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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 132077 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Febbraio 18, 2011, 04:50:26 pm »


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L'opinione

Moltiplicatore di desideri

di Giorgio Bocca

Berluskonia è il regno del consumo senza limiti, nato con le tv Mediaset. Fa credere ai poveri di essere ricchi e consola gli infelici

(18 febbraio 2011)

L'ultima di Silvio: "Io non ho mai pagato le donne". Mai pagato le donne? Forse voleva dire l'esatto contrario: che è l'uomo che ha pagato le donne più di ogni altro arrivato al potere. Con lui si è vista in Italia la prima corte di donne al governo, ha preso delle donne di scarsa o nessuna formazione intellettuale e di governo e gli ha affidato mezzi e poteri per il funzionamento dello Stato, riforme come quella della scuola o il turismo o le pari opportunità. E per la prima volta la presenza femminile al governo del paese è stata manifesta nei mezzi d'informazione: donne in tutte le cerimonie pubbliche, presentate e segnalate anche per la loro avvenenza, a cominciare dalla crocerossina ammirata dal nostro in una sfilata per una festa della Repubblica. Donne a corona attorno al capo, il petto proteso in suo onore.

Dice il nostro: "Non ho mai curato e favorito i miei interessi ma sempre quelli del paese". Che faccia di bronzo, si diceva una volta. Con Berlusconi, sotto la sua guida, esempio e incitamento, è avvenuto il mercimonio totale del bene pubblico, una folla di affaristi, commercianti, speculatori lo hanno applaudito quando diceva "sono uno di voi, sono uno del partito del fare non del parlare o del sognare". Del fare che? Lo ha detto esplicito esplicito quando ha parlato della funzione della televisione e dei suoi meriti: "Aprire gli immensi pascoli della pubblicità", sin lì limitata dalla radio e dalla televisione pubblica, offrire agli uomini del fare i mezzi per moltiplicare le loro offerte, i loro inganni, le loro contraddizioni.

Fin dalle prime trasmissioni televisive si capì dove stava il genio mercuriale del nostro: non solo fingere che l'Italia fosse improvvisamente diventata il paese dell'abbondanza, ma di un'abbondanza hollywoodiana, in technicolor, da Miami Beach, da Quinta strada. Uscivano allora le istruzioni che il nostro dava ai registi e agli autori delle sue televisioni: credersi ricchi, apparire ricchi ancora prima di diventarlo.
La fabbrica di Berluskonia, il regno del consumo senza limiti e della felicità assoluta sotto la guida del buon sultano, avvenne con la costruzione di Canale 5, Italia 1 e Retequattro. Passando negli studios televisivi alla periferia di Milano si capiva che Silvio non solo era capace di moltiplicare i bisogni e desideri, ma anche di far credere ai poveri di essere ricchi e agli infelici di essere privilegiati. I poveri cristi noleggiati o assunti per far funzionare la produzione appena entrati nel recinto magico si trasformavano, si sentivano eleganti, spigliati, erano entrati nel prato dei miracoli, del benessere e della bontà. Qui la bonarietà naturale del nostro è diventata un'arma irresistibile di dominio.

Il capo dei capi, l'uomo dei miracoli e della provvidenza era anche buono, correva al letto degli ammalati, soccorreva gli afflitti. Esagerava un po', come nel recente messaggio alla nazione, vantando anche carità pelose o ambigue quando non malsane, come il prestito generoso a Lele Mora dipinto come uomo buono e generoso, lui che in vita sua ha sempre gestito una scuderia di attricette e attorucoli pronti a tutto pur di arrivare in tv, pronti anche a seguire il capo nei giorni delle sue demenze senili, del suo delirio d'eterna giovinezza a cui l'uomo generoso, il migliore dei buoni padri di famiglia ha sacrificato moglie e figli, in una serie televisiva simile a quelle hollywoodiane di J. R.
Silvio a parole ama le donne, le fa ricche, le corteggia, e le consiglia per la vita: "Sposatevi un miliardario". Ma non è così facile come dice lui.

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« Risposta #181 inserito:: Febbraio 27, 2011, 05:54:03 pm »

Non si può morire per l'Afghanistan

di Giorgio Bocca

È già difficile credere che sia bello e onorevole immolarsi per la patria quando la patria è in pericolo, ancora meno accettare che la tua vita sia messa in gioco per una questione di potere o di diplomazia

(25 febbraio 2011)

Militari italiani in Afghanistan Militari italiani in AfghanistanPerché partecipiamo alla guerra in Afghanistan? Perché i nostri soldati vanno a morire in quelle desolate terre, perché le autorità recitano il rituale cordoglio con cerimonia funebre e pianto dei parenti? Perché la guerra continua a essere necessaria alla politica internazionale e interna? Perché l'umanità non si è ancora liberata della voglia ancestrale di sangue fraterno? Senza ripetere che la guerra c'è per i buoni affari dei fabbricanti di armi?
Una risposta suggerita dalla storia recente è: la guerra permane come prova di nuove guerre, nuove armi, di nuove strategie, come la guerra di Spagna fu il banco di prova della Seconda guerra mondiale. Hitler e i nazisti vi fecero la prova dei bombardieri verticali, gli Stuka, e della guerra lampo delle divisioni corazzate che superavano la vecchia guerra di trincea, la prova della guerra totale che distrusse Coventry. Oggi in Afghanistan l'arsenale americano prova le sue nuove armi, come gli aerei senza piloti o i missili che colpiscono con una precisione assoluta dopo voli di migliaia di chilometri, e anche il resto come le torture psicologiche dello spionaggio totale.

La seconda ragione è quella dei buoni affari dei mercanti di cannoni. La guerra giustifica e nobilita ogni decisione del potere economico, le cerimonie funebri in cui i capi di Stato posano le mani sulle bare dei caduti vogliono affermare la sacralità della guerra, anche di quella fatta per avere più potere.
C'è anche, s'intende, il motivo politico. La guerra è sempre dalla parte della conservazione del potere da parte dei padroni, i Berlusconi di tutti i regimi riaffermano regolarmente che la guerra è necessaria e provvidenziale anche se razionalmente nessuno può spiegare il perché. Devono esserci anche ragioni di spettacolo, di modo di recitare: l'ultimo caduto in Afghanistan, un alpino sardo, è stato ucciso in modo mafioso, impensabile nelle guerre risorgimentali, da un soldato afghano in divisa che si è avvicinato con la scusa di chiedere come funziona un mitragliatore e gli ha sparato una raffica in viso.
Questa è la guerra per cui muoiono dei giovani italiani? E per cui si commuovono i reggenti della Repubblica? O è una storia di tipo gangsteristico in cui nessuno riesce più a distinguere il nemico dal sicario, il soldato fedele dal traditore? Una storia afghana dove l'ingenuo italiano soccombe all'astuto afghano, come si diceva nell'avanspettacolo.
Immancabile la cerimonia del ritorno in patria della salma, dei picchetti d'onore a Ciampino, di un lutto che nessuno riesce a capire, di un sacrificio che nulla può aggiungere o togliere al bene della patria. Un morto in Afghanistan come quelli sulla Cernaia per i giochi diplomatici di Cavour. Un giovane italiano che è andato a morire per povertà, perché si era sposato da poco e non aveva i soldi per mantenere una giovane moglie che viene mostrata in lacrime e in lutto.

Che significa per i giovani italiani questo rituale che si ripropone quasi ogni mese? È già difficile credere che sia bello e onorevole morire per la patria quando la patria è in pericolo, ancora meno accettare che la tua vita sia messa in gioco per una questione di potere o di diplomazia. I morti per Cavour servivano per fare l'unità d'Italia. Ma questi? Per un invito alla Casa Bianca del nostro premier?

   
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« Risposta #182 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:52:48 pm »

La vera missione della politica

di Giorgio Bocca

Oggi i deputati non osano più parlare al cuore, si perdono in congetture giuridiche.

