22 giugno i plenipotenziari francesi arrivano a Roma, e i nostri Badoglio, Ciano, Pricolo e Roatta li ricevono stringendogli calorosamente la mano, paiono sinceramente commossi. I francesi pongono la questione dei fuoriusciti italiani, a cui la Francia ha dato asilo. Non ci sono problemi, non se ne parlerà nell'armistizio, meglio non dare pubblicità a un'emigrazione che gli italiani devono ignorare.

Ma che modernizzazione fascista è stata quella, in un regime aggressivo e conquistatore che non sa darsi le armi necessarie?

(23 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Giugno 06, 2008, 04:58:33 pm »

Giorgio Bocca

Se Silvio canta la ninna nanna


Berlusconi è cambiato come cambiano i vincitori e come cambia la loro generosità strumentale. Addormentare meglio che uccidere. Drogare dolcemente meglio che seviziare  Silvio BerlusconiDi fascisti in Italia non ce ne sono più. Neppure quelli che fanno il saluto romano, che sventolano bandiere con le svastiche o le croci celtiche. Il presidente della Camera, tempio della democrazia, Gianfranco Fini, ha detto che per lui il 25 aprile partigiano e il 1 maggio rosso sono due giorni fondamentali per la Repubblica. E Fini è un uomo d'onore.

Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, festeggiato in Campidoglio dai taxisti in camicia nera, è un vero democratico, che rende onore ai martiri delle Fosse Ardeatine.

E Silvio Berlusconi? Beh, lui è il più cambiato di tutti, lo dice anche Adriano Celentano, la "coscienza della nazione", lo dice anche il governatore della Campania, Antonio Bassolino se non ci aiuta lui - dice - Napoli affonda.

I vincitori, com'è noto, sono persone fortunate, a cui il successo moltiplica le virtù e le seduzioni. Solo un regista matto può pensare che Silvio sia sempre un Caimano, per Celentano e per gli uomini di buona volontà è un altro, irriconoscibile, modestissimo nelle pretese, generoso con gli avversari. Davvero?

Noi, sui fascisti non più fascisti e sul Caimano diventato agnello, conserviamo gli antichi dubbi. In che cosa è cambiato Berlusconi? Nella capacità di sedurre nemici e concorrenti? Il primo aneddoto che mi raccontò, quando lo conobbi, fu che durante un viaggio in ferrovia da Roma a Milano, riconobbe nel signore seduto davanti a lui il politico più ostile a concedergli le licenze per le sue televisioni: "Ebbene - mi disse - quando arrivammo a Milano, era d'accordo con me su tutto".

Due settimane fa Eugenio Scalfari ha cercato di spiegarlo a 'Che tempo che fa': "Berlusconi è uno che mente in continuazione, senza complessi e pentimenti. Solo che alle sue menzogne crede profondamente, con una tenacia e una determinazione incredibili".

Quando lavorai per qualche tempo nelle televisioni di Berlusconi, e lo difesi nei giorni in cui le avevano oscurate, Eugenio disse bonariamente: "Giorgio, sei innamorato di Berlusconi". Per fortuna gli amori passano. Oggi dovrebbe essere facile capire che Berlusconi è cambiato come cambiano i vincitori e come cambia la loro generosità strumentale: oggi è meglio governare cooptando o, se preferite, corrompendo, piuttosto che uccidendo o imprigionando.

I consumi di massa non permettono più le semplificazioni della ferocia, gli internati e i fucilati non comprano automobili o telefonini, le polizie costano, le carceri sono insufficienti. Meglio addormentare che uccidere. Meglio drogare dolcemente che seviziare. Ma la tentazione autoritaria resta, ed è meno resistibile.

Questo fascismo, a parole non più fascista, questa democrazia universale, dove è sparita la lotta di classe, e dove il limbo dei call center permette a tutti di immaginarsi ricchi e sazi, i problemi li lascia irrisolti. Con il fascismo buono, democratico, liberale, l'antifascismo non ha più senso, è una retorica fastidiosa, che Berlusconi e i suoi sorvolano, cambiando registro. A qualcuno pare che basti.

Ma guardiamoci attorno, guardiamo cos'è quest'Italia pacificata dai benpensanti, e vedremo che questa pacificazione è in realtà l'accettazione del peggio. Berlusconi fa il suo mestiere di uomo di potere, ha capito che la sola politica che possa aprirgli le porte del Quirinale è l'accordo di comodo. Ma vien voglia di ricordare il poeta: "Oh non per questo dal fatal di Quarto...".

(30 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Giugno 06, 2008, 04:59:27 pm »

Giorgio Bocca

La memoria di Almirante


Le ragioni per cui la democrazia italiana sarebbe debitrice di una strada a lui dedicata non sono comprensibili. Salvo una: che i sempre fascisti si sono riciclati e appoggiano Berlusconi  Il sindaco di Roma Gianni AlemannoIl sindaco di Roma Gianni Alemanno e il signor Andrea Ronchi di Alleanza Nazionale lamentano che a sinistra si faccia opposizione a intitolare una strada di Roma a Giorgio Almirante, fondatore del Movimento sociale italiano. Perché gli epigoni del neofascismo vogliono che la capitale d'Italia dia questo riconoscimento a uno che aderì alla Repubblica sociale di Salò e partecipò alla repressione dei partigiani?

La ragione ci pare questa: perché la minoranza d'italiani che seguì Mussolini a Salò, alleata fino all'ultimo alla Germania nazista, responsabile dell'Olocausto, il più grave dei delitti commessi contro l'umanità, è convinta di aver reso un servizio al Paese, che Almirante sia stato, in qualche modo, utile alla rinascita democratica. Come? Nel modo che Enrico Mattei ha ricordato con la franchezza dell'uomo di potere: "I neofascisti del Msi per me erano come un taxi. Li usavo per fare una corsa, li pagavo, e poi pensavo agli interessi dell'Eni e del Paese".

Non era solo Mattei a usare quel taxi: lo prese anche Alcide De Gasperi quando si trattò di vincere il referendum per uscire dalla Monarchia e passare alla Repubblica, e lo prese anche Palmiro Togliatti quando, come guardasigilli, firmò l'amnistia per i combattenti di Salò e persino per i loro delitti contro la popolazione civile. I superstiti di Salò erano pur sempre un bacino di voti che faceva gola a tutti, anche ai comunisti del Pci. E allora, visto che della rinascita neofascista furono in certo modo complici anche i due partiti più importanti della Repubblica 'nata dalla Resistenza', perché non riconoscere ad Almirante la piccola attestazione di benemerenza di una strada nella periferia romana?

A Roma ci saranno migliaia di strade più o meno costellate di buche che neppure i taxisti conoscono a memoria. A Tokyo evitano persino di intitolarle a qualcuno, i taxisti le riconoscono da un edificio, da un ufficio. Non sempre: una volta chiesi di essere portato all'ambasciata italiana, e solo dopo mezz'ora di corsa capii che il taxista non sapeva dove fosse.


