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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 140901 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:15:04 pm »

Ma chi sono questi 'faccendieri'?

di Giorgio Bocca

I giornali li chiamano così, ma in realtà si tratta di pidocchi. Che si attaccano ai politici e offrono loro case in centro, regali esentasse, lussi e comodità. Corrompendo la democrazia Bisignani

(22 luglio 2011)

Chi sono i faccendieri di cui sono piene le cronache e i moralismi? Come è possibile che questi pidocchi del malcostume corrente siano scelti come persone di fiducia da ministri e da alti funzionari dello Stato? A leggere ciò che ne scrivono i cronisti parlamentari o di gossip mondano, sono dei "bru bru" che ogni professionista per bene, giudice, avvocato, ingegnere, professore si guarderebbe bene dal frequentare.
E allora perché i nostri politici se ne circondano e li usano? Il mistero di Pulcinella è stato svelato dal nostro Filippo Ceccarelli, con il garbo micidiale che gli si conosce. Per la casa: non la casa qualsiasi dei cittadini normali ma la casa in vista di Montecitorio, raggiungibile magari a piedi in ogni ora del giorno e della notte anche se ci sono tumulti o scioperi. Una casa con vista del Colosseo o vicino al Pantheon.

Si dirà: ma che bisogno hanno dei faccendieri personaggi cui certo il denaro non manca? E' evidente: perché per trovare delle case con quei requisiti è indispensabile per i potenti avere le mani in pasta nel mercato immobiliare, nei suoi non sempre limpidi do ut des, nelle frequentazioni degli altri faccendieri.
L'elenco dei piaceri e dei lussi dei faccendieri portati alla ribalta dagli ultimi scandali mette i brividi. Rischiano la galera, l'esclusione dalla buona società, la nomea di cafoni, e di emulare i "pescicani" della prima guerra mondiale, gli arricchiti volgari: automobili fuoriserie da centinaia di migliaia di euro, orologi da 20 mila euro, barche da ormeggiare a Portofino e feste continue per accontentare le mogli volgari e insaziabili che si scelgono come uomo della vita un faccendiere.

Ha colto nel punto debole i nostri potenti il cronista di modi gentili ma di penna tagliente. Se tu uomo di governo vuoi la casa in vista di Montecitorio devi tenerti in squadra il faccendiere che ha passato la vita a frodare il fisco e a fare loschi commerci. Quello che potenti di oggi, i ministri e i vari funzionari che si servono dei faccendieri, non riescono a capire è che l'unico modo per far parte degnamente di una classe dirigente è il taglio dai comodi e dai piaceri legati ai servi senza stile e senza morale.
Il ragionamento che i potenti fanno è chiaro, ed è lo stesso che faceva Enrico Mattei con i fascisti della prima Repubblica: io questi nemici o estranei alla democrazia li adopero come si adopera un taxi, salgo, mi faccio portare dove devo andare, e chi si è visto si è visto.

Non è così: l'antifascismo democratico ha predicato per tutto il regime l'intransigenza, ha insegnato a generazioni che era un errore venire a patti e a commerci con gli uomini del regime, l'opposizione a un regime autoritario non è possibile se poi si condividono i lussi, i condizionamenti, i comodi del potere.
Il ministro che per sposarsi ha bisogno di andare nella località del lusso massimo della Penisola sorrentina è uno che dà al Paese questo messaggio: io sono uno che predica bene e razzola male, uno che predica la lotta agli sprechi e la corretta amministrazione e che poi vi dimostra di avere i desideri e i piaceri dei faccendieri. In occasione dei matrimoni dei nostri uomini politici vige ancora la regola quasi obbligatoria della lista dei regali.

Quando si celebra la cerimonia del potente di turno il ceto dirigente cala per così dire la maschera e compilando la lista dei regali si confessa in pubblico: che serve al nostro caro collega di partito e di casta? Un uliveto, una villetta al mare, un servizio da tavola per ventidue? Esenti dalle tasse.
Ai tempi del grande potere democristiano la lista dei regali e la loro consegna assumevano un significato politico. Cronisti e fotoreporter venivano invitati di fronte alla casa del festeggiato per assistere alla sfilata dei doni, come se fossero arrivati dall'Oriente su una carovana. Lo spettacolo non destava scandalo, era un segno manifesto del potere che si mostrava senza veli ai cittadini.

   
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« Risposta #196 inserito:: Agosto 06, 2011, 04:04:44 pm »


L'opinione

Che fatica capire l'Italia

di Giorgio Bocca


I torinesi che la fanno da padroni a Detroit. La frenesia delle donne di rifarsi naso e corpo.

La passione per gli omicidi misteriosi, da Sarah a Yara.

Nel nostro paese l'unica distrazione vera ormai sembra essere la politica

(28 luglio 2011)

Alcune cose che non riesco capire di questo tempo. La Fiat che compra la Chrysler, per cominciare. La pulce italiana, i pigmei di Torino, che la fanno da padroni a detroit. Inspiegabile. La Fiat di oggi e di un prossimo futuro non sembrava proprio avviata a conquistare il mondo. La sua industrializzazione del sud non era stato un successo: chiuso l'impianto di Termini Imerese, in crisi quello di Pomigliano d'Arco, lento ricambio dei modelli sul mercato fermo. E invece con l'arrivo di un oriundo italo canadese come sergio Marchionne è un fiorire di successi e di progetti: nuovi impianti in Serbia e Polonia, l'acquisto della Chrysler, uno dei giganti di Detroit, lodi generali al supermanager che sa abbinare l'automazione alla finanza.

Chi ha fatto il miracolo? Nessuno risponde, è uno di quei momenti in cui l'azienda non si sa bene perché e come si mette a correre verso imprevedibili successi. Probabilmente il miracolo l'hanno fatto le banche, la finanza mondiale che hanno riconosciuto in Marchionne uno dei suoi cavalli di razza, di quelli che sanno come si salta sulla cresta dell'onda. I menagrami dicono che alla fine della fiera la Fiat sarà una delle poche grandi aziende italiane a passare il mare e andare negli Stati Uniti, paradiso del capitalismo. Impressionante comunque il reverente silenzio con cui tutta la stampa accetta il fatto che John Elkann sia il nuovo re dell'auto.

La seconda cosa che non capisco di questa nostra Italia che cambia è lo straordinario successo della chirurgia plastica, quella che rifà nasi e bocche, e che ha portato al governo Daniela Santanchè (cognome da nubile Garnero), separata dal chirurgo omonimo. Le italiane sembrano dominate dalla frenesia di farsi rifare faccia e corpo. E' un'illusione costosa e rischiosa. Spesso i connotati corretti o rifatti sono peggio di quelli originali, spessissimo i nuovi tessuti collassano e incomincia un calvario per riparare quelli che hanno ceduto e comunque vada quelle che si sono rifatte sono riconoscibilissime. Di alcune ci si chiede perché l'abbiano fatto. Perché tante attrici e cantanti si sono fatte mettere delle bocche enormi e puttanesche?

Un'altra strana passione italica è quella delle indagini sui delitti irrisolvibili e i misteri processuali, il cui capostipite è la vicenda Bruneri-Canella, dello smemorato conteso da due signore torinesi. Delitti inspiegabili, o stupidi e proprio per questo impuniti, come quello della giovane Sarah nel profondo sud o della ragazzina Yara a Bergamo, sono una manna per le televisioni sempre a corto di immagini da bruciare nella fornace. Che cosa c'è di meglio per la televisione di indagini strampalate a cui partecipano gli esperti esibizionisti, dove tutti possono dire la loro, che più ridicola è meglio è?

La questione non è nuova. Quando entrai nel giornalismo erano di moda i processi fiume, non sullo schermo luminoso ma sulla carta stampata. Processi seguiti da milioni di persone che non si stancavano di schierarsi pro o contro la colpevolezza o l'innocenza dei processati. E si andava avanti per decenni, per generazioni, come nel caso di Ettore Grande, un diplomatico la cui moglie era stata uccisa a rivoltellate a Bangkok, e famosi criminologi arrivarono, al suo secondo processo, a dire per difenderlo che la colpa era dell'Amok, la follia che coglieva gli indigeni nei giorni delle grandi piogge. Con gli avvocati che per far assolvere i loro clienti usavano la tecnica tutti colpevoli nessun colpevole, tutti rei confessi nessuno condannabile.