E il loro compito principale è trasferire denaro pubblico nelle tasche dei produttori e dei costruttori, far muovere gli appalti

(04 marzo 2011)

Il politico, cioè il delegato al funzionamento dello Stato, è sempre più in difficoltà. le vecchie armi del mestiere come la retorica e l'eloquio forense si sono come spuntate di fronte alla difficoltà di governare il puttanaio generale. Un esempio. L'altro giorno alla camera un poveraccio eletto dal popolo si è cimentato nell'impresa impossibile di difendere il premier Silvio Berlusconi dall'accusa di concussione. con voce tonante ha cercato di spiegare che Berlusconi aveva telefonato alla questura di Milano per far rilasciare la signorina Ruby, sua amichetta, sostenendo che era davvero convinto che fosse la nipote di Mubarak e che era intervenuto per evitare un incidente diplomatico.

Si è spuntata l'arma dell'oratoria forense, l'arte del discorso coltivata da tutti i politici dell'Italia unita da Mussolini a Nenni; oggi i deputati non sanno o non osano più parlare al cuore, oggi anche loro si perdono in congetture giuridiche, in sottigliezze procedurali mentre i loro colleghi annoiati chiacchierano o escono a fumare una sigaretta.

Qual è il compito principale dei politici di oggi? Trasferire il denaro pubblico nelle tasche dei produttori e dei costruttori, far muovere il mattone e gli appalti, distribuire i finanziamenti pubblici. Con queste mercuriali faccende le diversità politiche, gli ideali, il sol dell'avvenire cedono il campo agli affari.
Anche la protezione civile, nata come provvida organizzazione per sopportare le calamità naturali, diventa una gran macchina da affari più o meno puliti in cui un deputato di sinistra ne vale uno di destra come faccendiere. La politica come olio per ungere i meccanismi amministrativi.

Importante ma non sempre presentabile, leggibile, difficile mestiere quello del politico. Deve far funzionare lo Stato, la sua economia, i suoi servizi spesso in concorrenza con i produttori e con i commercianti.
Il motore dello Stato, la cooperazione dei politici e degli imprenditori, è spesso simile a uno sciame furioso d'api tutte alla ricerca del loro miele, è per questo che noi vecchi partigiani della generazione che guadagnò all'Italia il biglietto di ritorno alla democrazia siamo fortemente preoccupati: reggerà questa costruzione appesa a fili e a nodi fragili? O ci sarà un inevitabile ritorno dei regimi autoritari capaci di risolvere con la forza i contrasti? Ci sono in televisione dei telefilm americani il cui messaggio ossessivo e monotono è il seguente: la polizia dello Stato deve legnare continuamente i rivoltosi e indisciplinati per consentire alla macchina di funzionare.

Ecco perché il pericolo numero uno delle società conservatrici non è più il rivoluzionario comunista, ma l'anarchico, quello che rompe il legame delle collaborazioni, corrette o delittuose che siano. Il nuovo Millennio sembra aprirsi come i precedenti all'influenza dell'incertezza e del casuale. Riusciremo a comporre le nuove profonde contraddizioni del vivere sociale? La differenza antica fra sinistra e destra, fra la sinistra riformatrice progressista e la destra conservatrice e retriva non ha più senso.
Tutti siamo allo stesso tempo per la conservazione e per la riforma, per la legge e l'ordine e la tempestosa creazione schumpeteriana. La sola previsione che possiamo fare del futuro prossimo è di una società nevrotica alle prese con i mille rischi del mondo ricco insidiato dalla marea dei poveri che si ammassano alle sue frontiere, minacciosi.

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« Risposta #183 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:18:16 pm »

Dittatori con la valigia

di Giorgio Bocca

Quando scappano, i tiranni si portano dietro tutto l'oro e i tesori che avevano rubato.

Come dei grassatori che partono con il bottino. Oltre ai capitali già esportati evidentemente vogliono salvare tutta la refurtiva

(11 marzo 2011)

La prima cosa strana della defenestrazione dei dittatori della "quarta sponda", algerini, tunisini, egiziani, è che se ne vanno con le valigie piene di oro preparate da giorni, come dei grassatori che partono con il bottino. Padroni dello Stato da decenni non avevano ancora imparato che nella finanza internazionale i tesori si spostano con un colpo di telefono, che l'esportazione di capitale è la cosa più facile del mondo? Sì, l'avevano imparato, ma evidentemente vogliono salvare tutta la refurtiva, a costo del ridicolo di fuggire come dei malviventi, si vedano le cinquanta valige di Mubarak.

La seconda cosa ridicola nella fine dei dittatori è che viene decisa e organizzata fra compari di dittature e di ladrocinio, di solito il rais e i suoi collaboratori governativi e i militari, i generali dell'esercito che sono stati per decenni suoi associati nel potere autoritario.

Il rais politico fugge fra le imprecazioni e i fischi del popolo insorto mentre i militari assumono la parte dei mediatori, dei traghettatori verso una possibile ma improbabile democrazia. Perché non hanno partecipato alle ferocie e agli abusi del sultanato non perché hanno a loro disposizione i carri armati e cannoni.
Segue un altro strano fatto: i peggiori sostenitori dei regimi autoritari, i carcerieri, i torturatori, i fucilatori, i poliziotti, le spie, i cortigiani più ladri e malvagi pensano che è l'ora di mettersi in salvo come si può, affidandosi ai barconi malandati dei traghettatori senza scrupoli che riempiono il mare con i loro convogli disperati, che la Marina da guerra italiana sorveglia e guida fino a Lampedusa.

E l'informazione fa di queste ciurme delle vittime del nuovo potere, da persecutori a perseguitati che bisogna soccorrere nei centri di accoglienza da cui partiranno per raggiungere i loro complici in Francia o in Germania dove anche loro, come il rais, hanno messo in salvo i frutti delle loro rapine.

Un'altra osservazione che va fatta è che ancora una volta le rivoluzioni, i moti popolari, la caduta delle dittature sono arrivati senza che gli osservatori del mondo libero, diplomatici, giornalisti, commercianti, lo prevedessero e lo annunciassero, a segno che la nostra modernità è una condensa confusa e un'indefinita mescolanza di mutamenti che nessuno riesce a controllare, nella politica come nell'economia.

Al punto che da giorni l'Italia intera sta interrogandosi sul fatto misterioso della più grande delle sue fabbriche, la Fiat, che non si sa se resterà a Torino con il suo stato maggiore o fuggirà in America o nel Canada dove ha sede il supermanager Marchionne, un altro fenomeno in questa transizione che si distingue dai politici perché ha risolto il problema dell'abbigliamento andando in giro in pullover invece che in uno dei doppiopetti di ministri o sottosegretari che i loro imbarazzati portatori continuano a rimettere in ordine con abbottonamenti di panza e rifacimenti del nodo alle cravatte, a cui le immense platee televisive assistono stupite che i grandi della terra siano così impacciati e preoccupati di presentarsi alla folla in attesa in mezzo a guardie del corpo chiaramente riconoscibili per imprinting poliziesco e corporature a cassettone. Il nostro Berlusconi gli dimostra la sua gratitudine appoggiando amichevolmente una mano sulle loro spalle quadrate che per anni gli hanno evitato lanci di oggetti contundenti con ferimento e perdita di due denti.

Gli insorti occupano le piazze e festeggiano. E noi che siamo passati nel secolo scorso per quest'esultanza di questi popolari tripudi non possiamo trattenere un pensiero amaro: e poi? Poi come finirà quando dei rais di turno si sarà persa la memoria e i generali si saranno messi d'accordo con i nuovi politici per organizzare una qualche democrazia autoritaria dove i poveri cui una volta nella vita viene concesso di occupare le piazze delle capitali saranno stati rimandati nelle loro periferie?

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« Risposta #184 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:18:58 pm »

L'Italia che applaude la Minetti

di Giorgio Bocca

La cultura berlusconiana è riuscita a rovesciare le categorie: per loro i nemici della giusta società non sono i ladri e i corruttori, ma i magistrati che cercano di far rispettare la legge.