Dunque, perché opporsi alla strada romana per Giorgio Almirante? Alle strade si dà un nome perché siano riconoscibili, e poco importa se si tratta del nome di un filantropo o di un tiranno. Ma quando il nome è di una persona che ha avuto una parte non trascurabile nella storia recente, non è il caso di chiedersi se la sua memoria sia gradita ai cittadini? La memoria di Almirante probabilmente è gradita ai suoi compagni di avventura politica, alla minoranza dei sempre fascisti che Almirante riuscì a far accettare ai partiti antifascisti dell''arco costituzionale'.

Ma è una memoria gradita all'intero Paese? Diremmo proprio di no. Sia De Gasperi che Togliatti, padri fondatori della nostra democrazia, sapevano che, agli occhi del mondo civile, il neofascismo non era gradito. De Gasperi andò a Parigi per la firma del trattato di pace e disse ai vincitori: "So che in questa assemblea tutto mi è contro salvo la vostra personale cortesia". E la rinascita di un movimento neofascista non serviva certo a procurarci la benevolenza dei vincitori. E Togliatti firmò l'amnistia sapendo che gli iscritti al suo partito la disapprovavano.

Riassumendo: le ragioni per cui la democrazia italiana sarebbe debitrice di una strada a Giorgio Almirante sono poco o niente comprensibili. Salvo una: che i sempre fascisti si sono riciclati e appoggiano il governo Berlusconi.

(06 giugno 2008)

Da espresso.repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Giugno 21, 2008, 05:05:06 pm »

Giorgio Bocca


Benedetto Silvio


Papa Ratzinger approva il nuovo corso senza perifrasi, gioisce per il nuovo clima politico e invita i vescovi a dare il loro contributo. Ma più che gli interessi del Paese sembra avere a cuore quelli del Vaticano  Ogni volta che un papa di Roma chiede al Cesare di turno privilegi e sussidi per la chiesa, i vaticanisti al servizio della Santa Sede esortano a "non appiattire il discorso", a non "usare la logica del mondo per la sfera religiosa". Che è una bella pretesa in un paese come il nostro dove il sommo pontefice è anche il vero e riconosciuto monarca, ripreso dalle televisioni a ogni sua comparsa in pubblico, citato da ogni fonte d'informazione qualsiasi cosa dica, considerato un maestro di laicità anche quando, e accade di continuo, antepone la religione alle istituzioni.

Lo dico da italiano cattolico apostolico romano, cioè da uno nato e cresciuto nella millenaria cultura dei compromessi tra Dio e Cesare, che ci ha fatto così come siamo, latini e malleabili, furbastri ma non feroci, scettici ma superstiziosi, e tutto il resto che ognuno di noi, passato per parrocchie e catechismi, conosce benissimo.

Va però detto che questo modo di essere papisti, questa volta ci sorprende per la sua totale, aperta impudenza. La chiesa ha bisogno dello Stato per finanziare le sue strutture e i suoi servizi? Vuole tornare in forza nelle scuole pubbliche e private? Vuole un fisco che la esenti dai tributi? Vuole un'economia in crescita esente dalla lotta di classe? E lo dice con estrema franchezza.

Le elezioni hanno riportato al potere Silvio Berlusconi, e l'alleanza di centrodestra che da sempre, con le buone o con le cattive, chiede ai cittadini la pace sociale a fini produttivi, che, in pratica, come sappiamo, vuol dire ricchi sempre più ricchi e privilegiati e poveri che contano sempre di meno. E il papa tedesco approva senza perifrasi, esprime "gioia per il nuovo clima politico", invita i vescovi "a dare il loro specifico contributo a questa fase di concordia, a rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni, in virtù delle percezioni più vive delle responsabilità comuni per il futuro della nazione".


Un clima nuovo più fiducioso e costruttivo? Gioia per il nuovo clima politico? Così dice il papa. Se però in questo Paese è ancora lecito laicamente dissentire, diremmo che queste prese di posizione a favore di un modo di fare politica, di fare economia, di fare società siano più attinenti agli interessi del Vaticano che a quelli del Paese.

Il capo del nuovo governo che allieta il cuore di sua santità è un industriale che si è presentato all'assemblea degli industriali dichiarando che il suo programma di governo è esattamente come il loro, come quello della loro volitiva presidentessa Emma Marcegaglia. Neppure Mussolini, che era arrivato al potere con l'appoggio dei 'padroni del vapore', gli aveva mai riconosciuto la guida dello Stato, la guida della società. Tanto più che il bilancio della politica confindustriale non sembra proprio un invito all'ottimismo.

Il comunismo è fallito dovunque, ma il nostro capitalismo non ha assicurato nemmeno l'unità della nazione o la nettezza urbana, non ha sconfitto ma ha fatto prosperare le mafie. Si direbbe che il potere religioso e quello politico stiano trovando un pieno accordo per denunciare la lotta di classe come l'unico vero ostacolo al benessere e alla felicità generali. È un vizio antico dei ceti dominanti, purtroppo pagato con milioni di morti e di affamati.

(13 giugno 2008)


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Quel che il Papa non vede


'Aria nuova, di pace sociale e di rinata speranza'? Ma dove vive Benedetto XVI? Non sa che la criminalità organizzata è uscita allo scoperto, fronteggia e ricatta uno Stato debole?  Benedetto XVIIl bacio della mano del papa è un segno di sottomissione al potere ecclesiastico? Il presidente del consiglio Berlusconi, il liberale cavouriano del 'libera chiesa in libero Stato', il custode della Costituzione repubblicana laica, il bacio della mano l'ha fatto due volte, per le televisioni, unificate come non mai al servizio dei grandi poteri, e il reciproco compiacimento è stato evidente: il papa tedesco sorrideva e irraggiava soddisfazione.

I cronisti vaticani hanno notato che le sedie dei due erano state messe di traverso. Accanto e non dietro il tavolo, quasi preparate all'evenienza di un abbraccio. Il papa ha colto l'occasione della visita di Berlusconi per dichiarare urbis et orbis che in Italia "c'è un'aria nuova, di pace sociale e di rinata speranza".

Dove vive questo papa? In quale beato isolamento? Non lo sa che il paese Italia, come ha detto Giorgio Ruffolo, non è mai stato "così lontano dalla unificazione economica e politica, così amaramente lontano e frustrato?". E che un presidente della Regione siciliana ha aggiunto: "Siamo ormai vicini al punto di non ritorno, i nostri problemi pongono in questione la stessa democrazia". La rete delle parrocchie, presente nell'Italia intera come le stazioni dei carabinieri, non funziona più, non riesce più a informare le superiori gerarchie della situazione reale del Paese?