Il grande Silvio Berlusconi ha portato una novità in questo gioco di processi senza fine, per la platea popolare annoiata in cerca di emozioni. Per vari anni l'Italia intera si è incantata alle sue gaffe e ai suoi difetti; fra un po', quando se ne sarà andato, li rimpiangerà, e andrà in cerca di qualcosa di inutile su cui discutere. I politici sono già all'opera per creare nuovi vaniloqui.

 
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« Risposta #197 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:28:42 pm »

Uomo d'affari, non di governo

di Giorgio Bocca

È questo il giudizio che la storia riserverà a Berlusconi. Che ormai è avviato verso un umiliante tramonto.

E il bilancio dei suoi vent'anni in politica sarà negativo: l'Italia è infatti regredita


(04 agosto 2011)

Per semplificare la storia del berlusconismo, che proprio semplice non è, i suoi compagni di avventura, che non brillano per accuratezza ed eleganza, vanno dicendo su tutte le piazze e tutte le gazzette: "povero Silvio, è cotto, è vecchio e stanco, non ha più le belle doti d'animale da preda di un tempo", non è più né tigre né volpe, come vorrebbero fosse ancora i suoi "liberi servi", come li chiama Giuliano Ferrara. Silvio Berlusconi è semplicemente un populista che ha fatto il suo tempo, abile demagogo ma cattivo politico, uno che avendo successo come uomo d'affari ha pensato di esserlo anche come uomo di stato e di governo, votandosi a un umiliante tramonto.

Non occorre essere un Machiavelli per sapere che la politica, nonostante le apparenze avventurose e casuali, è una partita con le sue ferree regole. Per abbattere una dittatura, anche la più astuta e implacabile, occorrono due eventi spesso concomitanti: una crisi economica e una sconfitta militare. Finché i soldi girano e non si fanno guerre perse anche un cattivo governo populista può reggere compensando gli errori con la propaganda e con i sogni.

Il berlusconismo non è stato un rifacimento del fascismo: diversissime le condizioni economiche e i rapporti internazionali, ma del fascismo ha ripetuto le esitazioni e i pentimenti che facevano dire a un Goebbels che Mussolini non aveva la statura dei grandi dittatori, non era il capo che "faceva la storia" come Hitler o Stalin.
Il giudizio su Berlusconi uomo politico non conosce vie di mezzo. Molti in Italia si sono illusi che fosse l'uomo che non è, il nuovo re Mida protetto dalla fortuna, capace di arricchire anche i suoi nemici. Parlando di questo Berlusconi più furbo che prudente, più opportunista che coraggioso si corre il rischio dell'ambiguità, di comporre un ritratto che piace ai suoi sostenitori: "In fondo qualcosa di buono ha fatto anche lui". E invece qui si pone un giudizio severo.

Tirate le somme il berlusconismo come governo, come reazione di una società moderna e civile è un fallimento. Non c'è un solo aspetto della società italiana che non esca impoverito, peggiorato da questo ventennio di democrazia autoritaria. Non c'è stata la continuazione da molti attesa del miracolo economico, cioè lo sviluppo di un Paese industriale forte in progresso come negli anni della ricostruzione, ma invece un Paese sempre sull'orlo di una recessione, sempre affidato a strutture deboli, sempre esposto all'anarchia e alla corruzione dilagante.

La follia estrema è stata quella di scatenare per motivi personali una lotta senza quartiere e senza misura alla magistratura, alla giustizia, cioè a uno dei fondamenti della società moderna. Il torto o il limite di Berlusconi è stato quello di non riuscire ad avere nella maturità una vita diversa da quella del successo imprenditoriale. Non ha mai saputo separare gli interessi del paese da quelli suoi personali, ha continuato a fare i suoi affari immobiliari, le sue speculazioni in Borsa, le sue amicizie internazionali, ha sempre tenacemente voluto uniti l'utile personale al prestigio politico.

In tutti i luoghi italiani in cui è intervenuto come capo del governo non ha mancato di essere anche l'uomo d'affari che favoriva i suoi amici e magari ostacolava i suoi concorrenti.
Chi ha conosciuto i due Berlusconi, l'imprenditore e il politico, non riesce a capire perché non abbia neppure tentato di superare questa sua ambiguità di fondo, non abbia mai avuto il coraggio di scegliere. Un capo di governo che si crede un uomo fatale per il suo Paese, che trasforma un giornalista abile e furbo come Michele Santoro nel suo principale nemico è uno che nella politica e nella storia non sa bene quello che vuole.
Berlusconi non ha saputo dominare le richieste, spesso assurde e spesso puerili, del suo ego espanso, ha voluto essere primo, amato, seguito da tutti e per tutto, cosa che è palesemente impossibile.

     
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« Risposta #198 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:11:09 pm »



di Giorgio Bocca

Quando si racconterà la storia dell'Italia sotto il Cavaliere si vedrà che c'erano tutte le premesse di una dittatura.

E' mancata solo la violenza fisica sui dissidenti, sostituita con l'intimidazione mediatica

(16 agosto 2011)

Perché la maggioranza degli italiani, anche conservatori, vota contro Silvio Berlusconi, contro la sua democrazia autoritaria? Perché dopo anni di rassegnazione riscopre la politica e l'adopera per porre fine a un regime che non ha neppure la giustificazione dell'efficienza? Perché il tiranno non ha saputo, non ha potuto fare di quello strumento decisivo del potere che è il terrore la certezza dei sudditi di essere dentro il tritacarne poliziesco.

Berlusconi non ha saputo o voluto essere un dittatore sanguinario, torturatore, feroce. Ha pensato di poter sostituire i plotoni d'esecuzione con il fango della diffamazione e le persuasioni della corruzione, che gli fosse più facile devastare la faccia, la reputazione dei suoi concorrenti al potere che mettere in piedi il pesante apparato della repressione poliziesca. Non neghiamogli un naturale rifiuto per la violenza bruta, per la macelleria sociale, per i lavori forzati, i gulag. Il che non esclude la violenza, la volontà di ferro di distruggere gli avversari: il caso Boffo è esemplare. Boffo è stato eliminato non con le pallottole ma con la diffamazione.

Come dittatore di nuovo tipo Berlusconi ha usato le armi di cui era ben fornito: il denaro e la stampa gialla. Era dagli anni Venti, dalla nascita del fascismo, che un aspirante tiranno preferiva la diffamazione dell'avversario all'intimidazione fisica. Arrivato alla proprietà di molte reti televisivi e di un quotidiano nazionale Silvio è stato il primo a scoprire che il gossip, l'informazione mondana, i retroscena sessuali potevano essere una formidabile arma politica deterrente e distruttiva. Come si era impadronito della televisione, della pubblicità e delle loro seduzioni senza la minima preoccupazione culturale e morale, senza il minimo timore di cosa ne pensassero gli altri, i moralisti, gli intellettuali, famiglie a lui estranee, Berlusconi è diventato il signore dei telegatti televisivi e della stampa colorata o rosa o gialla, o per corrompere o per diffamare.

Chiunque al mondo avesse avuto come lui la capacità e la fortuna di diventare un grande editore si sarebbe preoccupato di fare informazione di prestigio, avrebbe avuto come modelli "Le Monde" o il "New York Times". Ma lui, che prima di tutto è uomo di successo, ha preferito da subito fare dei suoi giornali qualcosa di simile a se stesso, pronto a rintuzzare il minimo attacco avversario, ripagarlo con diffamazioni senza misura, prolungate per giorni e settimane, su tutto ciò che di abusivo e di illegale potevano aver fatto i concorrenti o anche non aver fatto, bastava che fosse credibile che lo avessero fatto.

La storia italiana politica o economica, come si era formata nella Repubblica democratica, non era una villanella senza peccato, esente da tutte le tentazioni connesse all'informazione, l'unico mondo in cui il fantastico e il falso possono sostituirsi al vero e al serio. La tentazione è forte e il sistema pubblicitario la moltiplica, ma in quella stampa, persino nel periodo fascista, esisteva un minimo di educazione, di civile convivenza: nessuno si è mai sognato nella Repubblica italiana di attaccare Togliatti per la sua relazione extraconiugale, e indiscrezioni sugli amori altrui erano rare e contenute.

Con Silvio e il bunga bunga l'elogio del piacere della prostituzione diviene imperante, asfissiante. Dicono di Berlusconi che sia malato di sesso. Certo appartiene a quella specie umana che non sa parlare di altro, pensare di altro, quelli che il sesso lo portano in fronte.

