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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 141039 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 03, 2007, 08:07:45 am »

L'ANTITALIANO

Quelle parole oscure

di Giorgio Bocca


C'è un ermetismo di ritorno che riguarda la politica, l'economia, la sanità, il giornalismo. Per esempio Giuliano Ferrara e il suo 'Foglio' o anche il documento del Partito democratico  Giuliano FerraraL'emergere di un linguaggio oscuro è uno dei sintomi di una società ammalata. Parole di Flaubert. E la saggezza popolare ci esorta invano: "Parla come mangi". L'oscurità nel modo di parlare e di scrivere non è casuale, i sudditi vi ricorrono per difendersi dal potere politico, per ingannarlo.

Durante il fascismo il linguaggio ermetico serviva sia a distinguersi dal regime che a servirlo. Erano ermetici i cultori della fantomatica mistica fascista che nessuno sapeva bene cosa fosse, ma per cui si tenevano convegni e si stampavano riviste. Si capiva vagamente che era il contrario del comune sentire, del comune pensare, che erano velleità confuse, aspirazioni informi, ma poiché darne una spiegazione chiara era impossibile, ci si accontentava del loro suono come dell'appartenenza a una arcana scienza.

L'ermetismo autoritario creava nuove forme di linguaggio, di comunicazione, si imparava a leggere fra le righe in modo criptico la trama cangiante del potere, gli economisti vi ricorrevano, come oggi del resto, per fare i conti in tasca alle finanze dei regimi.

Ci fu un recupero della chiarezza nei primi anni della Repubblica, quando la ricostruzione del paese imponeva il linguaggio della verità, ma ben presto le tentazioni ermetiche ripresero il sopravvento: si arrivò ai capolavori delle 'convergenze parallele' e dei partiti 'di lotta e di governo'.

Oggi, nell'era della comunicazione disinformatrice e del dominio pubblicitario, l'ermetismo è sorto a un dominio incontrastato cui la magia della scatola televisiva dona un'indiscutibile sacralità. Il nulla e l'oscuro detti in televisione sono i nuovi dogmi.

C'è un lettore normale che sia riuscito a capire che cosa sono, da chi vengono manovrate, a chi giovino le privatizzazioni e le fusioni? Certo, quando la sinistra assume posizioni della destra il ricorso all'ermetismo diventa, per la sinistra, indispensabile.

Un ermetismo di ritorno è anche quello dei grandi professionisti, che dovendo badare ai loro interessi sono tornati al 'greco' baronale. Le televisioni sono piene di trasmissioni sulla salute in cui i nuovi baroni si presentano in camice bianco e invece di spiegare la malasanità si mettono a parlare nel gergo: 'greco' incomprensibile alla platea.

C'è anche un giornalismo ermetico, il quale dovendo spiegare personaggi come Cossiga o Mastella o Berlusconi preferisce le penombre delle allusioni o gli enigmi. Il massimo dell'ermetismo colto è raggiunto dal 'Foglio' in cui l'ex comunista Giuliano Ferrara deve spiegare che lui è sempre di sinistra anche se è passato alla destra. Si va costituendo attorno al 'Foglio' una setta ermetica, che quanto più è dotta e intelligente, tanto più è oscura. Convinta però di formare un'élite, di cui il paese non è degno.

Il trionfo dell'ermetismo in questo periodo storico è confermato ogni giorno dalle dichiarazioni dei leader politici che dicono una cosa da nessuno comprensibile, ma perché, chi vuole, intenda. Un discorso ermetico e farraginoso che riempie le pagine dei giornali senza che nessuno lo capisca.

Il maggiore esempio di documento ermetico è quello del Partito democratico: un partito che nasce senza un programma, senza una direzione, senza una organizzazione stabile, e che pure rappresenta la speranza della democrazia italiana. Più che un partito, un'aspirazione, un desiderio di salvezza.

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 09, 2007, 05:48:49 pm »

L'ANTITALIANO

La politica che vive di paure

di Giorgio Bocca


Quella del comunismo che non c'è più è una paura retrospettiva e attuale. Poi c'è quella di don Baget Bozzo che sta resuscitando un comunismo genetico  La base americana a La Maddalena, in Sardegna,
ora in smantellamentoAgli italiani piace avere paura, la paura ha sostituito le ideologie e le utopie, aver paura di qualcosa, reale o meno, è come una conferma esistenziale: qualcuno sa che ci siamo, qualcuno ci vuol male.

Ci sono stati periodi in cui alcune paure erano dominanti, la paura della guerra, per esempio, la terribile guerra antica delle baionette e dei feriti abbandonati sui campi di battaglia. La paura delle guerre di religione e delle persecuzioni razziali.

Ora invece, a parte la paura della morte, non ci sono più grandi paure, ma una insalata di varie paure che spaziano dal geologico al meteorologico, dall'ecologico all'alimentare. È come se stessimo dissotterrando tutte le paure ipotetiche e discutibili del nostro passato o trasformando in paura anche ciò che ci lasciava del tutto tranquilli.

L'amianto, per esempio. Nel regime fascista l'amianto era considerato come il più sicuro e duttile degli isolanti, lo usavamo sui treni, negli uffici, dovunque. Nella mia città per una visita del Duce servì per erigere finte facciate di palazzi inesistenti sul percorso che avrebbe seguito e anche finti tripodi. Ora la paura dell'amianto cancerogeno dilaga, interi treni avvelenati dall'amianto sono stati parcheggiati su binari morti.

Non molti anni fa le condotte elettriche erano qualcosa di rassicurante: tracciavano nelle campagne, nelle montagne, la rete dell'energia, ci piaceva che sopra le nostre teste passasse quella forza amica. Adesso quartieri e villaggi formano comitati in lotta contro la paura dei campi magnetici che provocano le peggiori malattie: cancri, leucemie e simili anche se non se ne ha la prova certa.

Ma la paura non ha bisogno di prove, si nutre di se stessa, inventa pregiudizi e superstizioni, si esalta della sua demenza. Prendiamo la paura del comunismo che non c'è più, che è retrospettiva e attuale. La paura retrospettiva è quella fornita dal revisionismo storico di un comunismo sempre sul punto di scatenare la sovversione. Non importa che l'Italia dopo la Seconda guerra mondiale fosse una provincia dell'impero americano, presidiata da basi militari americane, riconosciuta dall'Urss come parte integrante dell'impero occidentale. Non passa giorno senza che la stampa moderata non ricordi con brividi di paura la quinta colonna comunista.


Morto un Edgardo Sogno viene alla ribalta un prete genovese, don Gianni Baget Bozzo, che sta resuscitando un comunismo genetico, patologico da semel abbas semper abbas, fatto di geni autoritari, violenti, che si trasmettono di generazione in generazione, un comunismo lombrosiano riconoscibile dagli zigomi e dalle labbra, un comunismo dell'anima che non si accontenta di combattere i suoi avversari di classe, ma li odia, li vorrebbe distruggere.

La politica vive di paure: la destra della sempiterna paura del comunismo, la sinistra della incombente paura berlusconiana. Paure che si sarebbero accentuate proprio perché per la prima volta c'è stata un'alternativa di governo, per la prima volta c'è uno scontro aperto e sincero fra sinistra e destra.

Difficile dire se sia più numeroso in Italia il popolo della paura o quello del coraggio. Anche perché tra l'uno e l'altro c'è trasfusione continua di coraggiosi che diventano paurosi e viceversa. Certo il popolo della paura non ha mai avuto simpatia per quello del coraggio, ha sempre preferito la pace dei vescovi.

(08 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 14, 2007, 09:10:21 am »

La cronaca per passione

di Antonio Carlucci

La voglia di raccontare. L'esperienza partigiana. La capacità di spaziare tra giornali e tv.

Sempre con lo stesso senso di responsabilità civile. Il ricordo di Biagi nelle parole del grande giornalista suo amico.

Colloquio con Giorgio Bocca

Guardiano del faro
 
Anche questa volta si mostrava certo di farcela.


Sabato pomeriggio, superata una crisi per la quale era stato ricoverato, Enzo Biagi aveva scherzato con chi era andato a trovarlo: "Fatevi ridare i soldi del vestito nuovo, il mio funerale è rinviato".