E l'impudenza diventa la norma

(18 marzo 2011)

Si tratti di atti comuni come di rivoluzioni, gli uomini procedono a gregge uno dietro l'altro dove li porta l'unanimismo accidentale. Perché tunisini, algerini, egiziani, iraniani scendono nelle piazze per chiedere la libertà a cui prima hanno rinunciato per seguire sultani o sacerdoti?

Persino la Libia, unico Stato arabo fino ad ora calmo e obbediente al suo dittatore nella bufera generale, grazie al petrolio che assicurava ai sei milioni di abitanti un benessere e un tenore di vita altissimo per l'Africa, ora si sta ribellando. La voglia di libertà erompe a catena come un'epidemia, perché gli uomini decidono che è il momento di lottare per la libertà a costo della vita quando lo fanno i loro vicini.

Le grandi rivoluzioni, la francese e la sovietica, produssero in tutto il mondo focolai rivoluzionari, nei giorni della rivoluzione francese in tutti paesi della santa alleanza conservatrice i giovani alzarono gli alberi della libertà, magari accogliendo in loro nome come liberatori i più grandi imperialisti come Napoleone Bonaparte. E in suo onore tanti giovani polacchi mossero a cariche disperate contro gli oppressori russi, scambiandolo per il liberatore.

In questa girandola di oppressi che diventano oppressori, di liberati che diventano schiavisti e dominatori c'è una sola cosa costante: tutti quelli che arrivano al potere rubano, coltivano l'illusione di garantirsi con il furto il perenne benessere, il perenne potere sui più poveri.

Nella Roma imperiale il furto dei vincitori era considerato normale, fisiologico. L'aristocratico Cesare, dopo aver dilapidato le sue fortune in giochi e in feste, andava nella provincia spagnola a ricostruirsi in breve tempo con la rapina del dominatore le sue fortune e i suoi connazionali non trovavano nulla d'illecito e di scorretto nel suo comportamento.

Silvio Berlusconi ha fatto di questo ladrocinio dei potenti la norma invidiata e rispettata almeno dalla metà dei suoi concittadini, i quali anche se lo biasimano in pubblico, in privato lo invidiano, vorrebbero essere al suo posto anche nel coltivare piaceri modesti e un po' turpi. Il Berlusconi che parte per un viaggio governativo assieme a una bella escort e a due simpatici avventurieri della politica non fa qualcosa di illecito, vituperato dalla gente, fa quello che la metà abbondante della gente vorrebbe fare.

In occasione dei guai processuali di Berlusconi il suo uomo di pubbliche relazioni, Giuliano Ferrara, è uscito in un paradossale ma italianissimo rovesciamento delle parti: gli eversori, i corrotti, i nemici della giusta società non sono i ladri e i corruttori, gli eversori delle leggi, ma i cittadini operosi e onesti che hanno il torto supremo di pretendere di vivere del loro lavoro, del loro sudore, come dice la Bibbia.

Sono loro la vera peste della società: gli invidiosi, gli inquisitori pronti a mandare ai ferri e alle galere i bravi e allegri dilapidatori del bene pubblico, sono loro, i lividi e tristi moralisti, a calunniare i potenti, a esortare i loro amici, i feroci magistrati, a perseguire i bravi costruttori di ricchezze e di benessere.
Bisognava vederle le migliaia di persone accorse alla requisitoria del Ferrara come applaudivano, come giubilavano a sentire trattati come infami i procuratori della Repubblica che accusano Berlusconi di aver cercato di impaurire i poliziotti per liberare la minorenne ladruncola e prostituta Ruby, come si commuovevano per la mala sorte della giovane Minetti, amante di Berlusconi e tenutaria delle giovani invitate alle sue feste.

Povera Minetti: avvertita da Silvio si era precipitata in questura a liberare la Ruby per salvarla alla sua maniera, cioè farla assistere da un'altra giovane prostituta. L'impudenza come norma, come regola.

   
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« Risposta #185 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:14:54 pm »

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L'opinione

Non fermeremo l'immigrazione

di Giorgio Bocca

È utopia pensare di difendere l'Europa a oltranza con il controllo del Mediterraneo. Al massimo potremo rallentare l'esodo o aiutare l'Africa a diventare un po' più ricca. E la Libia con tutto questo c'entra poco
(31 marzo 2011)
Immigrati a Lampedusa Immigrati a LampedusaI ribelli libici che chiedono libertà hanno storicamente ragione, perché la Libia è abbastanza ricca per concedersi democrazia e libertà, ma se attraverso la ribellione libica tutti i poveri dell'Africa chiedessero o cercassero di raggiungere la ricca Europa si arriverebbe a un feroce conflitto continentale. Ci sono precedenti nella storia dell'umanità.

Le invasioni barbariche che segnarono la fine dell'impero romano che lasciarono alle popolazioni italiche uno sgomento da fine del mondo erano numericamente sopportabili.
L'Italia poteva ospitare centinaia di migliaia di longobardi o di goti, l'impero bizantino rimasto in piedi riuscì a respingerli, i vandali vennero deviati verso l'Africa e la Spagna.

Meno facile fu assorbire l'invasione araba che dalla Mecca dilagava verso l'Asia e verso l'Africa settentrionale occupando anche la Sicilia e l'Andalusia. E non fu un'invasione solo predatoria, gli arabi portarono in tutto il Mediterraneo la loro civiltà agricola, le irrigazioni e la filosofia greca, come grado di civiltà erano più avanzati loro che "in Francia nocquer tanto" piuttosto che i sovrani carolingi di stirpe germanica.

L'invasione e la grande migrazione degli europei verso le Americhe scoperte da Colombo furono senza dubbio le più feroci nei rispetti degli indigeni: intere civiltà come gli inca e gli aztechi vennero distrutte dall'invasione. Che cosa è prevedibile negli anni a venire? C'è chi pensa a una difesa dell'Europa a oltranza con il controllo del Mediterraneo, ma è un'ipotesi utopica: non sono riusciti gli Stati Uniti a chiudere il confine messicano e a impedire l'emigrazione del Sud America, e non ci riusciremo neppure noi. Al massimo potremo intervenire in due modi: o rallentare l'esodo o aiutare il continente africano a diventare ricco, se non come l'Europa, a diversità sopportabile.

La ribellione libica rientra solo per alcuni versi in questa osservazione sui grandi esodi, essa avviene contro ogni previsione, proprio quando il piccolo Stato africano si è liberato dal colonialismo italiano e grazie al ritrovamento del petrolio e del gas è diventato un ricco esportatore.

Si ribella una nazione di pochi milioni di cittadini proprio mentre il suo reddito pro capite si avvicina a quello europeo. Ma non ci sono solo i motivi dei grandi esodi quali povertà e servitù, in Libia sono intervenuti i più decisivi fattori della civilizzazione, quali i mass media capaci di trasmettere notizie e di raccontare ai locali come stiano veramente le cose, nessuno può reprimere totalmente radio, telefoni e televisioni che spontaneamente possono creare un reticolo di informazioni rivoluzionarie, possono raccontare alla gente in che grado è asservita e come si può organizzare una ribellione.

Il paradosso è che la ribellione della Cirenaica ha avuto il sostegno dei rivoluzionari egiziani per attaccare una dittatura come quella di Gheddafi che economicamente li aveva promossi a livelli di vita civile. Nel grande terremoto politico e sociale libico si incontrano contraddizioni e paradossi di ogni genere: gli italiani che si trovano in Libia per lavorare e non certo per occupazione militare - e chi meglio lo sa del colonnello Gheddafi che cacciò quelli rimasti dopo la guerra - vengono accusati dal dittatore di aver parteggiato per la rivoluzione mentre è evidente che sono stati danneggiati da essa nei loro buoni affari. E può darsi che le accuse di aver fornito di armi i rivoltosi siano persino vere, perché nel confuso gioco del potere i servizi segreti italiani possono aver aiutato una ribellione gradita agli americani.

Ero in Libia quando Gheddafi prese il potere e in pochi giorni cacciò i coloni italiani, contadini veneti che avevano bonificato la campagna di Tripoli e che costituivano un gruppo sociale progredito e necessario a uno sviluppo equilibrato. Ma il colonnello aveva bisogno di una sua fama di liberatore, voleva che il suo potere avesse il suggello della guerra patriottica di liberazione. Poi si vide che democratico era quel capo beduino che governava il Paese come una tribù, con pose e compiacimenti da capo tribù.