Il santo padre non sa che la criminalità organizzata, mafia, camorra, 'ndrangheta è uscita allo scoperto, fronteggia e ricatta uno Stato debole?
Ci sono due potentati italiani che ostentano un gran ottimismo e che scommettono sul successo di questo governo, che francamente non riusciamo a capire: la chiesa di papa Ratzinger e la Confindustria. La chiesa che dà il suo pieno appoggio a un governo moderato di centrodestra, e i giovani confindustriali, che con la loro presidentessa, Emma Marcegaglia, accolgono Berlusconi quasi con tripudio
, "Silvio, Silvio", come a ricompensarlo delle sue dichiarazioni di solidarietà corporativa: "Il vostro programma è il mio programma".

Ci sono due modi di affrontare i tempi difficili: quello churchilliano di dire ai cittadini che li attendono lacrime e sangue, e quello italiano di invocare un uomo della provvidenza. Che cosa vuole la chiesa? Risolvere i suoi problemi gravissimi facendosi ripianare i debiti da un governo amico? E cosa spera il governo? Di superare, grazie all'appoggio della chiesa, le terribili difficoltà di governare l'Italia e il mondo? La chiesa non sa che un ritorno al concilio di Trento e alla controriforma sarebbe esiziale per la sua unità? Il governo degli industriali non sa che il globalismo capitalista dei ricchi sempre più ricchi e dei poveri sempre più poveri porta a nuove guerre e alla fame di molti?

Persino nell'America del re dollaro sta crescendo la voglia del mutamento, la necessità di trovare nuove forme sociali, nuovi e meno pazzeschi modi di accumulare e distribuire. Tutto indica, anche per il nostro Paese, soprattutto per il nostro Paese, la necessità di arrivare a un 'socialismo della sopravvivenza', cioè a un modo ragionevole, moderno di rispondere ai bisogni dell'umanità, il liberal-socialismo che cercherà di far convivere i bisogni fisici dell'uomo con i suoi diritti. E allora, che senso ha plaudire ad alleanze conservatrici, a dittature morbide, pur di tirare avanti verso il prossimo, prevedibile disastro?


(20 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:47:32 am »

Giorgio Bocca

Il modello Santa Rita


Quel che succedeva nella clinica milanese sta nella cultura dominante dello sviluppo a ogni costo. Medici e amministratori hanno applicato alla sanità il principio di massimizzare il profitto sacrificando i deboli e gli ingenui  Disraeli, che del governo degli uomini se ne intendeva, ha detto: "Nel nome della necessità sono stati compiuti i delitti più inutili ed efferati". Nel nome delle grandi necessità contemporanee, quali lo sviluppo e il globalismo, se ne commettono altri altrettanto inutili ed efferati: nella Cina dallo sviluppo prodigioso a cui il capitalismo irragionevole guarda con ammirazione, decine di migliaia di minatori sono morti per la riapertura delle vecchie miniere di carbone, e stragi si susseguono nelle città mal costruite, o dove i fiumi sono stati sconvolti per l'elettrificazione forzata.

Anche oggi, forse, converrebbe ripensare alle superiori necessità che dominano la nostra vita associata, la nostra cultura, la nostra educazione, necessità che si presentano come progresso, e che regolarmente si traducono in violenza dei forti sui deboli.

Il caso della clinica milanese Santa Rita è illuminante. Qual è la superiore necessità che porta i dirigenti e i medici di una clinica ad abusare degli ammalati più deboli, degli anziani, degli ingenui e dei succubi? La necessità del profitto, del guadagno, dominante nell'economia globalistica. Si dirà che anche le superiori necessità dello sviluppo e dei consumi hanno dei limiti, che i dieci comandamenti valgono per tutti, ma non tutti sanno resistere alle tentazioni.

Amministratori e medici della clinica milanese hanno commesso peccati abominevoli, inutili ed efferati, come diceva l'ex premier inglese Benjamin Disraeli, ma dentro la cultura dominante dello sviluppo a ogni costo. Medici e amministratori della Santa Rita hanno applicato alla sanità i principi dello sviluppo e del consumismo di massa: massimizzare il profitto sacrificando i deboli e gli ingenui. Esattamente ciò che avviene nella maggiore delle industrie, l'edilizia, la 'madre di tutte le industrie', dove ogni giorno si contano vittime del lavoro, cioè i poveri o ignoranti mandati a morire per risparmiare sulle prevenzioni o i materiali.


Medici e amministratori della Santa Rita non sono, non dovrebbero essere, degli imprenditori qualsiasi: dovrebbero rispettare il giuramento d'Ippocrate o ricordarsi della carità cristiana, ma cosa ha fatto la cultura dominante dello sviluppo in difesa dell'onestà e contro l'avidità? Bettino Craxi definiva i suoi critici "moralisti un tanto al chilo", ma qui non si tratta di moralismo, si tratta di una scelta di vita per la sopravvivenza non di una classe, ma dell'umanità. Quando Enrico Berlinguer, uomo ragionevole, propose l'austerità, venne sconfessato dagli uomini del suo partito, della mitica classe operaia, dissero che era "la politica del tirare la cinghia". E invece era una proposta di cambiar registro, di cambiar cultura, di superare sia il liberismo capitalista sia il marxismo dei piani quinquennali fatti con gli schiavi del gulag.

Ci sarebbe anche un'osservazione, per così dire estetica: quali sono i modelli di vita, i desideri, le ambizioni che stanno dietro al produttivismo a tous prix? Le serate al Billionaire? Le vacanze in Puglia dell'emiro del Dubai su una barca lunga cento metri e con 500 invitati? Le nozze della figlia di José María Aznar, dove si ritrovano, non a caso, gli stessi che vanno al Billionaire?

(27 giugno 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:41:03 am »

Giorgio Bocca

Quella voglia di fascismo


Gli italiani si conoscono: sanno di essere una somma di piccoli autoritari in potenza. Basta vedere come si comporta chi arriva al comando di una azienda: megalomania, controllo dei dipendenti, richiesta di obbedienza assoluta ai sottoposti  Benito MussoliniIl risultato delle recenti elezioni, il successo dei ricchi e potenti che si autodefiniscono liberali, fa sì che da noi ci si chiede se stiamo ritornando al fascismo. E non valgono a tranquillizzarci le precisazioni degli storici sulla unicità irripetibile del medesimo.

Perché gli italiani temono un ritorno di qualcosa di molto simile al fascismo? Perché si conoscono, perché dai rapporti di ogni giorno con il loro prossimo sanno di essere una somma di piccoli autoritari in potenza. Qual è il modo di pensare e di essere che presto assume ognuno di noi che arrivi al comando di un'azienda, metal- meccanica o editrice, profit o non profit, cooperativa o padronale? In 90 casi su cento arriva la megalomania, l'alzabandiera quando è in azienda, il nome scritto in caratteri cubitali sulla facciata, le cento fotografie sull'house organ, meglio se con pretese culturali e collaborazioni ben pagate agli intellettuali cortigiani.