Come aveva sempre scherzato, ogni volta che la vita lo aveva messo davanti all'esperienza della malattia. Quando molti anni fa i medici decisero che il suo cuore aveva bisogno di una serie di bypass, Biagi si avviò verso la sala operatoria canticchiando "Dove vanno a finire i palloncini", una filastrocca di Renato Rascel.

Questa volta, tra speranze e delusioni, è andata avanti fino alle 8 di martedì 6 novembre. A 87 anni, Enzo Biagi se ne è andato in punta di piedi, accanto le figlie Carla e Bice. Di Biagi, del suo modo di fare giornalismo, della generazione di cronisti venuti alla ribalta dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo, 'L'espresso' ha parlato con Giorgio Bocca, coetaneo di Biagi (anche lui è nato nell'agosto del 1920), editorialista del settimanale e come Biagi da oltre sessant'anni testimone dei fatti d'Italia e del mondo.

Che giornalista era Enzo Biagi?
"Era un giornalista globale. Mentre io e tanti altri della stessa generazione concepivamo il giornalismo come rapporto esclusivo ed unico con la scrittura, Enzo pensava che fosse giusto usare tutti i mezzi esistenti per comunicare. Fu tra i primi a utilizzare lo strumento televisivo, e sempre tra i primi a comunicare attraverso le pubbliche relazioni industriali".

Qual è il tratto comune che distingue la generazione di giornalisti come te ed Enzo Biagi?
"Eravamo dei giornalisti innamorati totalmente della nostra professione. Per questo gruppo di giornalisti, quasi tutti piemontesi ed emiliani, fare il giornalista, scrivere, raccontare la realtà nella quale eravamo calati era il massimo che potessimo avere. È stata sempre la nostra vera ricchezza e il patrimonio che abbiamo gelosamente conservato".

Che cosa vi aspettavate quando avete cominciato l'esperienza del giornalismo, quasi tutti occupandovi di cronaca italiana?
"La fortuna della nostra generazione di giornalisti è stata la guerra partigiana. Noi non siamo venuti fuori dal nulla, eravamo tutti in qualche modo persone conosciute e importanti della società che aveva deciso di far la guerra ai nazifascisti. Abbiamo capito che eravamo partiti bene con il piede giusto".

Che cosa avete portato nel modo di essere giornalisti di quella esperienza in montagna?
"Molte cose. Innanzitutto il senso di responsabilità di tutto quello che c'era da fare ogni giorno. Poi, un senso di sicurezza in noi stessi, il credere a quello che sceglievamo di fare e di scrivere. Infine, pur essendo tutti giovanissimi giornalisti, abbiamo capito di essere attori e protagonisti da subito del mondo che andavamo raccontando".

Quando siete entrati nei giornali grandi e piccoli che vi hanno accolto, che tipo di rapporto avete instaurato con la generazione di giornalisti precedente alla vostra che era cresciuta e aveva lavorato con il fascismo al potere?
"Un rapporto ambiguo. Come quello che ha contrassegnato la generazione precedente alla mia. Per esemplificare, il giornalismo fascista-antifascista di Bottai che aveva messo radici soprattutto nei giornali di Bologna".

Qual è stato il rapporto che voi giovani giornalisti avete avuto con il potere, sia quello politico che quello economico?
"Con il potere politico di distacco da subito, perché eravamo stati vaccinati dalla nostra esperienza di lotta al fascismo. Era lì davanti a noi l'ossequio devoto di molti giornalisti verso il regime. In ogni caso, quasi tutti eravamo attenti alla politica, ma senza entrare nel gioco della politica".

E con il potere economico?
"Per alcuni di noi era completamente estraneo alla vita professionale. Personaggi della Torino post guerra e della ricostruzione come Giovanni Agnelli senior e Vittorio Valletta li vedevamo come appartenenti ad un altro mondo".

Non fu così per tutti però...

"Enzo Biagi fu uno dei primi a capire che i giornalisti potevano avere un ruolo importante nella comunicazione aziendale e nelle pubbliche relazioni, tanto che stabilì un rapporto con la Edison".

Quale tipo di insegnamento pensate di avere trasmesso alle generazioni di giornalisti successive alla vostra?
"Che esiste sempre la possibilità di fare un giornalismo libero e indipendente".

C'è qualcosa che accomuna il modo con cui facevate giornalismo agli inizi della carriera e il modo in cui lavorano i giovani cronisti di oggi?
"Mi sembra che ci siano fortissime differenze. Per noi fare il giornalismo era una vocazione, una attività totale. Oggi non mi sembra che ci sia la stessa passione o lo stesso approccio. Diciamo la verità, oggi il giornalismo spesso è di bassa qualità, se non pessimo".

Addirittura pessimo?
"Sì, proprio così. Troppo spesso si vede un modo di fare giornalismo che non racconta più i fatti che accadono. Noi avevamo davanti un'Italia tutta da raccontare e lo abbiamo fatto, ciascuno a suo modo. Ricordo ancora quando andai a Vigevano a raccontare un cittadina dove c'erano duecento fabbriche. O quando Enzo fu mandato nel Polesine alluvionato".

Non sarà che la vostra generazione non è riuscita nel trasmettere ai giovani il vostro modo di fare questo mestiere?
"La nostra capacità di esplorare l'Italia e di raccontarla era il modo di tracciare una strada e un esempio. Noi l'abbiamo fatto, altri hanno deciso di seguire una strada diversa".

Chi è l'erede di Enzo Biagi, un giovane che sia sulle sue orme?
"Io non lo vedo. Ma può darsi che ci sia".

(09 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Novembre 17, 2007, 12:53:01 am »

I baci di Cherasco

E la macellaia di Verduno, rotonda di magliette, pullover e tuniche imbottite, al riparo dal freddo, sorride ai cotechini e gorgheggia 

DI GIORGIO BOCCA


Oggi niente politica.

Ci attende una giornata di sole e di vento nelle Langhe lungo la valle del Tanaro. L'aspetto sconvolgente del paesaggio è che, a differenza degli altri che sono a quinte, segnate dalle valli, è di essere circolare, per cui a ogni spostamento cambiano tutte le prospettive: la piramide del Viso o il massiccio del Rosa passano dalla tua destra alla tua sinistra, si sposta la barriera delle Alpi, le centinaia di castelli, di torri, di borghi, e nella pianura i viadotti sullo Stura, bianchi ricami, e i declivi color verde tenero-marrone dei prati, i vigneti, i noccioleti e i campanili in un paesaggio fatto dall'uomo, consolidato, ma ancora a suo modo primigenio, perché in quella calma, in quella sicurezza potrebbe improvvisamente esplodere l'antica Natura.

Senti che il tempo, le case, gli alberi, le nevi, i fiumi appartengono a una natura certa e incerta. Questo è uno dei luoghi in cui non c'è riparo, devi misurarti a viso aperto con la grandezza del Piemonte, dentro le sue erosioni e mutazioni, passate e future, delle montagne che riempiranno di terra il golfo del grano e del latte, del mare che tornerà a coprire queste colline.

Questo golfo del grano e del latte è terra di valichi, di scambi, di transumanze, di fughe verso l'altro mondo, di eserciti in marcia. Per cui proprio in novembre i paesi del lungo Tanaro, Cervere e Narzole, celebrano la colazione di Napoleone durante la battaglia di Marengo, che secondo loro fu a base di porri, che oggi cuociono in tutte le salse, frittate, minestre, nelle osterie-trattorie che stanno lungo i rettilinei per i viandanti che passano e tu li senti passare stando al caldo, protetto dalle tendine bianche che nascondono la strada, mentre discuti coi commensali se il Dolcetto dell'82 fu migliore di quello dell'87.


E i contadini, finalmente assurti al piacere-onore della trattoria, alzano i volti pietrosi dai piatti e si guardano, come per essere ben sicuri che sono anche loro tra i benestanti della terra, che hanno anche loro la lista dei 20 piatti e dei 200 vini, e stanno al caldo dietro le tendine bianche mentre fuori ci sono zolle gelate e stoppie e gelsi potati e bealere con il bordo ghiacciato.