Una conferma che lascia sbalorditi: ricevendo a Roma il primo ministro israeliano Netanyahu, Berlusconi a un certo punto si è voltato verso un grande quadro e ha detto "questo è il bunga bunga del 1811, quello è Mariano Apicella e quell'altro sono io", indicando due personaggi. L'imbarazzato Netanyahu ha fatto un sorriso di circostanza. E arrivando a Palazzo Chigi Silvio aveva fermato il corteo per salutare una bella ragazza.

 
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« Risposta #199 inserito:: Agosto 26, 2011, 06:25:18 pm »

L'eterna legge delle tre S

di Giorgio Bocca

Sesso, sangue, soldi. Come insegnavano i maestri del giornalismo non c'è miglior modo per segnalare la propria presenza al mondo.

E la strage del giovane norvegese lo conferma

(18 agosto 2011)

Perché il giovane norvegese cristiano antimusulmano ha fatto strage di ragazzi in un'isola presso Oslo? Perché l'omicidio - l'assassinio di un essere umano - resta l'ultima occasione totale, perfetta, dei disperati, dei dimenticati, dei visionari, dei pazzi per affermare la loro presenza al mondo, per dimostrare che anche i reietti, i borderline, i disadattati, i mostri, gli abbandonati possono rivendicare la loro presenza al mondo: uccidono per le loro pazze ragioni, ma anche e soprattutto per questo.

Anni fa, quando furono create le prime scuole di giornalismo, i professori, quelli del mestiere, predicavano la legge delle tre S: sesso, soldi, sangue i tre argomenti che facevano vendere i giornali, aumentare le tirature e la pubblicità. Anche adesso, anche nell'efferata strage compiuta dal giovane norvegese di 90 giovani si dimostra che la legge delle tre S è sempre valida e che nel più civile paese del mondo qualcuno può entrare nell'isola dove i giovani come lui s'incontrano con un arsenale di morte, pugnali, pistole, mitra, bombe a mano e fare strage credendo, felice, di essere finalmente un giustiziere, pronto a massacrare degli innocenti agli occhi di tutti, ma non ai suoi, che vedono i nemici personali e del mondo anche negli adolescenti dall'aspetto innocente.

Siamo nel terreno dell'assurdo, del mostruoso, dell'orrendo, come a dire un terreno che fa comunque parte dell'umano, di ciò che l'uomo può compiere e compie, e qui forse è la risposta alla permissività che la società civile ha per gli assassini potenziali che circolano armati nelle strade delle nostre città, il perché ci siano paesi civilissimi che permettono ai loro cittadini come un diritto primordiale e inalienabile di circolare armati come ai tempi della frontiera e dei feroci indiani. Voglio dire dell'apparentemente incomprensibile realtà per cui una nazione civilissima come la Norvegia permette a un ragazzo pazzo che sogna il ritorno di Odino e dei giganti - che nella fantasia dei primi abitanti erano i grandi ghiacciai percorrenti le terre scandinave - di sbarcare sull'isola dove i giovani di Oslo si trovavano per un campus estivo del partito laburista con un armamentario bellico da marine, sfuggito ai custodi o forse scambiato per armi giocattolo, e poi assiste impotente per un'ora senza intervenire alla mattanza di quasi cento giovani che il pazzo prendeva con calma di mira e ai quali dava il colpo letale quando erano a terra feriti.

Eppure in un viaggio negli Stati Uniti ho visto il mio taxista sparare in una notte a New York contro uno che aveva tentato di fermarlo, e in un ristorante di cowboy nell'Oregon decine di uomini che posavano pistole e carabine sui tavoli e guardavano stupiti il disarmato che si era fermato nella loro mensa. E ancora in un deserto del New Mexico, quando la mia auto s'impantanò fuori strada e arrivò in nostro soccorso un indiano, forse un cheyenne, che era stato in Italia durante la guerra, di cui conservava una carabina a tracolla, e scambiando qualche parola nella nostra lingua ci portò in salvo.

Nella tragedia di Oslo il ridicolo si mescola al tragico: la polizia era convinta che il pazzo fosse uno dei terroristi islamici che lanciavano bombe in città, non un sostenitore della razza ariana che voleva purificare i figli della madre Norvegia con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Noi nel nostro piccolo abbiamo riempito uno sterminato numero di pagine di giornale con i nostri delitti paesani e pecorecci dove in obbedienza alla legge delle tre S abbiamo dato la parola ad avvocaticchi di provincia e a sedicenti criminologi e a testimoni pronti a tutto pur di apparire in tv, al punto che la magistratura ha dovuto arrestarne alcuni che si erano inventati rivelazioni sui delitti. Una festa per la tv popolare che ha voltato e rivoltato le macabre frittate fino alle nazionali celebrazioni popolari dei parenti delle vittime, applauditi dalla popolazione e sepolti sotto montagne di fiori candidi.

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« Risposta #200 inserito:: Settembre 02, 2011, 06:09:10 pm »

Il gusto di parlar male dei colleghi

di Giorgio Bocca

Buona parte del tempo che si passa al lavoro è dedicato alla maldicenza. Domina l'invidia per chi comanda e per chi occupa posizioni importanti. La sacralità della fatica oggi è un po' attutita

(25 agosto 2011)

E' difficile capire se in questa valle di sudore e di fatiche il lavoro sia una condanna oppure la fonte di ogni salvezza e beatitudine. Nel cortile della mia città piemontese c'era una piccola carrozzeria. il padrone, sua moglie e il lavorante, dalle prime ore del giorno a sera inoltrata, recitavano nel loro dialetto: "venta el travailler, travajuma, el travail bien fait, anche Gesù Crist l'era un ouvrier". E sfasciavano, verniciavano, martellavano, perforavano quasi in trance, come quel cantante autore del verso "chi non lavora non fa l'amore", completamento di "chi non lavora non mangia". Ma è davvero così nel presente e nel prevedibile futuro?
A volte ho il dubbio, l'impressione che dietro a questo inno all'attivismo ci sia il fatto che la vita degli uomini moderni trascorre a debita distanza dal lavoro, di cui si parla moltissimo. Il piccolo scrivano fiorentino che si logorava gli occhi la notte a lume di candela è stato smentito dalla gran parte degli scrittori che ho conosciuto: Moravia, Soldati, Calvino parchi programmatori del loro tempo di scrittura, al massimo le cento righe a macchina ogni giorno che una volta fatte autorizzano alle letture, agli ozii, alle conversazioni. Mario Soldati era il meglio organizzato: "Quanti tavoli hai?", mi chiese la volta che andai a trovarlo a Fiaschierino, "tavoli come questi su cui posare carte, fogli, copie, fiori, sigarette, tutto".

Non solo nella Torino del truciolo e del tornio il lavoro a parole è dominante, dovunque gli italiani comuni, anche i più notori scansafatiche, si salutano con fieri e virtuosi "buon lavoro". Una parola domina le cronache politiche e sindacali: "il tavolo", la parte per il tutto, le trattative che in ogni angolo del paese si svolgono sul modo di lavorare.
La sacralità del lavoro, un po' attutita in questi tempi di automazione e di computer, ma fortissima e inevitabile nei giorni di Pietro Secchia e dei "lavoratori con le mani callose". La sacralità imperitura per cui in tutte le riunioni e conferenze in qualche modo attinenti al lavoro a un certo punto avveniva la rivelazione carismatica dell'operaio, eroe in carne e ossa, e il funzionario di partito lo presentava: "Ecco il compagno Ferretti, da trent'anni alle presse", e il compagno incedeva nella sala fra due ali di persone reverenti, il dio incarnato dell'operaismo.
Ma è davvero così per la maggior parte degli uomini comuni? Vediamo come passa la giornata di un uomo comune, di un impiegato, di un commesso, di un professionista. Una parte del tempo che questi uomini dedicano al lavoro passa parlando male dei colleghi, dominante l'invidia per chi comanda o per chi è nei posti importanti.
Siamo sinceri: le infinite ore trascorse nelle redazioni dei giornali, negli uffici, nelle pause di riposo o di refezione passano a parlare male dei colleghi più fortunati, in organizzazioni che si definiscono di lavoro ma che spesso dovrebbero essere chiamate macchine da critica e maldicenza del prossimo; negli eterni tentativi, infantili quanto feroci, di eliminare tutti quelli che ti fanno ombra e di procedere per purghe generali come nelle migliori dittature staliniste.