 
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« Risposta #186 inserito:: Aprile 08, 2011, 10:28:54 pm »

Non c'è nemmeno la bella Elena

di Giorgio Bocca

La guerra in Libia è incomprensibile come quella di Troia. Solo la fame di energia dei francesi e degli inglesi, la voglia di mettersi alla prova dei generali e il business della ricostruzione possono spiegarla

(08 aprile 2011)

La guerra di Troia, causata dal rapimento della bella Elena, era sin qui quella più incomprensibile: sembra strano che degli uomini raziocinanti si affrontassero in battaglia per via di una bella donna. Ma la guerra libica è ancora meno comprensibile: da qualunque parte la si giri non si riesce a capire perch? mai uomini adulti ragionevoli stiano in questi giorni ammazzandosi nello "scatolone di sabbia", come lo chiamavano al tempo del fascismo, forse perché lo avevamo conquistato, sperando il meglio. Il tutto reso oggi non direi più drammatico ma più folle dal fatto che alcuni dei paesi in guerra, a cominciare dagli Stati Uniti, possiedono la bomba atomica cioè l'arma della distruzione totale, che però non usano, come a dire che per questa guerra bastano le vecchie armi, che è una guerricciola per qualche barile di petrolio.

Anche l'Italia è in guerra, nonostante il parere contrario del suo ministro degli Esteri e del capo dello Stato. Il capo del suo governo, Silvio Berlusconi, maestro assoluto delle capovolte, si dice addolorato per averla mossa al suo amico Gheddafi e fa capire in tutti i modi di essere pronto a mediare per salvare, se non il potere, la pelle del suo amico, il quale, dovendo dar prova al mondo dell'ingiustizia che subisce e di essere un amico del genere umano, ogni giorno che può bombarda i suoi connazionali, anche chiamati "i ribelli".

Chi ci capisce è davvero bravo: i libici che si sono ribellati alla dittatura di Gheddafi, dittatura come numerose altre nel mondo che nessuno Stato libero si sogna di attaccare per via della libertà, come i ribelli egiziani o tunisini o siriani, nessuno sa bene che liberali siano o autoritari e magari religiosi fanatici come i Fratelli Musulmani, ma questo, per chi non ci va di mezzo rende il gioco più interessante.

Chi vincerà la guerra incomprensibile? Probabilmente i ribelli, vale a dire le grandi potenze occidentali che stanno alle loro spalle. Par di capirlo dal fatto che quando Gheddafi stava per domarli il bravo Obama è intervenuto mandando ai ribelli un sacco di armi moderne, grazie alle quali si sono salvati e hanno ripreso l'offensiva.

Per quale arcana ragione è scoppiata la guerra libica? Per gli intrighi dei perfidi cinesi e degli infidi russi? Si direbbe di no, si direbbe che a prendere l'iniziativa sia stato il magiaro-francese Sarkozy, spalleggiato dall'ex imperialista inglese Cameron per via del motivo poco nobile ma molto concreto che le riserve di energie naturali stanno rapidamente consumandosi e che la Libia è il paese con più petrolio in pancia di tutti gli altri.

Un altro aspetto singolare, e perciò difficilmente comprensibile, di questa guerra è che le maggiori potenze del mondo vi partecipano con una paura matta di fare una mossa sbagliata, più lunga del consentito, che potrebbe scatenare un conflitto generale inevitabilmente atomico. Perciò eccoli fare delle mosse strane da battaglia navale giocata sulla carta, lanci dimostrativi di missili, schieramento di portaerei, come in una rivista di aerei, che bombardano gli accampamenti del tiranno per convincerlo a fare fagotto, offensive inconvenienti degli uni, il giorno dopo smentite dalle controffensive degli altri. Una guerra comica se non fosse pagata con la vita di poveri cristi obbligati a farla.
Nel contempo fuga di poveri africani su barche e barconi dei loro nonni verso l'Italia e l'Europa, questa sì che è una notizia terribile, una fuga che solo un ministro italiano può pensare di fermare con qualche lira svalutata, con qualche elemosina ai fuggiaschi: tenga queste mille lire e faccia ritorno da dove è arrivato. Aggiungiamo i militari di professione, i generali di Stato maggiore che hanno bisogno di far la prova delle guerre future, e che convincono i capi politici che queste guerre sono necessarie, per non dimenticare i costruttori di immobili che dovranno rimettere in piedi le città distrutte.

 
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« Risposta #187 inserito:: Aprile 25, 2011, 12:06:40 am »

150 anni per ridurci così

di Giorgio Bocca

Un ministro che promuove la secessione dall'Europa. E un capo di governo che racconta frottole e barzellette.
Senza mai mantenere le promesse. Questa è l'Italia che festeggia l'unità

(22 aprile 2011)

L'italia celebra i centocinquant'anni della sua unità nell'anarchia più totale e ridicola. Convinta lei e i suoi sudditi che più si è senza governo, senza futuro, senza buon senso e più si è adatti a questo pazzo mondo. Con un ministro di nome roberto Maroni che, essendo arrivato al potere sulla crescita separatista dell'Italia ricca stanca di mantenere quella povera e caotica, non trova di meglio che aprire una campagna antieuropea, si mette ad accusare l'Europa di ingiustizie nei nostri riguardi, vuole che l'Europa scambi l'arrivo di 20 mila disgraziati per un'invasione barbarica, per una minaccia al continente, chiede all'Europa ricca e ordinata di far fronte al mantenimento di 20 mila tunisini fuggiaschi dalla miseria del loro paese, e che cosa minaccia?

Di lasciare l'Europa ingrata, la secessione dall'Europa ricca e civile senza la quale ci ritroveremo a livello mafioso e mediorientale. Sembrava che il piccolo Maroni da Varese, braccio destro del bugiardo Umberto Bossi, fosse una persona ragionevole, consapevole dei nostri limiti e doveri, ma anche lui si è messo a dar fuori di matto. Basta con l'Europa, basta con l'Unione europea. Perché cosa vuole lui, l'Unione africana?, come ha detto una volta il timido Bersani.

Intanto che cosa fa il capo di governo di questa repubblica delle banane che celebra i centocinquant'anni della sua Unità che ha sprecato per provare a unire milioni di atterriti o rassegnati? Qual è l'ultima del Cavaliere? Che l'accusa di essere un corruttore di minorenni e uno che abusa del suo potere è falsa, perché lui la minorenne marocchina non l'ha corrotta, le aveva fatto regali e concesso protezione per la ragione opposta, per salvarla dalla tentazione di vendersi, per consentirle di tornare sulla retta via.
E milioni di italiani gonzi, rappresentati da centinaia di deputati dall'aspetto autorevole, fingono di credere a quella balla senza limiti. Come nelle recite di Petrolini, il comico che non faceva a tempo ad aprire bocca e i sudditi gridavano "bene, giusto".

In che cosa consiste il governo della Repubblica democratica italiana? Nella ripetizione di promesse che non verranno mantenute, che tutti sanno che non saranno mantenute, che nessuno chiede di mantenere: la penosa faccenda degli immigrati appare ogni giorno in televisione, nell'impotenza del governo non dico a risolverla ma ad affrontarla. E' tutto un andirivieni confuso di immigrati che sbarcano da decrepiti barconi per finire in campi di raccolta da cui fuggono senza sapere bene dove andare, o che vengono ripresi come cani randagi da poliziotti che non sanno bene dove tenerli, e un governo che si adonta se il resto dell'Europa non vuole accoglierli.

Leggi e accordi internazionali sono parole vuote, l'Italia non si è impegnata a impedire l'immigrazione di clandestini che dal sud del Paese finisce poi per invadere l'intera Europa? Sì, ma lo ha fatto come sempre sulla carta, con uno di quei convegni fra governanti in cui il nostro caimano si pavoneggia nella parte del factotum, e ne approfitta per raccontare le sue laide barzellette, le più ignobili, raccatta nella nostra volgarità le barzellette, cioè l'umorismo che si compra, che si sparge nel Paese come una macchia di unto e di sporco, senza inventiva per fingere di essere spiritoso come un commesso viaggiatore.