Poi andremo a Cherasco, nelle confetterie dove fanno i Baci, cioccolatini squisiti, con i vasi di cristallo e la medagliera delle esposizioni. E vedi il retrobottega-laboratorio dove fabbricano i loro cioccolatini preziosi, e te li pesano come fossero pepite d'oro o brillanti, aggiungendone uno o due per fare il peso giusto. Commesse di confetteria, che da una vita si sfiorano, si urtano nei vecchi negozi, inseparabili, in attesa che i fornitori portino cioccolata, nocciole e miele che infaticabilmente lavorano e mettono nei vasi di cristallo da drogheria e da farmacia. Sotto, sul bancone, ci sono i vassoi delle meringhe e delle paste con le creme dai colori rosa e marrone, da disporre sui vassoi, due per qualità, per i pranzi della domenica.

I clienti entrano come in una sacrestia, silenziosi, pazienti, mentre le commesse, vestite di grigio, lavorano come api operaie.
Ci sono ancora negozi, nelle campagne del Piemonte, dove i negozianti compiono lavori che tu diresti ripetitivi come una funzione religiosa: negozianti allegri.
La macellaia di Verduno, rotonda di magliette, pullover, tuniche imbottite, al riparo dal freddo, sorride ai cotechini e gorgheggia.

(16 novembre 2007)

da espresso.it
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 23, 2007, 06:53:12 pm »

Miracolo democratico

Come è possibile che questa organizzazione che noi chiamiamo Stato continui, bene o male, a consentire una civile coesistenza?

DI GIORGIO BOCCA


Periodicamente la democrazia viene a noia ai fortunati che ci vivono.

L'ondata antidemocratica più violenta percorse l'Europa verso il 1930, in occasione della crisi economica e del periodo di fortuna del fascismo.

Si moltiplicarono le invettive, le critiche: il laburista Harold Lasky, gli scrittori Thomas S. Eliot, George Bernard Shaw per i quali la democrazia parlamentare era diventata sinonimo di menzogna, debolezza, mediocrità, compromesso, bassezza.

Poi ci pensarono Hitler, i nazisti e Stalin, con il comunismo sovietico, a far ritornare l'amore per la democrazia, a farla accettare come 'il minore dei mali' o, come diceva Churchill, "un errore, ma trovatemi qualcosa di meglio".

Resta però da chiedersi come mai la democrazia non riesca mai a liberarsi di debolezze e di errori elementari. Poniamoci alcuni perché.

Perché la democrazia italiana ha accettato l'idea, plebea più che populista, di un'edilizia imposta e diretta da capomastri ladri, da geometri ignoranti, dagli immigrati in cerca di 'pane' e da speculatori?

Perché l'edilizia italiana, l'urbanistica italiana, non potevano essere dirette dagli architetti e dagli urbanisti?

Perché la democrazia finge di ignorare che esistono situazioni eccezionali che impongono dittature temporanee e task force?

Perché deve aspettare sempre che un generale Dalla Chiesa venga ucciso prima di dare pieni poteri a un suo successore?

Perché ogni comune può impedire la costruzione di una centrale elettrica o di una linea ad alta velocità, cioè opere d'interesse nazionale e internazionale?

Perché in tutte le zone autonome l'elettoralismo delega a dei montanari appena usciti da una vita provinciale e populistica di gestire tutte le trasformazioni della modernità?

Perché le leggi sono sempre utopiche, e mai rivedibili ai lumi della ragion pratica?

Perché magistrati, onorevoli, giornalisti, moralisti, continuano a baloccarsi con le favolette costituzionali del diritto al lavoro, alla casa, alla salute e persino alla felicità, quando la realtà di ogni giorno dimostra per l'appunto che sono dei nobili intenti e dei desideri?

Perché si sono fatte discussioni interminabili per una questione di comune educazione civile come quella di consentire ai Savoia di tornare in Italia?

Perché non si riforma la partitocrazia, almeno per decidere che non tocca ai partiti decidere di tutto e di tutti?

Perché un qualsiasi municipio può opporsi alla costituzione di amministrazioni multicomunali che nelle zone metropolitane sono un'evidente necessità?

Perché bisogna sempre, ad ogni costo, tessere l'elogio del proletariato e mettere all'indice Céline, anche se la definizione di Céline "il proletariato è un borghese fallito" appare inaccettabile?

Tutte queste domande appaiono gratuite in un periodo in cui la vita politica italiana e il modo di governare appartengono a una confusione sistematica e continua, per cui non c'è dichiarazione di un ministro o di un sindacalista che non sia immediatamente smentita o corretta secondo le convenienze personali.

C'è da chiedersi cosa mai sia questo miracolo di società complesse e complicate che pure riescono a sopravvivere e a consolidarsi. Come è possibile, ci si chiede, che un'economia come quella italiana, condizionata al 60 per cento dalle organizzazioni mafiose, possa sopravvivere e per certi aspetti fiorire? Come è possibile che questa organizzazione caotica che noi chiamiamo Stato continui, bene o male, a consentire una civile coesistenza?

(23 novembre 2007)

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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 04, 2007, 11:23:50 pm »

Gli italiani e il re di denari

Si ripete con Berlusconi la contraddizione del fascismo e del favore di cui godette presso i liberali e i cattolici 

DI GIORGIO BOCCA


Moriremo berlusconiani? Il brutto pensiero, l'incubo si fa sempre più pesante, il nuovo homme fatale è sempre più potente, fa e disfa i partiti a suo piacere. Il fatto che milioni d'italiani lo amino e lo seguano fa pensare che avesse ragione il banchiere Cuccia quando diceva: "La maggioranza degli italiani è rimasta intimamente legata al modello fascista".

Gli italiani amano Silvio Berlusconi anche nei suoi difetti scoperti. Non è un francescano che dona, ma che continua a prendere. La democrazia e le sue lungaggini lo infastidiscono. Anche oggi se la prende con i parrucconi della politica "che parlano e non fanno, che non hanno mai lavorato", e intende dire che non hanno mai partecipato alla gara speculativa, agli imbrogli e alle scorrettezze.

Non è abituato a rispettare le regole, ma al contrario a violarle. Per questo ha stipendiato decine di avvocati celebri, li ha arricchiti, ma da essi è stato arricchito. Non ha modelli culturali da rispettare. Gli intellettuali sono al suo servizio, è il padrone della Mondadori e della Einaudi, in pratica dell'editoria.

Perché uno così dovrebbe fermarsi nella ricerca del potere assoluto, della impunità assoluta? La sua idea della democrazia è inesistente, la sua idea dei partiti da padrone. Il re di denari sono io, oggi sciolgo un mio vecchio partito, domani ne fondo un altro, le regole e le gerarchie le decido io.

Il signore delle televisioni e dei giornali che effetto ha avuto sull'informazione? Che cosa ha introdotto di nuovo? Ha scritturato i giornalisti peggiori, gli avventuristi più spregiudicati, non ha esitato a diffamare i suoi avversari politici, vedi gli attacchi personali a Gianfranco Fini, naturalmente smentiti: "Io far parlare i giornali delle amanti di Fini? Figuriamoci, io sono la persona più corretta del mondo".


Resta da chiedersi se l'inclinazione di Berlusconi e del suo popolo per una dittatura morbida di tipo televisivo lascerà il campo a quella per una dittatura forte. Si dice che una garanzia sia rappresentata dal fatto che abbia sempre ricercato l'alleanza di altri partiti 'democratici', ma la tenuta di questi partiti è storicamente illusoria: erano alleati del fascismo nascente anche i liberali e i cattolici, e quando Mussolini andò al potere erano convinti che il suo fosse un governo transitorio. Per arrivare al partito totalitario anche allora ci vollero degli anni, dal 1922 al '25, per arrivare alle leggi eccezionali.

Si ripete con Berlusconi la contraddizione fondamentale del fascismo e del favore di cui godette presso gli italiani: di un movimento sovversivo che si muta, con la presa del potere, in ricostruttore e potenziatore del vecchio Stato. La veemenza con cui Berlusconi si è scagliato contro uno dei capisaldi del vecchio Stato, la giustizia, è tipica di una borghesia che vuole distruggere lo Stato liberale per costruirne uno a suo completo servizio.