Ma andiamo al sodo, e cioè al feroce della vicenda: gli stakanovisti sono pochi anche nei paesi dei "compagni". Il piacere della maldicenza è uno dei preferiti: ricordo quando lavoravo alla "Gazzetta del popolo" e il giornale chiudeva alle due del mattino: scendevamo nel corso Valdocco con un collega e a volte facevamo l'alba parlando del direttore e del redattore capo e di tutti gli errori madornali che avevano compiuto e delle villanie che ci avevano riservato. Faceva giorno quando, soddisfatti, ci allontanavano verso le nostre case.
Questo modo di chiudere la giornata lo si trova anche negli scritti di Gramsci quando racconta la sua esperienza a "l'Unità" di Torino. E così è stato in tutti i giornali in cui ho lavorato e pettegolato.

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« Risposta #201 inserito:: Settembre 12, 2011, 03:59:51 pm »

Giorgio Bocca: “Il Pd è come il Psi di Craxi”

Il giornalista: "In quanto a onestà la sinistra è la stessa cosa della destra. Bersani non dovrebbe fare un passo indietro, ma buttarsi a mare. Il pericolo, ora, è che questa classe dirigente (tutta) faccia un golpe per evitare la galera"

Due squilli e il ricevitore si alza. Poi non fai nemmeno in tempo a concludere una domanda – sulla questione morale a sinistra – che la risposta è questa: “Ma è la solita storia della corruzione politica: tutti i partiti, in tutte le epoche, quando amministrano hanno bisogno di soldi e li rubano. Nulla di nuovo sotto il sole”. Dall’altra parte, l’accento cuneese di Giorgio Bocca, scrittore e firma di Repubblica e dell’Espresso. Che, con il tono mite di un neo 91enne, aggiunge il seguente siluro: “Soprattutto nulla di nuovo rispetto a Craxi”.

Vede analogie tra il Pd e i tempi d’oro del Psi piglia-tutto?
Macché analogie. Vedo un’assoluta identità.
Perché?
Craxi diceva: i mariuoli ci sono ma i soldi servono ai partiti. L’unica cosa che si capisce da questa vicenda è che la sinistra è la stessa cosa della destra, quanto a onestà.
Ce lo spieghi meglio.
C’è poco da spiegare: rubano tutti. Tutti i politici hanno lo stesso interesse: avere il potere e fare soldi. La via è comune.
Nella sua similitudine tra Pd e Psi non torna solo la lungimiranza. Il partito di Craxi fu annientato dagli scandali. Il Pd vuol fare la stessa fine? Non è vero che la storia insegna?
Historia magistra? Mah. Guardi, le dico questo: alla fine della Guerra io e altri partigiani pensavamo che il Partito socialista avrebbe cambiato il modo di fare politica in Italia. Nel giro di pochi anni tutte le persone per bene e oneste sono state cacciate da quel partito. Dove sono rimasti solo i furbi e i ladri. Vuol farmi dire che la politica è cambiata? Non lo penso.
Non voglio farle dire nulla: le chiedo come può la dirigenza del Pd essere così miope.
Non c’è nessun disegno politico, questa è la cosa grave. C’è l’istinto, in chi fa politica, di usare i mezzi più facili.
Quali sono?
Mettere le mani sul denaro e corrompere. Non mi pare si tratti di altro.
Tangentopoli non è servita.
Vista dal punto di vista di uno storico no. Andiamo ancora più indietro. Che ha fatto Giulio Cesare quando aveva consumato il suo patrimonio? S’è fatto mandare in Spagna, dove ha rubato talmente tanto che è tornato a Roma ricchissimo. Ha armato un esercito e si è impadronito del potere. Le dinamiche sono abbastanza chiare.
Bersani dovrebbe fare un passo indietro, considerando i suoi rapporti stretti con Penati?
Altro che far passi indietro. Dovrebbe fare un tuffo nel mare.
Ci sono stati tempi in cui la politica era diversa?
Forse solo nelle grandi emergenze, durante le guerre, si sono visti politici onesti e disposti anche a farsi fucilare per la libertà. Ma quando la politica diventa amministrazione scade, di solito, a un livello bassissimo. Non conosco oggi un politico che sia stimabile come persona privata. Un uomo come me, che a vent’anni comandava una divisione partigiana, aveva tutte le opportunità di impegnarsi in politica. Ma ho capito immediatamente che era un rischio da non correre. E non me ne sono pentito. Mai.
Così non c’è scampo.
Come si fa a sperare? Io non vedo segni di cambiamento.
Non dappertutto è così. Nella maggior parte dei Paesi a regime democratico l’etica pubblica è un valore.
Dove si sono stabilite – almeno in minima parte – le regole del gioco, il codice viene rispettato. Noi le avevamo stabilite, ma le abbiamo anche mandate all’aria. Dopo la guerra partigiana e la Liberazione dell’Italia, l’onestà è stata, per quasi mezzo secolo, un valore condiviso. Allora i partiti rubavano, ma lo facevano con cautela e vergognandosene quando venivano scoperti. Ora si ruba senza nemmeno vergogna.
È una questione statistica. Essere indagati o imputati, per i politici, fa quasi curriculum…
Sì, è un metodo. Un sistema: lo diceva oggi (ieri, ndr) nel suo articolo sul Fatto Nando Dalla Chiesa, una persona che stimo, come del resto stimavo molto suo padre. Però anche lui non scrive a chiare lettere: lì c’è gente che ruba. Con i nomi e i cognomi.
Siamo ancora nella fase delle indagini preliminari. Diventa un reato fare certe affermazioni prima dei processi.
Sì, ma mi ha stupito il tono di Dalla Chiesa, troppo leggero. Oggi è impossibile dire a un politico che ha rubato “hai rubato”. Ma allora cos’è questo giro di affari, soldi, tangenti?
Bersani, all’alba della vicenda Penati, minacciò querele a destra e a manca.
È vero, infatti mi sono ben guardato dallo scrivere articoli sull’argomento. Le querele volano e i giornali nemmeno ti sostengono. Un tempo mi sarei lanciato nella discussione, stavolta non l’ho fatto anche con un senso di paura.
Al di là dell’opportunità, secondo lei dire “faremo una class action contro i giornalisti” è un discorso politico?
La classe politica rivendica il diritto di far paura alla stampa.
Più che politica è arroganza.
I potenti dicono: state zitti perché comandiamo noi.
Non sono comportamenti molto diversi da quelli dei partiti di governo.
Berlusconi è più moderno, ha capito che con il denaro si risolve tutto. La sua calma si legge così: io li compro e tanti saluti. Gli altri, semplicemente, non hanno abbastanza soldi. E hanno delle preoccupazioni d’immagine. Ma come fa Penati a difendersi?
I democratici si sentono – e si professano – molto diversi dal centrodestra.
Certo che si dicono diversi. Lo fanno perché agli occhi della pubblica opinione non vogliono apparire uguali agli altri. Uguali ai ladri.
Vede pericoli?
L’unico pericolo è che questa intera classe dirigente, per non andare in galera, faccia un golpe.
Un loro azzeramento no?
Proveranno a tirare avanti, come han fatto fino a ora. Chi ha i soldi se la cava. Cesare è ricordato come uno dei più grandi uomini politici della romanità ed era uno che confessava candidamente di aver rubato. Però potrebbe arrivare anche un moto d’ira popolare che li manda tutti a casa. Mi trovo di fronte a un’umanità incomprensibile. Un politico che ruba, sa di essere al di fuori dell’etica. Eppure lo fa. Io veramente non li capisco.
Crede che la prudenza dei vertici del partito sulla questione Penati vanificherà il successo delle amministrative e dei referendum?
Mi pare che ci sia un fraintendimento su questo nuovo interessamento alla politica. Lo scambiamo per un cambiamento morale. Ma è più che altro una moda.
Ha compiuto 91 anni tre giorni fa…
… quindi posso dire tutto, anche le sciocchezze?
No, le chiedevo cosa direbbe a un ragazzo italiano di vent’anni.
Gli direi: “Non rubare”. Si vive meglio da onesti. L’onestà è l’unica riserva per sopportare questa vita terrena, che è piena di insidie e porcherie.
Evangelico.
Certo. Sono sempre più cattolico.


da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/31/giorgio-bocca%E2%80%9Cil-pd-e-comeil-psi-di-craxi%E2%80%9D/154350/
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« Risposta #202 inserito:: Settembre 13, 2011, 10:53:27 am »

Tripoli, la guerra degli avvoltoi

di Giorgio Bocca

Il conflitto in Libia, ridicolo e assurdo, segna un ritorno del colonialismo.