Il caimano minaccia giudici e onesti, è lui il più forte, difeso dalla sua straripante vergogna. Lo chiamano a processo? Ci va e insulta i magistrati, la stampa che lo accusa, minaccia i giudici di togliere le prebende, i poliziotti di lasciarli senza pistole e benzina, è un corruttore universale, l'uomo della banana e dell'ombrello, il faccio-tutto-io che fa rimpiangere i dittatori mitomani e megalomani ma con qualche residuo desiderio di grandezza.

No, c'è toccato nel centocinquantesimo compleanno dell'Unità proprio questo sughero inaffondabile, con le sue gambe arcuate e il suo lucido da scarpe in testa.

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« Risposta #188 inserito:: Maggio 13, 2011, 11:15:14 am »

L'opinione

Il nucleare? E' la fine del mondo

di Giorgio Bocca

Il terremoto in Giappone e l'incidente di Fukushima dimostrano che l'uomo non è in grado di controllare gli effetti distruttivi dell'atomo. Soprattutto se si assommano alla sete di denaro. E allora, che vogliamo fare?

(05 maggio 2011)

Adesso possiamo prevedere come finirà il mondo, abbiamo appena fatto la prova generale. Un terremoto sottomarino, di quelli frequenti nell'oceano Pacifico, ha prodotto uno tsunami che ha fatto crollare una centrale atomica, le sbarre di uranio stanno entrando in fusione, c'è il rischio che la morte atomica si allarghi per centinaia di chilometri portata dal vento e dalle piogge, e che gli uomini in fuga dal flagello distruggano il sistema economico, non ci sia più da vivere per tutti, sanguinose guerre di sopravvivenza facciano strage, nessun governo nazionale e internazionale riesca a vincere il caos.

In quella lontana estate del 1945 la notizia che una bomba atomica era esplosa su una città del Giappone pareva a noi occidentali quasi normale: una nuova arma fra le centinaia di nuove armi era apparsa sui campi di battaglia, ciascuno di noi sopravvissuto al massacro poteva dire come quel senatore americano amico di Truman: "Evviva, diamogli addosso a quelle facce gialle dei giapponesi". Ma non si trattava di una punizione dei cattivi e di un trionfo dei buoni, si trattava dell'inizio della fine del mondo, compreso il genere umano, si trattava del via libera al mostro atomico, una forza incontenibile capace di distruggere tutto e tutti.

Possibile che gli scienziati che la fecero, questa bomba, non se ne fossero resi conto? Se n'erano resi conto, ma erano prigionieri della loro opera, non potevano dire di no a una bomba infernale fra le infernali ma che metteva fine a un conflitto che aveva insanguinato il mondo intero.

La centrale di Fukushima fuori controllo in Giappone, proprio nel paese in cui il mostro atomico si vide per la prima volta in tutto il suo orrore, è la prova inconfutabile che il dolce mondo in cui siamo nati porta in sé una condanna a morte che lo minaccerà fino al giorno della sua distruzione, quella potenza distruttiva dell'atomo che l'umano ottimismo pensava di poter controllare è invece risultata incontenibile.

Il lucido pessimismo di Oppenheimer non bastò a evitare la scelta sbagliata. Egli fu uno di coloro che fabbricarono la bomba per salvare il mondo dal mostro nazista e capirono solo tardi, solo a disastro avvenuto, che si trattava di una falsa salvezza, che il mondo era stato consegnato a uno sterminio atomico rimandabile ma inevitabile.

Oppenheimer e altri come lui capirono che avevano aperto la strada all'apocalisse, ma erano impotenti di fronte a un presidente degli Stati Uniti come Truman, arrivato dall'America isolazionista, che si esprimeva in modo feroce e sincero nel plaudire a ogni bomba che fosse utilizzabile contro le facce gialle.

Nel film sulla decisione di usare la bomba compare un senatore americano che sembra l'uomo della cecità umana: piccolo, tracagnotto, sicuro di sé. La bomba? Ma lanciatela subito, è la nostra salvezza. E invece è il mostro che ci portiamo dietro per cui le massime potenze del mondo sono riuscite finora (ma per quanto?) a firmare dei patti di non proliferazione atomica, patti risibili dato che ognuna delle grandi e medie potenze possiede un numero di bombe sufficiente a distruggere il mondo le cento e le mille volte. E il piccolo senatore è fiero di aver voluto e approvato la nascita di una scienza atomica suicida, quella luce accecante che vediamo prefigurata da Picasso a Guernica, il mostro che sputa fuoco sopra uomini e bestie impazzite.

Arriva dal Giappone la conferma che questo mostro è stato come sempre affidato a coloro che per denaro erano pronti a liberarlo, ai costruttori di armi infernali che non hanno rispettato le cautele e le misure, che hanno creato le fabbriche di morte dentro una delle province più popolate del Giappone, la morte atomica che deforma e avvelena la popolazione dei quartieri più popolosi.
E ancora, a disastro avvenuto, la certezza che per il denaro si continua a mentire, a non dire come stanno realmente le cose in Giappone e altrove. Potremmo dire che la vera arma infernale nel mondo è la sete di denaro, a cui non resiste nessuno.

     
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« Risposta #189 inserito:: Maggio 13, 2011, 11:16:01 am »


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Forse i Maya avevano ragione

di Giorgio Bocca

La fine del mondo è già cominciata, prima del 2012. C'è il diluvio universale, ci sbudelliamo senza senso, rubiamo senza vantaggio

(13 maggio 2011)

La previsione dei Maya, la fine del mondo nel 2012, sembra sia stata anticipata: dall'oceano Pacifico a quello Indiano le forze della natura sembrano già scatenate per mettere fine a questo pazzo mondo e alla specie umana. Dio fa impazzire chi vuol perdere, non c'è più saggezza e previdenza fra le genti, con gli tsunami tutti hanno visto il ritorno del diluvio universale, il mare che si gonfia, che straborda, le sue acque che coprono i campi e le città, i colpiti dalla punizione divina, i miserabili esseri bipedi che salgono dove possono, sulle alture o sui tetti, per salvarsi.

Ma la terra non ha sempre tremato sotto i nostri piedi? Sì, ma ora si aprono voragini, paesi interi come l'Italia sembrano sgretolarsi a ogni pioggia, sfasci penduli inghiottiti dal mare, sono quasi scomparse le stagioni con il loro corso regolare, fa caldo d'inverno, freddo d'estate, i principini d'Inghilterra si tuffano fra i ghiacci della Groenlandia e un astronauta vuole essere ibernato pur di fuggire su Marte.
Oh, poveri noi peccatori e stolti. Le guerre non sono più quelle, con un loro senso belluino, sono piuttosto impazzimenti. Non c'è più un impero che governa le genti ma un concentrato di potere che si muove come un titano cieco menando fendenti a dritta e a manca, anche a se stesso. In Libia eserciti di straccioni si rincorrono in un carosello demenziale per la litoranea e per il deserto, gli uni si dicono governativi e gli altri ribelli, entrambi dove arrivano uccidono e fanno bottino, il capo del governo italiano che crede di essere il più furbo del mondo aderisce all'alleanza occidentale contro Gheddafi ma si addolora per i rischi del suo amico dittatore.

Obama, il presidente americano, il capo della superpotenza che tiene alle armi milioni di uomini e decine di corazzate, invece di reprimere le violenze e il sangue li incoraggia. Si è saputo che la Cia, organizzatrice di intrighi nel mondo intero, era operativa da mesi in Libia. E i suoi degni compari: l'ungaro-francese Sarkozy e il conservatore inglese Cameron che a guardarlo fa pensare che Churchill fosse di un'altra specie.
E noi? Il ministro della Difesa Ignazio La Russa cerca la rissa e agita la chioma e insulta il presidente della Camera approfittando dell'assenza del capo del governo, che è volato a Lampedusa per fare la sua solita comparsata trombonesca: promette sgomberi che ha negato agli altri e acquista una villa in parte abusiva che con una legge ad personam farà regolare.
Capito? Arriva in un'isola dove migliaia di persone, profughi disperati cercano di sopravvivere e si compra una villa; un premier popolarissimo, amato dalla gente ma sempre circondato da marcantoni dalla faccia quadrata, guardie del corpo davanti e di dietro. Eppure piace agli italiani, o fa dire da cento televisioni che piace o è convinto di piacere, come capita a tutti i tiranni finché sono al potere e a tutti i miliardari che dispongono di una liquidità senza fine.