I berlusconiani di ferro hanno esultato per la sua decisione di sciogliere Forza Italia e di creare un nuovo partito, hanno detto che ha dimostrato una genialità da Lenin. Non pare che la svolta berlusconiana sia proprio paragonabile a 'i dieci giorni che sconvolsero il mondo'. Se vogliono dire che Berlusconi possiede la suprema disinvoltura dei grandi politici possiamo concederlo, ma non è di essa che un paese come l'Italia sente il bisogno. Il bisogno vero di questo paese è di imparare finalmente a essere democratico, a rispettare le regole del gioco democratico.

(30 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 04, 2007, 11:25:12 pm »

Giorgio Bocca.

Periodicamente la democrazia viene a noia ai fortunati che ci vivono.

L'ondata antidemocratica più violenta percorse l'Europa verso il 1930, in occasione della crisi economica e del periodo di fortuna del fascismo.


Si moltiplicarono le invettive, le critiche: il laburista Harold Lasky, gli scrittori Thomas S. Eliot, George Bernard Shaw per i quali la democrazia parlamentare era diventata sinonimo di menzogna, debolezza, mediocrità, compromesso, bassezza. Poi ci pensarono Hitler, i nazisti e Stalin, con il comunismo sovietico, a far ritornare l'amore per la democrazia, a farla accettare come 'il minore dei mali' o, come diceva Churchill, "un errore, ma trovatemi qualcosa di meglio". Resta però da chiedersi come mai la democrazia non riesca mai a liberarsi di debolezze e di errori elementari.

Poniamoci alcuni perché.

Perché la democrazia italiana ha accettato l'idea, plebea più che populista, di un'edilizia imposta e diretta da capomastri ladri, da geometri ignoranti, dagli immigrati in cerca di 'pane' e da speculatori?

Perché l'edilizia italiana, l'urbanistica italiana, non potevano essere dirette dagli architetti e dagli urbanisti?

Perché la democrazia finge di ignorare che esistono situazioni eccezionali che impongono dittature temporanee e task force?

Perché deve aspettare sempre che un generale Dalla Chiesa venga ucciso prima di dare pieni poteri a un suo successore?

Perché ogni comune può impedire la costruzione di una centrale elettrica o di una linea ad alta velocità, cioè opere d'interesse nazionale e internazionale?

Perché in tutte le zone autonome l'elettoralismo delega a dei montanari appena usciti da una vita provinciale e populistica di gestire tutte le trasformazioni della modernità?

Perché le leggi sono sempre utopiche, e mai rivedibili ai lumi della ragion pratica?

Perché magistrati, onorevoli, giornalisti, moralisti, continuano a baloccarsi con le favolette costituzionali del diritto al lavoro, alla casa, alla salute e persino alla felicità, quando la realtà di ogni giorno dimostra per l'appunto che sono dei nobili intenti e dei desideri?

Perché si sono fatte discussioni interminabili per una questione di comune educazione civile come quella di consentire ai Savoia di tornare in Italia?

Perché non si riforma la partitocrazia, almeno per decidere che non tocca ai partiti decidere di tutto e di tutti?

Perché un qualsiasi municipio può opporsi alla costituzione di amministrazioni multicomunali che nelle zone metropolitane sono un'evidente necessità?

Perché bisogna sempre, ad ogni costo, tessere l'elogio del proletariato e mettere all'indice Céline, anche se la definizione di Céline "il proletariato è un borghese fallito" appare inaccettabile?

Tutte queste domande appaiono gratuite in un periodo in cui la vita politica italiana e il modo di governare appartengono a una confusione sistematica e continua, per cui non c'è dichiarazione di un ministro o di un sindacalista che non sia immediatamente smentita o corretta secondo le convenienze personali.

C'è da chiedersi cosa mai sia questo miracolo di società complesse e complicate che pure riescono a sopravvivere e a consolidarsi. Come è possibile, ci si chiede, che un'economia come quella italiana, condizionata al 60 per cento dalle organizzazioni mafiose, possa sopravvivere e per certi aspetti fiorire? Come è possibile che questa organizzazione caotica che noi chiamiamo Stato continui, bene o male, a consentire una civile coesistenza?

(23 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 14, 2007, 05:05:38 pm »

Olimpiadi della follia

Giorgio Bocca

L'umanità è in pericolo per le sue stolte moltiplicazioni dei viventi e dei consumi.

La dittatura cinese li moltiplica e il mondo li ammira e li loda 

Il mercato globale ha messo in crisi l'antica idea del nemico. Chi è il nemico oggi?

Quello che parla una lingua diversa dalla tua? Che ha una religione diversa dalla tua?

O uno che diventa amico perché può fare dei buoni affari con te?


L'impero americano, il capitalismo occidentale non hanno ancora deciso: vivono nel dubbio che il nemico siano gli Stati canaglia, che non riconoscono la superiorità morale della cristianità, oppure se questi nemici stanno diventando - sono già - degli eguali in economia, con cui si possono, anzi si devono, fare buoni affari.

Il conflitto delle ideologie può sopravvivere al mercato globale, in cui gli ex comunisti diventano gli insostituibili fornitori di fonti energetiche? Nel dubbio i generali americani hanno tentato di creare un sistema radar missilistico che garantisca all'impero occidentale di colpire la Russia, ma non di essere colpito. Sennonché l'importanza economica della Russia, indispensabile al mercato globale, impone un compromesso: fare entrare anche la Russia ex comunista nel sistema difensivo.

Così dicasi per la Cina, che continua a essere uno Stato del male, in quanto comunista, ma che ha una forza economica in grado di mettere in crisi il mercato globale. Anche con la Cina si sta arrivando a un compromesso, con quella olimpiade sportiva che deve in qualche modo riproporre l'idea greca della tregua: tutti alle Olimpiadi di Pechino, anche i più efferati capitalisti, pur di continuare a fare buoni affari.

Fra le molte cose incomprensibili dell'umanità contemporanea, la definizione di nemico è la più ardua, la presenza degli eserciti e il moltiplicarsi delle guerre sono assurde, ma - si direbbe - necessarie. Che senso hanno le guerre tra simili, fra economie complementari, fra soci in affari? Una sola risposta è possibile fuori da tutte le retoriche e le consolazioni: perché gli uomini non possono vivere senza preda, senza violenza, perché un nemico se lo reinventano comunque.

C'è una lezione della storia di cui gli uomini non vogliono tener conto, perché non hanno il coraggio di ammettere che l'impero universale è una soluzione rifiutata dall'uomo animale da preda, una soluzione peggiore dei guasti che vorrebbe abolire, una disciplina, una razionalità che l'istinto predatorio rifiuta.

I saggi dell'impero romano avevano capito questo inconfessabile rifiuto quando riconoscevano la necessità dell'esistenza dei barbari e consigliavano ai loro eredi di non valicare i limiti dell'impero romano.

Dal tempo remoto del paradiso terrestre gli uomini sanno che il loro peccato mortale è stato di voler assaggiare il frutto dell'albero della scienza, ma continuiamo nell'errore di questa ricerca, di essere noi uomini il vero Dio in terra.

La realtà ci smentisce, la scienza non ci allontana, ma ci avvicina all'ora della nostra estinzione. Siamo prigionieri di un granello di terra che naviga nel vuoto dell'universo, ma progettiamo impossibili esplorazioni del cosmo, scoperte di altri mondi, tutti inabitabili, deserti in cui l'acqua della fertilità è sostituita dal gas metano.

L'umanità è in pericolo per le sue stolte moltiplicazioni dei viventi e dei consumi. La dittatura cinese li moltiplica e il mondo li ammira, li loda. Ogni volta che nel mondo rispunta questa follia produttivistica ricadiamo nell'illusione di aver scoperto la cornucopia, ma è un'illusione.

Ricordate il miracolo giapponese, il miracoloso modo giapponese di produrre? In parte era scienza logistica, ma soprattutto sfruttamento del lavoro umano. Eppure ci cademmo: per anni libri e giornali celebrarono il modo giapponese di produrre. Fu un caso fortunato se ci venne in mente di metterlo alla prova a casa nostra nelle acciaierie di Taranto, dove fece il prevedibile fallimento.