E conferma che il capitalismo non è stato superato, come non lo sono le rapine e le appropriazioni indebite

(12 settembre 2011)

Adesso la sporca faccenda della guerra libica sembra abbastanza chiara, come può esserlo un caso di criminalità diplomatica e bellica. Le due potenze europee interessate a far bottino nello "scatolone di sabbia" dell'era fascista e ora pieno di riserve di petrolio non hanno aspettato la fine dei combattimenti.
L'Italia ha spedito a Bengasi il numero uno dell'Eni, il presidente francese Sarkozy ha addirittura convocato a Parigi una conferenza di pace, esempio eccelso di cinismo politico affaristico. Gli italiani che vogliono rimettere le mani sui pozzi gestiti dall'Eni, nei giorni della crisi economica hanno già dato ordine di scongelare 350 milioni di euro di fondi presenti nelle banche italiane da versare ai nuovi governanti libici, anche se non si sa bene chi siano e quali garanzie possano offrire.

Sarkozy ha fatto di meglio, ha convocato a Parigi i nuovi dirigenti libici perché il mondo intero sappia che sta nascendo una nuova forma di protettorato. La Francia, in questa guerra tipicamente coloniale fra due potenze industriali europee e una africana alla mercé dei loro missili e portaerei e caccia supersonici, ha fatto con assoluta noncuranza la parte del predone ricco e prepotente, infischiandosene dei principi immortali di giustizia e libertà delle rivoluzioni borghesi, la loro per prima.

Ecco lo stupefacente, l'incredibile di questa vicenda che spazza via quasi allegramente tutte le buone intenzioni pacifiche e legalitarie nate dall'ultima guerra mondiale. Prima che si chiudesse un secolo la classe operaia dei paesi ricchi ha approvato la guerra di rapina. La Francia evidentemente ci pensava da tempo.
Priva di riserve petrolifere, affidata a una produzione atomica quanto mai sbilanciata e rischiosa, ha approfittato del declino dell'impero americano e del suo disinteresse per ciò che accade nel piccolo mare Mediterraneo e ha messo in mostra la sua efficiente aviazione e la sua portaerei per risentirsi grande potenza.
L'opinione pubblica europea ha seguito fra preoccupazione e imbarazzo la riproposizione di una storia vecchio stile di cui non si capivano né i rischi né la necessità.

Che senso aveva tornare al vecchio confronto delle navi e degli aerei quando la questione del petrolio era poi una questione di soldi e se darli a Gheddafi e alla sua corte di profittatori e di cortigiani o alla nuova generazione di politici?

Colonello Roland Lavoie Colonello Roland Lavoie Diciamo che questo ritorno di colonialismo è la conferma che il capitalismo non è stato superato, come non lo sono le rapine e le appropriazioni indebite, come non lo sono i mezzi violenti per risolvere tutte le questioni di sopravvivenza e di prestigio.

L'Europa e noi italiani in particolare abbiamo assistito a questa assurda e ridicola guerra nell'età dei commerci internazionali come a qualcosa di incomprensibile. Nessuno si è mosso per aiutare i legittimisti di Gheddafi e la sua corte variopinta, ci andava bene accettare i suoi prestiti alle nostre industrie in difficoltà e dare addirittura un posto in una delle nostre squadre di calcio di serie A a quel brocco di suo figlio, ma senza creare rapporti di amicizia, di ideali politici.

L'Inghilterra vittoriana poteva seguire con ardore l'impresa di Garibaldi, la nostra piccola rivoluzione liberale, o più tardi i nostri comunisti potevano partecipare alla guerra proletaria della Spagna repubblicana. Questa volta gli italiani non hanno parteggiato per nessuno, neppure per i più forti come erano quelli schierati ma non uniti dalla Nato. Strana guerra. Di avventurieri o di personaggi politici indefinibili fra il rosso e il nero, una turba avida che non sa bene cosa voglia da un'Europa unita e civile, se la pace e la democrazia per tutti o solo i buoni affari.

 
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« Risposta #203 inserito:: Settembre 17, 2011, 04:25:04 pm »

L'opinione

In tv va in onda la lotta all'evasione

di Giorgio Bocca

I soldi veri arriveranno dall'aumento dell'Iva.

Ma i telegiornali raccontano che partirà una spietata caccia a chi non paga le tasse.

Così il governo maschera la realtà della manovra

(16 settembre 2011)

La partita delle tasse secondo Berlusconi si gioca così: prima si piange miseria, prossimo default o bancarotta, casse vuote e rovina, poi lo Stato pigro, esitante, pavido promette una manovra severa e la prevede a tempo breve, superando in solerzia tutti gli altri Stati europei. Si succedono riunioni degli esperti e dei ministri competenti, e la manovra assume la forma di operazione di guerra che non guarda in faccia nessuno.

Tasse per tutti questa volta, anche per i ricchi, colti dal balzello di solidarietà nazionale e da raffiche di articoli e discorsi sul dovere dei cittadini, di tutti cittadini, di soccorrere la patria in pericolo. Sta a vedere, dicono i democratici riformisti di sinistra, che questa volta anche il Cavaliere di Arcore ha capito che bisogna rinunciare alla demagogia, alla politica di classe, e chiedere sacrifici a tutti.

La svolta sembra quasi rivoluzionaria. Non lo è il modo di presentarla alla pubblica opinione: non se ne capisce niente come al solito. I telegiornali di regime vanno avanti per delle mezz'ore a elencare cifre, tagli, previsioni, pareri di professori insigni, ma un cittadino di media cultura non ne capisce niente: un'intera nazione dalle Alpi al Lilibeo finge di occuparsi della famosa, miracolosa manovra che il mondo intero ci invidia.

I commessi del governo addetti ai giornali confezionano interviste popolari, colte a volo fra i banchi della verdura di un mercato e un negozio di parrucchiere per chiedere il parere del popolo. E' uno spettacolo miserrimo ed esilarante. Gli interpellati preparati in precedenza rispondono con delle frasi prive di senso ma che esprimono appoggio alla manovra governativa ed esortazioni al dovere comune nell'ora del bisogno.

Nessuno che dica che della manovra ha capito poco o nulla, anche perché il premier e i suoi aiutanti e consiglieri la cambiano di continuo, sempre rimandano a prestissimo l'ora della verità.

Comunque pare che questa volta qualcosa venga tagliato sul serio: la pletora delle province e dei comuni microscopici, i costi della politica e il famigerato parco macchine, le migliaia di auto blu di funzionari grandi e piccoli.

Ma a un certo punto della gazzarra sulle tasse, argomento inviso a un popolo di noti evasori, il Cavaliere di Arcore capisce che è l'ora di intervenire con la bonarietà e la saggezza dell'uomo "che non mette le mani nelle tasche degli italiani".

E cosa ti annuncia? Che i miliardi mancanti per quadrare il bilancio statale saranno trovati colpendo, ma questa volta severamente, l'evasione fiscale, cioè il rifiuto di milioni d'italiani di pagare le tasse a tutti noto, anche alla Guardia di Finanza, e da nessuno perseguito.

Voi direte che è la scelta di un premier populista e imbroglione ma non privo del cinismo occorrente al governo delle nazioni. Qual è il ragionamento retrogrado ma vincente del nostro? Le tasse vanno imposte alla massa dei contribuenti, che sono come noto i poveri o i ceti medi.

Le tasse esemplari di giustizia come quelle di solidarietà sono lodevoli a parole, ma le tasse che servono sono le imposte indirette che colpiscono tutti automaticamente; per la propaganda servono anche le tasse che non si è riusciti a far pagare, quelle degli evasori che però si promette questa volta di tosare a dovere.

Ed ecco le informazioni sulle tecniche raffinate e implacabili con cui saranno colpiti gli evasori per una somma enorme che risolve tutte le questioni di bilancio. Nel Settecento l'avventuriero veneziano Giacomo Casanova girava l'Europa e le sue corti suggerendo ai governanti di ricorrere alle lotterie per sfruttare l'ingenuità popolare e la sua speranza di facile ricchezza.

Adesso da noi partirà la campagna contro gli evasori. Vi parteciperà, crediamo, anche il ministro Tremonti che sugli evasori italiani e sui loro metodi ha scritto interessanti libri.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/in-tv-va-in-onda-la-lotta-allevasione/2160524/18
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« Risposta #204 inserito:: Settembre 18, 2011, 04:26:55 pm »

In tv va in onda la lotta all'evasione

di Giorgio Bocca

I soldi veri arriveranno dall'aumento dell'Iva. Ma i telegiornali raccontano che partirà una spietata caccia a chi non paga le tasse. Così il governo maschera la realtà della manovra

(16 settembre 2011)

La partita delle tasse secondo Berlusconi si gioca così: prima si piange miseria, prossimo default o bancarotta, casse vuote e rovina, poi lo Stato pigro, esitante, pavido promette una manovra severa e la prevede a tempo breve, superando in solerzia tutti gli altri Stati europei. Si succedono riunioni degli esperti e dei ministri competenti, e la manovra assume la forma di operazione di guerra che non guarda in faccia nessuno.