Fin qui vizietti quasi accettabili. Meno accettabile, ma inevitabile, il controllo di ciò che dicono e pensano i dipendenti. Nella mia lunga carriera ho capito, tardi e inutilmente, che qualsiasi critica tu faccia al padrone, anche se confidata all'amico sicuro, all'orecchio del padrone ci arriva. Con la tecnologia moderna dei controlli microfonici o telematici, solo un ingenuo può pensare di sfuggire al controllo, ma siccome la maldicenza e la critica sono diffuse, il risultato è che la megalomania padronale si può mutare in mania di persecuzione. Non c'è padrone che, in nome della necessità e dell'efficienza, non arrivi prima o poi a una richiesta di obbedienza del sottoposto. Non assoluta, non immediata, ma se il sottoposto dice no a una richiesta del padrone un numero intollerabile di volte, il padrone non si dimenticherà il suo nome, tra i non collaborativi o tra i riottosi.


Le riunioni aziendali, presto assurte a cerimonia religiosa, a Pentecoste, si modellano presto sul padrone - maestro che insegna e ordina ai dipendenti - allievi che ascoltano e annuiscono. Il padrone-maestro a volte presenta i suoi ordini come paterni consigli, ma anche qui, se il dipendente li rifiuta per una, due, al massimo tre volte, finisce, se non tra i reprobi, tra i rompiscatole, che per il padrone è la stessa cosa.

In gioventù, quando ero forte e presuntuoso, elaborai una teoria rarissimamente vincente e spessissimo per me micidiale. Dissi e scrissi che per fare carriera, per salire nella scala del potere era necessario contraddire il padrone, per affermare la propria decisa volontà a diventarlo. Ma è un gioco alla roulette russa. E infatti, lo avrete notato, quelli arrivati in alto sono tra i più prudenti e ossequienti.

Evitare le critiche al padrone è possibile, anche se impone un forte autocontrollo. Ma come evitare le lodi al padrone dei cortigiani, per cui servire e genuflettersi è un piacere?

Con questi la partita è comunque persa, perché il padrone li disprezza ma non può farne a meno, a volte li strapazza ma mai se ne libera. A ben guardare, il fascismo è questa normalità, quando le si aggiunge la galera o l'esilio.

(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 11, 2008, 10:38:42 pm »

Giorgio Bocca

Che razza di ottimisti


Più il mondo è avvelenato e asfittico, e più la stampa consolatoria ci riempie di effetti mirabolanti. La Terra è malata? Niente paura, la scienza ci salverà  La libera stampa è certamente una misura del progresso così come la grande informazione, ma si vorrebbe che fossero meno oscillanti fra filantropia e ferocia, fra ottimismo e catastrofismo, fra avvisi di pericolo e promesse mirabolanti, fra notizie vere e leggende metropolitane. La grande e libera informazione è certamente all'avanguardia nel progresso tecnico, nei modi di comunicare e di informare, ma si vorrebbe capire perché, nei periodi di siccità e di gran caldo, continuino a coltivare l'incombente minaccia dei piromani come secoli fa quella degli untori che seminavano la peste a Milano o delle streghe che rubavano i bambini in Valtellina e nel Canton dei Grigioni. Come si è poi saputo, la peste la portavano i lanzichenecchi di Carlo V sporchi e pidocchiosi, e le streghe o le 'fantine' delle valli piemontesi venivano perseguitate e magari arse vive perché diverse. In realtà i leggendari, inafferrabili piromani che ricompaiono ogni estate calda e secca, definiti dal capo della protezione civile come "i malvagi che vogliono rovinare l'Italia", sono poi degli italiani abbastanza normali nel loro vizio che è di rubare dove possono con il minimo rischio.

Nella stagione degli incendi tutti i giornali parlano dei piromani e si chiedono dove si nascondano, dove trami questa setta demoniaca. E non li trovano, perché l'incuria normale di chi butta un mozzicone di sigaretta in un cespuglio, o la modesta delinquenza di chi riga un'automobile con un cacciavite, sono le cause di quei piccoli delitti che, messi assieme, producono l'inferno. C'era un industrialotto ad Agrate, Brianza, che sosteneva di aver inventato il modo per distillare la benzina dai rifiuti industriali. Lo faceva a suo modo: ogni mattina all'alba partiva con un'autobotte carica di liquidi pestiferi e se ne liberava lasciando una scia nera sull'asfalto.


In periodi di previsioni tristi e di stati depressivi, ostili ai consumi di massa, l'informazione reagisce con ottimismi forzati, senza temere esagerazioni. Guardate le pagine degli spettacoli e delle recensioni: ogni giorno c'è uno scrittore sconosciuto, del Nebraska o delle Antille, che ha venduto un milione di copie del suo ultimo libro, o una cantante nera che ha smerciato due milioni di copie del suo disco; il giorno dopo nessuno ne parla più, per lasciare il posto a nuovi miracoli. Attori e comici da strapazzo, che non fanno ridere nessuno, servono alla festa del falso ottimismo che continua. I salari sono bassi, le famiglie normali, si dice, non arrivano alla fine del mese, ma per tener su il morale s'informano i lettori che gli stipendi dei manager sono saliti del 18 per cento in un anno.

L'ottimismo dell'informazione di massa spazia in tutti i campi. Gli studiosi degli oceani assicurano che nei mari antartici esistono nel profondo riserve favolose di petrolio come di specie ittiche. Negli ultimi quattro anni hanno scoperto riserve senza fine persino nel canale di Sicilia, dove ostriche giganti starebbero abbarbicate nel fondo per sfamarci. Il consumo di materie prime minaccia una futura carestia? L'informazione ottimista corre ai ripari: per esempio propone di sostituire le condutture d'acqua di rame con quelle di plastica. Le mutazioni climatiche insidiano la nostra vita? Niente paura, la scienza ci salverà. Ogni giorno i media informano che un nuovo aereo a razzi attraverserà l'Atlantico in due ore, aerei da 300 passeggeri, airbus a tre piani, con una sala da pranzo per 20 persone, stanze con letti matrimoniali, bagni con l'idromassaggio e servizi di fotografo e massaggiatore. Un'azienda svedese è pronta a fornire anche una batteria antimissile. Più il mondo è avvelenato e asfittico, e più la stampa consolatoria ci riempie di effetti mirabolanti, purché, s'intende, chi vorrà usufruirne, sia fornito di un congruo numero di milioni.