(14 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 25, 2007, 07:20:36 pm »

Risiko tra potenze

Negli stretti di Hormuz e di Malacca si gioca la partita mondiale.

Per ora i buoni affari sembrano scongiurare una guerra.

Ma il conflitto tra gli Usa e la Cina resta incombente 

DI GIORGIO BOCCA


Il mercato globale rimette in discussione le definizioni tradizionali di nemico come colui che ti contende il controllo della terra, fonte di ricchezza e di sopravvivenza, barbaro invasore che va preventivamente dominato e invaso. Sostituito dal concorrente-socio in affari, che ti può contendere il dominio del mondo, ma di cui non puoi fare a meno nella finanza e nel mercato.

Il sinologo Oscar Marchisio del centro studi di Granarolo ci suggerisce un esempio di stretta attualità in un saggio che ha per titolo: 'Il Risiko mondiale si gioca negli stretti di Hormuz e di Malacca'. Lo stretto di Hormuz, la chiusura del golfo Persico, e quello di Malacca, tra Malesia e Indonesia, sono i due 'colli di bottiglia' per cui passa oggi il commercio del petrolio, strategicamente decisivo come ai tempi in cui gli imperi olandese e britannico erano padroni delle comunicazioni tra il Medio e l'Estremo Oriente. Allora per il mercato delle spezie e della gomma, ora dell'oro nero.

Attorno ai due stretti si addensano le tensioni più forti fra le grandi potenze: il Giappone e la Cina, potenze emergenti, hanno un bisogno vitale di assicurare la libera navigazione nello stretto di Malacca, il corridoio marittimo tra Singapore e Busan, perché per esso passa il rifornimento del petrolio necessario alle loro economie in espansione. Lo stretto di Hormuz, che chiude il golfo Persico, è la via obbligata del rifornimento energetico che proviene dagli Emirati Arabi, dall'Iran e dall'Iraq.

La Cina non è in grado di essere padrona dello stretto di Malacca, ma può contenderlo agli altri. Fra due anni disporrà di una flotta di 50 sottomarini e di 60 unità di superficie, non sarà in grado di avere il potere marittimo totale, come lo ebbe la Marina inglese, ma potrà impedire ad altri l'accesso al suo mare interno. Intanto cercherà di superare i rischi dello stretto con gli oleodotti in costruzione attraverso la Thailandia e la Birmania, e con le superpetroliere giganti che potranno percorrere altre rotte evitando lo stretto.


Il Risiko estremo è presente anche nello stretto di Hormuz, dove la schiacciante superiorità militare degli Stati Uniti resta esposta agli attacchi dei barchini superveloci degli iraniani. In questo complicatissimo confronto strategico, la superpotenza americana, forte di numerose portaerei, di un'aviazione strategica e della potenza atomica, ha trovato una forte alleata nell'India, i cui governanti hanno capito che chi può intervenire nel controllo dei due stretti ha un ruolo decisivo: è per questo che l'India ha costruito una flotta di navi di linea attorno alla portaerei Viraat.

Siamo tornati, in sostanza, all'equilibrio del terrore della guerra fredda, la sola cosa che possa impedire una guerra fra gli Stati che si contendono le fonti di energia è la stessa di quella che evitò il conflitto mondiale fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica: il terrore della distruzione reciproca e l'invivibilità del mondo.

Il Risiko è complicato dal fatto che ciascun protagonista tende poi a coprirsi i fianchi da possibili attacchi locali. Gli indiani, per esempio, hanno dato il via a una collaborazione militare con gli iraniani, navi da guerra iraniane sono ospitate nella base indiana di Kochi, ed esercitazioni comuni sono in corso fra cinesi e giapponesi.

Il sinologo Marchisio dice che il conflitto fra Stati Uniti e islamici è tutto sommato risolvibile, perché si svolge nello stesso campo capitalistico, mentre quello tra gli Usa e la Cina comunista appare irrisolvibile. Ma per ora i buoni affari sembrano in grado di allontanare una guerra.

Le elezioni in Russia sono l'ultimo, clamoroso esempio del nemico-socio in affari. Chi ha bisogno del gas e del petrolio russi critica i brogli che hanno promosso Putin, ma con moderazione, e c'è chi, come Sarkozy, si congratula.

(24 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 05, 2008, 04:33:23 pm »

L'ossessione del cavaliere

Berlusconi coltiva la sua megalomania, dalla politica al calcio, con sincera passione.

Non possiamo fare altro se non seguire la sua vertiginosa parabola 

DI GIORGIO BOCCA

Un miliardario brianzolo ossessionato dal potere si aggira per l'Italia. Ha un nemico mortale di nome Prodi e lo insegue nelle vie e nelle piazze, nelle televisioni di cui è padrone, sui giornali, in parlamento, nei ministeri, nei campi di calcio, dovunque.

Non si darà pace, non deporrà la fatale inimicizia finché non avrà distrutto il pacifico, bonario professore bolognese che spesso chiama con il nome irridente di Mortadella.

Ha scritturato una canea di botoli furiosi che dall'alba a notte fonda, simulando amor di patria offeso, lo insultano e lo deridono. Non c'è travaglio o sofferenza del popolo italiano di cui Prodi non sia colpevole. Rincarano le cipolle? Manca il riscaldamento su un treno di pendolari? La neve e la pioggia flagellano le città del Meridione? Subito, da cento schermi televisivi, da cento giornali, i servitori del Cavaliere, melliflui e irridenti, indicano in Prodi il colpevole, lo offrono alla rabbia e alle ire vendicative dei sudditi.

E tutti attendono, con la bava alla bocca, che dia finalmente le dimissioni, che si ritiri sul natio Appennino tosco-emiliano a pedalare faticosamente su una bicicletta da corsa che sembra sempre sul punto di spaccarsi sotto il suo peso di ragazzo grasso, il nostro Fatty della comica ridolinesca che viene ripetuta di continuo per farlo apparire goffo e femmineo mentre il suo rivale, il Cavaliere, è giovane, robusto, scattante, con i capelli tinti di un bel nero.

Di cosa non è colpevole il pacioso professore di Bologna? C'è il direttore di un telegiornale del Cavaliere che arrotonda la bocca a cul di gallina quando alla fine di una descrizione delle sventure nazionali causate dal Professore arriva al momento topico di pronunciare il suo nome, a cui fa seguire le accorate richieste di otto milioni di italiani, che chiedono la cacciata dell'inetto, dei tre milioni di italiani che si sono già iscritti al nuovo Partito del Popolo della Libertà, perché il Cavaliere crede nella magia delle parole, crede che a ripetere la parola libertà i suoi seguaci si trasformino da servitori in liberi.

Un giorno ho chiesto ad alcuni seguaci del Cavaliere quali fossero le sue migliori qualità. All'unisono mi hanno risposto: ha una marcia in più.

È vero, nella sua ossessione non ha pari, la ossessione gli dà forze sovrumane, fa cinque comizi al giorno, vola dal Brennero a Capo Passero, le televisioni lo riprendono nel momento della nostra grande illusione, quando tenta di emergere dal gruppo di guardaspalle che lo circonda, e l'impressione è che l'abbiano arrestato.

Una illusione che ebbero gli italiani negli anni del regime, quando un incauto giornale pubblicò una fotografia del Duce fra le guardie che lo proteggevano e scrisse nella didascalia: 'Mussolini fra i carabinieri'.

Il nostro non si dà tregua. Raccomanda le amichette dei suoi galoppini elettorali, cerca di corrompere i senatori a vita, insulta i magistrati, passa dalla politica al calcio, descrivendosi in entrambi come provvidenziale. Il Milan vince un titolo mondiale e lui racconta che suo padre lo aveva previsto fin dalla più tenera età e legge un suo diario adolescenziale per la gioia dei cortigiani entusiasti.

Ma il Cavaliere è amato da milioni di italiani perché non nasconde la sua ossessionante megalomania, ma la coltiva con sincera passione. È fatto così! Non possiamo far altro se non seguire la sua vertiginosa parabola.