C'è un altro segno che la fine del mondo è vicina e forse è già cominciata, ed è la voglia di uccidere, specie gli innocenti, fanciulle in fiore ammazzate come pecore sacrificali e gettate in pozzi o in stagni che le divorino le pantegane. Raccontate alle platee televisive con un accanimento e un compiacimento da circo massimo al momento in cui entrano le belve, seguite con attenzione e compiacimento dagli esperti del genere: avvocati, poliziotti, cronisti di nera a cui il presentatore-domatore dà la parola come un boccone prelibato, uno zuccherino per farli saltare nel cerchio, i tetri specialisti della macelleria generale.
La fine del mondo è già cominciata, il diluvio universale riempie di fetide acque i nostri campi, ci sbudelliamo senza senso, ci derubiamo senza vantaggio, continuiamo a coltivare le magnifiche sorti progressive del genere umano. Per non parlare della centrale atomica di Fukushima che avvelena il Giappone.

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« Risposta #190 inserito:: Maggio 21, 2011, 10:19:16 am »

L'opinione

L'Italia che tollera i "casciabal"

di Giorgio Bocca

A Milano chiamano così i mentitori spudorati. Come Berlusconi. Che insieme a metà degli italiani fa danni. Costringendo l'altra metà a ripararli. Ma perché i volenterosi non si stancano di questo andazzo?

(20 maggio 2011)

In televisione di questi tempi appare un italiano di mezza età, né bello né brutto, normale. è il sindaco di Manduria, un paesino meridionale dove il governo ha improvvisato un centro raccolta dei profughi in arrivo dall'Africa. "Vengo a sapere ora che ne stanno arrivando altri 1.200. Nessuno mi ha avvisato", dice, "vadano tutti in malora, io mi tolgo la sciarpa di sindaco e se la vedano loro".
Dice che non lo hanno avvisato ma che qualcosa farà per trovare ai 1.200 un posto dove dormire e qualcosa da mangiare. In questo senso il nostro Paese è veramente evangelico: il buon Dio troverà il modo di sfamare gli affamati e guarire gli ammalati, ma il buon Dio a guardare bene è poi la povera gente che supplisce ai furbi e ai profittatori e dà una mano ai bisognosi. Cercando di sopravvivere con l'oblio dei perdenti e delle vittime, con la mansuetudine dei poveri e dei sofferenti.

L'uomo giusto per governare questo Paese è Silvio Berlusconi da Arcore Brianza. Lui ha capito subito, da sempre, che gli italiani si governano così: a parole, a vane promesse e bugie colossali. Arriva a Lampedusa gremita di profughi affamati e feriti e annuncia che comprerà una villa. Poi si corregge. Non l'ha comprata perché attorno c'è troppo rumore di miseria e di bisogno. Meglio una sul lago di Como, anche se non ci metterà mai piede, come in quella che ha acquistato il mese scorso. I sudditi non lo cacciano a pedate, continuano a votarlo, i suoi figli si innamorano dei calciatori, appaiono nelle cronache mondane e negli elenchi dei miliardari, invidiati dai più e dunque esemplari in un Paese di pazzi e di mentecatti.

Davvero un Paese difficile da raccontare e spiegare. Da me vengono spesso dei giornalisti stranieri: in sessanta e passa anni di giornalismo mi sono fatto la fama di conoscitore di questo bizzarro Paese, e siccome ho conosciuto le difficoltà dei cronisti, ricevo tutti, parlo con tutti. Ma di che cosa? Di un Paese, di un popolo, di una nazione che più la conosci e meno sai dire com'è fatta, come campa, perché stia in piedi. Dicono quelli che la conoscono: l'Italia è un paese dove la metà della gente tiene in piedi quello che l'altra metà sta rovinando, distruggendo, dove la sinistra, per dire la parte riformista, indulge al malgoverno e ai peccati della destra pigra e profittatrice.

Vengono colleghi e curiosi di ogni paese, si siedono davanti a me nel mio studio e mi chiedono: che Paese è questo che sta andando alla rovina, come appare da molti segni, per poi salvarsi per il rotto della cuffia come spesso gli capita? Cerco di rispondere, ma ho scarsa convinzione. Anche se mi occupo di questo balordo Paese da tanti anni, so di non poter prevedere, di non poter garantire, di aspettarmi solo e sempre che la metà degli italiani buoni ripari ciò che l'altra metà ha ancora una volta distrutto. Forse se il duce non avesse compiuto l'errore di entrare in una guerra più grande di noi saremmo ancora qui a vivere di speranze e di menzogne consolatrici, di sabati fascisti e di tutti al mare, di MinCulPop, ministero della cultura popolare, miniera di notizie ottimiste e false, e di "8 milioni di baionette" scambiate per immagine di potenza e non di arretratezza.

Arrivano nel mio studio i colleghi italiani e stranieri che vengono da me perché ho fama di occuparmi da settant'anni di ciò che va e di ciò che non va in questa terra da pipe, come la chiamavano ai tempi in cui la nostra radica era famosa nel mondo. Il nostro segreto? Il più antico del mondo: "Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto", oppure: "Chi è morto giace e chi è vivo si dà pace". Il Silvio da Arcore, l'ultimo dei nostri duci è, come gli altri prima di lui, un mentitore a prova di bomba, uno che ha capito dalla nascita che questo è il Paese dei grandi "casciabal" (ballisti in milanese). Chi ha detto che "la pubblicità è l'anima del commercio"? Non solo l'anima, ma la sostanza, la pratica, l'essenza. La metà dei casciabal comanda e fa danni e l'altra metà di volenterosi ripara. Che altro c'è da capire? Forse una cosa: perché mai la metà dei volenterosi non si stanca, una buona volta?
 
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« Risposta #191 inserito:: Giugno 13, 2011, 10:50:20 pm »

Ad Arcore c'è un megalomane

di Giorgio Bocca

Il Nostro ha perso ogni controllo, in Italia come all'estero. Ormai c'è chi prova umana compassione per lui, ma purtroppo è ancora il capo del governo e l'uomo che ci rappresenta nel mondo

(13 giugno 2011)

Fu sua moglie la prima a definirlo un ammalato, uno che aveva bisogno di cure per uscire dalla sua megalomania. Il megalomane non si improvvisa da un giorno all'altro e non è facile riconoscerlo in tempo perché di solito non è un mediocre, non è privo di qualità, è semplicemente uno che con il tempo non sa più controllarle, uno, per dirla alla buona, che non ha più il senso della misura e che se ce l'ha, la reprime sistematicamente. Quando lo conobbi a Canale 5, la sua prima televisione, mi colpì più per le sue qualità professionali e imprenditoriali che per i suoi eccessi di personalità.

Era il primo uomo di televisione che conoscevo che la televisione l'avesse studiata a fondo, che la conoscesse nelle sue potenzialità e nei suoi limiti, che avesse capito come la sua capacità seduttiva fosse un artificio, più apparenza che sostanza, più spettacolo che storia o cronaca. Mi capitò di leggere uno dei suoi appunti di lavoro: precisi, dettagliati, di uno del mestiere, su come andavano usate le immagini, gli abiti, i colori e soprattutto i tempi, perché il segreto della televisione era proprio quello dei tempi, di non staccare mai la presa dallo spettatore, di non dargli tempo né di annoiarsi né di discutere. Per questo aveva arruolato un giovanotto robusto e preciso che andava in giro con un cronometro e registrava tutti i tempi delle riprese in modo da poterli correggere a ragion veduta. "Vedi, qui ti sei allungato di quindici secondi, là addirittura di trenta".