Tasse per tutti questa volta, anche per i ricchi, colti dal balzello di solidarietà nazionale e da raffiche di articoli e discorsi sul dovere dei cittadini, di tutti cittadini, di soccorrere la patria in pericolo. Sta a vedere, dicono i democratici riformisti di sinistra, che questa volta anche il Cavaliere di Arcore ha capito che bisogna rinunciare alla demagogia, alla politica di classe, e chiedere sacrifici a tutti.

La svolta sembra quasi rivoluzionaria. Non lo è il modo di presentarla alla pubblica opinione: non se ne capisce niente come al solito. I telegiornali di regime vanno avanti per delle mezz'ore a elencare cifre, tagli, previsioni, pareri di professori insigni, ma un cittadino di media cultura non ne capisce niente: un'intera nazione dalle Alpi al Lilibeo finge di occuparsi della famosa, miracolosa manovra che il mondo intero ci invidia.

I commessi del governo addetti ai giornali confezionano interviste popolari, colte a volo fra i banchi della verdura di un mercato e un negozio di parrucchiere per chiedere il parere del popolo. E' uno spettacolo miserrimo ed esilarante. Gli interpellati preparati in precedenza rispondono con delle frasi prive di senso ma che esprimono appoggio alla manovra governativa ed esortazioni al dovere comune nell'ora del bisogno.

Nessuno che dica che della manovra ha capito poco o nulla, anche perché il premier e i suoi aiutanti e consiglieri la cambiano di continuo, sempre rimandano a prestissimo l'ora della verità.
Comunque pare che questa volta qualcosa venga tagliato sul serio: la pletora delle province e dei comuni microscopici, i costi della politica e il famigerato parco macchine, le migliaia di auto blu di funzionari grandi e piccoli.

Ma a un certo punto della gazzarra sulle tasse, argomento inviso a un popolo di noti evasori, il Cavaliere di Arcore capisce che è l'ora di intervenire con la bonarietà e la saggezza dell'uomo "che non mette le mani nelle tasche degli italiani".

E cosa ti annuncia? Che i miliardi mancanti per quadrare il bilancio statale saranno trovati colpendo, ma questa volta severamente, l'evasione fiscale, cioè il rifiuto di milioni d'italiani di pagare le tasse a tutti noto, anche alla Guardia di Finanza, e da nessuno perseguito.

Voi direte che è la scelta di un premier populista e imbroglione ma non privo del cinismo occorrente al governo delle nazioni. Qual è il ragionamento retrogrado ma vincente del nostro? Le tasse vanno imposte alla massa dei contribuenti, che sono come noto i poveri o i ceti medi.

Le tasse esemplari di giustizia come quelle di solidarietà sono lodevoli a parole, ma le tasse che servono sono le imposte indirette che colpiscono tutti automaticamente; per la propaganda servono anche le tasse che non si è riusciti a far pagare, quelle degli evasori che però si promette questa volta di tosare a dovere.

Ed ecco le informazioni sulle tecniche raffinate e implacabili con cui saranno colpiti gli evasori per una somma enorme che risolve tutte le questioni di bilancio. Nel Settecento l'avventuriero veneziano Giacomo Casanova girava l'Europa e le sue corti suggerendo ai governanti di ricorrere alle lotterie per sfruttare l'ingenuità popolare e la sua speranza di facile ricchezza.

Adesso da noi partirà la campagna contro gli evasori. Vi parteciperà, crediamo, anche il ministro Tremonti che sugli evasori italiani e sui loro metodi ha scritto interessanti libri.

   
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« Risposta #205 inserito:: Settembre 30, 2011, 03:46:42 pm »

Fate i gasdotti non la guerra

di Giorgio Bocca

Lo stato della pace nel mondo è pessimo.

I conflitti continuano e molti Paesi sono coinvolti solo perché fanno parte di un'alleanza.

Sembra di essere tornati alle follie del '14 e del '43

(22 settembre 2011)

Che cosa significa in politica estera la prossima inaugurazione dei due gasdotti giganti dalla Russia verso la Germania e, a sud, verso l'Italia? Se la logica avesse ancora un senso in questo mondo di matti significherebbe un passo importante se non decisivo verso la stabilità e la pace mondiale. significherebbe che la Russia fornitrice diverrebbe l'alleato stabile dell'Europa fornita, che i due colossali collegamenti sarebbero dei fortissimi legami di pace. Mentre tutto il mondo parla di questi segni distensivi è tutto un ribollire di notizie contrarie e preoccupanti.
In Egitto la rivoluzione democratica islamica è svoltata improvvisamente e tragicamente in un gigantesco pogrom di vecchia maniera contro Israele. Una sua sede diplomatica al Cairo è stata assaltata, distrutta da una folla di egiziani che ripetevano i furori della Germania razzista e nazista, e intanto si muoveva anche la Turchia di Erdogan, che minacciava una puntata nella striscia di Gaza contro l'odiato Israele.

Siamo tornati alla mobilità incontenibile che precedette la Seconda guerra mondiale, il mutare di ora in ora di alleanze, di patti aggressivi, di spazi vitali, di storiche vendette, di voltafaccia incredibili - da lasciare senza fiato - fra il nazismo arrembante e la Russia sovietica, con quel Molotov sbattuto fra Mosca e Berlino nel più folle balletto diplomatico che il mondo abbia conosciuto. E siamo in un tempo in cui fare la guerra significa distruzione atomica, in cui negli arsenali ci sono bombe capaci di distruggere il mondo decine e decine di volte.
Il segno generale di questo tempo è la mancanza di indignazione nelle politiche interne e in quelle internazionali. In quelle interne la corruzione può arrivare a gradi estremi di impudenza e di diffusione, può toccare tutti i partiti e qualsiasi uomo politico, può rendere incerta ogni pubblica amministrazione, può seminare buche in tutte le strade, ma la gente, gli onesti, voltano lo sguardo e la loro indignazione non esplode.
In politica estera lo stato della pace nel mondo è pessimo: le guerre continuano, in molti paesi migliaia di cittadini alle armi vengono spediti in paesi remoti e ostili, spesso desertici, dove nel migliore dei casi addestrano milizie locali per continuare il conflitto. Il clima generale è questo: non c'è più un paese che non sia legato ad alleanze militari. Tragico il caso della Nato, l'alleanza atlantica che ha coinvolto nella guerra veterocoloniale di Libia anche paesi che non avevano alcun interesse in gioco.

Sembra di essere tornati alle guerre a catena del 1914 e del 1943 e alle loro sanguinose assurdità: gli operai socialisti tedeschi che partivano per il fronte cantando come se quella contro i francesi e gli inglesi fosse una loro guerra di liberazione. E la delusione di vedere il presidente francese Sarkozy fomentare la guerra per correre dietro a qualche barile di petrolio.
Ci fu un periodo, durato millenni, in cui l'occupazione principale dei governanti e dei sudditi era far la guerra, giusta o ingiusta, difensiva o aggressiva non faceva differenza: a vedere il nostro ministro della Difesa quando indossa panni militari si direbbe che sia ancora così. La guerra piace anche agli intellettuali di sinistra, piaceva a Cesare Pavese che di lei diceva "rialza il tono della vita", e piaceva persino ad alcuni capi partigiani, non a quelli di Giustizia e Libertà per cui la guerra partigiana andava fatta perché non si facessero più guerre.
La storia contraddittoria dell'umanità, il suo vitalismo autolesionista fanno prevedere che ci saranno altre guerre, che spade e lance continueranno a risuonare nelle nostre umane vicende. Forse sarebbe bene che invece di fremere al suono delle lance e delle spade si ricordassero i feriti abbandonati a morire in una trincea.

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« Risposta #206 inserito:: Ottobre 13, 2011, 04:37:45 pm »

Opinione

Pessimista io? Sì, ecco perché

di Giorgio Bocca

'Nella vita mi è andata bene e sono un vecchio che sta in piedi.