(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 19, 2008, 07:29:52 pm »

Giorgio Bocca


Normalità siciliana


A volte in Sicilia viene il sospetto che l'incombente presenza della morte violenta, l'ombra nera sull'isola solare, sia qualcosa di naturale e magari di ammirabile  La valle dei templi di AgrigentoIl mio compaesano Aldo Cazzullo, giornalista del 'Corriere', si chiede quello che ci chiediamo inutilmente da anni, da secoli, forse da prima del diluvio universale: ma che paese normale è la Sicilia? È normale che il reddito dei siciliani sia fra i più bassi in Italia, che far l'industriale in Sicilia sia un rischio assurdo, ma che gli amministratori della destra, amici degli amici, siano stati riconfermati nelle recenti elezioni nella misura bulgara del 70 o dell'80 per cento?

È normale che i parenti degli uccisi dalla mafia vengano regolarmente bocciati se si presentano al voto, che la sinistra sia in via di estinzione, che personaggi come Girolamo Li Causi o Pompeo Colajanni appartengano a remote leggende, eroi di una specie estinta?

Sì, è possibile, è normale e la domanda che continuiamo a porci, con stupore forse superfluo, è ampiamente spiegata dai fatti e dai misfatti che sono noti a tutti, che il mio collega del 'Corriere' conosce, su cui abbiamo scritto libri e corrispondenze che saranno riscritti dai nostri figli e nipoti.

La legge fondamentale della autonomia siciliana è stata l'autoconcessione dell'impunità ai consiglieri eletti, "l'insindacabilità per i voti dai consiglieri dati in assemblea e per le opinioni espresse dai consiglieri nell'esercizio delle loro funzioni".

In pratica la licenza a fare tutto impunemente: assumere a fondo perduto le spese per gli impianti antigelo fatti dai produttori di agrumi; sovvenzionare i cantieri privati per i collegamenti con le isole, spesso fantomatici; finanziare le associazioni di allevatori che dichiarano all'Unione europea allevamenti inesistenti; finanziare i distillatori che producono e immagazzinano illegalmente un mare di alcol.

Recentemente la Regione ha scoperto l'assistenza agli anziani che, ovviamente, deve essere migliore di quella svedese, centinaia di miliardi sono stati stanziati per costruire case di riposo e servizi di assistenza. Dei 400 comuni dell'isola, quasi la metà incassa i sussidi senza dare alcun rendiconto, ma se la Corte dei conti cerca di frenare la dissipazione è un'offesa, un attentato all'autonomia.


La contiguità, per non dire la complicità, fra gli uomini politici e la mafia è così evidente, così scoperta, da avere un effetto accecante: tutti si specchiano in quella evidenza e ne rimangono come accecati, come abbacinati. È un effetto che arriva nel continente. Ci sono famosi avvocati, industriali, ministri, tecnici dei lavori pubblici che ci spiegano che è da ingenui, da miopi non riconoscere il dato di fatto: la mafia c'è, gli avvocati di mafia, i finanzieri di mafia, i politici di mafia non sono pecore nere, profittatori cinici come non lo sono tutti coloro che vivono dentro o accanto all'economia mafiosa, che è, ti spiegano, l'economia reale, perché le automobili, le case, le garçonnière, i libri, il ristorante, tutto in qualche modo arriva dalla mafia.

A pensarci bene anche i reparti elitrasportati dalla polizia campano perché c'è la mafia. A volte in Sicilia ti viene il sospetto, e qualcosa di più di un sospetto, che l'incombente presenza della morte violenta, l'ombra nera sull'isola solare, sia qualcosa di naturale, e magari di ammirabile, che il vivere nella violenza e nella morte sia, anche per gli onesti, una vita degna di un uomo più che quella tranquilla e noiosa del continente. Qui c'è la guerra, e la guerra, per orrenda che sia, fa vibrare emozioni, sentimenti, solidarietà, memorie sconosciute a chi vive in pace. Forse la presenza della mafia suscita un sentimento di eccellenza. O no?

(18 luglio 2008)


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« Risposta #54 inserito:: Luglio 27, 2008, 12:32:05 am »

Giorgio Bocca

Come cambiano i giornali


Perché siano leggibili occorre un linguaggio corretto, scolastico, che è quasi scomparso, sommerso dai gerghi, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mode inzeppate di parole straniere  Mi scrivono dei giovani che vogliono fare il giornalista, mi chiedono consigli. Se fossi sincero gli direi: ringrazio il cielo di aver chiuso la professione prima che fosse morta suicida. Per fare, non dico un giornale eccellente, un giornale da classe dirigente, ma un giornale leggibile, occorre la materia prima indispensabile, un linguaggio corretto, scolarizzato, del tipo appunto imparato sui banchi di scuola adatto a un lettore di media cultura - sopra il livello di povertà, se no che gli serve leggerlo? - cui il giornale serve come informazione su quel che accade al mondo e per dare aria nuova al cervello. Questo linguaggio scolastico è quasi scomparso, seppellito dai gerghi, dalle sigle, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mutazioni continue degli argomenti, delle mode inventate giorno per giorno, inzeppate di parole straniere, specialistiche, professionali, da segnali grafici che messi assieme, più che a un nuovo linguaggio, assomigliano a un sistema confuso d'indicazioni stradali, in una metropoli in cui non sai bene come muoverti, dove andare.

I vecchi lettori del secolo borghese forse esageravano con i loro giornali di classe scritti solo per gli elettori che il censo autorizzava al voto. Ma in casa mia e dei miei amici c'erano degli abbonati ai grandi giornali, alla 'Stampa', alla 'Gazzetta del Popolo', al 'Corriere della Sera' che li compravano ogni giorno, ma che, non facendo in tempo a leggerli, li conservavano a pile nel salotto e con calma, pian piano, li recuperavano per così dire senza sprecare un titolo, un corsivo.

In quei giornali c'era la cultura media comune della borghesia al potere e del socialismo nascente. Non c'era politico conservatore o rivoluzionario che non pensasse subito a un giornale come strumento indispensabile per la politica come per l'economia.
Gramsci e Mussolini erano inconcepibili senza l'Ordine Nuovo o il Popolo d'Italia, gli imprenditori senza i magni organi 'indipendenti', cioè alle loro dipendenze, il Fascismo senza la stampa di regime.

Che cosa è cambiato profondamente nella stampa? È cambiato l'editore che non è più un politico o un imprenditore, ma il mercato, e precisamente quel suo braccio armato che è la pubblicità, la creatrice irresistibile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina il genere umano verso nuovi sprechi e forse nuove guerre.

L'informazione adatta alla pubblicità deve sempre essere un pugno allo stomaco, deve stupire, impressionare, lasciare il segno sul lettore. Per questo oscilla fra catastrofismo e ottimismo, fra paure immaginarie e promesse esagerate. In questa eccitazione continua si passa da un eccesso all'altro. Negli anni della mia gioventù tutti i giornali descrivevano i pregi dell'amianto e ora tutti lo accusano di essere cancerogeno. Le statistiche dicono che i delitti 'antichi', omicidi e rapine, stanno decrescendo, ma la paura cresce fra la gente e può decidere un'elezione. Il massacro dell'automobile continua: tra Europa e Stati Uniti uccide più di centomila persone l'anno e ne ferisce più di un milione, ma il mercato fa finta di non accorgersene.