Non è facile individuare il megalomane, che spesso è uomo di qualità, non è stato facile in politica capire dove l'eloquenza o la gestualità di un Mussolini o di altro capo popolo ricoprissero i suoi difetti al punto di trovare irresistibile e incantatore anche un Hitler con i suoi baffetti e la sua isteria. Qualche segno della sua megalomania il nostro lo lascia sempre, anche nelle cose minime. Il nostro amava le giacche con i bottoni d'oro e amava che così si vestissero quelli del suo stato maggiore. E poi la sua repulsione totale, fisica, a ogni critica in pubblico.
Una volta, essendo venuta di moda la libertà di stampa, lo intervistai sull'argomento e per non fare l'intervista in ginocchio ci misi anche qualche appunto critico, qualche richiamo personale. Prudentissimi, ma evidentemente non bastava. Alla sera rimasi in casa per vedere la messa in onda, ma l'intervista non apparve né quella sera né le seguenti. Perfettamente inutile chiedere il perché ad aiutanti e segretari e consiglieri: era scesa un'impenetrabile cortina di silenzio. Nei palazzi di Milano 2 dove lavoravano centinaia di persone non ce n'era una che sapesse dirmi dov'era finita e perché era scomparsa.

Oggi sembra impossibile, dato che il nostro ha perso ogni controllo, confida pubblicamente i suoi dispiaceri da megalomane ai capi di Stato stranieri, si lascia trascinare dalla sua inimicizia per i magistrati che osano giudicarlo, pretende che i parlamentari del suo partito credano alla storia di Ruby "nipote di Mubarak", alla pochade nascosta in suo rispetto. C'è chi prova un'umana comprensione per il personaggio, chi ricorda i lati accettabili della sua personalità ma come si fa, trattandosi di uno che è il capo del governo, l'uomo che rappresenta l'Italia nel consesso internazionale?

Ci si chiede se questa storia imbarazzante avrà un seguito e se sarà di pessimo gusto come è stato in questi ultimi anni. Certo l'Italia, la storia italiana, non avevano proprio bisogno di un personaggio così vistoso, così gaffeur che sembra stampato apposta per coprire le debolezze, le cadute di stile nazionali.
Uno degli aspetti più dannosi è che le diplomazie straniere hanno usato in questi anni la megalomania di Berlusconi per ottenere favori, blandendolo e ascoltando le sue lamentele contro i giudici faziosi e contro i comunisti sabotatori. Gli consentivano queste risapute litanie per poi ottenere da lui ciò che gli interessava.

     Silvio Berlusconi

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« Risposta #192 inserito:: Giugno 18, 2011, 11:11:35 pm »

Siamo liberi, ma non siamo felici

di Giorgio Bocca

Il libro di Mauro e Zagrebelsky ci ricorda l'importanza vitale della democrazia. Hanno ragione, ma l'assenza di dittatura non basta se poi soffochiamo sotto il peso dell'avidità e degli interessi personali che si sostituiscono alla ricerca del bene comune

(17 giugno 2011)

La copertina del libro di Mauro e Zagrelbesky La copertina del libro di Mauro e ZagrelbeskyNel loro dialogo sulla felicità della democrazia Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky affermano la superiorità di una forma di società che consente a tutti, non solo ai pochi privilegiati, di pensare, di comunicare, di scrivere, di fare affari come politica, di esistere in libertà senza tema del poliziotto che ti suona alla porta all'alba, delle spie che riferiscono le tue parole agli intolleranti.

Chi ha avuto l'esperienza di vivere in entrambe le società, la libera e l'autoritaria, ricorda molto bene che il duro prezzo da pagare nella seconda non era sempre la galera o la privazione delle libertà individuali, ma l'umiliazione continua di dover mentire o tacere, di dover essere muto di fronte alle più sfacciate violazioni della verità e della ragione. Ne ho un ricordo vivissimo.

Si era nei giorni della guerra contro la Grecia, la spedizione assurda voluta dal clan Ciano-Mussolini solo per tentare un'impari competizione con le guerre lampo dei nazisti in Polonia e in Norvegia. E invece di un facile successo era stata una ritirata e sarebbe stata fatale se gli alpini della Julia non avessero fatto baluardo. Al confine tra Italia e Francia, a Mentone, i francesi avevano esposto dei cartelli irridenti: "Grecs arretez-vous, içi France".

E in uno di quei giorni di umiliazione e di vergogna il federale fascista della mia città ci aveva radunato in un teatro per risollevare gli animi, e mentre diceva le menzogne della propaganda, il famoso "adesso viene il bello", io in platea fra gli altri studenti avevo voglia di alzarmi a gridare: "No, non è vero, questa è una guerra già persa, il nostro riarmo è solo un bluff, le artiglierie che avevate promesso non ci sono, l'aviazione non si è mossa neppure durante la spedizione francese nelle acque di Genova". E invece tacevo, perché come tutti avevo paura di finire in galera o al confino. E subivo tutta l'umiliazione di tacere che è la peggior cosa che ci sia in una società autoritaria.


Hanno toccato un tasto giusto Mauro e Zagrebelsky parlando della felicità della democrazia, la felicità di essere, di sentirsi uomini liberi. Tutti, liberi di vivere la vita nelle sue infinite forme, di manifestare, di realizzarsi come cittadini, di assumere diritti e doveri. Questa felicità non è un bene astratto o uno stato ideale irrealizzabile, è qualcosa di estremamente concreto e cogente, qualcosa che ha spronato una generazione a volere e a fare la guerra partigiana, la guerra di liberazione dagli occupanti tedeschi.

Viene proprio da dire dell'Italia di oggi che questa ricchezza in buona parte sopravvive, quotidianamente ne godiamo, stanno però crescendo gli impedimenti di quel potere fortissimo che è il denaro, gli interessi personali, il peso di controllo e di soffocamento progressivo che gli interessi materiali hanno sostituito al binomio giustizia e libertà, che è l'essenza della democrazia.

Ho sentito dire da amici questa amara riflessione: siamo liberi ma la mediocrità della vita ci sta soffocando. Apro la televisione, i giornali, ascolto le radio: è una marea di falsità e di stupidità che non ci dà tregua. Seguo i dibattiti politici, un bla bla bla ripetitivo, parole elusive prive di senso, una recita che ha dell'osceno perché capisci benissimo che i buoni intenti sono una copertura, un diversivo, e che al contrario tutti pensano ai buoni affari. Da cui una sorta di nausea per la politica in generale, vissuta come un colossale inganno e presa in giro, con quel presidente virtuoso che continua nelle buone prediche mentre attorno a lui ogni giorno, a ogni ora c'è qualcuno che ruba o malversa.

La democrazia è il modo migliore di vivere associati, le sue forme sono le migliori, le sue ragioni inoppugnabili, ma se lascia che gli interessi privati prevalgano sui generali può diventare oggetto di feroci critiche e di odio, come all'inizio del secolo scorso, quando l'odio per la democrazia divampava in tutta Europa e creava i mostri del fascismo.

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« Risposta #193 inserito:: Giugno 25, 2011, 06:41:49 pm »

Politici alla fiera delle vanità

di Giorgio Bocca

Qualsiasi mossa è studiata per fare bella figura davanti ai telespettatori: da come si aggiusta la giacca a come si saluta la gente.

Per non parlare dei talk-show dove la mimica facciale e gli atteggiamenti sono determinanti

(24 giugno 2011)

La trasmissione Ballarò La trasmissione BallaròLa televisione scuola dell'obbligo, mater et magistra, comunione dei viventi! Alla televisione non si assiste, ma si partecipa. Specie i politici, che hanno bisogno di essere conosciuti e ricordati. Guardate una trasmissione come "Anno zero" o "Ballarò": i politici sono schierati in prima fila, sono loro i protagonisti e lo sanno.