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Gennaio 05, 2008, 04:44:23 pm »

I moderati di massa

Una borghesia senza principi ma ricca di denaro, di conoscenze, di privilegi, domina il paese senza bisogno, per ora, di leggi speciali e di polizia 

DI GIORGIO BOCCA


Il comizio di Berlusconi a BolognaI partiti politici italiani sembrano dominati da una frenesia nominalistica, dalla voglia incontenibile di cambiar nome, simbolo, distintivo, bandiera, di camuffarsi, di fingere di essere ciò che non sono. Tutti amanti di una libertà che negano agli altri negli affari, come nell'informazione, come nella giustizia, tutti pensierosi di un popolo che disprezzano, temono e ingannano, pronti a lodare una morale che violano ogni giorno, ogni ora. Non la poltiglia senza nome e senza ideali di cui parla il mio amico De Rita, ma un sistema di ferree complicità fra benestanti, di assoluta reverenza per il dio denaro.

In questo sistema che può essere chiamato in vari modi, come consumismo anarcoide, dominio dei manager, produttivismo senza regole, domina un'idea che ha conquistato sia coloro che privilegia, sia quanti a esso si rassegnano: c'è un solo dio, una sola morale, un solo scopo, un solo modello sociale, una sola way of life, una sola pagana religione: il denaro, la ricchezza, i soldi da cui tutto deriva, tutto dipende.

Perché milioni di italiani corrono ai gazebo di Berlusconi per aderire appassionatamente alle sue false promesse populistiche, alle sue promesse di ordine e di benessere quotidianamente smentite dalla misera realtà di un paese in declino? Perché sperano di entrare in qualche modo a far parte dell'Italia che rappresenta, l'Italia dei moderati che sono i benestanti di massa, la borghesia senza principi ma ricca di denaro, di conoscenze, di privilegi, che domina il paese senza bisogno, per ora, di leggi speciali e di polizia.

Si vuole un esempio recente di questa dittatura morbida? In una fabbrica torinese, un'acciaieria, avviene una strage di operai bruciati vivi da un'esplosione di gas incandescente. È chiaro a tutti che la sciagura è stata causata dal produttivismo ossessivo, dalla mancanza di precauzioni e di prevenzioni.

In una società meno consumistica, meno serva del profitto a ogni costo scoppierebbe una rivoluzione, una rivolta di popolo.

Nella Torino del capitalismo anarcoide niente: gli operai morti vengono sepolti, i parenti risarciti con modeste regalìe, i padroni della fabbrica liberi e anche sdegnati, la colpa non è loro, ma degli operai che dovevano badare agli estintori.

Cercare altri esempi, ricordare altri esempi è persino ridicolo. Giornali e case editrici non fanno altro che sfornare libri, memoriali, saggi in cui si raccontano per filo e per segno le violazioni delle leggi, dei regolamenti, dei normali rapporti civili avvenuti nel paese.

Un libro dal titolo 'Gomorra' racconta con realismo estremo i delitti della camorra, un altro, 'La Casta', elenca i notabili che dovrebbero stare in galera, i cortigiani del capo dei moderati fanno gli elogi dello stalliere mafioso che doveva essere associato all'ergastolo e invece accompagna a scuola i figli del padrone.

Ma perché questi libri sono dei bestseller, perché le loro edizioni si succedono? Perché i i lettori vogliono finalmente conoscere il marcio che li circonda? No, credo che il vero movente sia un altro, sapere come i furbi sono riusciti a fare i soldi, a diventare ricchi e potenti violando quei freni per gli sciocchi che sono le leggi.

Poi anche nella società del capitalismo anarcoide qualcuno capisce come stanno veramente le cose, esce dall'apatia, s'infuria. Ma sono jacqueries: tumulti da lazzaroni che la classe dominante dei moderati di massa può sopportare, chiusa nei suoi quartieri blindati.

(28 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 11, 2008, 07:14:10 pm »

Napoli maledetta

di Giorgio Bocca

La spazzatura è l'emblema di una città senza regole.

E di una cultura dell'illegalità che rischia di travolgerci tutti


Nel gennaio 2006 quando uscì da Feltrinelli il mio 'Napoli siamo noi', un noto scrittore partenopeo scrisse che ero "una vecchia sciarpa littoria carica di nostalgie" e il direttore del 'Mattino' rincarò la dose degli insulti e Raffaele La Capria scrisse che mi ero "troppo sprofondato nella mentalità piccolo settentrionale". Ma a sprofondare è stata in questi giorni Napoli sotto l'immondizia, e il fatto che sia sprofondata come due o quattro anni fa, fa giustizia di queste difese d'ufficio di Napoli vittima del nord egoista. Nelle interviste tv ai napoletani che impediscono la riapertura delle discariche di Pianura si è ancora sentito qualcuno dire che "le immondizie ce le mandano giù i settentrionali", ma anche un bambino sa che le cose stanno diversamente. Napoli, la Napoli della povertà, è diventata come le altre città italiane un luogo di consumismo moderno intensissimo e senza regole e non ha saputo o potuto fargli fronte, lo ha subito come una slavina che tutto copre e soffoca. Vizi antichi spesso pittoreschi e tollerabili accumulandosi sono diventati intollerabili, la mitica armonia napoletana fra la natura stupenda e la città 'intelligente' pronta agli adattamenti e ai rimedi, si è arresa di fronte alla colata incontenibile dei rifiuti e delle confezioni.

La tolleranza totale che torna fra le cause del disastro non è una novità. Parlare di tolleranza zero a Napoli è ignorare la storia. A palazzo di giustizia, quando arrivò da Palmi il procuratore Agostino Cordova si vendevano sigarette, registrazioni di film, magliette d'autore contraffatte: era il mercato nel tempio. Cordova lo spazzò via, e non glielo hanno perdonato. L'igiene a Napoli nei secoli era sconosciuta, si cuocevano i maccheroni per strada, la pizza nei sottoscala. Tutto abusivo, tutto liberamente venduto: per anni in centro si è tenuto il famoso mercatino della merce rubata nei depositi americani, non era una vergogna, ma un'attrattiva locale. Oggi si vendono dovunque borse griffate e programmi informatici, registrazioni di film e tutti lavorano tranquillamente in nero. Napoli è l'unica città dove anche l'artigianato più rispettabile, come il presepe, è prodotto in nero. È la città dove i politici rei confessi di corruzione non solo vengono perdonati, ma tornano al potere. Ma fu per questo che intitolai il mio saggio 'Napoli siamo noi': perché anche da noi, in tutta Italia, i condannati per violenza o truffa politica, i deputati o i ministri ladroni, sono stati riammessi nelle direzioni dei partiti o nei pubblici uffici. A Napoli la faccenda era più spavalda, regnava a Napoli negli anni Novanta il ministro
Cirino Pomicino. Costui, l'11 marzo 1990, si presentò con un seguito di amici alla sede della Rai e annunciò festosamente: "Guaglio', mo' trasimme tutti quanti, la Rai è di tutti, non è vero?", per vedere una partita di calcio del Napoli.

I napoletani non sono tutti camorristi, ma hanno fatto proprio il linguaggio camorrista. Nelle intercettazioni della polizia ricorrono linguaggi cifrati: "Mi mandi venti chili di mele", "passi dal mio segretario per quantificare", "mi scusi se l'hanno già disturbata, ma adesso tocca a me". Un deputato dei Ds, Isaia Sales, ha scritto di questo costume napoletano: "Il potere politico è diventato il regolatore quasi assoluto della vita sociale ed economica di grandi aree, le sue regole sono diventate le regole dell'economia, qualcosa di simile a ciò che accade nei paesi dell'est". A Napoli è possibile tutto: lo psichiatra Ceravolo ha inventato una maglietta con su stampata una finta cintura di sicurezza, e assicura di averne vendute molte. Ma non facciamoci illusioni: Napoli ormai siamo noi, i nostri consumi culturali non fanno una gran differenza, sono la poltiglia di familismo, violenza, maschilismo, superstizione, pornografia con l'ossessione consumistica come unico criterio di giudizio. Il consumismo ha travolto con le sue immondizie le ultime resistenze civili di Napoli. Ma tutto il Paese è a rischio. Si è scritto di Napoli: "Nella città convivono due classi, i letterati e il popolo", i letterati, gli intellettuali, si spartiscono i pubblici uffici, governano un popolo di cui Guido Dorso diceva: "Una plebe non ancora uscita dal limbo della storia, abbrutita dalla tradizione e dalla miseria". Questa plebe sopravvive nei cento mestieri umili, 'spiccia faccende', piccola manovalanza che non può contare su un reddito regolare, da cui deriva la voglia di sopravvivere alla miseria, di sopportare la miseria che è all'origine della tolleranza generale: tutto deve essere permesso affinché tutti possano vivere.
(10 gennaio 2008)