Ma se guardo il mondo oggi, e la strada che ha preso il genere umano, non riesco proprio a vedere segni di speranza'

(06 ottobre 2011)

Dovrei essere un ottimista di ferro. Mi è andata bene nella vita, nel lavoro, nella salute. Sono un vecchio che si tiene ancora insieme anche se la vecchiaia è una fatica continua. E allora come mai sono pessimista? Lo sono sulle sorti dell'umano genere, non sulle mie, scampato ad avversità e guerre. All'umano genere le cose non vanno proprio bene.

Non abbiamo mai avuto il controllo sulla natura, cui rivolgiamo lodi sperticate mentre lei ci ignora e colpisce ferocemente se le fa comodo. E sì che ne abbiamo prove quotidiane. A nord di Milano, per esempio, c'è un fiumiciattolo di nome Seveso, un rigagnolo fetido e non navigabile, ma basta un temporale per fargli allargare interi rioni della metropoli ricca e superba, signora delle tecniche del denaro. Dico il Seveso, ma il traffico urbano fra Milano e Monza in alcune ore del giorno è già ingorgo, asfissia, un inestricabile caos di lavori in corso, strade interrotte, deviazioni, vicoli ciechi in cui ti coglie l'angoscia del labirinto.

Chi si avventura in questa anti-città deve procedere a passo d'uomo fra continui divieti, andirivieni, salti di corsia, scavi, buche, calcinacci, sussulti, frenate, urli, fumi fetidi. Ormai l'arrivo a casa è come l'arrivo in un porto da una tempesta, sollievo ma anche fatica di vivere.
Ma c'è davvero rimedio al disordine, c'è davvero un modo per evitare il ritorno alle tirannie della politica come della tecnica, delle mode, delle impreviste follie collettive, del movimento senza meta e senza ragione che Anna Maria Ortese vedeva ogni giorno a Napoli?
Sei un pessimista, dicono. E' vero, ma come non esserlo?

Solo 80 anni fa Roosevelt propose agli americani un New Deal, un nuovo patto sociale, un nuovo modo di produrre e di correggere gli errori del capitalismo. Qualcuno lo definì il "capitalismo generoso". E dopo la seconda guerra mondiale un altro americano propose il piano Marshall per salvare l'economia europea e quella mondiale, sfidando quella sovietica dei piani quinquennali. Oggi l'economia americana è sprofondata in una crisi profonda di cui nessuno conosce le origini e il modo di uscirne, mentre nella Russia di Putin torna una miseria nera.

Non abbiamo un controllo demografico, la popolazione del mondo sta andando verso sette e più miliardi, che per mantenerli occorrerebbero non una ma quattro terre. Non sembra controllabile neppure la malvagità della "scimmia assassina", le cronache sono piene di delitti assurdi come quello recente di Milano dove uno cui due motociclisti avevano graffiato l'automobile li ha rincorsi armato di una catena e li ha lasciati in fin di vita. E i passanti interrogati dai cronisti ripetono: "Sembrava una persona così tranquilla, non alzava mai la voce". Ma la catena sì, e ha tentato di uccidere due giovani in un raptus diabolico che può succedere a tutti.

E la politica: a quale lotta demenziale e spesso mediocre si è ridotta la lotta per il potere? Ha scritto Sergio Romano: "La democrazia, il governo di tutti era possibile forse nella polis, dove tutti potevano partecipare ai comizi nel foro. Ma oggi come è possibile fare politica democratica, come è possibile far politica assieme in modo specifico con le distanze enormi e le telecomunicazioni ingannevoli e insufficienti?". Scoppiano guerre e rivoluzioni come quelle dei paesi arabi, di cui tutti parlano senza avere un'idea, se non precisa, approssimativa, di che si tratta.

I contendenti in un campo vengono definiti insorti o lealisti ma hanno in comune le storie dei loro crimini e se gli uni siano veramente migliori degli altri è ancora incerto. In Libia gli insorti scoprono le fosse comuni dove giacciono centinaia di vittime di Gheddafi, ma a Tripoli conquistata dai ribelli le persecuzioni dei seguaci di Gheddafi sono in corso, e il premier italiano, il pacifico Silvio, non si è mai accorto che il rais era un tiranno. Dalla Russia arriva la notizia che Putin ha dichiarato morta la democrazia: ha prenotato il Cremlino per i prossimi cinquant'anni. C'è da essere ottimisti?

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« Risposta #207 inserito:: Ottobre 26, 2011, 04:50:54 pm »

Opinione

La Padania esiste ma non è della Lega

di Giorgio Bocca

In geografia la pianura del Po è una realtà. Il bluff di Bossi è di aver fatto credere che il suo partito la può separare dal resto d'Italia in qualsiasi momento. Ma il risultato sarebbe solo un'insensata guerra civile

(13 ottobre 2011)

La Padania non c'è, dice il presidente Napolitano, e i nazionalisti applaudono. Finalmente qualcuno gliel'ha cantata nuda e chiara a quel Bossi. Ma che vuol dire la Padania non c'è? E allora cos'è quella pianura che Napoleone cercò per la sua carica agli austriaci là dove cominciava, a Marengo? Se una cosa è chiara in Italia, fra tante confusioni geografiche e linguistiche, una è proprio la pianura del Po detta Padania, che va dal Piemonte all'Adriatico percorsa dal fiume più lungo del paese.

La più ricca d'Italia e d'Europa, per la meraviglia dei re di Francia e degli imperatori del sacro romano impero che cercarono di impadronirsene. La Padania non c'è? C'è eccome, solo che non appartiene, come crede Bossi, alla Lega nord, e se si facessero elezioni per la Padania i voti per la Lega sarebbero del 15, al massimo del 20 per cento, chiaramente minoritari rispetto a quelli dei pro Italia.

Il bluff sin qui riuscito a Bossi è di avere quasi convinto l'opinione pubblica che la Lega potrebbe in ogni momento separare la Padania dall'Italia, mentre potrebbe soltanto cacciarla in una guerra civile priva di senso e impari, perché le forze dello Stato sarebbero preponderanti. Bossi sin dall'inizio della sua carriera, sin da quando girava l'Italia a predicare il separatismo, ha sempre giocato sul bluff, ha sempre confidato nel fatto che agitando la sua minaccia sarebbe stato tollerato e ricompensato. La politica di Bossi è stata un'oscillazione continua fra separatismo impossibile, ma preoccupante per i suoi effetti disgreganti, e l'uso del suo seguito elettorale per avere soldi e potere locale. Era una politica della paura e dell'incertezza che aveva la sua presa sulla pubblica opinione. Anche io le cento volte dopo averlo intervistato e ascoltato mi sono chiesto: ma questo demagogo su quale seguito può contare? E facendo il conto ragionevole degli italiani a cui la costituzione di uno staterello nel Nord sarebbe sembrata una iattura o una stramberia mi sarei dovuto tranquillizzare, e invece ne traevo altre ragioni di preoccupazione perché la propensione alla stramberia degli italiani non poteva essere ignorata. Che cosa era stato "L'uomo qualunque" di Guglielmo Giannini se non una stramberia di un giornalista mitomane, di un Napoleone da fiera? Eppure fu seguita da centinaia di migliaia di persone, il suo giornale era arrivato a tirature altissime.

Bossi fonda i suoi ricatti sull'ingovernabilità politica degli italiani, sulla loro ignoranza di fondo della politica e dell'economia. Il programma economico della Padania bossiana non esiste, esiste l'industria del Nord, una delle più forti d'Europa, e lui pensa: io me la prendo e il problema è risolto. La descrizione che mi faceva anni fa della sua lotta politica con Craxi era semplicemente demenziale. Un racconto nibelungico fra il mostro Craxi arrivato dall'Albania e l'eroe di Giussano, coraggioso e forte che non tremava di fronte al mostro, lo aspettava in un lago padano e lo uccideva con la sua spada magica. Quel giorno per la prima volta Bossi riceveva la stampa che conta, era molto eccitato, forse voleva strafare.

L'uomo è fatto così. Lo stupefacente è che venga scambiato dai suoi concittadini, ma anche dai forestieri, come una testa fine politica, come un capo politico autentico a cui, se non tutto, molto deve essere permesso: un gesto osceno e insulti agli avversari.

Un personaggio preoccupante: lui, la sua famiglia, la sua corte che non conosce regole e rispetto, dove si può passare dal cavillo politico al gesto laido dell'indice alzato, dai costumi regionali agli abiti ministeriali, una compagnia di teatro come quella dei Legnanesi, divertenti ma plebei. Un'inserzione bizzarra nella normalità della politica italiana, che ricorda un po' la maleducazione dello squadrismo fascista.