Il catastrofismo si mescola all'ottimismo, entrambi esagerati, si procede fra filantropia e ferocia, magari resuscitando le vecchie persecuzioni ai piromani colpevoli di tutti gli incendi come gli untori della peste. Il commissario alla protezione civile Bertolaso, seguendo l'immaginazione popolare, li ha definiti "uomini malvagi che vogliono rovinare l'Italia", mentre sono italiani normali che ritengono normali i loro piccoli, abituali delitti


(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Agosto 02, 2008, 09:13:15 am »

Giorgio Bocca


Il piacere di servire


Una borghesia che diffida dello Stato e che alla libera concorrenza, troppo rischiosa e faticosa, preferisce l''amicizia' mafiosa, la pianificazione dei privilegi, dei servizi e delle obbedienze  Tutti educati e con autocontrollo. Niente insulti, niente parolacce. Rispettiamo i capi di Stato e il sommo pontefice. La schizofrenia politica italiana, incontinente, riempie televisioni e giornali con la sua demenza, le contraddizioni, i nonsense, l'assurdo e soprattutto il girare a vuoto.

Dicono che il capo dello stato Napolitano si è chiuso in un addolorato silenzio. Fa bene. Che altro resta da fare in un paese che sta andando alla deriva, dove la politica è succube di una economia anarcoide? Vogliamo guardare le cose come stanno? Vogliamo dirci a che punto è la disunità d'Italia, quello che dell'Italia si pensa nel mondo? Ha destato scandalo il fatto che ai giornalisti americani al seguito di Bush sia stata distribuita una biografia del nostro presidente del consiglio che testualmente dice: "Egli è uno che domina il mercato televisivo e grazie a esso è salito ai più alti gradi della politica, anche se in politica è un dilettante, così è diventato ricchissimo e regna nel paese della corruzione e dei corrotti".

Il presidente americano Bush ha chiesto scusa al nostro primo ministro, assicurandogli la sua stima come amico e come statista, ma tutti sanno che la versione data ai giornalisti è sostanzialmente vera, confermata dallo stesso Berlusconi e dai suoi più stretti collaboratori. Vedi l'amico di sempre Fedele Confalonieri, che al momento della scesa in campo di Silvio disse: "Se non entravamo in politica, l'alternativa era di finire in galera come ladri o come mafiosi". E il fondatore di Publitalia, Marcello Dell'Utri: "Che facciamo? - gli chiesi". "Facciamo un partito". "Ma come lo facciamo un partito?". "Lo fanno tutti - disse - lo facciamo anche noi".

Dunque un dilettante, anche se abile e bravo a persuadere i concittadini di essere il nuovo uomo della Provvidenza
. Ma è proprio il successo del politico improvvisato, la sua capacità di farsi amare, o invidiare, o temere da milioni di italiani a confermare la versione: il successo di Silvio, la sua capacità di piacere agli italiani, dipende da molti aspetti, ma soprattutto dal piacere di servire i potenti e da quello di 'incoraggiare la fortuna' salendo sul carro del vincitore.

Tutto ciò rientra nella mentalità di una borghesia che diffida dello Stato, e che alla libera concorrenza troppo rischiosa e faticosa, preferisce l''amicizia' mafiosa, la pianificazione dei privilegi, oltre, s'intende, che dei servizi e delle obbedienze. Fa dunque un certo effetto schizofrenico leggere le cronache delle manifestazioni della sinistra, dove i partecipanti si esortano alla moderazione, condannano gli eccessi polemici, bandiscono gli insulti come se fossero a un congresso di pacifisti sul lago di Ginevra, e non in una democrazia morente o già morta, con preoccupanti ricorsi di Fascismo.

Nessuno, a quanto pare, drammatizza. Il mondo è pieno di stati autoritari dove la gente in qualche modo campa, nel Kazakistan c'è un padre padrone che ha incamerato le ricchezze petrolifere del paese, e con una figlia padrona di tutto il sistema alberghiero. E in Bielorussia il capo del governo democratico è l'ex luogotenente di Stalin.

Dunque su di animo, cari concittadini: in qualche modo vivremo e andremo in vacanza, anche se per qualcuno torneranno i lager e le polizie segrete. La pubblicità è in crescita. Niente paura.

(01 agosto 2008)


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« Risposta #56 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:42:08 pm »

Giorgio Bocca


L'Italia triste dei capannoni


Il dogma dello sviluppo ha ucciso il paesaggio. Da Milano a Firenze ormai è una teoria infinita di fabbrichette, cubi di cemento e trincee antirumore  Un amico mi invita nella sua casa di campagna sulle colline di Ascoli Piceno, sopra la valle del Tronto per cui corre la via Salaria, la più famosa delle vie del sale, senza cui i nostri antichi non avrebbero conservato e insaporito i loro alimenti. Quattro ore e passa di autostrada per la Lombardia, l'Emilia, le Marche, regioni ricche, moderne: un'occasione per misurare lo sviluppo del Paese.

Il primo tratto tra Milano e Lodi si merita questo titolo: la scomparsa del paesaggio. La pianura del Po, "la più fertile e ricca regione d'Europa", come diceva quel re di Francia di nome Enrico, illustre invasore, la pianura dei pioppi e delle marcite, dei fontanili che sgorgano nei prati di erba medica, il paese di Bengodi, delle montagne di cacio e di ravioli, dei campanili svettanti nel verde, delle abbazie e delle cattedrali, dei battisteri policromi, degli Stradivari e dei culatelli è scomparso, sommerso da una distesa ininterrotta di fabbriche e fabbrichette.

Non le fucine e i fumaioli, i magli giganteschi e i forni per le colate dei metalli, non il mondo di Vulcano, non i colossi siderurgici della Ruhr o della Vallonia, non i Kombinat di Stalingrado, ma le fabbriche e fabbrichette del consumo di massa produttrici di creme e di plastiche, di prefabbricati, e di dadi per brodo, di detergenti e di lampadari e di mobili scadenti e gli autogrill con i percorsi obbligati, che se devi andare alla toilette devi sorbirti tutta la mercanzia, non un futuro titanico, per eroi e giganti, ma il consumo di bassa qualità e di breve durata di cui si compongono il benessere e il progresso che tutti gli umani inseguono, che sono al centro di ogni politica, anzi, sono la politica, con i suoi corsi e ricorsi, le sue memorie drammatiche - ricordate la crisi del '29? - i suoi attori e i suoi speculatori, i suoi 'bagni di sangue', che sarebbero i miliardi divorati dalla Borsa, insomma: le cose importanti della vita di oggi.