Riassumendo: una classe borghese che difende i suoi privilegi spartendosi il pubblico denaro e un "volgo che nome non ha" che inventa ogni giorno un modo per sopravvivere. Pare che all'origine della camorra ci sia stata un'associazione spontanea di delinquenti dediti all'estorsione, certo è che la camorra ha sempre avuto funzioni retrograde, al servizio dei grandi padroni. E questa funzione retrograda si è confermata nel disastro della città invasa dalle immondizie: la camorra, per i suoi interessi, non ha esitato a favorirla. Una città che per avere troppi problemi non ne risolve mai nessuno, dove il problema vero è sempre un altro che altri dovrebbero risolvere, dove le regole valgono solo per gli altri e si arriva a quella che impone ai motociclisti il casco e nessuno lo indossa, o lo porta tra collo e schiena, per metterselo in caso di controllo. Qui il motorino non è un mezzo di trasporto, ma qualcosa che fa parte del tuo corpo, che usi per eludere ogni controllo. Napoli è stata fatta così come è oggi dalla sua storia. L'unica giustificazione di questa storia è che nella modernità dovunque il perseguimento del bene comune non è più né possibile né desiderato. Per pagare un dirigente militare la camorra spende 20.000 euro al mese, un killer 2.500 euro a omicidio, un collaboratore fisso 750 euro. Per tenere in piedi una rete criminale ci vogliono montagne di soldi, e i camorristi se li procurano allargando la loro economia, superando la concorrenza con i mitra e la finanza con le estorsioni. Le ultime notizie sulla metastasi criminale, che le nostre autorità definiscono preoccupanti, sono in realtà spaventose.

L'attività imprenditoriale camorrista è arrivata nell'Italia del nord, nel 'miracolo' del Veneto. Fabbriche e magazzini di merci falsificate sono sparse nel mondo e nessuno protesta perché la metastasi non è più contenibile, centinaia di negozi, centri commerciali, ditte di trasporto sono legati al modo camorristico di intraprendere: violenza e denaro sporco da riciclare. Se improvvisamente stazioni invernali, lacustri, marine sono tutto un fiorire di investimenti magari sballati, magari megalomani, a tenerli in piedi con un mare di denaro sono le mafie che controllano il commercio della droga, il crescente consumo di stupefacenti di società stressate, impaurite, tese allo spasimo nella ricerca del profitto. Non occorre essere un papa per capire che il globalismo non risolve i problemi del mondo, ma li aggrava. L'Italia spaventata dal disastro di Napoli invoca l'intervento dell'esercito e della polizia. Ma neanche le cosiddette forze dell'ordine sfuggono alla corruzione, come sa quel padre di famiglia che ha raccontato allo scrittore Roberto Saviano: "Perché mio figlio vuole fare il poliziotto? Credo da quando ha visto uno del commissariato con l'Audi TT". La corruzione delle forze dell'ordine è a livelli impensabili. Quello strategico pare arrivi alla costituzione di una vera e propria 'cupola', di cui fanno parte capi clan e ufficiali dei carabinieri che possono avere rapporti con ambienti politici e istituzionali. Qualcosa di simile si verificò negli Stati Uniti degli anni Trenta e la società civile riuscì a ristabilire regole del gioco accettabili. L'Italia e l'Europa sono chiamate alla prova, il disastro napoletano è un avviso a tutta la società europea.

(10 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Gennaio 18, 2008, 05:05:12 pm »

Sono tutti complici

Politici, vigili urbani, camorra: a Napoli si perpetua il principio che il peggio previene un peggio ancor peggiore

L'Europa civile, il mondo si chiedono increduli, spaventati, che cosa mai succeda a Napoli, la grande città mediterranea di origine e civiltà greca, carica di storia e di monumenti, oggi sepolta sotto una spessa coltre di immondezza, senza una classe dirigente degna del nome, con una casta di potere divisa tra inutili e vaghi lamenti. Eppure il mistero dei rifiuti di Napoli un mistero non è: è il noto teorema della corruzione, guadagnare il più possibile con il minimo sforzo.

Regna una complicità generale, una ditta che tratta rifiuti ferrosi ha fatto ottimi affari scavando buche nelle campagne attorno a Napoli e riempiendole di rifiuti velenosi. I padroni dei terreni non lo sapevano? "Sì", dicono, "scaricavano le scorie nocive nei nostri terreni. Ma non a 250 euro come si è detto, ma a 50. Noi non abbiamo mai capito che seppellissero materiale velenoso, avevamo creduto alla storia che i nostri terreni avevano una natura interessante che doveva essere esaminata. Questo ci diceva il signor Passariello, e per questo permettevamo loro di fare grosse buche".

Nei campi di Francolise nel Casertano sono state sepolte montagne di rifiuti ferrosi. "Non sapevamo, non avevamo capito", ripetono i padroni della Italmetalli, che ha scaricato in Campania migliaia di tonnellate di rifiuti e oggi sono latitanti.

Per ottenere una opportuna vigilanza dei rifiuti occorrerebbe una pubblica vigilanza bene addestrata. Ma i vigili urbani di Napoli hanno sempre rappresentato un problema irresolubile per molte ragioni. La prima è che, essendo 4.500, formano un bacino elettorale che ogni politico deve mantenersi buono anche a costo di sopportare i loro ricatti. Una piaga dei vigili è la sindacalizzazione e le specializzazioni. Dei 2.550 in servizio, 400 non sono in pratica disponibili perché fanno lavori sindacali e non possono essere impiegati lontano da casa. Un vigile, che ha assistito senza muoversi a una rapina, ha subito dichiarato che un vigile non ha "compiti di polizia". I disponibili ai servizi si sono specializzati in nuclei: per la protezione turistica, per il traffico, per la sorveglianza dei pontili. Ci sono nuclei esentati dall'indossare questa divisa. Nuclei che dovrebbero sorvegliare i tassisti abusivi, che stanno tranquillamente in coda all'aeroporto e davanti all'ingresso degli alberghi. Per anni il nucleo dei trasporti non si è accorto che nelle officine dell'azienda comunale gli autobus venivano sistematicamente spogliati e sabotati.


Il principio napoletano secondo cui il peggio rientra nella normalità, anzi previene un peggio ancor peggiore, produce di continuo i suoi teoremi perversi. È tutto un andirivieni di moralismo e permissivismo, di accordi per impedire che si faccia chiarezza, di fieri propositi e di commossi appelli alla legalità.

I rifiuti occupano le strade perché non c'è modo più comodo per liberarsene. Nel centro direzionale gli impiegati comunali usano far pulizia gettando dall'alto dei grattacieli cartoni e carte nelle strade. Ci sono quartieri alti, che dal tempo di 'Le mani sulla città' stanno sull'orlo di frane e burroni in cui la camorra getta i rifiuti. Gli abitanti respirano aria puzzolente, ma non c'è rimedio possibile: le immondizie nei precipizi non le raccoglie nessuno, non si raccolgono neppure quelle intorno alla Stazione centrale da cui ogni giorno transitano centinaia di migliaia di viaggiatori.

I rifiuti si accumulano perché i soldi per raccoglierli spariscono per mille rivoli, e perché la camorra sabota gli impianti di raccolta, fa scioperare i netturbini. C'è una località che si chiama Montagna Spaccata, una valletta immersa nel verde e nei fiori. Ne hanno fatta una discarica puzzolente a pochi passi da un castello, la camorra l'ha messa lì per convincere il proprietario a vendere.

Napoli non cambia mai, ci torni dopo cinque, dopo dieci anni e non è cambiato niente, stessa anarchia, stesse alleanze malavitose.

Negli anni '80 ci fu a Napoli lo scandalo dei farmacisti che gonfiavano le ricette, le moltiplicavano. E non erano pochi gaglioffi, erano centinaia di rispettabili professionisti. Oggi lo scandalo è il medesimo, solo che gli hanno trovato un nome nuovo: Ricettopoli.