 
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« Risposta #208 inserito:: Ottobre 28, 2011, 05:40:42 pm »

Regime

B. e il Duce: diversi in cosa?

di Giorgio Bocca

Mussolini era un tiranno armato, il Cavaliere invece ha realizzato un autoritarismo morbido che, con le barzellette e la corruzione, ha ucciso l'orgoglio degli italiani, ne ha eroso l'anima. Per questo il capo del fascismo è finito a piazzale Loreto, mentre questo non siamo stati ancora capaci di mandarlo via

(24 ottobre 2011)

La domanda è: perché gli italiani riuscirono a liberarsi di Mussolini, un tiranno armato, e non sono capaci di licenziare Berlusconi, che non ha milizie e ha instaurato un regime autoritario ma non feroce? Forse perché Berlusconi non ha una politica, ma governa nell'assenza della politica. il suo qualunquismo totale agli italiani evidentemente piace.

Mussolini aveva una politica estera e cercava di cogliere gli ultimi vantaggi dell'imperialismo. Commise l'errore fatale di allearsi con il nazismo hitleriano per la conquista del mondo e fu travolto nel suo fallimento. Berlusconi non ha una politica estera, è pronto a passare dall'alleanza con gli Stati Uniti a quella con la Russia, ma agli italiani la cosa sembra indifferente, come ai tempi di "Francia o Spagna purché se magna". Mussolini aveva creato un regime autoritario nazionalista che per certi versi piaceva agli italiani vanesi superficiali, un regime di cui era palese la debolezza: il gallo fascista che cantava su un mucchio di letame ma che coltivava l'amor proprio dei suoi sudditi fino all'ora della delusione totale. Berlusconi non ha creato nessun regime politico, ma qualcosa di peggio: l'assenza della politica, ha autorizzato gli italiani a fare i loro comodi.

Che cosa è la corruzione berlusconiana? Un permesso generale di furto, un invito a rubare allo Stato a vantaggio dei privati furbi. Il fascismo era un regime a tre piani: il mussoliniano, il clericale o partito dei vescovi, e il capitalista, i padroni del vapore "il grigio Pirelli" e "l'infido Agnelli", la rete delle parrocchie e la monarchia. A questi poteri antichi e sovrapposti Mussolini si consegnò senza sospettare la congiura in corso, accettò l'invito del sovrano all'ultima udienza e fu congedato con una frase perfida di falsa cortesia piemontese: "C'am fasa el piasì", mi faccia il piacere di togliersi di mezzo, e fuori lo aspettava il colonnello dei carabinieri e l'autoambulanza che fu la sua prima prigione. Una rivoluzione autoritaria che si credeva padrona del paese e che finiva in un arresto clandestino, in una congiura di palazzo organizzata da Dino Grandi, ministro degli Esteri firmatario e promotore della condanna del Gran Consiglio, l'organo creato per difendere il duce e che invece lo liquidava. Berlusconi e la sua fine politica sono altra cosa: l'uomo è tuttora in piedi, per merito dei suoi difetti più che delle sue virtù. Lui ha fatto il gallo del pollaio cantando sul mucchio di letame, ma ha permesso a milioni di italiani di fare i comodi loro, di non pagare le tasse, di saccheggiare lo Stato. La sua formazione di imprenditore abile e fortunato si è rivelata una iattura, prevedibile, perché quando alla guida di un paese arriva a furor di popolo uno che è nato per far soldi, per essere il capo degli avidi, è chiaro che guiderà il saccheggio.

Tutti si chiedono perché resti al potere anche se dice cose intollerabili, come il "forza gnocca" come nome del partito della rinascita. Resta al potere perché il suo regime di autoritarismo morbido senza torturati e fucilati ha ucciso l'orgoglio, la protesta, l'indignazione degli italiani, la loro ribellione al satrapo e alle sue laide barzellette. Un'immensa platea di decine di milioni di persone apre le televisioni e legge i giornali per sapere che il cavaliere di Arcore ha di nuovo dato fuori di matto, ma non si sa più come fermarlo, come interdirlo. Nel 1945 avemmo l'illusione, la speranza che fosse tornata, e tornata per sempre, la democrazia, il tempo della ragione e della solidarietà. Ci siamo sbagliati: è arrivata una stagione di privilegio e soperchierie. Chi di noi, diciamocelo, ha ancora il coraggio di dire ai nostri figli che gli abbiamo preparato una vita nella libertà e nella giustizia?

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« Risposta #209 inserito:: Novembre 03, 2011, 11:31:17 pm »

B. crolla, ma forse è tardi

di Giorgio Bocca

Questo regime sta finendo come il fascismo: per autodistruzione. Dopo Mussolini, per un po', ci fu un impulso riformatore e perfino etico. Adesso invece c'è il rischio che tutto cambi perché non cambi proprio niente

(02 novembre 2011)

Dicono che bisogna credere nel futuro, in un futuro diverso, migliore di questo presente, di questa marmellata di cose, oggetti, bisogni fra cui strisciamo. Non c'è neppure odio per le generazioni che ci hanno condotto in questa palude. Certo hanno mal governato il paese, lo hanno compromesso, hanno lasciato crescere la malavita, hanno dato ai cittadini un'unica morale, un'unica aspettativa: rubare allo Stato dove si può, finché si può.

Che altro vogliono dire i vescovi quando lamentano la mancanza di etica della nostra società, la mancanza di buone regole, di buoni comportamenti? L'impressione generale, scoraggiante, paralizzante è che sia troppo tardi per venirne fuori, le complicità sono troppe, le malversazioni di massa soffocanti, le occasioni di riscatto rare: non c'è un prevedibile 25 luglio per l'arresto del tiranno, non c'è un 8 settembre per l'inizio della guerra partigiana, non c'è un'occupazione straniera di cui liberarsi.

Sono le grandi dimensioni dei nostri attuali vizi, delle nostre pigrizie, delle nostre cattive abitudini a imprigionarci. Questa volta i "mille" del coraggio e dell'avventura sembrano scomparsi.
Ogni sera gli italiani che ancora desiderano vivere in una libera democrazia si chiedono quanto durerà questo decadimento, questa resa al peggio, e se questa rinascita è realmente possibile o un vano desiderio che si rinnova di generazione in generazione. Il capo della polizia borbonica non accoglieva a Napoli il liberatore Garibaldi per disarmarlo, non consegnava la guida dell'ordine pubblico ai capi della camorra? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa non è l'eterna vittoria dei reazionari?

Nella mia vita ho visto cadere alcuni regimi autoritari, a cominciare da quello fascista, quasi sempre per autodistruzione. Le sedi dei partiti restavano aperte ma vuote, gli iscritti buttavano via le tessere e i distintivi, ritornavano i vecchi partiti guidati dai revenant, dai politici di ritorno.
Ci risiamo? Ogni sera agli italiani si chiedono quando avverrà, come andrà a finire. Che fare? Mandare in galera tutti i ladri? Si organizzerebbero subito come il partito più forte del paese e comunque le prigioni non basterebbero. Fare l'ennesima rivoluzione gattopardesca, cambiare tutto perché nulla cambi? L'ennesima rivoluzione per finta, con i furbi e i ladri lesti a tornare al potere? Sono i grandi numeri, le grandi dimensioni di questa società a impedire che cambi veramente.

Nei primi anni della repubblica un giornalista napoletano di nome Guglielmo Giannini inventò "l'uomo qualunque" un movimento insensato, nemico della politica ma con la pretesa di fare la migliore delle politiche. Arrivò a vendere 700 mila copie e fu ucciso dal suo successo senza sbocco: non aveva un progetto fattibile, scomparve senza lasciare traccia se non nella sua inconsistenza, nella sua volgare utopia.
Il difetto vero degli italiani lo aveva colto Leopardi quando denunciava la mancanza di un'opinione pubblica capace di una scelta etica. L'ultima illusione è stata quella della guerra partigiana: guerra di popolo per la libertà e la giustizia che diede al paese un forte impulso riformatore, durato mezzo secolo, una volontà di diventare finalmente un paese democratico. Quest'ultima illusione sembra davvero consumata.

Il paese è bello, ricco di beni naturali, ma è molto difficile viverci per l'anarchia di chi ci abita. Per l'illusione costante di poter migliorare la società senza disciplina e senza sacrifici, per l'idea assurda che esista uno "stellone", una garanzia di fortuna che spontaneamente risolve i problemi del paese.


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