Tutti si fanno accompagnare da due o tre compari con posti prenotati alle loro spalle, i compari quando il politico parla assentono o sorridono: finalmente qualcuno che parla chiaro! Sono soddisfatti, si guardano soddisfatti, il politico sapendo di essere ripreso commenta con la mimica. Parla il comico di turno? Il politico non solo è sorridente ma sta per crepare dalle risate. Mai sentito un comico così divertente, con sfottò così azzeccati. Parla un avversario? Il politico dissente ma civilmente, fa dei gesti di negazione, qualche sorrisetto di superiorità, qualche smorfia di disappunto, qualche occhiata di sdegno. Qualcuno arriva anche al gran gesto, si alza furibondo e abbandona la sala invano inseguito dal presentatore o dal regista.

La televisione scuola dell'obbligo, mater et magistra fa di tutti coloro che la frequentano degli attori alle prime armi che si comportano, si atteggiano, cercano di mettersi in evidenza nei modi più ingenui e risaputi. La giacca ha una parte fondamentale, l'abbottonatura della giacca: scendono dalle automobili blu, si guardano attorno per vedere se i poliziotti di corte sono schierati, sorridono all'autorevole seguito e la loro manina è già all'opera, velocissima e precisa abbottona la giacca e poi corre al nodo della cravatta, che a forza di essere stretto diventa una pallottolina, un colpetto di mano al costato per accertarsi che tutto funzioni.

L'uomo politico, specie se piccolo e con gambe storte, deve far vedere che lui cammina marziale spedito, parte a lunghe falcate e gli altri dietro per non perdere il passo, e mentre cammina saluta tutti, anche gli uscieri, e mette amichevolmente la mano sulla spalla di uno dei poliziotti in borghese che deve precedere un po' storto senza protestare. Il politico arriva al predellino di auto o a un qualsiasi rialzo su cui balza agilissimo e incomincia ad arringare la folla che lo invoca. Poi scende soddisfatto e ricomincia la toilette: si aggiusta la giacca, sistema il colletto della camicia, si passa una mano in testa per domare i capelli, se ci sono.

Se appartiene alla razza dei commessi viaggiatori ha un campionario di mosse e mossette rassicuranti: un saluto all'amico da anni fedele riconosciuto nella folla, uno sguardo in alto per vedere quelli che applaudono dai balconi, un altro per accertarsi che gli sbirri siano tutti lì a proteggerlo, incurante che milioni di telespettatori vedano che non si muove se non coperto dagli agenti di sicurezza alti, spalle quadrate, teste quadrate, poveracci che per mestiere rischiano la pelle. E qualcuno ha capito, lo vedi che cerca di liberarsi dalla mano del padrone posata sulla sua spalla mentre camminano.

Ma è un mestieraccio anche quello dell'amato duce: giornate intere passate in aereo o in elicottero per raggiungere strade e piazze gremite da fedeli mobilitati e stipendiati, da un nugolo di servi pronti ai servigi più ignobili, mentre si va a un comizio di ruffiani e di clienti. No, non è un bel mestiere, una bella vita quella del padrone del carrozzone statale: tutti chiedono soldi e favori, pronti a voltare le spalle e a impugnare i pugnali alle idi di marzo, quando il capo non avrà neppure il tempo di stupirsi per i Brute fili mi.

Per fortuna c'è lo smodato amore di sé che fa sopportare fatiche e incidenti. Per amore di sé il capo è pronto a sobbarcarsi fatiche terribili, a frequentare banchetti e simposi orripilanti. Ricordo un mio parente candidato nel Partito socialista in una città del Piemonte che a ogni elezione rischiava di ammalarsi per aver dovuto bere vino acido con i compagni.

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« Risposta #194 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:30:01 am »

L'opinione

Ma perché ci filiamo il Principato?

Giorgio Bocca

Non se ne può più di sentir parlare di Alberto e della moglie che si è già stufata di lui. Perché invece non diciamo che Montecarlo è il peggior simbolo della speculazione, dell'evasione fiscale e del denaro di rapina?

(20 luglio 2011)


Mondovisione, tutti i sovrani del creato, in carica o no come il nostro Emanuele Filiberto, lo stilista Giorgio Armani, la principessa Carolina, Gustavo e Silvia di Svezia, Guglielmo di Olanda e Haakon Magnus di Norvegia.

Due file di spettatori lungo il percorso fra palazzo Grimaldi e la cattedrale, il presidente della Repubblica francese, il tout Paris dell'Arc du Triomphe, la Londra di Wimbledon e di Westminster, insomma il meglio del meglio per festeggiare il Principato dei contrabbandieri e dei biscazzieri, a riprova che, per proletari e per ricchi blasonati, pecunia non olet.

Come sia riuscito questo Principato a sopravvivere fra i grandi regni di Spagna, di Francia, d'Inghilterra e l'avidità dei Savoia è noto: nella loro rocca i Grimaldi facevano sortite corsare e approfittavano delle guerre fra le grandi potenze per ritagliarsi la loro parte di bottino. L'ultimo dei Grimaldi ebbe il colpo di genio di mettere sulla rocca una casa da gioco frequentata da tutti principi con le mani bucate a spese dei sudditi, inventore della garanzia aurea delle monete sempre limate dai sovrani.

La gloriosa dinastia non ha legato il suo nome a nessuno dei grandi avvenimenti politici ed economici del Vecchio continente, le sue uniche attività sono state speculative, la costruzione di case su ogni scoglio del Principato e persino sul mare per ospitare i clienti biscazzieri e anche gli evasori fiscali. Durante la trasmissione televisiva della cerimonia nuziale e dei cortei veniva da chiedersi perché mai gente accorsa da ogni parte del mondo, anche i miei conterranei del basso Piemonte e di Ventimiglia, fosse dietro le transenne in migliaia. Per applaudire che? Il figlio di Ranieri e di Grace Kelly, attrice bella come una dea, ma che voleva un titolo nobiliare e i miliardi dei palazzinari e la corte di cartapesta di Montecarlo.

Ero fra i cronisti del matrimonio con Ranieri e la domanda che ciascuno di noi si poneva era: ma perché questa donna baciata dalla bellezza e dalla fortuna, attrice famosa, ricca di suo, ha dovuto sposare questo nobilotto da Costa Azzurra, che quando indossa la divisa da principe sembra il capo della banda musicale, che nelle città della Costa deve allietare tutti i galà per il turista, come il gran galà con pranzo al superclub del casinò dove quello che conta è esserci, far vedere che ci si è. Inusuale la presenza di Armani, che c'era per aver fatto l'abito della sposa, la quale, essendo meno esperta e meno abituata di Grace, si è offesa e adombrata per aver saputo alla vigilia delle nozze che il suo principe in divisa bianca e gialla di ordinanza di non si sa quale fantomatico esercito aveva nel tempo messo al mondo non si sa quanti bastardi, da salutare anche loro con tanto di titolo nobiliare.

L'esempio del Principato di Monaco, di questa finta monarchia che in realtà è uno dei centri principali della speculazione turistica, roulettistica e immobiliare, è una pubblica confessione dei requisiti fondativi dell'aristocrazia europea e mondiale. Che ha sempre storto il naso a parole contro la venalità dei borghesi e l'avidità dei fondatori d'imperi, ma a Montecarlo è sempre venuta per giocare e trovare amori più stuzzicanti di quelli coniugali. Insomma, per un'insopprimibile propensione al denaro facile di rapina o di gioco che è poi quella da cui hanno avuto origine i famosi e altezzosi casati. Come se nella memoria fosse rimasta l'importanza di quel primo accumulo di capitale, fatto, se occorreva, anche nelle prime crociate.

Si capiva guardando in mondovisione la crème del matrimonio principesco, che fra i nobili di tutta Europa finiti nel cortile del castello e le migliaia di spettatori plaudenti lungo il percorso del gran premio il denominatore comune di questo scrocco in grande stile era di stare attorno all'albero della cuccagna. Qual è stata durante il matrimonio della corte inglese l'inquadratura più trasmessa dalle televisioni? Quella del gran culo di Pippa, la sorella della sposa. Il simbolo sessuale che piace ai marchesi come ai facchini. Alberto di Monaco | Principato di Monaco

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