C'è poco da scherzare, c'è pochissimo da fare ironia sullo sviluppo, senza il quale pare non si possa vivere. Ma questo si può dire: che alla bellezza abbiamo preferito la quantità, l'abbondanza anche al prezzo del brutto e del volgare. La pianura padana dei campanili svettanti nel verde, dei battisteri policromi, delle certose, delle 'delizie' estensi o viscontee non c'è più. C'è una colata di cemento senza fine, di hangar piatti sui cui spiccano cubitali i nomi dei titolari della fabbrichetta e file di camioncini della ditta, tutti con il nome del padrone e la sua bandiera, che alzano quando è presente e possente.

Ma c'è del nuovo e di orrendo: le coperture antisuono fatte per proteggere le villette circostanti, le possenti paratie di plastica e di laminato che oscurano il sole e hanno creato delle gallerie lunghe chilometri che impediscono di vedere i declivi dell'Appennino, i portici che salgono a San Luca, i boschi, i villaggi. Bologna deve essere da quella parte, oltre i capannoni e i casoni della Fiera.

A dirti che c'è ancora il resto del mondo sono solo i cartelloni che indicano le deviazioni per Ferrara o per Firenze, anche loro dentro le trincee antisuono. Lo sviluppo prima di tutto, se non si cresce si muore, se le percentuali calano è la rovina imminente, il trasporto su strada o su gomma è indiscutibile, da quel giorno del dopoguerra in cui la Fiat e l'Eni decisero di imporlo al Paese, ma a guardarlo così dal vero, un lastrone di cemento sopra la nera terra padana nei fumi e nei rombi delle colonne di camion che vanno da un capo all'altro del Paese per trasportare a Taranto l'acqua minerale della Valtellina e a Sondrio quella di Rionero in Vulture tra le due file di baracconi degli autogrill, hai l'impressione, sbagliata s'intende, ma forte, che questo sia un paese di matti.

(08 agosto 2008)


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« Risposta #57 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:29:01 pm »

Giorgio Bocca


La politica li fa ricchi


Motivo di indignazione è che a molti potenti di casa nostra l'uso del potere per accumulare fortune risulta ancora del tutto normale  Silvio Berlusconi con Vladimir PutinIl tema è: la ricchezza come naturale appannaggio del potere politico. Il primo ministro russo Putin e il presidente Medvedev hanno notoriamente patrimoni milionari depositati nelle banche svizzere, il capo del governo italiano ignora il conflitto di interesse, continua a far affari con le televisioni e il mercato immobiliare, per non parlare dei sultani e califfi sparsi per il mondo, di ogni razza e religione, che arrivano in vacanza nei nostri porti su barche lunghe cento metri e centinaia di invitati. Nulla di nuovo sotto il sole, ma qualche vistosa correzione rispetto alle rivoluzioni borghesi e alle loro costituzioni democratiche.

Prima di quelle rivoluzioni, il fatto che un politico, un condottiero, avesse pieno diritto a procurarsi una grande ricchezza facendo uso del suo potere era perfettamente normale. Persino il cristianesimo, la religione degli schiavi e dei poveri, lo aveva in pratica riconosciuto: 'Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio', essendo noto anche allora che la ricchezza di Cesare arrivava da sudditi tartassati e da nemici vinti. Senza la minima esitazione o interno dubbio Caio Giulio Cesare, sperperatore del patrimonio familiare, andava come luogotenente in Spagna a rifarsene una più grande nel giro di pochi mesi. E il Verre depredatore dei siciliani doveva avere davvero esagerato per meritarsi le accuse ciceroniane. Notoriamente il miliardario Crasso, ladro eccelso, veniva cercato come socio nel triumvirato da Cesare e Pompeo.

Non è che nel secolo borghese i conflitti di interesse fra politici e affari mancassero. Emanuele Filiberto, di ritorno dal servizio militare, rimetteva rapidamente assieme il patrimonio della sua casa, incamerando risaie in quel di Vercelli a lui fedelissima e anche il padre della patria, Vittorio Emanuele, non fu estraneo agli scandali bancari del Regno e alle tangenti raccolte con la costruzione delle strade e delle ferrovie. Persino alcuni garibaldini risolsero così i loro conflitti di interesse e un Medici del Vascello, passato al servizio della monarchia, venne premiato con la tenuta della Mandria, oggi quartiere residenziale della Torino ricca.


E allora? Che motivo di indignazione o di stupore ci può essere se un potente della politica ne approfitta per diventare ricco? Un motivo c'è, precisamente quello che si verifica quando la quantità di un comportamento diventa qualità e responsabilità, quando l'acquisto della ricchezza non ha più limiti e giustificazioni, quando soprattutto viene cancellato dal codice penale, considerato normale anzi benemerito.

Il capo del governo italiano, dicono i giornali, ha mandato una lettera di solidarietà e di auguri a un politico arrestato per malversazione sanitaria. E alcuni dei politici indagati e arrestati si affrettano a ricordare, come compagni di persecuzione, noti politici arrestati e condannati, in primis Bettino Craxi, di cui lamentano la 'persecuzione giudiziaria che si strinse attorno a lui', e così altre vittime del giustizialismo che si tolsero la vita non resistendo alla ingiustizia.

Ma forse sarebbe il caso di intendersi. Non aveva qualche responsabilità Craxi se una regolare sentenza, regolare anche per la Corte di giustizia europea, elencò le sue appropriazioni di pubblico denaro, e non ne aveva il dottor Gabriele Cagliari dell'Eni se la sua vedova spontaneamente restituì il denaro depositato in Svizzera? Ecco lì: il motivo di stupore e di indignazione è proprio questo, che a molti politici e potenti di casa nostra l'uso del potere per accumulare ricchezza risulta ancora del tutto normale.

(14 agosto 2008)


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« Risposta #58 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:44:48 pm »

Giorgio Bocca


La congrega dei potenti


C'è una consorteria dei ricchi e potenti, una loro massoneria, che si considera al di sopra delle leggi. Pronti a diffamare i giudici che si azzardano a toccarli  Interno di un tempio massonicoIl procuratore di Napoli Agostino Cordova, che avevo conosciuto sul campo della lotta alla mafia e alla camorra, aveva confidenza con me e certe sere mi telefonava a casa a Milano per raccontarmi le difficoltà del suo lavoro, e una volta mi confidò che aveva iniziato un'inchiesta sulla massoneria, un'inchiesta, diceva, importante, in pratica sul potere in Italia. Fu lì che capii che voleva l'impossibile.

Lo capii perché nella storia italiana, per quello che ne conosco, c'è sempre uno Stato che deve fare i conti con l'anti-Stato, una legge, una giustizia che vengono ostacolate, combattute proprio dai potenti che dovrebbero difenderle. Come se la consorteria dei potenti che formano una loro alleanza, una loro massoneria, si considerasse al di sopra delle leggi che valgono per i comuni mortali.