(18 gennaio 2008)

DA ESPRESSO.REPUBBLICA.IT
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 25, 2008, 04:54:52 pm »

Giorgio Bocca

Il tradimento di Napoli


Il disastro dei rifiuti in Campania è vissuto da gran parte degli italiani come una cattiva azione che ricade su tutti. Cresce il rancore contro chi pratica il latrocinio del bene pubblico e se lo spartisce per comodi privati  Il disastro napoletano dell'immondizia suggerisce alcune riflessioni sul cosiddetto sviluppo sostenibile e sul suo contenitore ideologico, il liberismo trionfante e senza discipline.

Lo sviluppo sostenibile non è più l'espansione perenne dei secoli delle esplorazioni senza fine e dei consumi senza misura. La terra non è infinita, le città non sono senza misure, il degrado che un tempo poteva essere trasferito dai paesi ricchi a quelli poveri oggi è sotto la porta di casa di tutti.

La convivenza civica non è più una questione di volontà individuale, ma d'impegno sociale: chiunque occupi e sporchi, occupa e sporca per tutti; la raccolta differenziata dei rifiuti impone una disciplina generale, è un esempio del socialismo nelle società mature, indispensabile alla sopravvivenza, prima che alla giustizia. La fine dell'individualismo del tipo pionieristico è evidente, il diritto di difendere ad ogni costo la propria indipendenza individuale appare assurdo. Dire che il dramma dei rifiuti è una lezione di civismo sarà una magra consolazione, ma è certo che essa impone a tutti di occuparsi dei doveri comuni, delle difese comuni.

L'anarchia sociale non è più possibile, il nostro modo di produrre e di consumare non è più tollerabile se conserva le divisioni sia personali sia amministrative.

La tragedia dei rifiuti impone una riflessione sulla corruzione, sulla sua tolleranza. La colpa più grave del berlusconismo, cioè del cattivo liberismo, è stata la predicazione continua, spesso impudente, della tolleranza per i corrotti, per i furbi di tutti i quartierini capitalistici. Il disastro dei rifiuti napoletani è prima di tutto un disastro della corruzione dei dirigenti della pubblica amministrazione e della criminalità privata.

In questi anni hanno ricevuto dal governo centrale e dall'Europa decine di miliardi per risolvere la raccolta e la collocazione delle spazzature, e se li sono spartiti e mangiati. Su questo non ci sono dubbi: i soldi per costruire gli inceneritori e nuove zone di raccolta, per impiegare netturbini e trasportatori sono finiti nelle tasche dei funzionari e dei politici, tutto si tiene inesorabilmente nella società moderna. La corruzione degli uni ricade a danno degli altri, le mancanze, gli sprechi, gli sporchi comodi degli uni ricadono inevitabilmente sugli altri.


È per questo che il disastro napoletano è vissuto da gran parte degli italiani come un tradimento, come una cattiva azione che ridonda su tutti. È per questo che le altre regioni hanno risposto in modo negativo alla richiesta di aiuti. L'ammirazione popolare per le associazioni fuorilegge, in odio alle discipline statali, sta mutandosi in un rancore verso coloro che praticano il latrocinio del bene pubblico, che si spartiscono il bene pubblico per comodi privati.

C'è infine un pesante giudizio tecnico-logistico sul modo con cui si è provveduto alla sistemazione dei rifiuti, il confronto con il resto d'Italia e con l'Europa è stato impietoso. Solo una cecità civica, una negazione della civile convivenza può abbandonare le immondizie nelle strade e nelle piazze, sporcare e ammorbare intere città, mettere in fuga i turisti in città come Napoli dove il turismo è tra le poche fonti di ricchezza, confermare la voce della anarchia napoletana.

Ha ragione lo scrittore La Capria, quando dice che la mitica armonia napoletana fra natura e tolleranza è stata creata ad arte affinché i vizi fossero scambiati per virtù, le colpe per meriti, come se il disordine rappresentasse il modo più civile di esistere e di amministrare. L'ordine svizzero sarà poco intelligente, poco brillante, ma è la base di una vita civile.

(25 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 02, 2008, 10:05:54 am »

Giorgio Bocca

I cannoli di Cuffaro


Inquisiti per mille latrocini e soprusi, i nuovi padroni sanno che nello sfascio delle istituzioni possono sempre affidarsi ai grandi avvocati per evitare i castighi e conservare l'appoggio dei clienti che partecipano al loro banchetto  Tre nomi, tre personaggi campeggiano nelle cronache politiche e giudiziarie: Clemente Mastella, Salvatore Cuffaro, Silvio Berlusconi. Indagati, processati e magari condannati, ma sempre adulati dai loro clienti e complici di questa dittatura morbida che toglie la gioia di vivere a una metà degli italiani, ma viene spesso appassionatamente difesa dall'altra metà.

Non resta che prender atto che una metà degli italiani, di destra o di sinistra che sia, è ormai legata o rassegnata a questa gestione clientelare della cosa pubblica, che vige in tutti gli uffici della pubblica amministrazione, diciamo in questo modo italiano che le clientele politiche e affaristiche hanno di appropriarsi del pubblico denaro.

Il colpo di grazia alla democrazia è stato l'applauso del parlamento, in tutti i suoi ordini, a Clemente Mastella, che difendeva se stesso e il suo clan e attaccava la magistratura che si era permessa di ricordargli che la legge è uguale per tutti. E quell'applauso spiega come l'attuale classe dirigente politica-manageriale ostenti la più assoluta indifferenza per ciò che va sotto il nome di pubblica opinione.

Stalin redivivo chiederebbe: "Quante divisioni ha la pubblica opinione?", che potere ha la pubblica opinione di regolare il consumismo anarcoide, il clientelismo avido, la irresponsabilità dei deputati?

Inquisiti per mille latrocini e soprusi, i nuovi padroni sanno che nello sfascio delle istituzioni possono sempre affidarsi agli azzeccagarbugli più abili, ai grandi avvocati per evitare i castighi e per conservare l'appoggio dei clienti che partecipano al loro banchetto. Il male, ora lo vediamo chiaramente, è antico, progressivo e a quel che sembra inevitabile. L'immoralismo dei Craxi e degli Andreotti, lodato e rimpianto da una parte sempre maggiore del ceto dirigente, doveva farci prevedere il peggio. Ho assistito anni fa al processo di Giulio Andreotti sul famoso bacio al padrino Riina, cioè sui suoi rapporti con la mafia. Rapporti noti e addirittura rivendicati come un merito.


Tutti sapevano che la corrente di Andreotti nella Democrazia cristiana era diretta dai mafiosi Ciancimino e Lima e finanziata dai mafiosi cugini Salvo, a cui il ministro scriveva una lettera pubblicata su tutti i giornali: "Vi accusano perché sono invidiosi di voi". Ero come cronista al processo, quando arrivò da Roma una delegazione democristiana venuta a portare ad Andreotti la solidarietà del partito, composta tra gli altri da Casini e Mastella. Passarono tra i nostri banchi salutando, sorridenti, pimpanti, euforici, come se si celebrasse una vittoria della democrazia e non uno degli spettacoli più sordidi e umilianti per la nazione e la sua storia: la tradizionale assoluzione per insufficienza di prove di un potente protetto dallo Stato complice.

Insieme a Clemente Mastella torna nelle cronache italiche Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia. Un tribunale lo ha appena condannato a cinque anni di reclusione per aver avvertito un 'pezzo da novanta' siciliano di stare attento ai suoi telefoni, intercettati dai magistrati, ma assolto dall'accusa di complicità con la mafia, una contraddizione in termini spudorata, la stessa usata al processo Andreotti, e il signor Cuffaro, prima di essere costretto a dimettersi, ha festeggiato, offrendo dolci e champagne ai suoi amici.

Intanto Berlusconi deride e accusa i giudici che lo accusano di aver tentato di corrompere alcuni senatori a vita usando i suoi servi nella televisione di Stato. I capiscuola Bettino Craxi e Giulio Andreotti ci avevano avvertiti, ma noi andiamo avanti verso lo sfascio generale.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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