Per esempio coloro che stavano dietro le trame nere, tipo principe Borghese e soci, o dietro allo Stay Behind, l'organizzazione armata che avrebbe dovuto intervenire contro un fantomatico colpo di Stato comunista, e il tutto si risolse con vacanze di lusso e distribuzione di prebende. Paragolpisti simili hanno sempre avuto questo in comune: di presentare i nemici dei loro affari come nemici della nazione, di criminalizzare la giustizia inventandosi il giustizialismo come abuso della medesima. E non mancano un'occasione per affermarlo, per dimostrarlo.

Un noto uomo politico viene pescato con le mani nel sacco? Subito gridano alla persecuzione, gli mandano lettere di solidarietà, auguri fraterni contro cui i magistrati hanno solo la magra consolazione di indignarsi. Si scopre che i capi di un'azienda avevano creato un servizio segreto di informazioni e che si difendono affermando che non ne sapevano niente. E subito i giornali e le televisioni dei potenti associati corrono in loro difesa. Non importa se il colpevole sia di destra o di sinistra, se conservatore o riformista: per la congregazione dei potenti, fra cui non mancano principi della Chiesa e signori del capitale, va difeso.


È massoneria questa? È una organizzazione segreta che impone i suoi voleri allo Stato o è semplicemente una spontanea, temporanea convergenza di interessi? Il risultato comunque è il medesimo: la dissoluzione continua e sistematica della democrazia.

Su alcuni giornali si è letto addirittura l'organigramma di questa società al di sopra delle leggi: politici, imprenditori, ufficiali della Guardia di finanza, alti prelati. E siccome questo sparare nel mucchio non ha effetti pratici, la massoneria che dispone dei soldi e dei mezzi d'informazione è ripartita subito con la diffamazione dei giudici 'giustizialisti' di Mani pulite, per cui alla fine risulta che l'unico uomo nero del paese è l'infame e rozzo Antonio Di Pietro.

Lo spettacolo dei servi che si prestano sui vari media a diffamare quel poco che resta in questo Paese di onestà e di leggi, è uno dei più indecenti e avvilenti cui si possa assistere, e ogni volta ci si chiede come sia possibile che i cittadini lo sopportino e spesso lo premino dando i loro voti proprio a coloro che dirigono l'ignobile orchestra. Ma la ricchezza e il potere impongono da sempre, e temiamo per sempre, questi prezzi pesantissimi: il piacere di servire si rinnova di popolo in popolo, di generazione in generazione. I Galileo sono costretti alla ritrattazione, i Giordano Bruno al rogo, e i loro nemici? Nell'inferno dantesco. Che con ogni probabilità non c'è.

(22 agosto 2008)


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« Risposta #59 inserito:: Agosto 29, 2008, 11:29:12 pm »

Giorgio Bocca


Dispotismo democratico


Quello praticato da Berlusconi è la base dell'autoritarismo morbido. Con una linea di governo simile a quella di Craxi: non disturbare il manovratore  Bettino CraxiPer millenni le aristocrazie dei guerrieri e dei sacerdoti hanno goduto il privilegio di essere differenti dai comuni cittadini davanti alla legge. L'appartenenza alle classi dominanti gli consentiva di essere, in tutto o in parte, esentati dalla legge che valeva per le classi inferiori. Coloro che di professione in Italia si occupano di politica, fanno la politica, pensano ancora, come le passate aristocrazie, di essere al di sopra della legge o differenti di fronte alla legge comune?

Sicuramente differente è il segretario padrone del partito di governo, secondo un mussolinismo perenne dalle nostre italiche parti. Silvio Berlusconi non è diverso in questo senso da Bettino Craxi. Il Partito socialista di Craxi, come quello di Forza Italia berlusconiano, non è un partito di classe o di opinione. È un insieme di consorterie borghesi che hanno trovato il loro capo, qualcosa che sta fra il demagogo e l'amministratore delegato.

Chi è il più furbo, il più abile del reame? Il più furbo, il più abile e anche il più ricco è lui, i suoi grandi cortigiani vivono della sua gloria e dei suoi favori. Come con Craxi la linea del governo, il modo di governare è 'non disturbare il manovratore'.

E cosa vuole il manovratore? Ricostruire a suo modo lo Stato che ha distrutto, riformare la giustizia, l'informazione, la fabbrica del consenso. Come Craxi, Silvio non ha una corte di partito, come Craxi i suoi veri amici e compagni di avventura sono i grandi imprenditori e i finanzieri. A ragione il mondo capitalista lo considera un suo protettore, lui stesso ripete che il suo programma di governo è quello della Confindustria, che gli imprenditori sono suoi sodali, che aspetta da loro consigli e aiuti. Il partito di Silvio non ama i congressi, basta il capo padrone a decidere il da farsi. La divinizzazione è inevitabile, gli organi di controllo sono inesistenti, il dispotismo democratico è la base dell'autoritarismo morbido.


Uno dei miti craxiani, il suo primato non in discussione nel partito e nel paese, era la governabilità, che in pratica consiste nella certezza, di Craxi allora come di Silvio adesso, che con lui al potere tutto in qualche modo si risolverà per il meglio. Il culto della personalità è uno spettacolo quotidiano, a volte ridicolo, spesso affliggente.

Si ricorda un episodio di servilismo del sindacalista Ottaviano Del Turco che sale alla tribuna di un congresso e dopo aver detto che lo sciopero per il ticket sanitario è stato giusto, conclude che però Craxi ha avuto ragione a dire che è stato un errore. Simili contorcimenti erano la regola al congresso milanese nel capannone dell'Ansaldo, salivano alla tribuna i compagni rivoluzionari e antiborghesi e poi svoltavano appena saputo che Bettino era a colloquio con Silvio nel suo camper.

Come Craxi, Silvio gliela canta chiara ai suoi nemici, ai suoi "persecutori che non gli chiedono neppure scusa". In questo Craxi era inarrivabile. Bobbio era "un filosofo dei miei stivali", "Scalfari un mascalzone grandissimo e recidivo", "Biagi un moralista un tanto al chilo", "De Mita? Per durare deve servire il caffelatte ai socialisti tutte le mattine".

Nel partito di Craxi il maestro di politica era il compagno Antonio Natali che insegnava ai giovani l'arte di raccogliere le tangenti per finanziare il partito. E se qualcuno diceva a Bettino che certe sezioni erano piene di ladri, lui rispondeva: "Adesso mi occupo di vincere le elezioni, poi mi occuperò anche dei ladri". Ma la distinzione fra le finanze del partito e le finanze personali rimase piuttosto fluida. E i veri nemici dei politici, allora come adesso, rimasero i giustizialisti.

(29 agosto 2008)


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